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71-LOTTO INTERCLUSO
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dossier SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi) e SANATORIA SISMICA
luglio 2022

EDILIZIA PRIVATAIl legislatore ha fissato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria:
   - nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali;
   - nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di sanatoria potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative” ex art. 36, comma 1, dpr 380/2001.
La domanda di sanatoria è ricevibile oltre il termine di novanta giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione, ad esempio,
   - dell’ipotesi di cui all’art. 33, co. 2 (“Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere …”)
   - o di quella prevista dall’art. 34, co. 2 (“Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione…”).
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5. Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
5.1. Osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 36, co. 1, del D.P.R. n. 380/2001, “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 23, comma 01, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Analoga disposizione era prevista dall’art. 13 della legge 28.02.1985 n. 47 a mente del quale ”Fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 7, terzo comma, per i casi di opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con variazioni essenziali, o dei termini stabiliti nell'ordinanza del sindaco di cui al primo comma dell'articolo 9, nonché, nei casi di parziale difformità, nel termine di cui al primo comma dell'articolo 12, ovvero nel caso di opere eseguite in assenza di autorizzazione ai sensi dell'articolo 10 e comunque fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso può ottenere la concessione o l'autorizzazione in sanatoria quando l'opera eseguita in assenza della concessione o l'autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
Come questa Sezione ha già avuto modo di precisare (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 05.11.2021, n. -OMISSIS-), il legislatore ha fissato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria; questo, nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali).
Nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di sanatoria potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative” presente in entrambe le riportate disposizioni.
La domanda di sanatoria è ricevibile oltre il termine di novanta giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione, ad esempio, dell’ipotesi di cui all’art. 33, co. 2 (“Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere …”) o di quella prevista dall’art. 34, co. 2 (“Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione…”) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.07.2022 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento di conformità condizionato all’esecuzione di prescrizioni – Divieto – Corollario del principio della duplice conformità.
Il presupposto espressamente richiesto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 è la conformità dell’intervento da sanare alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Il divieto di contenere prescrizioni è diretto corollario di tale cornice giuridica, poiché altrimenti si finirebbe per postulare non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla norma, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì –eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato alle stesse
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4176)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.07.2022 n. 6180 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAObbligo di doppia conformità per la sanatoria.
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Edilizia - sanatoria - doppia conformità - principio - disciplina regionale precedente - abrogazione.
In base alla normativa statale di principio sopravvenuta, che prevede il principio della doppia conformità, è da intendersi abrogata la legge regionale Lazio n. 28/1980, là dove, in tema di illecito edilizio, richiede unicamente la conformità dell’opera al momento del rilascio del titolo in sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 13.07.2022 n. 1219 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Può a questo punto passarsi all’esame del secondo motivo di ricorso, con il quale viene lamentato: eccesso di potere per difetto di istruttoria, per contraddittorietà tra atti della medesima amministrazione, illogicità e sviamento di potere.
In sintesi, la ricorrente lamenta l’illegittimità della disposta ordinanza di demolizione (n. 9931 del 23.10.2017), in quanto in illogica contraddizione con la volontà, espressa dal Comune con la delibera di GM n. 13 del 25.01.2018, confermativa di precedente atto di GM n. 111/2015, di voler recuperare le situazioni di abusivismo esistenti nella località San Giorgio con la redazione di piani di iniziativa pubblica e, in particolare, con lo strumento della variante speciale per il recupero urbanistico dei nuclei edilizi abusivi di cui all’articolo 4 della LR Lazio n. 28 del 1980.
La ingiunta demolizione dei manufatti abusivi evidenzierebbe, pertanto, illogicità e contraddittorietà dell’azione amministrativa, in quanto in evidente contrasto con la manifestata volontà di recupero degli immobili abusivi.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
L’articolo 4 della legge regionale Lazio n. 28 del 1980, recante “Norme concernenti l’abusivismo edilizio ed il recupero dei nuclei edilizi sorti spontaneamente”, prevede una “Variante speciale per il recupero urbanistico dei nuclei edilizi abusivi”, disponendo che “I Comuni del Lazio, dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvato, nel cui territorio siano individuati nuclei edilizi abusivi in contrasto con le destinazioni di zona previste dallo strumento urbanistico, provvedono ad adottare una speciale variante diretta al recupero urbanistico dei nuclei abusivi…”.
L’adozione della suddetta variante deve essere preceduta da una attività di rilevamento delle costruzioni e dei nuclei edilizi abusivi, prevedendo il precedente articolo 1 che “I comuni del Lazio sono tenuti a procedere, mediante apposite ed organiche iniziative: al rilevamento delle costruzioni abusive esistenti nel territorio del comune; alla individuazione dei nuclei edilizi abusivi sorti in contrasto con le destinazioni di zona previste dagli strumenti urbanistici generali ovvero con le norme di legge nazionali e regionali comportanti, anteriormente all’approvazione dello strumento urbanistico generale, limiti di edificabilità; alla individuazione dei nuclei edilizi abusivi che, ancorché non in contrasto con le destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici generali, siano sorti senza la preventiva approvazione dello strumento attuativo ovvero in violazione di altre norme di attuazione stabilite negli strumenti urbanistici”.
In proposito, l’articolo 2 della legge prevede che “Il Consiglio comunale…delibera il programma, le iniziative ed i mezzi per il compimento delle attività di cui al precedente articolo 1, ovvero dà atto della esistenza nel territorio del Comune delle costruzioni abusive specificamente indicate ovvero della inesistenza di costruzioni abusive”.
Vi è, dunque, che il recupero delle costruzioni abusive previsto dalla richiamata legge regionale è la risultante di una complessa attività amministrativa, la quale vede l’intervento, quale organo comunale competente, del Consiglio, che deve procedere ad approvare la sopra esposta perimetrazione dei nuclei abusivi e successivamente ad adottare la variante urbanistica di recupero.
Attesa la complessità del procedimento e la necessità dell’intervento, quale organo competente alle relative deliberazioni, del Consiglio comunale, deve ritenersi che la mera volontà espressa dalla Giunta municipale, mediante mero atto di indirizzo, di voler procedere al recupero degli insediamenti abusivi attraverso lo strumento della variante di cui alla richiamata legge regionale non determini illogicità o contraddittorietà dei provvedimenti di demolizione adottati dal Comune successivamente alle predette determinazioni della Giunta municipale.
Vi è, invero, da considerare che il carattere rigidamente doveroso e vincolato che connota l’attività di repressione degli abusi edilizi esclude che tale attività, ove posta in essere successivamente agli intenti di recupero espressi dalla Giunta municipale, possa ritenersi affetta dal vizio di eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà.
Deve, al riguardo, in primo luogo essere evidenziato che il vizio di eccesso di potere è configurabile solo per l’attività discrezionale della pubblica amministrazione e non anche per quella vincolata; con la conseguenza che tale forma di invalidità non può in radice manifestarsi laddove si verta, come nella specie, in ipotesi di azione obbligatoria e vincolata, quale è quella di ordinare la demolizione di opere edilizie realizzate in assenza di titolo abilitativo.
In tale contesto, infatti, l’attività di repressione degli abusi edilizi potrebbe essere ritenuta illegittima solo ove vi sia un parametro normativo certo ed efficace che imponga all’autorità amministrativa di astenersi dal relativo esercizio, configurandosi in tal caso un obbligo per l’amministrazione di non adottare provvedimenti sanzionatori e, di conseguenza, un vizio di violazione di legge nei provvedimenti demolitori che tale obbligo abbiano violato.
La Sezione ritiene, pertanto, che l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione possa affermarsi solo nel caso in cui la suddetta variante di recupero degli insediamenti abusivi sia stata adottata dal Consiglio comunale e l’immobile abusivo in contestazione rientri nelle previsioni della stessa quale bene concretamente suscettibile di regolarizzazione.
In tal caso, infatti, dalla esistenza e dalla efficacia della predetta variante può trarsi un obbligo in capo all’ente locale di astenersi dal reprimere l’abuso in attesa della sua regolarizzazione e, comunque, sarebbe configurabile, in presenza della stessa, una violazione dei principi di efficacia, economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto il Comune reprimerebbe un abuso che è in tutta certezza suscettibile di essere ricondotto alla legalità.
Al contrario, tale obbligo di astensione dall’azione repressiva non è certamente sussistente quando vi sia una mera dichiarazione di intenti della Giunta municipale (senza l’intervento del Consiglio comunale) in ordine al recupero degli insediamenti abusivi ed all’utilizzo a tale fine dello strumento della variante di cui alla richiamata legge regionale; non risultando lo stesso sufficiente, sia in ragione dell’organo che lo ha espresso sia in relazione allo stato meramente embrionale del procedimento, a far venir meno il carattere doveroso e vincolato dell’azione sanzionatoria degli illeciti edilizi, che nell’ordinanza di demolizione trova la sua espressione.
E tanto a maggior ragione nel caso in cui, come nella vicenda in esame, la delibera di intenti e di indirizzo ( atto di GM n. 13 del 25.01.2018) sia stata nelle more revocata, con successiva deliberazione di GM n. 29 del 25.07.2019, con la quale si è disposto “…di revocare l’atto deliberativo di Giunta comunale del 25.01.2018 n. 13 ‘Indirizzo per la pianificazione attuativa dei comprensori in località San Giorgio’, non rilevandosi ragionevoli motivi di condivisione della volontà espressa di applicazione della LR 28/1980 nell’atto citato e nella considerazione dell’evoluzione del quadro di riferimento dell’azione amministrativa nel quale la volontà si inserisce…e di confermare l’indirizzo della pianificazione contenuto nel Piano Regolatore Generale vigente, relativamente all’attuazione delle previsioni urbanistiche dei comprensori edificabili in località Poggio della Birba-San Giorgio secondo quanto regolamentato dalle norme del medesimo PRG e nel rispetto delle disposizioni e procedure di legge in materia urbanistica e di tutela del territorio e dell’ambiente”.
Difettano, pertanto, i presupposti per poter considerare il provvedimento sanzionatorio adottato illogico e contraddittorio rispetto a precedenti atti della medesima amministrazione, non avendo il solo atto di indirizzo espresso dalla Giunta alcuna efficacia ostativa sull’attività di repressione degli abusi edilizi.
Sotto altro profilo, deve poi osservarsi che la concreta operatività della invocata legge regionale Lazio n. 28 del 1980 deve essere comunque valutata anche in relazione ai successivi provvedimenti normativi che hanno in via generale disciplinato le possibilità di recupero alla legalità degli insediamenti abusivi.
Occorre in proposito considerare che la richiamata legge regionale risale all’anno 1980 ed essa prevede (articoli 16 e ss.) la possibilità di rilascio di concessione edilizia in sanatoria, una volta approvata la variante di recupero ed i conseguenti strumenti attuativi, per quegli immobili che, al momento del rilascio del titolo, siano “conformi alle previsioni di detti strumenti ed alle altre norme vigenti”.
La regolarizzazione degli immobili abusivi viene, dunque, consentita sulla base della mera conformità delle opere edilizie alla variante di recupero approvata al momento del rilascio della concessione in sanatoria.
Deve, peraltro, essere evidenziato che successivamente all’entrata in vigore della richiamata legge regionale, il legislatore è espressamente intervenuto nella materia della regolarizzazione delle opere abusive, sia con strumenti ordinari che straordinari.
Quanto al primo aspetto, la legge n. 47/1985 prima e successivamente il DPR n. 380 del 2001 hanno previsto l’istituto dell’accertamento di conformità, consentendo in via ordinaria la sanatoria dei soli abusi formali e richiedendo per la regolarizzazione degli stessi il requisito della “doppia conformità”, dovendo l’opera essere conforme agli strumenti urbanistici ed alla normativa urbanistica vigenti sia all’atto della realizzazione dell’illecito sia al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
Di poi, il legislatore ha previsto la possibilità di condono edilizio dei manufatti abusivi in tre distinte occasioni (legge n. 47/1985; legge n. 724/1994; legge n. 326/2003), stabilendo la possibilità di regolarizzazione degli abusi edilizi, realizzati entro specifici ambiti temporali ed in presenza di peculiari condizioni limitative ad una indiscriminata regolarizzazione (limiti di cubatura non derogabili, limiti ulteriori in relazione alla insistenza delle opere in area sottoposta a vincolo, in particolare paesaggistico, come nella vicenda oggetto del presente contenzioso).
Orbene, la successiva normativa statale, sia di carattere generale che straordinaria, disciplinatrice della sanatoria dei manufatti abusivi ha determinato l’abrogazione delle previgenti disposizioni della legge regionale Lazio n. 28/1980, laddove questa, al Capo III (“Rilascio delle concessioni edilizie”), e, in particolare, all’articolo 16 (“Condizioni per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria”), consente la regolarizzazione delle costruzioni abusive “se conformi alle previsioni” degli strumenti urbanistici attuativi approvati a seguito dell’adozione della variante speciale di recupero “e delle altre norme vigenti al momento del rilascio”, richiedendo in tal modo non il requisito della “doppia conformità” ovvero della esistenza delle medesime condizioni limitative previste dalla sopravvenuta normativa statale in materia di condono edilizio, ma unicamente la conformità dell’opera al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
Tanto in virtù del disposto di cui agli articoli 9 e 10 della legge 10.02.1953, n. 62 (cd. “legge Scelba”).
L’articolo 9, rubricato “Condizioni per l’esercizio della potestà legislativa da parte della Regione”, prevede, al comma 1, che “L’emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall’articolo 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano dalle leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”.
Il successivo articolo 10, rubricato “Adeguamento delle leggi regionali alle leggi della Repubblica”, dispone, al comma 1, che “Le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell’articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse”, aggiungendo, al comma 2, che “I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni”.
Alla luce delle richiamate disposizioni, pertanto, la sopravvenienza di una norma statale di principio in materia di legislazione concorrente (qual è quella del governo del territorio) determina l’automatica abrogazione della preesistente norma regionale in contrasto con essa (cfr. Corte Cost., 25.06.2015, n. 117; 21.06.2007, n. 223; 31.12.1993, n. 498), derivando l’obbligo della Regione di adeguare la propria legislazione in modo che la norma statale di principio venga rispettata.
L’effetto abrogativo deve, a giudizio del Collegio, essere nella specie affermato, in ragione dei principi costantemente affermati in materia dalla Corte Costituzionale.
La funzione del “governo del territorio”, tipica della disciplina urbanistica ed edilizia, è rimessa alla potestà legislativa delle Regioni nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con leggi dello Stato (art. 117, comma 3, Cost.), ed, in particolare di quelli “desumibili” dal testo unico dell’edilizia (cfr. Corte Cost., sentenze n. 2 del 2019 e n. 77 del 2021).
In generale, in tema di condono edilizio, la giurisprudenza della Corte ha reiteratamente chiarito che spettano alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici, le scelte di principio e, in particolare, sia quelle relative all’an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario, quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria e l’individuazione delle volumetrie condonabili (cfr. Corte Cost., sentenze n. 77 del 2021, n. 70 del 2020, n. 208 del 2019, n. 68 del 2018 e n. 73 del 2017); evidenziando, altresì, che solo nel rispetto di tali disposizioni di principio, competono alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale (cfr. Corte Cost., sentenze n. 70 del 2017 e n. 233 del 2015).
Orbene, la verifica della cd. “doppia conformità” costituisce un principio fondamentale della materia governo del territorio, trattandosi di un adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (così Corte Cost., sentenza n. 232 del 2017, nonché sentenze n. 107 del 2017 e n. 101 del 2013).
E’ evidente, quindi, che la sopravvenuta disciplina statale sull’accertamento di conformità (introdotta con la legge n. 47/1985 e successivamente mantenuta con il DPR n. 380 del 2001) contiene una normativa di principio rispetto alla quale le previsioni di sanatoria degli immobili abusivi recate dalla richiamata legge regionale del 1980 si pongono in evidente contrasto, determinandosene, dunque, l’abrogazione.
Analoghe considerazioni possono svolgersi anche con riferimento alla normativa statale specifica sul condono edilizio straordinario, introdotta dalle richiamate leggi n. 47/1985, n. 724/1994 e n. 326/2003, atteso che questa, rispetto alla previgente legge regionale del Lazio, contiene disposizioni di principio di carattere limitativo (relative all’an ed al quantum della sanatoria) non riscontrabili nella citata normativa regionale, la quale ricollega la sanatoria al solo presupposto della conformità alla variante speciale di recupero nelle more adottata.
Di conseguenza, nel sopra indicato contesto abrogativo discendente dalla sopravvenienza di norme statali di principio incompatibili, deve ritenersi che nell’attuale sistema normativo la variante speciale di cui alla legge regionale n. 28/1980 sia diretta alla mera riqualificazione urbanistica delle aree interessate da insediamenti abusivi, nel senso di prevedere quegli interventi infrastrutturali e quelle opere di urbanizzazione che assicurino il corretto inserimento degli immobili abusivi nel tessuto urbanistico del territorio comunale.
La variante, al contrario, non determina in sé la legittimazione edilizia delle singole opere abusive, la cui regolarizzazione resta, di conseguenza, rimessa all’espletamento delle procedure di condono e di sanatoria previste nell’attualità dall’ordinamento ed al loro favorevole esito.
Le considerazioni innanzi svolte rendono, quindi, adeguata giustificazione delle conclusioni (pur non perspicuamente motivate, ma comunque condivisibili per le ragioni sopra esposte) cui è giunta la giurisprudenza intervenuta in materia (cfr. TAR Lazio, II-quater, 04.02.2019, n. 1372; 04.02.2019, n. 1370; 17.04.2018, n. 4220), secondo cui la variante speciale “pertiene alla riqualificazione urbanistica delle aree, ma non direttamente ai profili di stretta legittimazione dei singoli manufatti ivi edificati, i quali rimangono assoggettati alla normativa statale in materia di condono ed alla connessa rigorosa verifica, strettamente vincolata, della sussistenza dei presupposti di legge per il rilascio dell’eventuale sanatoria”.
Vale, in proposito, altresì sottolineare che la separazione tra la funzione di recupero ‘urbanistico’ degli insediamenti abusivi affidata all’istituto della variante (diretta in via esclusiva a consentire l’inserimento degli stessi in un tessuto urbanistico dotato di infrastrutture necessarie alla loro coerente inclusione nel contesto territoriale di riferimento) e la funzione di regolarizzazione dei singoli manufatti abusivi (affidata, invece, agli istituti dell’accertamento di conformità e del condono straordinario) trova conferma normativa nell’impianto della sopravvenuta legislazione statale, laddove la legge n. 47/1985 differenzia espressamente le varianti agli strumenti urbanistici generali finalizzate al recupero “urbanistico” degli insediamenti abusivi (articolo 29) dall’accertamento di conformità (articolo 13) e dal condono edilizio (artt. 31 e segg.); espressamente sancendo, al comma 2 dell’articolo 29, che “gli insediamenti avvenuti in tutto o in parte abusivamente…possono formare oggetto di apposite varianti… al fine del loro recupero urbanistico” “salvo restando gli effetti della mancata presentazione dell’istanza di sanatoria previsti dall’articolo 40” (cioè la loro sottoposizione alle misure repressive e sanzionatorie).
La variante di recupero, pertanto, non è sufficiente alla regolarizzazione dei singoli episodi di illecito edilizio, occorrendo necessariamente che questi siano legittimati dall’esito favorevole di un procedimento di accertamento di conformità o di condono edilizio, svolto nel rispetto delle disposizioni di principio stabilite in proposito dalla legge statale.
Anche per tali ragioni, pertanto, deve ritenersi l’infondatezza del secondo motivo di ricorso (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 13.07.2022 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2022

EDILIZIA PRIVATA: Con specifico riguardo ai rapporti tra accertamento di conformità e ordinanza di demolizione, è stato condivisibilmente affermato che “Il legislatore ha dunque assegnato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria:
   - nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo quanto disposto dall’art. art. 31, co. 3; il “congruo termine” stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale, nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ai sensi dell’art. 33, co. 1, e nelle ipotesi di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, ai sensi dell’art. 34, co. 1);
   - nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di accertamento di conformità potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative” ex art. 36, comma 1, dpr 380/2001.
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4. Il ricorso n. 3251/2015 è parimenti infondato.
4.1. Va, anzitutto, rilevato che l’istanza di accertamento in conformità è stata avanzata nel giugno 2015, a quasi cinque anni dall’emanazione dell’ordinanza di demolizione (ottobre 2010), mai sospesa.
Ne discende la tardività dell’istanza, essendo stata proposta una volta trascorsi i novanta giorni previsti dall’ordinanza di demolizione per procedere ai relativi adempimenti, alla cui inosservanza consegue ex lege il passaggio gratuito dell’area alla disponibilità del comune (cfr. art. 31, co. 3, D.P.R. n. 380/2001).
Come già affermato da questo Tribunale, con statuizione dalla quale il Collegio non rinviene motivi per discostarsene, “presupposto essenziale affinché possa configurarsi l’acquisizione gratuita è la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione dell’immobile abusivo entro il termine di novanta giorni fissato dalla legge, (…) l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza all’ingiunzione a demolire” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 7 settembre -OMISSIS-).
Ancora, con specifico riguardo ai rapporti tra accertamento di conformità e ordinanza di demolizione, è stato condivisibilmente affermato che “Il legislatore ha dunque assegnato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria; questo, nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo quanto disposto dall’art. art. 31, co. 3; il “congruo termine” stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale, nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ai sensi dell’art. 33, co. 1, e nelle ipotesi di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, ai sensi dell’art. 34, co. 1). Nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di accertamento di conformità potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 5 novembre -OMISSIS-) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 31.01.2022 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2021

EDILIZIA PRIVATAIl legislatore ha assegnato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria:
   - nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo quanto disposto dall’art. art. 31, co. 3; il “congruo termine” stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale, nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ai sensi dell’art. 33, co. 1, e nelle ipotesi di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, ai sensi dell’art. 34, co. 1);
   - nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di accertamento di conformità potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”. Si tratta, ad esempio,
  
   ● dell’ipotesi di cui all’art. 33, co. 2 (“Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecunaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere …”)
     
o di quella prevista dall’art. 34, co. 2 (“Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione…”).
Dunque, non trova applicazione alle istanze ex art. 36 d.P.R. 380/2001 l’orientamento giurisprudenziale per il quale l’acquisizione gratuita ai beni del Comune di un manufatto abusivo determina una situazione inconciliabile con la sanatoria soltanto quando all’immissione in possesso sia seguita una delle due ipotesi previste dall’art. 43, l. 28.02.1985 n. 47 e cioè o la demolizione dell’immobile abusivo ovvero la sua utilizzazione a fini pubblici.
Si tratta, piuttosto, di un principio che può trovare applicazione nelle ipotesi di istanze di condono edilizio; in tali casi, invero, è lo stesso legislatore che ha stabilito che “l’esistenza di provvedimenti sanzionatori non ancora eseguiti, ovvero ancora impugnabili o nei cui confronti pende l’impugnazione, non impedisce il conseguimento della sanatoria” (così l’art. 43, co. 1, l. 47/1985).
Nello stesso senso, sempre in tema di condono, si muove la previsione di cui all’art. 39, comma 19, della legge n. 724/1994, per il quale “per le opere abusive divenute sanabili in forza della presente legge, il proprietario che ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al patrimonio comunale dell’area di sedime e delle opere sopra questa realizzate disposte in attuazione dell’articolo 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico registro immobiliare dietro esibizione di certificazione comunale attestante l’avvenuta presentazione della domanda di sanatoria”.
Tali disposizioni speciali non trovano, invece, applicazione nelle ipotesi di sanatoria “a regime”, ossia di accertamento di conformità, disciplinato dall’art. 36 d.P.R. 380/2001 (e precedentemente dall’art. 13 l. 47/1985), ove vige il termine di cui al comma 1 del citato art. 36, ossia “fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”.
Ove la disposizione appena riportata fosse interpretata diversamente –e quindi qualora si ritenesse che sino alla materiale demolizione o adibizione all’uso pubblico del bene sarebbe sempre possibile la proposizione dell’istanza di sanatoria– si porrebbe nel nulla il più che consolidato principio per il quale dal mero decorso del termine assegnato per la demolizione discende l’acquisizione del bene al patrimonio comunale: “la presentazione della domanda di accertamento di conformità successiva alla emanazione dell’ordinanza di demolizione comporta che l’Amministrazione non può che constatare che l’istanza è stata presentata da chi non sia più proprietario, se essa è stata proposta dopo l’acquisizione ipso iure della proprietà ai sensi dell’art. 31, comma 3, del T.U. n. 380 del 2001, per il decorso del termine di novanta giorni dalla notifica dell'ordinanza di sgombero e demolizione”.

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Le censure sono prive di fondamento.
Ai sensi dell’art. 36, co. 1, d.P.R. 380/2001, “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 23, comma 01, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il legislatore ha dunque assegnato un duplice limite temporale per la proposizione dell’istanza di sanatoria; questo, nelle ipotesi in cui sia adottato l’ordine demolitorio, coincide con il termine assegnato per la demolizione (ossia, novanta giorni dalla ricezione dell’ordine di demolire, nei casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo quanto disposto dall’art. art. 31, co. 3; il “congruo termine” stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale, nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ai sensi dell’art. 33, co. 1, e nelle ipotesi di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, ai sensi dell’art. 34, co. 1).
Nelle diverse ipotesi in cui sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria, invece, l’istanza di accertamento di conformità potrà essere avanzata sino al momento della stessa adozione della misura sanzionatoria: in questo senso deve intendersi l’inciso “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”. Si tratta, ad esempio, dell’ipotesi di cui all’art. 33, co. 2 (“Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecunaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere …”) o di quella prevista dall’art. 34, co. 2 (“Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione…”).
Ad avviso del Collegio, dunque, non trova applicazione alle istanze ex art. 36 d.P.R. 380/2001 l’orientamento giurisprudenziale, invocato da parte ricorrente, per il quale l’acquisizione gratuita ai beni del Comune di un manufatto abusivo determina una situazione inconciliabile con la sanatoria soltanto quando all’immissione in possesso sia seguita una delle due ipotesi previste dall’art. 43, l. 28.02.1985 n. 47 e cioè o la demolizione dell’immobile abusivo ovvero la sua utilizzazione a fini pubblici.
Si tratta, piuttosto, di un principio che può trovare applicazione nelle ipotesi di istanze di condono edilizio; in tali casi, invero, è lo stesso legislatore che ha stabilito che “l’esistenza di provvedimenti sanzionatori non ancora eseguiti, ovvero ancora impugnabili o nei cui confronti pende l’impugnazione, non impedisce il conseguimento della sanatoria” (così l’art. 43, co. 1, l. 47/1985).
Nello stesso senso, sempre in tema di condono, si muove la previsione di cui all’art. 39, comma 19, della legge n. 724/1994, per il quale “per le opere abusive divenute sanabili in forza della presente legge, il proprietario che ha adempiuto agli oneri previsti per la sanatoria ha il diritto di ottenere l'annullamento delle acquisizioni al patrimonio comunale dell’area di sedime e delle opere sopra questa realizzate disposte in attuazione dell’articolo 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e la cancellazione delle relative trascrizioni nel pubblico registro immobiliare dietro esibizione di certificazione comunale attestante l’avvenuta presentazione della domanda di sanatoria”.
Tali disposizioni speciali non trovano, invece, applicazione nelle ipotesi di sanatoria “a regime”, ossia di accertamento di conformità, disciplinato dall’art. 36 d.P.R. 380/2001 (e precedentemente dall’art. 13 l. 47/1985), ove vige il termine di cui al comma 1 del citato art. 36, ossia “fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”.
Ove la disposizione appena riportata fosse interpretata nel senso proposto da parte ricorrente –e quindi qualora si ritenesse che sino alla materiale demolizione o adibizione all’uso pubblico del bene sarebbe sempre possibile la proposizione dell’istanza di sanatoria– si porrebbe nel nulla il più che consolidato principio per il quale dal mero decorso del termine assegnato per la demolizione discende l’acquisizione del bene al patrimonio comunale: “la presentazione della domanda di accertamento di conformità successiva alla emanazione dell’ordinanza di demolizione comporta che l’Amministrazione non può che constatare che l’istanza è stata presentata da chi non sia più proprietario, se essa è stata proposta dopo l’acquisizione ipso iure della proprietà ai sensi dell’art. 31, comma 3, del T.U. n. 380 del 2001, per il decorso del termine di novanta giorni dalla notifica dell'ordinanza di sgombero e demolizione” (così, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.12.2017, n. 5653) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 05.11.2021 n. 3042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2021

EDILIZIA PRIVATANon è consentita la sanatoria parziale di un immobile abusivo, sul presupposto che il concetto di costruzione deve essere inteso in senso unitario e non in relazione a singole parti autonomamente considerate.
Pertanto, non è possibile scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono, per ritenerne sanabili singole porzioni della stessa; è stato altresì condivisibilmente osservato che "in sede di sanatoria di un immobile abusivo, le singole parti di un fabbricato possono essere valutate, ai fini di una sanatoria parziale, soltanto se autonome e scindibili rispetto al corpo di fabbrica".
Costituisce, invero, principio consolidato quello secondo il quale non è possibile, scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono ai fini della sanatoria di singole porzioni di essa.

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16.2. Ciò posto, è dirimente la circostanza che l’istanza di sanatoria abbia riguardato solo alcune delle difformità contestate dall’amministrazione comunale con l’ordine demolitorio.
Ritiene, invero, il Collegio di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui "non è consentita la sanatoria parziale di un immobile abusivo, sul presupposto che il concetto di costruzione deve essere inteso in senso unitario e non in relazione a singole parti autonomamente considerate. Pertanto, non è possibile scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono, per ritenerne sanabili singole porzioni della stessa (cfr TAR Campania, Napoli, sez. I 08/01/2020 n. 110, TAR Toscana, sez. III, 18/09/2019, n. 1247); è stato altresì condivisibilmente osservato che "in sede di sanatoria di un immobile abusivo, le singole parti di un fabbricato possono essere valutate, ai fini di una sanatoria parziale, soltanto se autonome e scindibili rispetto al corpo di fabbrica (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 17/09/2019, n. 740)” (TAR Napoli, sez. II, sentenza n. 1466 del 21.04.2020).
Ciò posto, appare evidente come il Comune abbia correttamente ritenuto non accoglibile l'istanza in quanto afferente solo ad alcuni degli interventi eseguiti in difformità. Interventi che, insistendo sull’unico fabbricato del quale sono contestate, tra l’altro, una maggiore altezza complessiva ed una traslazione di 3,5 metri verso sinistra, non possono essere ritenuti autonomi e scindibili rispetto al manufatto nel suo complesso, ai fini di una parziale sanatoria.
Costituisce, invero, principio consolidato quello secondo il quale non è possibile, scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono ai fini della sanatoria di singole porzioni di essa (cfr. Cass., sez. III, n. 4752 del 30.01.2018).
Né, del resto, l’amministrazione deve porsi la questione se una diversa istanza -in ipotesi- avrebbe potuto avere un esito diverso (Consiglio di Stato sez. VI, sentenza n. 4033 del 02.07.2018)
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 18.10.2021 n. 787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
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Non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio.
Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale».
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
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Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante».
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace.
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1. L’odierno appellante ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la -OMISSIS-, sede -OMISSIS-, avverso: il provvedimento del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «diffida all’esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande in località -OMISSIS-. Diffida al conferimento di rifiuti ai contenitori ubicati sul territorio comunale»; dell’ivi richiamato verbale di atti di accertamento del 18.05.2009, prot. n. -OMISSIS-.; la nota del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «divieto di prosecuzione dell’esercizio di attività abusiva di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande» e del richiamato verbale del 18.05.2009; all’occorrenza, l’ordinanza di sospensione lavori del Comune di Polignano a Mare n. -OMISSIS-.
...
Il diniego di istanza di permesso di costruire in sanatoria è basato su plurimi motivi ostativi alla doppia conformità, trattandosi di opere realizzate su un’area in concessione demaniale e con vincolo paesaggistico ai sensi del decreto legislativo 42/2004.
Al riguardo, conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 17.02.2021, n. 1457, 04.01.2021, n. 43, e 18.07.2016, n. 3194).
Ciò posto, è assorbente quanto precisato nel parere contrario della Soprintendenza del 13.10.2010 sul riscontrato aumento di volume e superficie utile del chiosco, trattandosi di struttura chiusa su tre lati, con una conseguente variazione essenziale rispetto al progetto assentito nel 2003, a cui non è applicabile “mini-sanatoria” paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004.
In proposito va evidenziato che non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio. Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 03.06.2014, n. 2842; nello stesso senso cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 22.12.2007, n. 6615; Consiglio Stato, sezione V, decisione 12.12.2009, n. 7789; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 01.12.2014, n. 5934).
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
Nel caso di specie è stata cagionata inoltre un’alterazione dello stato dei luoghi determinata dallo scavo del banco di roccia per la realizzazione della fossa di tipo Imhoff, non prevista dalle concessioni demaniali e dal permesso di costruire, che non autorizzavano alcun tipo di scavo della roccia, ma soltanto l’installazione di bagni chimici e facendo comunque salva la necessità di realizzarle nell’ambito dell’area oggetto della concessione, e non fuori da essa, come, invece, in concreto verificatosi.
Sul punto è inconferente il richiamo all’art. 11 della legge regionale della -OMISSIS- n. 17/2006 recante l’obbligo in capo al concessionario di stabilimento demaniale marittimo di garantire i servizi minimi (igienico-sanitari, docce e chiosco-bar), poiché tale obbligo va ottemperato nel rispetto della normativa e non autorizza ovviamente la realizzazione di opere abusive.
Con riferimento all’occupazione abusiva del demanio marittimo per la realizzazione di tali opere, la normativa di settore non prevede la possibilità di una specifica sanatoria, non avendo peraltro il pagamento dell’indennità per l’occupazione abusiva alcun effetto sanante; diversamente opinando, infatti, si darebbe ingresso ad un’illegale sanatoria atipica demaniale e si aggirerebbe l’obbligo di una procedura di evidenza pubblica aperta a tutti gli operatori economici interessati propedeutica all’affidamento della concessione.
Ne deriva che l’amministrazione comunale non avrebbe potuto in alcun modo accoglier l’istanza di sanatoria edilizia, stante la natura vincolata del predetto parere negativo di compatibilità paesaggistica poiché, «nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante» (Consiglio di Stato, sezione VI, 08.08.2018, n. 5770); in ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 14.12.2015, n. 5663, 13.04.2016, n. 1436, e 21.05.2021, n. 3952).
Ne consegue peraltro che ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 qualsivoglia vizio formale e procedimentale verrebbe sterilizzato dalla natura vincolata e necessitata del diniego di sanatoria edilizia adottato dal Comune (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.10.2021 n. 6912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una volta decorso il termine per provvedere e formatosi il cd. silenzio-rigetto sulla richiesta di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001, la P.A. non perde la potestà di emettere un provvedimento espresso.
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La presentazione da parte del privato di un’istanza di “sanatoria ordinaria”, ossia di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso sicché non vi è alcuna necessità per la P.A. di adottare, se del caso, un nuovo ordine di demolizione.
L’istanza ex art. 36 cit. determina la sospensione temporanea dell’esecuzione del provvedimento demolitorio, ma unicamente per il tempo (60 gg.) necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento, con l’avviso che, nel caso di mancato accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, senza che vi sia alcuna necessità per la P.A di disporne la riadozione: ad opinare diversamente, del resto, si consentirebbe al privato, destinatario del provvedimento demolitorio, il potere di paralizzarlo, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, in contrasto con evidenti ragioni di economicità e coerenza dell’azione amministrativa.
L’inidoneità dell’istanza di sanatoria ex art. 36 cit. a determinare l’inefficacia –anziché la mera sospensione– dell’ordine di demolizione comporta vieppiù che tale istanza non incide sull’efficacia del provvedimento di acquisizione gratuita.

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5.3.1. Quanto al motivo I D), l’appellante lamenta che il diniego espresso del 03.01.2012, con il quale il Comune di Casoria ha negativamente riscontrato la sua istanza di accertamento di conformità delle opere abusive, non gli sarebbe stato mai comunicato; insiste, poi, per l’esistenza delle condizioni di legge per l’accoglimento di detta istanza. In contrario, tuttavia, si sottolinea che l’appellante non ha replicato all’affermazione dei giudici di prime cure secondo cui egli, una volta avuto notizia del provvedimento di rigetto espresso dell’istanza ex art. 36 del T.U. n. 380/2001, si è limitato a rivolgere censure allo stesso mediante memoria non notificata depositata il 23.09.2013, così incorrendo nell’inammissibilità prevista ogni qual volta si pretenda di ampliare il thema decidendum della causa attraverso memoria difensiva non notificata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. III, 09.07.2014, n. 3493; Sez. V, 24.10.2013, n. 5156; Sez. IV, 26.03.2013, n. 1715).
5.3.2. È utile precisare come, una volta decorso il termine per provvedere e formatosi il cd. silenzio-rigetto, la P.A. non perda la potestà di emettere un provvedimento espresso (cfr., in termini generali, C.d.S., A.P., 24.11.1989, n. 16; v., sull’accertamento di conformità, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 11.05.2021, n. 3127).
5.4. In merito, poi, al motivo II D), questo Collegio, in adesione all’indirizzo ormai consolidato della Sezione (cfr., da ultimo, C.d.S., Sez. II, 06.05.2021, n. 3545, alle cui articolate motivazioni si fa rinvio), ritiene che la presentazione da parte del privato di un’istanza di “sanatoria ordinaria”, ossia di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, non renda inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso, con il corollario che non vi è alcuna necessità per la P.A. di adottare, se del caso, un nuovo ordine di demolizione. L’istanza ex art. 36 cit. determina la sospensione temporanea dell’esecuzione del provvedimento demolitorio, ma unicamente per il tempo (60 gg.) necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento, con l’avviso che, nel caso di mancato accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, senza che vi sia alcuna necessità per la P.A di disporne la riadozione (C.d.S., Sez. V, 22.01.2021, n. 666; Sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id., 13.06.2019, n. 3954; Sez. VI, 01.03.2019, n. 1435): ad opinare diversamente, del resto, si consentirebbe al privato, destinatario del provvedimento demolitorio, il potere di paralizzarlo, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, in contrasto con evidenti ragioni di economicità e coerenza dell’azione amministrativa (C.d.S., Sez. II, n. 3545/2021, cit.).
5.4.1. L’inidoneità dell’istanza di sanatoria ex art. 36 cit. a determinare l’inefficacia –anziché la mera sospensione– dell’ordine di demolizione comporta vieppiù che tale istanza non incide sull’efficacia del provvedimento di acquisizione gratuita: se ne evince la complessiva infondatezza della doglianza ora analizzata
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2021

EDILIZIA PRIVATA: Effetti e limiti del rilascio di concessione o permesso in sanatoria – Acquisizione al patrimonio comunale – Art. 36, d.P.R. n. 380/2001.
Il rilascio di concessione o permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non presuppone, quale atto implicito, la rinuncia da parte del Comune al diritto di proprietà sull’opera abusiva già acquisita al suo patrimonio a seguito del decorso del termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione, non essendovi coincidenza, sul piano della competenza, tra l’organo adottante l’atto presupponente (permesso in sanatoria) –ufficio tecnico comunale– e l’organo competente alla adozione dell’atto presupposto implicito (rinuncia al diritto di proprietà), da individuarsi in distinti e superiori organi comunali.
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EDILIZIA – Permesso di costruire in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Acquisizione ipso iure della proprietà ex art. 31, c. 3, del T.U.E. n. 380/2001 – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Presentazione della domanda di accertamento di conformità e spoliazione di diritto della proprietà – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Richiesta di dissequestro – Legittimazione ad agire in difesa del bene – Esclusione.
L’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il permesso di costruire in sanatoria può essere richiesto fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, stesso decreto e, comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative.
La presentazione della domanda di accertamento di conformità successiva alla emanazione dell’ordinanza di demolizione comporta che l’Amministrazione non può che constatare che l’istanza è stata presentata da chi non sia più proprietario, se essa è stata proposta dopo l’acquisizione ipso iure della proprietà ai sensi dell’art. 31, comma 3, del t.u. n. 380 del 2001, per il decorso del termine di novanta giorni. Una volta acquisita al patrimonio comunale, solo il Comune può stabilire, con deliberazione consiliare, l’esistenza di prevalenti interessi pubblici sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
La spoliazione di diritto della proprietà del bene sottrae sostanza giuridica all’interesse vantato nei suoi confronti dal precedente proprietario degradandolo a mero interesse di fatto che, privandolo della legittimazione ad agire in difesa del bene stesso, impedisce persino la restituzione in suo favore caso di dissequestro.

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EDILIZIA – Ordine di demolizione dell’opera abusiva e rimessione in pristino dello stato dei luoghi – Ingiustificata inottemperanza – Automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
L’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione dell’opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’ingiunzione a demolire emessa dall’Autorità amministrativa determina l’automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera è dell’area pertinente.
L’effetto acquisitivo si verifica senza che sia necessaria né la notifica all’interessato dell’accertamento dell’inottemperanza né la trascrizione, in quanto il primo atto ha solo funzione certificativa dell’avvenuto trasferimento del diritto di proprietà, costituendo titolo per l’immissione in possesso, mentre la trascrizione serve a rendere opponibile il trasferimento ai terzi a norma dell’art. 2644 cod. civ..

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EDILIZIA – Reati edilizi – Condono edilizio – Potere-dovere di verifica del giudice penale – Accertamento della sussistenza dei presupposti e requisiti per conseguire la speciale causa estintiva – C.d. attestazione di congruità dell’oblazione.
In tema di reati edilizi, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Più specificamente, è stato affermato, che l’accertamento della sussistenza di tutti i presupposti ed i requisiti per conseguire la speciale causa estintiva prevista dalla normativa sul condono edilizio, non costituisce disapplicazione di un atto amministrativo preteso illegittimo (la c.d. attestazione di congruità dell’oblazione ovvero, nei casi in cui sia contestato un reato attinente alla tutela di un vincolo, della concessione in sanatoria subordinata all’autorizzazione dell’autorità competente per detta protezione ex art. 39, ottavo comma, legge n. 724 del 1994), ma rientra tra i compiti del giudice penale, cui è deferita la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per l’applicazione della predetta specifica causa di estinzione dei reati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2021 n. 35484 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Procedimento amministrativo.
Non vi è obbligo da parte del Comune ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento (per un permesso di costruire in sanatoria) a soggetti che avevano manifestato precedentemente la loro contrarietà al provvedimento in via di approvazione, potendo gli stessi comunque intervenire nel procedimento e in ogni caso impugnare l'eventuale provvedimento conclusivo.
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8. Con il primo motivo l’appellante contesta l’affermazione del Tar secondo cui la mancata comunicazione di avvio del procedimento alla signora Capicotto non darebbe luogo alla illegittimità del provvedimento in quanto non sussisterebbero i presupposti, nella specie, della necessaria comunicazione consistenti nella interferenza dell’atto e nella agevole identificabilità della stessa quale controinteressata.
Ad avviso dell’appellante, viceversa, il Comune era sicuramente a conoscenza dell’interesse della signora Capicotto, che aveva presentato un esposto all’amministrazione prima del rilascio del permesso di costruire in sanatoria n. 104. Con la sua partecipazione al procedimento l’appellante avrebbe potuto rappresentare gli effetti negativi prodotti dalle opere sanate, quali ad esempio gli eccessi di carichi urbanistici e pericoli statici e la realizzazione di aperture a distanza ravvicinata dal proprio appartamento.
8.1. Il motivo non è meritevole di accoglimento. A prescindere dalla identificabilità da parte dell’amministrazione della signora Ca. come controinteressata, non vi è obbligo da parte del Comune ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento a soggetti che avevano manifestato precedentemente la loro contrarietà al provvedimento in via di approvazione, potendo gli stessi comunque intervenire nel procedimento e in ogni caso impugnare l’eventuale provvedimento conclusivo (cfr. Cons. St., sez II, n. 1766/2020; id., sez. VI, n. 1718/2014)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2021 n. 6458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2021

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente.
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Per quanto poi riguarda il preliminare verificarsi del silenzio-rigetto, assume rilievo dirimente il principio (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417) per cui il silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente, nella specie esercitata ragionevolmente, anche a fronte del supplemento istruttorio svolto dall’amministrazione (cfr. istanza di integrazione del 12.02.2013) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.07.2021 n. 5251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità del diniego del permesso di costruire in sanatoria avente ad oggetto “sanatoria per modifiche al distributivo interno rispetto alla planimetria catastale del 14.02.1957. Opere interne di adeguamento igienico-sanitario”.
Il provvedimento impugnato è illegittimo per difetto d’istruttoria e di motivazione.
La ricorrente ha fornito specifici e circostanziati elementi potenzialmente atti a superare le risultanze della planimetria catastale del 1939 (avente valore di mera presunzione relativa), che, sebbene riferita all’unità immobiliare per cui è causa, sarebbe in realtà afferente all’unità abitativa attigua, con accesso dal civico 518 e per un mero errore grafico sarebbe stata indicata con il numero 520.
Al fine di dimostrare l’erroneità della planimetria del 1939 e che il terzo piano esisteva prima del 1939 la ricorrente ha profuso un notevole (o comunque adeguato) sforzo istruttorio, allegando foto, disegni, relazioni, confronti con altri progetti e in particolare evidenziando che:
   - la planimetria del 1939 non trova diretto riscontro con la tipologia A1;
   - la tipologia A1 può essere di tre piani;
   - la larghezza dell'edificio rappresentata nel 1939 è più piccola di circa 1 m (4,84 nel 1939 contro i 5,95 attuali) e quindi il ripristino dello stato del 1939 comporterebbe la creazione di una calle di cui però non vi è nessuna traccia agli atti. Nella rappresentazione planimetrica del 1939 l’edificio in questione, infatti, è più stretto di un metro rispetto a quello reale; ciò significa che a fianco dell’edificio avrebbe dovuto esistere nel 1939 una calle, peraltro della larghezza di solo un metro, che però non trova riscontro né formale (sulle planimetrie) né sostanziale (nell’ampliamento dei muri);
   - mancanza di omogeneità dei prospetti della planimetria del 1939; ancora oggi si vede che il civ. 520 è nella "finestra" centrale e non nella porta a lato, il che dimostrerebbe la mancata corrispondenza con la tipologia A1;
   - le finestre risultano tutte traslate, ma nel muro non risulta nessun taglio o modifica che possa dare prova concreta di questa traslazione. Se fosse reale e corretta la rappresentazione delle finestre del 1939 e quella conseguente del 1957, nel muro oggi esistente si dovrebbe vedere la chiusura e la modifica delle finestre stesse (che hanno sempre bisogno di un architrave per non crollare). Ma questa chiusura e questa modifica non c’è.
Orbene, in una situazione di questo tipo in cui la ricorrente ha fatto tutto quanto in suo potere (ad impossibilia nemo tenetur) per dimostrare l’erroneità delle risultanze catastali del 1939, il Comune avrebbe dovuto approfondire, in sede istruttoria, i temi d’indagine sottoposti al suo vaglio -procedendo, se del caso, anche ad un sopralluogo– per verificare la situazione di fatto ed accertare se la differenza tra le planimetrie catastali del 1939, del 1957 e del 1991 (quest’ultimo corrispondente allo stato attuale) sia dovuta ad un intervento abusivo ovvero ad un erronea rappresentazione dello stato dei luoghi operata in sede di redazione grafica delle tavole catastali.
Non risulta che tali approfondimenti istruttori siano stati svolti, il che comporta un difetto d’istruttoria.
Anche la motivazione del provvedimento impugnato deve ritenersi insufficiente poiché non dà conto delle concrete ragioni per le quali la ricostruzione dei fatti prospettata dalla ricorrente non possa trovare accoglimento, limitandosi il diniego a richiamare le risultanze catastali, la cui tenuta –nel particolare caso di specie– deve, tuttavia, essere vagliata alla luce degli specifici e circostanziati elementi forniti dalla ricorrente e potenzialmente volti ad infimarne l’attendibilità.

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... per l'annullamento del provvedimento prot. id 153221/2018 del 27.03.2018 (Rif. Prat. N. 2016 590635 PG) di diniego del permesso di costruire in sanatoria avente ad oggetto “sanatoria per modifiche al distributivo interno rispetto alla planimetria catastale del 14.02.1957. Opere interne di adeguamento igienico-sanitario”;
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La ricorrente espone di aver acquistato nel settembre 2014 un immobile ad uso residenziale sito in Venezia, Dorsoduro, Calle ..., e di aver successivamente richiesto al Comune il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria per sanare le difformità tra la planimetria del 1957 e lo stato attuale e per effettuare modesti interventi di adeguamento al piano terra (“sanatoria per modifiche al distributivo interno rispetto alla planimetria catastale del 14.02.1957. Opere interne di adeguamento igienico sanitario”).
Nella relazione tecnica allegata all’istanza il consulente di parte esponeva che l’immobile è “conforme a quanto rappresentato nella planimetria catastale del 1991, ma difforme a quanto rappresentato dalla planimetria del 1957”, precisando che risultava presente anche una planimetria del 1939 difforme per “errori di natura grafica, se non addirittura relativi all’individuazione dell’immobile in oggetto”, trattandosi “presumibilmente della planimetria catastale del civ. 518” come da foto allegata.
Nell’ambito dell’istruttoria procedimentale, i tecnici di fiducia della ricorrente fornivano ulteriori chiarimenti ed integrazioni al Comune per evidenziare l’erroneità delle planimetrie, in particolare quella del 1939, e spiegare le ragioni per le quali nella planimetria del 1939 vengono rappresentati solo due piani invece degli attuali tre, compreso il fatto che verosimilmente l’ultimo piano veniva utilizzato come soffitta.
Il Comune denegava il permesso di costruire in sanatoria, rilevando che “la documentazione prodotta non è sufficiente a dimostrare che le difformità riscontrate rispetto alla planimetria catastale del 1939 siano riconducibili ad errori grafici della stessa” e ritenendo che non sarebbe stata dimostrata “la legittimità urbanistica-edilizia dello stato dei luoghi rappresentato nella planimetria catastale del 1957”.
La ricorrente ha impugnato il surriferito diniego del permesso di costruire in sanatoria oppostole dal Comune, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere.
Si è costituito in giudizio l’Ente Civico contrastando le avverse pretese.
All’udienza pubblica in epigrafe indicata la causa è passata in decisione.
Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito indicati.
Il provvedimento impugnato è illegittimo per difetto d’istruttoria e di motivazione.
La ricorrente ha fornito specifici e circostanziati elementi potenzialmente atti a superare le risultanze della planimetria catastale del 1939 (avente valore di mera presunzione relativa), che, sebbene riferita all’unità immobiliare per cui è causa, civico 520, secondo l’odierna istante, sarebbe in realtà afferente all’unità abitativa attigua, con accesso dal civico 518 e per un mero errore grafico sarebbe stata indicata con il numero 520.
Al fine di dimostrare l’erroneità della planimetria del 1939 e che il terzo piano esisteva prima del 1939 la ricorrente ha profuso un notevole (o comunque adeguato) sforzo istruttorio, allegando foto, disegni, relazioni, confronti con altri progetti e in particolare evidenziando che:
   - la planimetria del 1939 non trova diretto riscontro con la tipologia A1;
   - la tipologia A1 può essere di tre piani;
   - la larghezza dell'edificio rappresentata nel 1939 è più piccola di circa 1 m (4,84 nel 1939 contro i 5,95 attuali) e quindi il ripristino dello stato del 1939 comporterebbe la creazione di una calle di cui però non vi è nessuna traccia agli atti. Nella rappresentazione planimetrica del 1939 l’edificio in questione, infatti, è più stretto di un metro rispetto a quello reale; ciò significa che a fianco dell’edificio avrebbe dovuto esistere nel 1939 una calle, peraltro della larghezza di solo un metro, che però non trova riscontro né formale (sulle planimetrie) né sostanziale (nell’ampliamento dei muri);
   - mancanza di omogeneità dei prospetti della planimetria del 1939; ancora oggi si vede che il civ. 520 è nella "finestra" centrale e non nella porta a lato, il che dimostrerebbe la mancata corrispondenza con la tipologia A1;
   - le finestre risultano tutte traslate, ma nel muro non risulta nessun taglio o modifica che possa dare prova concreta di questa traslazione. Se fosse reale e corretta la rappresentazione delle finestre del 1939 e quella conseguente del 1957, nel muro oggi esistente si dovrebbe vedere la chiusura e la modifica delle finestre stesse (che hanno sempre bisogno di un architrave per non crollare). Ma questa chiusura e questa modifica non c’è.
Orbene, in una situazione di questo tipo in cui la ricorrente ha fatto tutto quanto in suo potere (ad impossibilia nemo tenetur) per dimostrare l’erroneità delle risultanze catastali del 1939, il Comune avrebbe dovuto approfondire, in sede istruttoria, i temi d’indagine sottoposti al suo vaglio -procedendo, se del caso, anche ad un sopralluogo– per verificare la situazione di fatto ed accertare se la differenza tra le planimetrie catastali del 1939, del 1957 e del 1991 (quest’ultimo corrispondente allo stato attuale) sia dovuta ad un intervento abusivo ovvero ad un erronea rappresentazione dello stato dei luoghi operata in sede di redazione grafica delle tavole catastali.
Non risulta che tali approfondimenti istruttori siano stati svolti, il che comporta un difetto d’istruttoria.
Anche la motivazione del provvedimento impugnato deve ritenersi insufficiente poiché non dà conto delle concrete ragioni per le quali la ricostruzione dei fatti prospettata dalla ricorrente non possa trovare accoglimento, limitandosi il diniego a richiamare le risultanze catastali, la cui tenuta –nel particolare caso di specie– deve, tuttavia, essere vagliata alla luce degli specifici e circostanziati elementi forniti dalla ricorrente e potenzialmente volti ad infimarne l’attendibilità.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto, risultando fondate le censure con cui l’istante lamenta il difetto d’istruttoria e di motivazione del contestato diniego di permesso di costruire in sanatoria (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: AREE PROTETTE – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Inammissibilità della sanatoria urbanistico edilizia in area perimetrata a parco – Abuso edilizio – Permesso di costruire in sanatoria – Art. 36 del d.P.R. 380/2001 – Nulla-osta – Art. 13, l. 394/1991 – Illegittimità del nulla-osta postumo.
Il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell’ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente.
Si tratta infatti di evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.07.2021 n. 5152 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAccertamento di conformità (c.d. sanatoria ordinaria) di manufatti abusivi costruiti nei parchi.
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Edilizia – Abusi - Accertamento di conformità – Manufatti realizzati nei parchi – Inammissibilità.
E’ inammissibile l’accertamento di conformità (c.d. sanatoria ordinaria) di manufatti abusivi costruiti nei parchi, e ciò perché le costruzioni ammissibili nel Regolamento del Parco pur sempre come forme di antropizzazione derogatoria alle esigenze di protezione integrale ammettono solo l’autorizzazione preventiva (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza Plenaria n. 17 del 2016, nel salvare il silenzio-assenso di cui all'art. 13 della legge quadro n. 13 del 1991 ha sottolineato la “specialità” della disciplina sui parchi come aree di protezione integrale della natura nelle quali vale il principio della c.d. ecologia profonda che implica la conservazione integrale della natura e limitati interventi di antropizzazione conformi alla pianificazione del Parco.
La Plenaria ha evidenziato che il nulla-osta dell’art. 13, l. n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con le disposizioni del piano per il parco (che -a norma dell’art. 12- persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all’Ente parco) e del regolamento del parco (che -a norma dell’art. 11- disciplina l’esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo «speciale regime di tutela e di gestione».
Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale».
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell’Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell’area naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia).
Ha aggiunto che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell’ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente.
La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all’antropizzazione del territorio, non consentono quindi un’applicazione della sanatoria prevista nell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.07.2021 n. 5152 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della sentenza 16.04.2019 n. 2160 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Terza), resa tra le parti.
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La questione principale della causa nel merito è relativa all’interpretazione dell’art. 13 della legge quadro sulle aree protette ed all’ammissibilità di sanatorie urbanistico edilizie in aree perimetrate a parco.
L’Adunanza Plenaria n. 17 del 2016, nel salvare il silenzio assenso di cui al predetto art. 13 della legge quadro n. 13 del 1991 ha sottolineato la “specialità” della disciplina sui parchi come aree di protezione integrale della natura nelle quali vale il principio della c.d. ecologia profonda che implica la conservazione integrale della natura e limitati interventi di antropizzazione conformi alla pianificazione del Parco.
La Plenaria ha evidenziato che il nulla osta dell’art. 13, legge n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con le disposizioni del piano per il parco (che -a norma dell’art. 12- persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all’Ente parco) e del regolamento del parco (che -a norma dell’art. 11- disciplina l’esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo «speciale regime di tutela e di gestione».
Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale».
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
L’interpretazione dell’Adunanza Plenaria è puntuale: “Questi strumenti, dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi, inverano l’indispensabile e doverosa cura degli interessi naturalistico-ambientali.
I limiti di cui si tratta sono del resto intesi essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l’indicazione di opere reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall’assenza, rispetto all’interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l’intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l’«ambiente-quantità», il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell’interesse generale.
Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia
.”
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell’Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell’area naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia ).
Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, “atto diverso dall’autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico rispetto al rilascio dell’autorizzazione stessa” (Corte cost., sentenza 29.12.2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l’interesse naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall’art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
.”
Nulla di analogo è prescritto per il nulla-osta ad interventi nell’ambito dei parchi.
Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell’Ente Parco e la natura preventiva dell’autorizzazione di cui all’art. 13 della legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un’area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell’ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente.
Queste utili precisazioni sulla scorta della ritenuta specialità della disciplina dei parchi già evocata nella citata sentenza dell’Adunanza Plenaria, vanno poste alla base della ricostruzione dell’istituto in esame e ne chiariscono la peculiarità, portando il Collegio a non poter seguire il ragionamento del TAR Campania.
La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all’antropizzazione del territorio, non consentono quindi un’applicazione della sanatoria prevista nell’art. 36 del DPR 380/2001.
Va ricordato che i ricorrenti in primo grado avevano ottenuto, in data 12.06.2015, (prot. n. 7862) il parere di conformità paesaggistica della Soprintendenza delle B.A. e Paesaggio di Napoli atteso che l'intervento non è in contrasto con i caratteri paesaggistici del contesto, inserendosi nell’ambiente circostante senza alterazioni rilevanti.
Ma le prescrizioni di NTA del vigente PTP nelle Zone di “protezione integrale” (in combinato disposto artt. 11 e 9 NTA) vietano qualsivoglia incremento volumetrico e consentono solamente interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente.
Qui siamo però di fronte ad interventi nuovi, come prospetta l’appellante:
   - recinzione per circa 10 mt. di lunghezza ed alta circa 2 mt. con inferriata e cancello in ferro;
   - costruzione di muretti completi di intonaco e pitturazione;
   - costruzione di piccola rampa di scala per il dislivello di due ambienti;
   - realizzazione di un impianto sanitario;
   - realizzazione di alcune rampe di scale in calcestruzzo allo stato grezzo;
   - costruzione di due colonne in muratura aventi dimensioni circa m 0.30 x 0.30 ed altezza circa m. 2.40;
   - realizzazione al primo piano di un ampliamento in muratura sul prospetto est di circa mq. 9,50 altezza circa m 2.70, completo di pitturazione, pavimentazione e infisso esterno. In adiacenza a detto ampliamento, risulta essere presente un altro vano in muratura in ampliamento;
   - sostituzione della copertura della tettoia in legno posta sul terrazzo ad est del primo piano, con tavole in legno con soprastante materiale impermeabilizzante, e realizzazione anche dei pilastrini in muratura di appoggio delle travi orizzontali e muretti di collegamento completi di intonaco, mattonelle in cotto;
   - nell’area di pertinenza dei fabbricati, movimenti di terra, riempimento e sbancamento di aree, rampe di accesso per il collegamento del dislivello di varie quote, ed il percorso veicolare formato da stradina in terra battuta.
Né depone in senso contrario la giurisprudenza della Sezione che qualche volta ha ammesso valutazioni postume di manufatti edificati nei parchi.
Tali valutazioni restano ammissibili a fronte di sopravvenienze dei vincoli del parco.
Si ricordi quanto affermato in analoga fattispecie relativa però a manufatti preesistenti il piano del Parco “in altri termini, il diniego dell’Ente parco non avrebbe potuto far perno esclusivamente sulla contrarietà dell’intervento edilizio realizzato rispetto alle nuove previsioni del piano del parco, che evidentemente hanno valenza vincolante pro futuro senza incidere, in senso draconianamente ostativo, in ordine alle costruzioni già realizzate e già oggetto di domanda di sanatoria straordinaria. Sotto tale profilo, appare apprezzabile e meritevole di accoglimento il motivo di ricorso di primo grado che ha stigmatizzato il carattere irragionevole ed insufficiente della motivazione addotta dall’Ente parco, esclusivamente su tale questione, a sostegno del diniego di nulla-osta” (Cons. Stato, sez. VI, n. 231/2014 in senso analogo ma più generico C. Stato, sez. VI, 2833/2009, e Cons. Stato, sez. VI, n 5646/2008).
Appare più che sostenibile e non illogica l’esegesi che differenzia i beni oggetto della tutela (ambiente ed edilizia) piuttosto che quella che generalizza le valutazioni postume sulla base del combinato disposto della norma contenuta nell’art. 36 del D.P.R. 380/2001 con l’art. 13 della legge quadro sulle aree protette (legge n. 394/1991).
Tale differenziazione di ambiti porta l’amministrazione appellante a chiedere la riforma della sentenza sulla base della ritenuta legittimità del diniego da parte dell’Ente Parco che non avrebbe quindi sconfinato nell’ambito dei poteri comunali ma solo difeso le proprie prerogative a fronte di una impropria richiesta di parere.
Dispone l’art. 13 che è l’unica disposizione applicabile al caso di specie: “Il rilascio di concessioni ed autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla-osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla-osta si intende rilasciato.”
Non rileva in alcun modo l’istituto dell’accertamento di conformità che rimane di applicazione generale anche per le aree soggette a vincoli ma non oggetto di protezione integrale.
7.4 Non si può quindi sostenere un difetto di motivazione del provvedimento dell’E.P.N.V. e richiamare l’Ente pubblico ad attenersi alla normativa speciale afferente alla tutela dell’area protetta del cui rispetto ne rappresenta il garante, quando ragioni di tutela così ampie -come nel caso di aree integralmente protette- non ammettono sanatorie su opere realizzate senza titolo.
Per i titoli paesaggistici specifici esiste una disciplina che ammette pareri postumi, ma solo per interventi di lieve entità (art. 167 del d.lgs. 42 del 2004); e succede che anche la normativa regionale (cfr. Regione Lazio, legge regionale 29/1997, art. 28) esclude espressamente tali pareri postumi. In assenza di leggi regionali permissive in materia di parchi (che sarebbero comunque da sottoporre a vaglio costituzionale, perché la tutela dell’ambiente spetta allo Stato e che nella specie non sono state invocate), si ritiene corretta l’interpretazione rigorosa dell’art. 13 della legge sulle aree protette, che ammette solo nulla-osta preventivi.
L’appello va dunque accolto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.07.2021 n. 5152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 per la conservazione di abbaini realizzati in difformità rispetto alla denuncia di inizio attività perché l’assemblea condominiale non ha approvato l’intervento con le maggioranze previste dalla legge.
Per giurisprudenza costante costituisce facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, in virtù del combinato disposto degli artt. 1102 c.c. (facoltà del comunista di servirsi delle cose comuni), 1105 c.c. (concorso di tutti i condomini alla cosa comune) e 1122 c.c. (divieto al condomino di realizzare opere che danneggino le cose comuni), con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione relativa a tali opere.
Con specifico riferimento all’apertura di abbaini da parte del proprietario del piano sottostante al tetto comune, la Corte di Cassazione ha affermato che essa -ove sia eseguita a regola d'arte e sia tale da non pregiudicare la funzione di copertura propria del tetto né da impedire l'esercizio da parte degli altri condomini dei propri diritti sulla cosa comune- costituisce soltanto modifica e non innovazione della cosa comune e pertanto non necessita, come invece le innovazioni vere e proprie, della previa approvazione dell'assemblea dell'edificio in condominio ex artt. 1120 e 1336 c.c..
Né l’applicazione di questi principi può ritenersi esclusa per la natura abusiva delle opere (legata alla difformità degli abbaini realizzati, quanto all’allineamento con le aperture sottostanti e alla larghezza, rispetto al progetto presentato con la DIA).
In particolare, è priva di rilievo la sussistenza di un contrasto con l’art. 33 del regolamento edilizio comunale (che esclude l’ammissibilità di interventi “casuali o sporadici”), invocata dalla difesa dell’amministrazione comunale nelle proprie memorie: un tale contrasto -che oltretutto non ha costituito motivo di diniego- non incide, invero, sulla natura dell’opere le quali, pur con le difformità realizzate, restano pur sempre degli abbaini.
In conclusione, poiché gli abbaini in questione, pur incidendo su parti comuni dell'edificio, hanno un'innegabile natura pertinenziale rispetto all'appartamento di proprietà della ricorrente e non determinano, per la loro oggettiva consistenza, alcuna deminutio dell'uso comune, l’assenso dell’assemblea condominiale è stato illegittimamente richiesto.

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... per l'annullamento:
   - della nota a firma del Dirigente della Direzione Territorio e Ambiente, Area Edilizia Privata, Servizio Permessi di Costruire ed Attività Edilizia Segnalata, prat. edilizia n. 2013-1-11347 del 13.08.2015 con cui la Città di Torino ha respinto l'istanza della ricorrente ex art. 36 del DPR n. 380/2001 e smi per la conservazione di un abbaino verso strada;
...
Con il provvedimento indicato in epigrafe il Comune di Torino ha respinto l’istanza di sanatoria presentata dalla sig.ra Ma.Re.Ca. ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 -per la conservazione di abbaini realizzati in difformità rispetto alla denuncia di inizio attività presentata il 20.05.2010– poiché l’assemblea condominiale non ha approvato l’intervento con le maggioranze previste dalla legge.
La sig.ra Ca. ha impugnato il provvedimento per i seguenti motivi: violazione di legge con riferimento agli artt. 11, 12 e 36 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i., con riferimento agli artt. 1102, 1120 e 1136 Cod. Civ.; nonché ancora con riferimento all’art. 3 della L. 241/1990 e s.m.i.. Eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti; difetto di istruttoria e di motivazione; ingiustizia grave e manifesta.
Si è costituito in giudizio il Comune di Torino, chiedendo il rigetto nel merito del ricorso.
All’udienza dell’08.06.2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
La parte ricorrente ha contestato la necessità dell’assenso, da parte dell’assemblea condominiale, alla sanatoria degli abbaini, affermando che:
   - il Comune non avrebbe titolo ad ingerirsi in rapporti privatistici;
   - le opere oggetto della domanda di sanatoria sarebbero riconducibili alla previsione di cui all’art. 1102 c.c. e non sarebbero invece qualificabili quali innovazioni di parti comuni ex art. 1120, c. 1, c.c.; pertanto, come affermato dalla Corte di Cassazione, la trasformazione del tetto comune, da parte del condomino proprietario del sottotetto, sarebbe ammessa senza necessità di autorizzazioni;
   - l’amministrazione non avrebbe valutato quanto previsto dal regolamento di condominio che consentirebbe al condomino proprietario del piano sottostante al tetto comune di aprire su di esso degli abbaini senza necessità di autorizzazione condominiale e non avrebbe considerato che, nella seduta del 23/04/2015, l’Assemblea straordinaria ha autorizzato la conservazione delle opere, con una maggioranza di 600 millesimi. D’altra parte, il Comune non aveva mosso rilievi alla DIA, allorché in fase di integrazione documentale veniva prodotta la delibera dell’Assemblea straordinaria del Condominio in data 18/06/2010, adottata con una maggioranza di (soli) 608 millesimi.
Il ricorso è fondato.
Per giurisprudenza costante costituisce facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, in virtù del combinato disposto degli artt. 1102 c.c. (facoltà del comunista di servirsi delle cose comuni), 1105 c.c. (concorso di tutti i condomini alla cosa comune) e 1122 c.c. (divieto al condomino di realizzare opere che danneggino le cose comuni), con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione relativa a tali opere (cfr. Cons. Stato, sez. Consiglio Stato, sez. V, 09.11.1998, n. 1583; TAR Napoli, sez. II, 14/03/2018, n. 1590; sez. VIII, 26/02/2016, n. 1077; TAR Torino, sez. II, 15/11/2013, n. 1193).
Con specifico riferimento all’apertura di abbaini da parte del proprietario del piano sottostante al tetto comune, la Corte di Cassazione ha affermato che essa -ove sia eseguita a regola d'arte e sia tale da non pregiudicare la funzione di copertura propria del tetto né da impedire l'esercizio da parte degli altri condomini dei propri diritti sulla cosa comune- costituisce soltanto modifica e non innovazione della cosa comune e pertanto non necessita, come invece le innovazioni vere e proprie, della previa approvazione dell'assemblea dell'edificio in condominio ex artt. 1120 e 1336 c.c. (Cassazione civile sez. II, 27/07/2006, n. 17099).
Né –contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’amministrazione resistente- l’applicazione di questi principi può ritenersi esclusa per la natura abusiva delle opere (legata alla difformità degli abbaini realizzati, quanto all’allineamento con le aperture sottostanti e alla larghezza, rispetto al progetto presentato con la DIA).
In particolare, è priva di rilievo la sussistenza di un contrasto con l’art. 33 del regolamento edilizio comunale (che esclude l’ammissibilità di interventi “casuali o sporadici”), invocata dalla difesa dell’amministrazione comunale nelle proprie memorie: un tale contrasto -che oltretutto non ha costituito motivo di diniego- non incide, invero, sulla natura dell’opere le quali, pur con le difformità realizzate, restano pur sempre degli abbaini.
In conclusione, poiché gli abbaini in questione, pur incidendo su parti comuni dell'edificio, hanno un'innegabile natura pertinenziale rispetto all'appartamento di proprietà della ricorrente e non determinano, per la loro oggettiva consistenza, alcuna deminutio dell'uso comune, l’assenso dell’assemblea condominiale è stato illegittimamente richiesto.
Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.07.2021 n. 688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2021

EDILIZIA PRIVATACol termine “sanatoria” vengono tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione.
L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste dunque nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”).
La parola “condono”, invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.

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Circa
la c.d. sanatoria giurisprudenziale si è in passato ritenuta dirimente la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione dell’istanza, sull’assunto che sarebbe diseconomico far demolire ciò che il privato ha facoltà di ricostruire giusta il regime giuridico sopravvenuto.
Tale istituto non trova, tuttavia, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, come già affermato anche dalla Sezione.
Il rigore insito in tali principi trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.
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7. Come anche di recente ricordato dalla Sezione (v. Cons. Stato, sez. II, 06.05.2021, n. 3545) col termine “sanatoria” vengono tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione.
L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste dunque nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”).
La parola “condono”, invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
8. Nel caso di specie l’appellante ha avanzato istanza di condono, invocando l’art. 1 della L.R. 05.01.2011, n. 1, ma anche di sanatoria ordinaria ex art. 36 del T.u.e., per le opere realizzate in difformità dai permessi di costruire originari, oggetto di ingiunzione a demolire n. 5663 del 24.03.2009. Con una sostanziale promiscuità descrittiva, dunque, non ha ritenuto di disgiungere l’uno aspetto dall’altro, nella consapevolezza che il cambio di destinazione, da rurale ad abitativo, quale che fosse la consistenza del manufatto, non era consentita dalla vigente disciplina urbanistica.
Ciò ha indotto il primo giudice a disgiungere il contenuto del provvedimento, interpretato quale una reiezione solo parziale della richiesta sanatoria, ovvero circoscritto alla tematica del cambio di destinazione d’uso. Pur essendo, cioè, ridetto cambio di destinazione d’uso conseguito (anche) agli ampliamenti e modifiche rispetto al fabbricato realizzato con permesso di costruire n. 987 del 09.05.2005, e successiva variante n. 1078 del 17.01.2006, si è evidentemente voluto riconoscere agli stessi una qualche autonomia, purché ricondotti alla destinazione d’uso agricola dell’immobile preesistente agli stessi.
La ricostruzione, seppure di dubbia coerenza, esula dal perimetro dell’odierna decisione in quanto non fatta oggetto di impugnativa.
Ne consegue che nel caso di specie resta da valutare esclusivamente la correttezza del diniego di condono, avanzato ai sensi della l.r. n. 19 del 2009, c.d. “Piano casa” regionale, espressamente invocata allo scopo nella relativa istanza. In particolare, occorre richiamare il comma 7 dell’art. 12 della l.r. n. 19/2009, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera rrr), della l.r. 05.01.2011, n. 1, ed abrogato a distanza di pochi mesi dalla l.r. 15.03.2011, n. 4.
La disposizione, comunque inapplicabile al caso di specie ratione temporis, prevedeva dunque che «Ai soli fini amministrativi, gli interventi previsti dagli articoli 4, 5 e 8, comma 2, della presente legge realizzati alla data di entrata in vigore delle presenti disposizioni e ad esse conformi possono essere autorizzati». Di fatto, si consentiva così una retroazione dell’art. 6-bis, introdotto nel testo originario dalla medesima l.r. n. 1 del 2011 per consentire (pro futuro) di realizzare nelle zone agricole «i mutamenti di destinazione d’uso di immobili o di loro parti, regolarmente assentiti, per uso residenziale del nucleo familiare del proprietario del fondo agricolo o per attività connesse allo sviluppo integrato dell’azienda agricola» (comma 1), stante che lo stesso a sua volta richiamava la disciplina degli artt. 4 e 5, seppure «con l’obbligo di destinare non meno del venti per cento della volumetria esistente ad uso agricolo».
9. Il Collegio ritiene dunque di condividere la richiamata ricostruzione del primo giudice, laddove ha ritenuto le doglianze di parte volte ad integrare in maniera postuma la richiesta di contenuto e portata del tutto chiari nel senso sopra precisati, avanzata al Comune di Sarno. A tutto concedere peraltro alla tesi dell’appellante, quand’anche si volesse sussumere la domanda avanzata sub specie di sanatoria ordinaria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, ne mancherebbero i presupposti per assenza del richiamato requisito della doppia conformità.
L’evidente commistione di piani tra i due tipi di sanatoria emerge a tale riguardo anche in sede di formulazione letterale della relativa domanda, ove si richiama il principio, ribadito nell’odierno appello, che «sarebbe […] assurdo procedere allo svellimento di tutto quanto realizzato per ripristinare la destinazione agricola e poi, sempre ai sensi della legge Piano Casa, richiedere di nuovo il Permesso per ricostruire tutto quello che si è già demolito» (v. frase finale della relazione tecnica al progetto allegato alla domanda di sanatoria).
Appare già chiaro il riferimento alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, in forza della quale si è in passato ritenuta dirimente la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione dell’istanza, sull’assunto che sarebbe diseconomico far demolire ciò che il privato ha facoltà di ricostruire giusta il regime giuridico sopravvenuto. Tale istituto non trova, tuttavia, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, come già affermato anche dalla Sezione (Cons. Stato, sez. II, 18.02.2020, n. 1240).
Il rigore insito in tali principi trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 17.05.2021 n. 3835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon risulta condivisibile il nettamente minoritario orientamento giurisprudenziale della cd. sanatoria giurisprudenziale, secondo cui la doppia conformità può essere derogata, per evitare un’inutile dissipazione di risorse, in quanto verrebbero demoliti manufatti edilizi, che, previa istanza di permesso di costruire, possono essere nuovamente ricostruiti, atteso che l’art. 36, comma 1, DPR n. 380/2001 statuisce espressamente che la sanatoria edilizia ordinaria (quella straordinaria si riferisce alle Leggi statali in materia di condono edilizio) può essere autorizzata soltanto se sussiste il citato requisito della doppia conformità, cioè la conformità sia alla normativa vigente al momento della realizzazione dell’abuso, sia alla normativa vigente al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria, e tale norma risulta conforme ai principi costituzionali di legalità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97, comma 1, Cost., in quanto diversamente verrebbe premiato il comportamento illecito di coloro che hanno costruito abusivamente.
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Il ricorso è infondato, atteso che:
   1) il Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Vietri di Potenza nell’impugnato provvedimento prot. n. 9235 del 02.11.2018 ha espressamente richiamato la memoria endoprocedimentale dell’08.10.2018, spiegando le ragioni di non condivisione di quanto in essa dedotto;
   2) come già statuito con la Sentenza TAR Basilicata n. 402 del 21.04.2016:
A) l’autorizzazione regionale ex L.R. n. 12/1979 risulta finalizzata alla tutela degli interessi pubblici di natura geologica, ambientale ed economica e perciò risulta completamente estranea alla funzione comunale del controllo edilizio e/o urbanistico del territorio;
B) gli abusi edilizi di cui è causa di cui è causa non sono di tipo precario, in quanto verranno rimossi e/o demoliti soltanto al termine della coltivazione mineraria, avente una durata pluridecennale;
   3) nella specie, non sussiste il presupposto della cd. doppia conformità urbanistica ex art. 36, comma 1, DPR n. 380/2001, in quanto con la Sentenza TAR Basilicata n. 696 del 05.12.2007, passata in giudicato, perché confermata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con la Sentenza n. 4016 del 18.06.2009, è stata statuita la legittimità della motivazione della prima Ordinanza di demolizione n. 2354 del 23.6.2005 e del successivo diniego di sanatoria, nella parte in cui veniva specificato che gli abusi edilizi realizzati violavano l’art. 13, commi 1 e 2, delle Norme Tecniche di Attuazione del PRG, secondo cui sui predetti terreni, aventi destinazione agricola, potevano essere costruite abitazioni per i manuali coltivatori della terra, edifici per allevamenti, serbatoi e magazzini per i prodotti del suolo, ricoveri per macchine agricole ed impianti di tipo artigianale e di ristorazione, cioè attività produttive legate all’agricoltura, evidenziando anche che l’attività esercitata dalla ditta An.Fa. & C. S.n.c. non poteva essere qualificata di tipo artigianale, sia perché, oltre all’estrazione di inerti, svolgeva anche le attività di impianto di betonaggio e di impresa edile, sia perché non possedeva i requisiti previsti dagli artt. 2, 3 e 4 L. n. 443/1985.
In ogni caso, va precisato, che non risulta condivisibile il nettamente minoritario orientamento giurisprudenziale della cd. sanatoria giurisprudenziale, secondo cui la doppia conformità può essere derogata, per evitare un’inutile dissipazione di risorse, in quanto verrebbero demoliti manufatti edilizi, che, previa istanza di permesso di costruire, possono essere nuovamente ricostruiti, atteso che l’art. 36, comma 1, DPR n. 380/2001 statuisce espressamente che la sanatoria edilizia ordinaria (quella straordinaria si riferisce alle Leggi statali in materia di condono edilizio) può essere autorizzata soltanto se sussiste il citato requisito della doppia conformità, cioè la conformità sia alla normativa vigente al momento della realizzazione dell’abuso, sia alla normativa vigente al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria, e tale norma risulta conforme ai principi costituzionali di legalità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97, comma 1, Cost., in quanto diversamente verrebbe premiato il comportamento illecito di coloro che hanno costruito abusivamente (TAR Basilicata, sentenza 15.05.2021 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”, in virtù della quale può sanarsi un'opera, anche se abusivamente realizzata, qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo, non trova fondamento nelle norme positive, non essendo ammissibile un atto atipico con effetti provvedimentali al di fuori di ogni previsione normativa.
L’ordinamento vigente, infatti, è caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione.
Invero, non può prestarsi ad equivoci il chiaro tenore dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 secondo cui è possibile «ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda». Ciò in linea con il pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, «secondo cui presupposto indefettibile per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è la c.d. doppia conformità, vale a dire la non contrarietà del manufatto abusivo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria».
Trattasi di giurisprudenza definitivamente confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 232 dell’08.11.2017, che ha ribadito che il «principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del t.u. edilizia costituisce “principio fondamentale nella materia governo del territorio” […], “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità”. Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali, “laddove il condono edilizio “ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia”».

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7. L’appello è infondato.
7.1. Il primo motivo inerente la cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”, in virtù della quale può sanarsi un'opera, anche se abusivamente realizzata, qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo, non trova fondamento nelle norme positive, non essendo ammissibile un atto atipico con effetti provvedimentali al di fuori di ogni previsione normativa. L’ordinamento vigente, infatti, è caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione.
Ad avviso del Collegio non può prestarsi ad equivoci il chiaro tenore dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 secondo cui è possibile «ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda». Ciò in linea con il pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, «secondo cui presupposto indefettibile per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è la c.d. doppia conformità, vale a dire la non contrarietà del manufatto abusivo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria» (Cons. di Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
Trattasi di giurisprudenza definitivamente confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 232 dell’08.11.2017, che, con riferimento proprio all’art. 14 della l.r. 16/2016, che aveva tradotto in norma positiva la cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”, ha ribadito che il «principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del t.u. edilizia costituisce “principio fondamentale nella materia governo del territorio” (da ultimo, sentenza n. 107 del 2017) […], “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (sentenza n. 101 del 2013). Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali, “laddove il condono edilizio “ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia” (sentenza n. 50 del 2017)» (CGARS, sentenza 11.05.2021 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta <doppia conformità> di cui al menzionato art. 36 t.u. edilizia, in base al quale <il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda>.
Si tratta, infatti, di un adempimento <finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità>.
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Le doglianze non possono essere condivise e, al riguardo, il Collegio ritiene opportuno richiamare i principi ribaditi, anche di recente, dalla Corte Costituzionale (cfr. sent. n. 77/2021 - par. 2.5) secondo cui “costituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta <doppia conformità> di cui al menzionato art. 36 t.u. edilizia, in base al quale <il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda>. Si tratta, infatti, di un adempimento <finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità> (sentenza n. 232 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 107 del 2017 e n. 101 del 2013)” (TAR Marche, sentenza 06.05.2021 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Regolarità sismica quale presupposto per la sanatoria urbanistica.
Il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l'efficacia dell'accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell'opera, dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l'esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria).
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La disciplina antisismica considera la regolarità sismica del progetto (da intendersi come effettiva conformità del progetto alle prescrizioni tecniche di sicurezza sismica) come un requisito indefettibile per la realizzazione delle opere e per l’ottenimento di un valido titolo edilizio, e dunque anche ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex articolo 36 del TUED.
Se nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
Deve pertanto ritenersi che l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità
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Sugli atti di motivi aggiunti.
10. Lo scrutinio delle censure introdotte con il primo atto di motivi aggiunti richiede di soffermarsi prima brevemente sui fatti di causa seguiti all’adozione del permesso di costruire in sanatoria n. 1/2016.
10.1. Il sig. Pa. D’Al., dopo aver ottenuto tale permesso di costruire, ha presentato allo sportello unico edilizia il c.d. deposito sismico.
La Commissione tecnica regionale, dopo aver chiesto delle integrazioni alla documentazione del predetto istante nella seduta del 12.09.2016, nella successiva data del 20.09.2016 rilasciava il proprio parere favorevole, ma con prescrizioni, sul progetto presentato.
A fronte del citato parere il sig. Pa. D’Al. presentava indi al Comune una domanda di permesso di costruire teso alla realizzazione degli occorrenti lavori di adeguamento sismico. E il Comune rilasciava anche il chiesto permesso di costruire con atto n. 1296 (VII/2016) del 15.10.2016, impugnato con il presente atto di motivi aggiunti.
10.2. Orbene, nel nuovo permesso di costruire così rilasciato si legge:
(…) A seguito di presentazione del deposito sismico presso i competenti uffici regionali e delle successive integrazioni richieste in data 20/09/2016 la commissione tecnica regionale rilasciava con esito positivo il parere definitivo sulla base delle seguenti premesse;
- Dato atto che è necessario effettuare lavori di adeguamento sismico al fabbricato a seguito delle prescrizioni della Commissione Tecnica Regionale e i lavori da eseguire consistono;
- Nel prolungamento del setto murario al piano terra adiacente alla porta d’ingresso;
- Nel prolungamento del setto murario al piano terra adiacente la finestra del bagno;
- Nell’adeguamento dei due pilastri in c.a. posti tra il piano di fondazione ed il balcone del primo piano con aumento della sezione da cm 25x25 a cm 30x30 dei sei pilastri in c.a. posti al piano portico;
- Nell’adeguamento con la posa in opera di tubolari verticali ed orizzontali delle dimensioni di cm. 80x80x del portico in ferro e legno esistente al piano terra;
- Visto l’esito dell’istruttoria del progetto;
- Acquisita la comunicazione da parte della Regione Molise Servizio Tecnico Sismico e Gerologico, dalla quale si evince che la Commissione tecnica regionale ha rilasciato con esito positivo il parere definitivo in data 20/09/2016 con prescrizione (…)
”.
10.3. Fatte queste premesse, il Collegio rileva che ragioni di opportunità inducono a trattare prioritariamente il quinto mezzo dell’atto di motivi aggiunti, con cui si è tornati a denunciare, ma da una nuova prospettiva, la violazione del principio di doppia conformità di cui all’art. 36 del TUED.
Sostiene parte ricorrente che il Comune, una volta conosciuti gli esiti dell’iter tecnico specialistico, avrebbe dovuto prendere atto delle criticità sostanziali emerse in occasione dell’accertamento di compatibilità sismica, al cui esito positivo aveva condizionato le sorti del permesso di costruire n. 1/2016. E, pertanto, avrebbe dovuto ritirare in autotutela la sanatoria del 07.01.2016, invece di rilasciare un nuovo titolo edilizio che presupponeva la validità e permanente efficacia del precedente.
Da questa angolazione la ricorrente deduce dunque nuovamente la violazione del principio di doppia conformità di cui all’articolo 36 del TUED e la conseguente illegittimità del permesso di costruire in sanatoria n. 1 del 2016; essa afferma inoltre, di riflesso, l’illegittimità (anche derivata) del successivo permesso n. VII del 2016, che aveva autorizzato i lavori di adeguamento sismico sull’erroneo presupposto della validità e perdurante efficacia del citato permesso di sanatoria.
Questa censura è fondata.
Dagli atti di causa emerge chiaramente, invero, che l’intervento sanato con il permesso di costruire n. 1 del 16 non fosse conforme alle norme tecniche costruttive di cui al DM 14.01.2008 (tant’è che si è ravvisata la necessità di procedere ad interventi di messa in sicurezza sismica del fabbricato), con conseguente violazione dell’articolo 36 del TUED, il quale subordina il rilascio della sanatoria alla condizione che l’opera fosse conforme alle norme edilizie sia al tempo della realizzazione dell’intervento, sia a quello della richiesta dell’accertamento sanante.
10.4. Né può assumere rilievo la circostanza che una conformità alle norme antisismiche sia stata comunque conseguita, di fatto, a seguito dell’esecuzione degli interventi richiesti dalla Regione.
Il principio della doppia conformità di cui all’articolo 36 del TUED, infatti, non consente delle sanatorie sottoposte a condizioni di modifica dell’immobile (cfr., tra le molte, Consiglio di Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410, pronuncia la quale puntualizza che "il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l'efficacia dell'accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell'opera, dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l'esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria”; si veda anche TAR Campania, Napoli, sezione III, sentenza n. 696 del 2021).
10.5. Nemmeno è persuasiva la linea argomentativa del Comune e del controinteressato che si richiama alla specificità della disciplina regionale del Molise di cui agli artt. 7 e 8 della L.R. n. 20 del 1996.
Le resistenti sottolineano, in sintesi, che le norme regionali subordinano solo l’inizio dei lavori, e non anche il rilascio del titolo edilizio, al c.d. deposito sismico, di tal ché la conformità del progetto di opera alle prescrizioni sismiche non potrebbe considerarsi un presupposto per il rilascio del titolo edilizio: e, dunque, si sostiene, nemmeno del titolo in sanatoria.
A tanto è tuttavia immediato obiettare che il titolo edilizio in sanatoria, proprio per la sua specifica natura, diversamente dal comune permesso di costruire è senz’altro posteriore all’inizio dei lavori, momento cui non può più essere fatto rinvio. Sicché l’automatico parallelismo che le resistenti tentano d’instaurare tra i due titoli non si presenta convincente.
L’impostazione delle resistenti appare, inoltre, incompatibile con la ratio della disciplina antisismica, la quale considera la regolarità sismica del progetto (da intendersi come effettiva conformità del progetto alle prescrizioni tecniche di sicurezza sismica) come un requisito indefettibile per la realizzazione delle opere e per l’ottenimento di un valido titolo edilizio, e dunque anche ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex articolo 36 del TUED.
Questa interpretazione trova conferma in una recente pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 101 del 2013) la quale, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento in materia, ha affermato dei principi di carattere generale che risultano applicabili anche al caso di specie, e che, anche per la loro chiarezza, meritano di essere richiamati.
Se nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
(…) Deve pertanto ritenersi che l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità
” (con tale pronuncia la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 117, comma 3 Cost., dell’articolo 5 della legge regionale toscana n. 1 del 2005, nella parte in cui prevedeva la possibilità di ottenere il permesso in sanatoria per le opere edilizie che risultassero conformi alla normativa tecnico-sismica vigente soltanto al momento della loro realizzazione, e non anche al momento della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, nonché per le opere realizzate in difformità dalla normativa tecnica vigente al momento della loro realizzazione, purché le stesse venissero adeguate alle norme vigenti: secondo la Corte attraverso tale previsione la Regione, eccedendo le sue competenze in materia, ha violato la norma statale di principio sulla doppia conformità di cui all’articolo 36 del TUED).
10.6. Fermo l’accoglimento del motivo di censura da ultimo vagliato, giova infine evidenziare che il permesso di costruire n. 1 del 2016, dato il mancato perfezionamento favorevole della verifica sostanziale del rispetto della normativa antisismica (esito che il Comune aveva fatto oggetto di apposita condizione), avrebbe perso di validità già ex se.
Da qui la dubbia permanenza di un interesse a ricorrere alla base del terzo profilo del secondo motivo del ricorso introduttivo (v. supra, paragr. 8.2.3.), con cui il ricorrente poneva in discussione la legittimità della previsione di un siffatto meccanismo condizionale.
Quel che qui più importa notare, tuttavia, è che tale originario profilo di censura risulta superato dall’avvento, appunto, del quinto mezzo dell’atto di motivi aggiunti, la cui accertata fondatezza induce a considerarlo recessivo e passibile di assorbimento.
11. L’accertata illegittimità del permesso in sanatoria n. 1/16 per violazione dell’articolo 36 del TUED comporta per via d’illegittimità derivata l’annullamento non solo del permesso n. 1296 (VII/2016), ma anche dell’ulteriore permesso edilizio n. 1303 del 14.04.2018 di mutamento di destinazione d’uso del locale sottotetto, titolo che è stato qui avversato con il secondo atto di motivi aggiunti.
Non pare dubbio, infatti, che l’assentimento del mutamento di destinazione d’uso di cui si tratta risenta della sorte dei provvedimenti edilizi a monte riguardanti la struttura del fabbricato interessato (TAR Molise, sentenza 05.05.2021 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2021

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi – Rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato – Effetti – Presupposti – Doppia conformità – Necessità – Sanatoria condizionata – Inammissibilità – C.d. sanatoria “giurisprudenziale” o “impropria” – Artt. 36, 44 d.P.R. n. 380/2001.
Reati edilizi – Caso di non macroscopica illegittimità del titolo abilitativo – Presenza di un atto autorizzativo della Pubblica Amministrazione – Buona fede e affidamento incolpevole – Poteri del giudice dell’esecuzione – Verifica dell’elemento soggettivo del reato.
Deve considerarsi illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
Infatti la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
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In tema di reati edilizi, in caso di non macroscopica illegittimità del titolo abilitativo il giudice deve procedere, stante la presenza di un atto autorizzativo della Pubblica Amministrazione, ad un accertamento più approfondito dell'elemento soggettivo del reato, dandone conto adeguatamente in motivazione, soprattutto nel caso in cui l'imputato alleghi circostanze dirette a rivendicare la propria buona fede e un affidamento incolpevole.
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5. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.
5.1. Vero è, in proposito, che deve considerarsi illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; da ult. Sez. 3, n. 28666 del 07/07/2020, Murra, Rv. 280281).
Infatti la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973).
5.1.1. Ciò posto, in fatto (cfr. perizia disposta in sede di incidente di esecuzione e chiarimenti del perito resi all'udienza nel contraddittorio delle parti) risultava rilasciato agli odierni ricorrenti permesso di costruire in sanatoria n. 1/15 del 14.01.2015, contenenti particolari prescrizioni. Sempre in fatto, da un lato il sopralluogo del 05.01.2016 dava conto della realizzazione dei lavori prescritti, circostanza confermata anche dal perito officiato dal Giudice dell'esecuzione; dall'altro, l'ordinanza impugnata ha dato atto (cfr. pag. 4) che il Pubblico ministero d'udienza non aveva insistito nella revoca del beneficio della sospensione condizionale.
5.1.2. Al riguardo, i ricorrenti hanno allegato le dichiarazioni del perito d'ufficio, che ha dato conto dell'esistenza di una generale "consuetudine" locale di emanare provvedimenti siffatti, nel medesimo periodo di tempo nel quale anche gli interessati si erano rivolti all'Amministrazione comunale per conseguire la sanatoria urbanistica degli abusi commessi. Allo stesso tempo lo stesso perito, in risposta a specifica domanda, ha sostenuto l'avvenuta fattuale rimessione in pristino dei luoghi, con eliminazione delle difformità in esecuzione del rilasciato permesso di costruire e senza l'intervento di ulteriore istanza in sanatoria.
In definitiva il perito ha attestato la conformità dei luoghi alla disciplina urbanistica, laddove il titolo del 2015 risultava effettivamente viziato per carenza dell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. 380 del 2001 cit.. Il vizio è stato ritenuto sanabile e non ostativo all'ottenimento di nuovo permesso di costruire in sanatoria.
5.1.3. Alla stregua dei rilievi che precedono, ed anche a prescindere dalla richiamata non chiara condotta processuale del Pubblico ministero procedente, non risulta esservi stato formale adempimento in sanatoria (quanto alle conseguenze, cfr. Sez. 3, n. 14186 del 13/12/2006, dep. 2007, Bennardo, Rv. 236322), ancorché in fatto sia stato dato puntuale seguito al permesso emanato nel 2015 dalla competente Amministrazione.
5.1.4. Vero è che, in tema di reati edilizi, in caso di non macroscopica illegittimità del titolo abilitativo il giudice deve procedere, stante la presenza di un atto autorizzativo della Pubblica Amministrazione, ad un accertamento più approfondito dell'elemento soggettivo del reato, dandone conto adeguatamente in motivazione, soprattutto nel caso in cui l'imputato alleghi circostanze dirette a rivendicare la propria buona fede e un affidamento incolpevole (cfr. Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, dep. 2019, Cerra srl, Rv. 275850).
In specie è addirittura l'ausiliario tecnico del Giudice dell'esecuzione a dare conto di ciò, rammentando l'esistenza di -non corretta- locale prassi generalizzata in tal senso, all'epoca del rilascio del titolo agli interessati.
5.1.5. In considerazione dei pregressi rilievi, da valutare nel loro complesso, l'oggettivo adempimento della rimessione in pristino delle opere non regolarizzabili impone altresì di riconsiderare -ai fini dell'invocata sospensione condizionale- le conoscenze e le informazioni assunte, ovvero le eventuali assicurazioni fornite dagli uffici competenti circa la prassi esistente nella realtà territoriale di riferimento quanto ai contenuti del titolo edilizio sanante (cfr. Sez. 3, n. 8410 del 25/10/2017, dep. 2018, Venturi, Rv. 272572) (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2021 n. 16498).

EDILIZIA PRIVATA: L’assenza del requisito della doppia conformità, ossia della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza titolo sia alla disciplina urbanistica vigente all’atto della sua realizzazione che a quella vigente al momento della richiesta di sanatoria, determina l’impossibilità di ottenere un permesso in sanatoria.
In senso contrario, non è neppure invocabile l’istituto della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”. 
Invero, «tale istituto non trova, infatti, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha, dunque, affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità».
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4.2. L’avvenuto cambio della destinazione d’uso dell’immobile di proprietà della ricorrente in contrasto con lo strumento urbanistico vigente (P.R.G. del 1980) rende del tutto irrilevante la circostanza che, successivamente al richiamato abusivo mutamento, sia stata modificata la disciplina pianificatoria di riferimento in senso favorevole alla insediabilità delle funzioni residenziali nella zona, visto che non sussisterebbe comunque il requisito della doppia conformità delle opere al fine di una loro sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001; difatti, l’assenza del requisito della doppia conformità, ossia della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza titolo sia alla disciplina urbanistica vigente all’atto della sua realizzazione che a quella vigente al momento della richiesta di sanatoria, determina l’impossibilità di ottenere un permesso in sanatoria (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.11.2020, n. 2061; 24.06.2020, n. 1172; 27.05.2019, n. 1199; 08.01.2019, n. 31).
In senso contrario, non è neppure invocabile l’istituto della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” (cfr. Consiglio di Stato, VI, 24.04.2018, n. 2496; 20.02.2018, n. 1087).
Secondo la giurisprudenza, «tale istituto non trova, infatti, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” (Corte Cost., 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici. Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità
» (Consiglio di Stato, II, 15.02.2021, n. 1403; 18.02.2020, n. 1240; anche VI, 17.02.2021, n. 1457).
Da quanto in precedenza evidenziato, discende la correttezza dell’operato degli Uffici comunali e l’assenza dei presupposti per accogliere le prospettazioni della parte ricorrente.
4.3. Ciò determina il rigetto delle suesposte censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2021 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria «non potendosi affatto accogliere l'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza.
Tale approdo che richiede la verifica della "doppia conformità" deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento "finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità"».
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§4.1. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Deve ribadirsi come l'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria «non potendosi affatto accogliere l'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. VI, 3194/2016; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101).
Tale approdo che richiede la verifica della "doppia conformità" deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento "finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità" (cfr. Corte Cost. n. 232 del 2017)
» (Cons. Stato, Sez. VI, 04.01.2021, n. 43) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.04.2021 n. 1301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta “doppia conformità” di cui al menzionato art. 36 t.u. edilizia, in base al quale «il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
Si tratta, infatti, di un adempimento «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità».
Anche nei casi in cui l’attività sia subordinata alla presentazione di SCIA, la normativa statale di principio impone il duplice accertamento di conformità, e ciò sia per l’ipotesi in cui la segnalazione riguardi opere già compiute dal soggetto interessato, sia per l’ipotesi di opere in corso di esecuzione (art. 37, commi 4 e 5, t.u. edilizia): anche in relazione a tutti gli interventi oggetto di SCIA in sanatoria, pertanto, dev’essere attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia al momento della realizzazione e a quello della successiva segnalazione.
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2.5. Le norme impugnate esorbitano da tale ambito di competenza.
Circa la possibilità che una legge regionale intervenga con una propria disciplina in materia, questa Corte ha infatti rilevato che si tratta di scelta «espressiva della funzione di “governo del territorio” tipica della disciplina urbanistica ed edilizia, rimessa alla potestà legislativa delle Regioni nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con leggi dello Stato (art. 117, terzo comma, Cost.), ed in particolare di quelli “desumibili” dal t.u. edilizia, come sancito dall’art. 1 dello stesso» (sentenza n. 2 del 2019).
A tale ultimo proposito, tuttavia, questa Corte ha anche precisato che costituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta “doppia conformità” di cui al menzionato art. 36 t.u. edilizia, in base al quale «il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
Si tratta, infatti, di un adempimento «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità» (sentenza n. 232 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 107 del 2017 e n. 101 del 2013).
Anche nei casi in cui l’attività sia subordinata alla presentazione di SCIA, la normativa statale di principio impone il duplice accertamento di conformità, e ciò sia per l’ipotesi in cui la segnalazione riguardi opere già compiute dal soggetto interessato, sia per l’ipotesi di opere in corso di esecuzione (art. 37, commi 4 e 5, t.u. edilizia): anche in relazione a tutti gli interventi oggetto di SCIA in sanatoria, pertanto, dev’essere attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia al momento della realizzazione e a quello della successiva segnalazione (Corte Costituzionale, sentenza 21.04.2021 n. 77).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinamento opera una netta distinzione tra la situazione:
   - di chi abbia realizzato un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del relativo permesso di costruire e quella
   - di
chi abbia viceversa realizzato un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di costruire o realizzata in difformità da esso.
La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. ...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza, «il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque, posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è presidiata da due condizioni:
   a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative;
   b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino»,
condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato».
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere «sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Tanto premesso, giova evidenziare che
   - nella fattispecie disciplinata dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 è previsto l’esercizio, da parte dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino); viceversa,
   - nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 380 del 2001 non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche, ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette disposizioni.
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1. Ai fini dell’inquadramento della fattispecie per cui è causa giova preliminarmente rammentare che l’ordinamento, statuale e provinciale, opera una netta distinzione tra la situazione di chi abbia realizzato un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del relativo permesso di costruire e quella di chi abbia viceversa realizzato un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di costruire o realizzata in difformità da esso.
2. La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. ...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17), «il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque, posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino», condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato».
Come già evidenziato da questo Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 11.08.2020, n. 136), l’istituto disciplinato dal menzionato art. 38 -correntemente denominato “fiscalizzazione dell’abuso”- nella Provincia autonoma di Trento è disciplinato dall’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008, secondo il quale, “Se il comune, in seguito all’accertamento che è impossibile rimuovere i vizi delle procedure amministrative e rimettere in pristino, annulla la concessione, applica una sanzione pecuniaria pari al valore delle opere o delle parti abusivamente eseguite e comunque non inferiore a 1.500 euro”, e trova applicazione non solo in caso di annullamento in autotutela del permesso di costruire, ma anche in caso di annullamento giurisdizionale. Anche in questo caso, ai sensi del comma 12 dell’art. 129, “L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria e il pagamento del contributo di concessione producono gli effetti della concessione”.
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto, nel recente passato questo Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.02.2020 n. 27; id., 11.08.2020, n. 136, cit.) ha invero aderito all’orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.07.2019, n. 5089) secondo il quale una disposizione come l’art. 129, comma 11, della legge provinciale 1/2008 può trovare applicazione per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo.
Tuttavia l’Adunanza plenaria (Consiglio di Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17, cit.) -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere «sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
3. La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Anche l’istituto disciplinato dall’art. 36 -denominato accertamento della conformità urbanistica- si rinviene nell’ordinamento della Provincia autonoma di Trento, che però si caratterizza in quanto, accanto al caso in cui la sanatoria è subordinata all’accertamento della c.d. doppia conformità, è stata tipizzata e disciplinata anche la c.d. sanatoria giurisprudenziale degli abusi edilizi.
In particolare l’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1/2008 dispone -in conformità a quanto previsto dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001- che, fino alla scadenza dei termini per l’esecuzione dell’ingiunzione prevista dall’articolo 129, comma 1, della stessa legge provinciale n. 1 del 2008, “il responsabile dell’abuso o altro soggetto avente titolo possono chiedere la concessione in sanatoria se l’opera è conforme agli strumenti urbanistici in vigore e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
Parimenti il comma 4 dell’art. 135 dispone che il rilascio della concessione in sanatoria “è subordinato al pagamento del contributo di concessione e di una sanzione pecuniaria pari al valore del contributo”, precisando che nei casi di esenzione o di riduzione del contributo “la sanzione pecuniaria è pari al contributo dovuto negli altri casi” e nei casi di difformità “il contributo e la relativa sanzione sono calcolati con riferimento alla parte di opera difforme dalla concessione”, fermo altresì restando che “la sanzione non può essere inferiore a 1.500 euro”.
Peraltro la sopradescritta disciplina di fonte provinciale si discosta sensibilmente da quella statuale perché il comma 7 dell’art. 135 dispone che -fermo restando quanto previsto dal comma 1- “resta salvo il potere, ai soli fini amministrativi, di rilasciare la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata abusivamente. In tal caso le sanzioni pecuniarie previste dai commi 4 e 5 sono aumentate del 20 per cento”.
Come già evidenziato da questo Tribunale in altra occasione (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 11.08.2020, n. 136), con tale disposizione il Legislatore provinciale, nell’esercizio della competenza legislativa primaria in materia di urbanistica, prevista dell’art. 8, comma 1, n. 5, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Trentino Alto Adige/Südtirol approvato con d.P.R. 31.08.1972, n. 670, ha codificato la c.d. sanatoria giurisprudenziale, così ampliando (seppure “ai soli fini amministrativi”, ossia fatte salve eventuali responsabilità di natura penale) la possibilità di richiedere l’accertamento della conformità urbanistica dell’opera realizzata in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, purché l’opera stessa sia “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”.
Tanto premesso, giova evidenziare che nella fattispecie disciplinata dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008 è previsto l’esercizio, da parte dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino); viceversa, nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 380 del 2001 e dall’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto in quella disciplinata dall’art. 135, comma 7, della medesima legge provinciale non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche, ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette disposizioni (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Tribunale ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile
   - non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”),
   - ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”).
Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo.
Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
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La giurisprudenza ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
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Da tempo la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente, ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento».
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Secondo una consolidata giurisprudenza, in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
Dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate.
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4. Passando alla controversia oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che si possa prescindere dall’esame delle eccezioni processuali sollevate dalla controinteressata perché nessuna delle suesposte censure può essere accolta, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Come già evidenziato, la società Al.Ho. -a seguito della nota prot. n. 6855 del 28.11.2018, con cui il Comune di Molveno ha comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza per la regolarizzazione, ai sensi dell’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008, delle opere oggetto del permesso di costruire in deroga n. 3033 del 2017, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 126 del 2018- in data 15.04.2019 ha presentato un’ulteriore istanza, volta al rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008, sulla quale il Comune di Molveno si è espresso positivamente rilasciando l’impugnato permesso di costruire in sanatoria n. 3076, in data 04.06.2020.
Ciò posto, il Collegio -nel rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale (da ultimo, T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.03.2021, n. 39), la qualificazione giuridica del provvedimento impugnato è un’operazione che compete al Giudice amministrativo in ossequio al principio iura novit curia, analogamente a quanto avviene nel processo civile con riferimento alla qualificazione del tipo negoziale entro il quale vanno sussunti gli atti di autonomia privata di cui si controverte- concorda senz’altro con il Comune di Molveno quando nelle proprie difese osserva che l’erroneo riferimento all’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001, contenuto nella motivazione del provvedimento impugnato, non può comunque inficiare la legittimità di tale provvedimento.
Tale riferimento è invero senz’altro erroneo perché, come già detto, l’impugnato permesso di costruire è stato adottato ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; ma il riferimento stesso è totalmente ininfluente ai fini del presente giudizio, stante la c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento amministrativo nei giudizi aventi ad oggetto l’esercizio di poteri vincolati (come quello previsto dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008).
Difatti questo stesso Tribunale in altre occasioni (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 19.10.2020, n. 177; id. 13.04.2017, n. 136) ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”), ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”). Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo. Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
Dunque -posto che la parte ricorrente non contesta affatto che «le opere realizzate ed in parte minima ripristinate dall’interessato a seguito della comunicazione del preavviso di diniego risultano rispettose della disciplina urbanistica vigente e non vi è neppure la necessità di accordare la deroga» (così la motivazione del provvedimento impugnato)- ai fini della decisione sulla presente controversia assume decisivo rilievo stabilire come vada interpretato l’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008 laddove dispone che, ai fini della sanatoria, l’Amministrazione deve accertare se l’opera abusiva sia, o meno, “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”.
Emergono infatti dagli atti di causa due tesi contrapposte.
6. Secondo la parte ricorrente l’espresso riferimento al momento della “presentazione” della domanda di sanatoria, contenuto nell’art. 135, comma 7, starebbe a significare che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, nel senso che l’Amministrazione non potrebbe tener conto di alcun tipo di sopravvenienza intervenuta durante il procedimento, ossia né di modifiche alla disciplina urbanistica, né di modifiche dell’opera da sanare sopravvenute rispetto al momento della presentazione della domanda.
Pertanto nel caso in esame il Comune avrebbe dovuto senz’altro rigettare la domanda di sanatoria in quanto -come evidenziato nel preavviso di rigetto di cui alla nota prot. n. 5044 del 07.08.2019- le opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato risultavano, al momento della presentazione della domanda stessa, incompatibili con le previsioni dello strumento urbanistico relative al parametro della superficie coperta, previsioni il cui superamento aveva in precedenza imposto l’attivazione del procedimento per il rilascio di un permesso di costruire in deroga.
In altri termini, secondo la tesi della parte ricorrente, la demolizione di parte del solaio, eseguita dopo l’attivazione del procedimento in sanatoria, era «totalmente neutra ai fini del riscontro della sussistenza dei presupposti di compatibilità urbanistica dell’opera abusiva», dovendo tale riscontro essere effettuato con riferimento all’intero abuso, come accertato ed esistente al momento della presentazione della domanda di sanatoria e decritto nella domanda stessa. Del resto, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria parziale, limitato cioè ad una sola parte delle opere abusive.
A questa tesi si contrappone quella del Comune e della controinteressata, secondo la quale -a dispetto della lettera dell’anzidetto art. 135, comma 7- i presupposti per il rilascio del permesso di costruire in di sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento, e non alla data della presentazione della domanda; dunque nel caso in esame l’Amministrazione avrebbe correttamente tenuto conto del fatto che la controinteressata -avuta notizia del preavviso di rigetto- aveva provveduto a ridurre spontaneamente l’estensione del solaio (sul punto non vi è contestazione), sì da rendere la superficie del manufatto compatibile con il relativo parametro urbanistico.
A corredo di tale tesi, e in replica all’argomento della parte ricorrente secondo il quale non sarebbe ammissibile il rilascio di un titolo edilizio che riguardi solo una parte dell’abuso oggetto della domanda di sanatoria, la controinteressata osserva che -sebbene nel caso in esame non si tratti di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato con prescrizioni, ovvero condizionato a modifiche dell’oggetto della sanatoria- tuttavia la giurisprudenza ammette che il permesso in sanatoria possa eccezionalmente introdurre prescrizioni, purché si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non concedibile; dunque a maggior ragione deve ammettersi che l’interessato, in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione di un’istanza ai sensi dell’art. 135, comma 7, possa comunque apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
7. La tesi della parte ricorrente è ancorata essenzialmente ad un’interpretazione letterale dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; difatti tale disposizione -secondo la quale ai fini della sanatoria l’amministrazione è tenuta ad accertare che l’opera abusiva sia “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”- effettivamente può prestarsi ad essere letta nel senso che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, sia per quanto riguarda l’opera da sanare, sia per quanto riguarda i parametri urbanistici in base ai quali deve essere verificata la sanabilità dell’opera.
Tuttavia il Collegio ritiene che tale tesi non possa essere accolta non solo perché non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sull’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, di seguito esaminata, ma soprattutto perché si pone in radicale contrasto con i principi generali del procedimento amministrativo e, in particolare, con il principio della partecipazione al procedimento, del quale sono espressione l’istituto del preavviso di rigetto, disciplinato (a livello statuale) dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 27-bis della legge provinciale 30.11.1992, n. 23, e con il principio di economicità dell’azione amministrativa, sancito (a livello statuale) dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 2, comma 1, della legge provinciale n. 23 del 1992.
8. Come ricordato dal Comune e dalla controinteressata, la giurisprudenza (ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3236) ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
Per le ragioni di seguito indicate non vi è ragione per discostarsi da tale opzione ermeneutica, essendo il riferimento “al momento della presentazione della domanda” presente tanto nella disposizione dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e nella corrispondente disposizione dell’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto nella disposizione dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale medesima.
Si rende però necessario precisare il fondamento di tale opzione ermeneutica e, soprattutto, cosa essa comporti.
9. Innanzi tutto tale opzione ermeneutica è coerente con il principio di partecipazione al procedimento amministrativo.
La dottrina ha da tempo posto in rilievo che la legittimità del provvedimento è il risultato non solo del corretto uso del potere da parte dell’amministrazione procedente, ma anche del contributo degli interessati all’esercizio della funzione amministrativa. Dunque la partecipazione al procedimento non ha solo lo scopo di garantire gli interessati nei riguardi dell’azione del pubblico potere, bensì quello di consentire a costoro di contribuire alla formazione della decisione amministrativa, come plasticamente dimostra, ad esempio, la tipizzazione degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento. In tal senso il procedimento è stato efficacemente definito dalla dottrina come la forma della funzione amministrativa.
Ritiene allora il Collegio che il principio della partecipazione al procedimento e gli istituti che ad esso si ispirano, come la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza -da ritenersi applicabile anche nei procedimenti attraverso i quali vengono esercitati poteri vincolati (come nel caso in esame)- debbano essere intesi nell’accezione più ampia possibile.
In particolare deve ritenersi che nei procedimenti ad istanza di parte (come quello per cui è causa) l’interessato attraverso il preavviso di rigetto viene posto in condizione di incidere sul concreto esercizio del potere non solo esercitando il diritto di presentare osservazioni scritte, che l’Amministrazione è tenuta a prendere in considerazione, con conseguente obbligo di specificare, nella motivazione del provvedimento finale, le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni stesse (come espressamente previsto dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e dall’art. 27-bis della legge provinciale n. 23 del 1992), ma anche esercitando il diritto di superare i motivi ostativi comunicati con il preavviso di rigetto attraverso la conformazione della situazione di fatto ai parametri normativi in base ai quali l’istanza deve essere esaminata.
Ciò è quanto è avvenuto nel caso in esame, nel quale la controinteressata, a fronte dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria, comunicati dal Comune con la con nota prot. n. 5044 del 07.08.2019, ha posto in essere un intervento di demolizione parziale volto a ridurre l’estensione del solaio realizzato in forza del permesso annullato, sì da rendere il manufatto divenuto abusivo suscettibile di sanatoria.
10. Inoltre la tesi della società ricorrente si pone in palese contrasto con il principio di economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce espressione l’orientamento giurisprudenziale -invocato dalla controinteressata- in base al quale il permesso di costruire in sanatoria può eccezionalmente essere rilasciato con prescrizioni.
Da tempo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1031) ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683), ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr. ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176)» (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683, cit.).
Coglie allora nel segno la controinteressata quando afferma che, se può ammettersi la possibilità che il permesso di costruire in sanatoria contenga «limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente» -e tale sarebbe stata l’eventuale prescrizione con la quale il Comune avrebbe potuto imporre alla controinteressata di ridurre la superficie del solaio, che non era sanabile in quanto eccedeva il parametro urbanistico, seppure in misura inferiore al 2% (sul punto non vi è contestazione)- a maggior ragione deve ammettersi che la controinteressata medesima ben potesse (come in effetti è avvenuto), in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione della domanda di sanatoria, apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
Del resto, anche a voler seguire la tesi della ricorrente, non può certo escludersi che -se il Comune, nonostante la riduzione della superficie del solaio, avesse respinto la domanda di sanatoria, confermando i motivi ostativi all’accoglimento della stessa già rappresentati con il preavviso di rigetto- la controinteressata avrebbe potuto presentare una nuova domanda di sanatoria, con il conseguente avvio di un nuovo procedimento amministrativo destinato a concludersi con il rilascio del provvedimento richiesto, ma con un evidente, inutile aggravio dell’azione amministrativa.
11. Resta a questo punto soltanto da spiegare perché il legislatore nel testo delle disposizioni che prevedono e disciplinano l’accertamento di conformità -ivi compresa quella dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008- abbia fatto espresso riferimento “al momento della presentazione della domanda”.
A tal fine giova rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 04.02.2021, n. 1045), in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
Invece il legislatore provinciale, prevedendo nell’art. 135, comma 7, che è possibile “rilasciare la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata abusivamente”, ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, nel senso che la disciplina urbanistica da prendere in considerazione per verificare la sanabilità dell’abuso è costituita solo dalle previsioni in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria e dalle previsioni contenute all’interno di un nuovo strumento urbanistico (o di uno strumento in variante) solo adottato, le quali, come noto, determinano l’operatività delle c.d. misure di salvaguardia (cfr. l’art. 47 della legge provinciale n. 15 del 2015).
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria; dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer la sanatoria a regime di abusi edilizi, la legge statale richiede la doppia conformità come si evince dal chiaro disposto dell’art. 36 t.u. n. 380/2001.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale evocata da parte ricorrente, secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alle norme urbanistico-edilizie al momento dell’istanza di condono, non trova fondamento nelle norme positive.

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8. E’ infondato il primo motivo di appello.
Per la sanatoria a regime di abusi edilizi, la legge statale richiede la doppia conformità come si evince dal chiaro disposto dell’art. 36 t.u. n. 380/2001 (Con. St., IV n. 2063/2017; Id., VI, nn. 2123/2015 e 3194/2016).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale evocata da parte ricorrente, secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alle norme urbanistico-edilizie al momento dell’istanza di condono, non trova fondamento nelle norme positive.
Proprio la l.r. siciliana n. 16/2016, che aveva tradotto in norma positiva la c.d. sanatoria giurisprudenziale (art. 14), è stata in parte qua dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 232/2017), per cui deve ritenersi inapplicabile l’istituto invocato dall’appellante della sanatoria giurisprudenziale, e opera invece il principio della doppia conformità sancito dalla legge e ribadito dalla Corte costituzionale (CGARS, sentenza 15.04.2021 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità ex artt. 36 D.P.R. n. 380/2001 postula –come è noto- la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cosiddetta “doppia conformità”).
Benché non siano mancate, in passato, pronunce che hanno adottato un criterio interpretativo più largo, la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato è giunta a ritenere che “l'istituto pretorio della sanatoria giurisprudenziale [che, ai fini della sanatoria, postula la sola conformità delle opere alla disciplina vigente al momento della richiesta, n.d.r.] è da considerarsi oramai superato, in quanto privo di base nell'ordinamento positivo e non rispettoso dei principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, i quali, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono certo essere creati dal giudice".
In coerenza rispetto ad una rigorosa interpretazione -letterale e sistematica- della normativa sulla sanatoria per doppia conformità, la giurisprudenza amministrativa ha anche affermato che l'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 non prevede sanatorie parziali o condizionate: e ciò, in quanto il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l'efficacia dell'accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa, poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell'opera, dimostrando che tale conformità non sussiste, se non attraverso l'esecuzione di modifiche ulteriori e postume rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria.
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Il ricorso è infondato.
L’accertamento di conformità ex artt. 36 D.P.R. n. 380/2001 e 49 L.R. n. 16/2008 postula –come è noto- la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cosiddetta “doppia conformità”).
Benché non siano mancate, in passato, pronunce che hanno adottato un criterio interpretativo più largo, la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato è giunta a ritenere che “l'istituto pretorio della sanatoria giurisprudenziale [che, ai fini della sanatoria, postula la sola conformità delle opere alla disciplina vigente al momento della richiesta, n.d.r.] è da considerarsi oramai superato, in quanto privo di base nell'ordinamento positivo e non rispettoso dei principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, i quali, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono certo essere creati dal giudice” (così, da ultimo, Cons. di St., VI, 04.01.2021, n. 43; nello stesso senso cfr. id., II, 25.05.2020, n. 3314; id., 21.03.2019, n. 1874).
In coerenza rispetto ad una rigorosa interpretazione -letterale e sistematica- della normativa sulla sanatoria per doppia conformità, la giurisprudenza amministrativa ha anche affermato che l'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 non prevede sanatorie parziali o condizionate: e ciò, in quanto il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l'efficacia dell'accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa, poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell'opera, dimostrando che tale conformità non sussiste, se non attraverso l'esecuzione di modifiche ulteriori e postume rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria (così, da ultimo, Cons. di St., VI, 13.01.2021, n. 423; nello stesso senso cfr. TAR Campania; II, 16.10.2020, n. 4537).
Nel caso di specie, è pacifico e non contestato che le opere oggetto della domanda di sanatoria 18.06.2010 ai sensi dell’art. 49 della L.R. n. 16/2008 siano state realizzate in difformità dal permesso di costruire n. 93/2006, e che la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda sia conseguibile soltanto condizionatamente all’esecuzione di ulteriori modifiche.
Donde la legittimità del diniego di sanatoria, difettando il requisito della doppia conformità (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.04.2021 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2021

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria".
Infatti, "solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico".
La c.d. "doppia conformità" costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. "sanatoria giurisprudenziale" -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a "un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione".
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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Con il primo motivo viene contestata la ragione di diniego legata al ricadere dei manufatti oggetto dell’istanza in classe IIIa1 “settori inedificati a media pericolosità geologica”, per la quale le NTA vietano la realizzazione di nuove costruzioni ed insediamenti.
La ricorrente ha invocato la sanatoria giurisprudenziale: a suo avviso, il Comune avrebbe dovuto recepire gli esiti della relazione geologica presentata dall’istante o, al più sospendere l’attività di repressione dell’abuso edilizio e l’istruttoria sull’istanza, in attesa della riclassificazione dell’area in classe II, chiesta unitamente alla domanda di sanatoria.
La censura è infondata.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione aderisce pienamente, "è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria" (Consiglio di Stato, sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Id., sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Id., sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Id., sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Id., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; Tar Piemonte, sent. n. 851/2019).
Infatti, "solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico" (Consiglio di Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. "doppia conformità" costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. "sanatoria giurisprudenziale" -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a "un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione" (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.05.2018, n. 1298; Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
Nel caso di specie, a fronte del contrasto tra le opere realizzate e le previsioni dettate dalle NTA -riconosciuto dalla stessa sig. Domina, la quale ha presentato di un’istanza di modifica dello strumento urbanistico- il Comune non era tenuto a esprimere alcuna valutazione sulla relazione geologica presentata dall’istante è né a sospendere l’attività di repressione dell’abuso, essendo, al contrario, vincolato ad adottare il provvedimento di diniego.
Il motivo secondo cui il divieto previsto dalle NTA non troverebbe applicazione essendo limitato alle nuove costruzioni, mentre entrambe le opere per cui è causa -avendo natura accessoria all'attività agricola, non esprimendo volume, o comunque un volume limitato rispetto a quello espresso dall'agriturismo della signora Do.- non costituirebbero nuove costruzioni è inammissibile: si tratta, invero, di una censura nuova, introdotta tardivamente con memoria non notificata.
Stante la legittimità della ragione di diniego legata al ricadere dei manufatti oggetto dell’istanza in classe IIIa1 “settori inedificati a media pericolosità geologica”, viene meno l’interesse all’esame del secondo motivo di ricorso, con cui viene contestata la seconda ragione addotta dal Comune a sostegno del diniego, relativa al mancato rispetto della distanza di 20 mt. dalla Strada Trinità: anche ove fondato non porterebbe, difatti, all’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.03.2021 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome è noto, il permesso in sanatoria, previsto dall'art. 36 del D.P.R. 380/2001, può essere concesso solo nel caso in cui l'intervento realizzato abusivamente risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, che alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità è conditio sine qua non della sanatoria, e l'Amministrazione è dunque tenuta ad accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento edilizio, sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla legge, dovendo condurre, a tal fine, una valutazione rigidamente ancorata alle prescrizioni normative fissate dalla strumentazione urbanistica applicabile.
Il provvedimento con il quale viene scrutinata un’istanza di sanatoria, possiede quindi un carattere oggettivo e vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti discrezionali.
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Proprio in ragione della ripetuta natura vincolata della verifica circa la conformità della richiesta di sanatoria alla normativa urbanistica ed edilizia vigente, il provvedimento in questione non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della istanza alle ripetute prescrizioni urbanistiche ed edilizie vigenti al momento dell'esame della domanda e al momento di realizzazione delle opere.
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L
'accertamento dell'illecito penale, anche se distinto da quello amministrativo, in pendenza dell'ordine di demolizione scaturente dal giudicato penale, è da solo ostativo al rilascio della sanatoria.
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Appare in sintesi (e per quanto in questa sede di interesse) definitivamente accertato che parte ricorrente abbia realizzato opere in totale difformità rispetto ai titoli edilizi assentiti; che la cubatura realizzabile era di 1970,54 metri cubi, mentre il provvedimento di condono poi annullato ha riguardato un manufatto avente la volumetria di 3324,35 metri cubi, con la conseguente violazione della regola (di cui al comma 25 dell'art. 32, del D.L. 30.09.2003 n. 269, convertito in l. n. 326 del 2003), per cui non è ammissibile la sanatoria se vi è un eccesso di oltre 750 metri cubi di volumetria; che le risultanze della CTU disposta dalla Sezione con l’ordinanza n. 235/2014 sono irrilevanti.
10.1. Con riferimento all’istanza di sanatoria respinta dal Comune di Brancaleone con il provvedimento impugnato va poi ulteriormente evidenziato che, come è noto (in termini, da ultimo, Consiglio di Stato sez. IV 07/09/2018 n. 5274), il permesso in sanatoria, previsto dall'art. 36 del D.P.R. 380/2001, può essere concesso solo nel caso in cui l'intervento realizzato abusivamente risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, che alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità è conditio sine qua non della sanatoria, e l'Amministrazione è dunque tenuta ad accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento edilizio, sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla legge, dovendo condurre, a tal fine, una valutazione rigidamente ancorata alle prescrizioni normative fissate dalla strumentazione urbanistica applicabile.
Il provvedimento con il quale viene scrutinata un’istanza di sanatoria, possiede quindi un carattere oggettivo e vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti discrezionali.
Tanto premesso, proprio in ragione della ripetuta natura vincolata della verifica circa la conformità della richiesta di sanatoria alla normativa urbanistica ed edilizia vigente, il provvedimento in questione non necessita di altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza della istanza alle ripetute prescrizioni urbanistiche ed edilizie vigenti al momento dell'esame della domanda e al momento di realizzazione delle opere (in termini, da ultimo, Cons. Stato Sez. II, 06.03.2020 n. 1643 e 13.06.2019, n. 3972).
10.2. Alla luce delle esposte considerazioni appare evidente che il provvedimento di sanatoria a cui parte ricorrente aspira non potrebbe comunque essere assentito in ragione delle descritte circostanze, coperte dal giudicato penale e da quello amministrativo, che escludono il prescritto requisito della doppia conformità, dovendo escludersi la possibilità che gli effetti da essa derivanti possano essere attribuiti alla cd. “sanatoria giurisprudenziale" o “impropria”, che consiste nel riconoscimento della legittimità di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
A ciò va aggiunto che secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, alle cui conclusioni nel caso di specie il Collegio reputa di dover aderire, in tema di abusi edilizi, l'accertamento dell'illecito penale, anche se distinto da quello amministrativo, in pendenza dell'ordine di demolizione scaturente dal giudicato penale, è da solo ostativo al rilascio della sanatoria (in termini, Consiglio di Stato sez. VI - 20/06/2019, n. 4205) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 03.03.2021 n. 164 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, con conseguente inaccoglibilità dell'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla medesima giurisprudenza.
Tale approdo, che richiede la verifica della cd. “doppia conformità”, deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
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Nel merito, il ricorso è infondato e va respinto.
Il Collegio osserva che la determinazione negativa assunta dal Comune di Napoli, con il provvedimento impugnato sub 1) dell’epigrafe, è coerente con i presupposti e l’ambito applicativo dell’istituto dell’accertamento di conformità, ora disciplinato dall’art. 36 del T.U. edilizia (d.p.r. n. 380/2001), da tempo fissati dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. ex plurimis, da ultimo, Consiglio di Stato sez. VI, 04/01/2021, n. 43), secondo cui l'art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, con conseguente inaccoglibilità dell'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla medesima giurisprudenza.
Tale approdo, che richiede la verifica della cd. “doppia conformità”, deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.03.2021 n. 1384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’annullamento in autotutela di autorizzazione sismica.
Occorre muovere dall’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 che, riprendendo l’art. 18 della Legge n. 64 del 1974, stabilisce che “1. Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico della regione”.
Sul punto è stato chiarito che l’intento unificatore del citato art. 94 è “palesemente orientato ad eseguire una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile”, materia in cui peraltro, come per il governo del territorio, compete sempre allo Stato la determinazione dei principi fondamentali.
In questa ottica l’art. 94, che esprime il fondamentale principio della preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale per l’inizio dei lavori nelle località dichiarate sismiche, è stato così ritenuto espressione di un “principio fondamentale in materia di governo del territorio e protezione civile”.
La giurisprudenza maggioritaria è consolidata nel ritenere, alla stregua del citato art. 94, che l’autorizzazione sismica, sebbene non costituisca presupposto per il rilascio del permesso di costruire (o per la presentazione della SCIA), è pur sempre condizione di efficacia dello stesso e, quindi, è necessaria per l’inizio dei lavori; la Sezione ha anche rimarcato come la stessa incompletezza dell'autorizzazione sismica in sanatoria sia un profilo rilevante ai fini del rigetto dell'istanza.
Comunque una esplicita previsione a livello di legislazione statale della sua possibilità di rilascio in sanatoria sarebbe stata necessaria, analogamente a quanto, del resto, è previsto in materia edilizia in generale dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit., ovvero dalla legislazione condonistica speciale.
Peraltro va considerato che anche disposizioni in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, come l’art. 96 del d.P.R. n. 380 cit. secondo cui
   “1. I funzionari, gli ufficiali ed agenti indicati all’articolo 103, appena accertato un fatto costituente violazione delle presenti norme, compilano processo verbale trasmettendolo immediatamente al competente ufficio tecnico della regione. 2. Il dirigente dell’ufficio tecnico regionale, previ, occorrendo, ulteriori accertamenti di carattere tecnico, trasmette il processo verbale all’autorità giudiziaria competente con le sue deduzioni”,
sono norme relative all’accertamento in sede penale delle violazioni sismiche, che in alcun modo possono essere interpretate come volte a consentire il rilascio di un’autorizzazione postuma rispetto a interventi già posti in essere.
Egualmente è a dirsi per i successivi artt. 98, 99 e 100, che consentono:
   a) al giudice penale di impartire con il decreto o la sentenza di condanna le “prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme […], fissando il relativo termine” che, in caso di irrevocabilità della sentenza o di esecutività del decreto, possono essere eseguite dal competente ufficio tecnico regionale, “se del caso con l’assistenza della forza pubblica, a spese del condannato”;
   b) alla Regione, qualora il reato sia estinto per qualsiasi causa, di ordinare con provvedimento definitivo, adottato sentito l’organo tecnico consultivo della Regione, “l’esecuzione di modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse”. È di ogni evidenza che le disposizioni da ultimo citate, quali applicabili ratione temporis, non danno in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita.
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3.1 Il presente giudizio ha ad oggetto l’annullamento in autotutela di autorizzazione sismica in ragione di interventi edilizi già esaminati da questo Tribunale (III, 17.04.2015, n. 2197) con sentenza appellata al Consiglio di Stato, sezione VI, con giudizio Rg. n. 9256/15 mai fissato. Conseguentemente non è meritevole di accoglimento la richiesta formulata dal controinteressato di riunione con detto separato giudizio, per come ormai definito.
3.2 In via preliminare occorre muovere dall’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 che, riprendendo l’art. 18 della Legge n. 64 del 1974, stabilisce che “1. Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico della regione”.
Sul punto è stato chiarito che l’intento unificatore del citato art. 94 è “palesemente orientato ad eseguire una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile”, materia in cui peraltro, come per il governo del territorio, compete sempre allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (Corte cost., 20.07.2012, n. 201; 05.05.2006, n. 182).
In questa ottica l’art. 94, che esprime il fondamentale principio della preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale per l’inizio dei lavori nelle località dichiarate sismiche, è stato così ritenuto espressione di un “principio fondamentale in materia di governo del territorio e protezione civile” (Corte cost., 12.04.2013, n. 64; 05.11.2010, n. 312).
La giurisprudenza maggioritaria è consolidata nel ritenere, alla stregua del citato art. 94, che l’autorizzazione sismica, sebbene non costituisca presupposto per il rilascio del permesso di costruire (o per la presentazione della SCIA), è pur sempre condizione di efficacia dello stesso e, quindi, è necessaria per l’inizio dei lavori (questa Sezione, 30.10.2020, n. 4949; 07.05.2013, n. 2356; TAR Lazio, Latina, 07.02.2018, n. 243; Cass. Pen., III, 09.07.2008, n. 38405); la Sezione (01.06.2020, n. 2104) ha anche rimarcato come la stessa incompletezza dell'autorizzazione sismica in sanatoria sia un profilo rilevante ai fini del rigetto dell'istanza. Comunque una esplicita previsione a livello di legislazione statale della sua possibilità di rilascio in sanatoria sarebbe stata necessaria, analogamente a quanto, del resto, è previsto in materia edilizia in generale dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit., ovvero dalla legislazione condonistica speciale.
3.3 Peraltro va considerato che anche disposizioni in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, come l’art. 96 del d.P.R. n. 380 cit. secondo cui “1. I funzionari, gli ufficiali ed agenti indicati all’articolo 103, appena accertato un fatto costituente violazione delle presenti norme, compilano processo verbale trasmettendolo immediatamente al competente ufficio tecnico della regione. 2. Il dirigente dell’ufficio tecnico regionale, previ, occorrendo, ulteriori accertamenti di carattere tecnico, trasmette il processo verbale all’autorità giudiziaria competente con le sue deduzioni”, sono norme relative all’accertamento in sede penale delle violazioni sismiche, che in alcun modo possono essere interpretate come volte a consentire il rilascio di un’autorizzazione postuma rispetto a interventi già posti in essere.
Egualmente è a dirsi per i successivi artt. 98, 99 e 100, che consentono:
   a) al giudice penale di impartire con il decreto o la sentenza di condanna le “prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme […], fissando il relativo termine” che, in caso di irrevocabilità della sentenza o di esecutività del decreto, possono essere eseguite dal competente ufficio tecnico regionale, “se del caso con l’assistenza della forza pubblica, a spese del condannato”;
   b) alla Regione, qualora il reato sia estinto per qualsiasi causa, di ordinare con provvedimento definitivo, adottato sentito l’organo tecnico consultivo della Regione, “l’esecuzione di modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse”.
È di ogni evidenza che le disposizioni da ultimo citate, quali applicabili ratione temporis, non danno in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.03.2021 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non esiste nell'ordinamento il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria su istanza del privato per opere edili già eseguite ed assoggettate a controllo preventivo.
Non è invocabile l’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit., dal momento che l’applicazione dell’istituto dell’accertamento di conformità non può che essere armonizzata con i successivi artt. 96, 98, 99 e 100, che delineano le uniche modalità attraverso le quali la legge rende possibile pervenire all’effetto utile di conservare un manufatto realizzato ab origine in carenza di autorizzazione sismica.
Mancando una puntuale disciplina positiva dell’autorizzazione sismica in sanatoria, va evitato il rischio di introdurre in una materia così delicata per l’incolumità delle persone –peraltro neppure pienamente disponibile da parte del legislatore regionale– una sorta di sanatoria giurisprudenziale fondata sull’accertamento postumo della conformità dell’opera comunque edificata alle norme tecniche per la costruzione in zone sismiche al momento della richiesta.
Una simile sanatoria evocherebbe l’omologo controverso istituto riconosciuto privo di valore qualificante in molte pronunce del giudice amministrativo ed espressamente escluso dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit.
In definitiva, può ritenersi che nel sistema introdotto dagli artt. 94 ss. del d.P.R. n. 380, si ribadisce come applicabile ratione temporis, non sia stato previsto il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria su istanza del privato per opere edili già eseguite ed assoggettate a controllo preventivo, a nulla rilevando che il fatto sia accertato dagli uffici amministrativi o dagli organi di polizia giudiziaria, ovvero che sia portato a conoscenza dell’ufficio tecnico regionale per effetto di una auto-denuncia di chi ne sia stato l’autore.
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4.2 Peraltro non sarebbe in ipotesi neanche invocabile l’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit., dal momento che l’applicazione dell’istituto dell’accertamento di conformità non può che essere armonizzata con i successivi artt. 96, 98, 99 e 100, che delineano le uniche modalità attraverso le quali la legge rende possibile pervenire all’effetto utile di conservare un manufatto realizzato ab origine in carenza di autorizzazione sismica.
Mancando una puntuale disciplina positiva dell’autorizzazione sismica in sanatoria, va evitato il rischio di introdurre in una materia così delicata per l’incolumità delle persone –peraltro neppure pienamente disponibile da parte del legislatore regionale– una sorta di sanatoria giurisprudenziale fondata sull’accertamento postumo della conformità dell’opera comunque edificata alle norme tecniche per la costruzione in zone sismiche al momento della richiesta.
Una simile sanatoria evocherebbe l’omologo controverso istituto riconosciuto privo di valore qualificante in molte pronunce del giudice amministrativo (cfr. TAR Lazio, Latina, 13.10.2020, n. 376; Cons. Stato, VI, 18.01.2019, n. 470; VI, 04.06.2018, n. 3363; VI, 18.07.2016, n. 3194; VI, 18.09.2015, n. 4359; V, 17.09.2012, n. 4914; IV, 26.03.2010, n. 1763; VI, 07.05.2009, n. 2835; IV, 26.04.2006, n. 2306) ed espressamente escluso dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 cit.
In definitiva, può ritenersi che nel sistema introdotto dagli artt. 94 ss. del d.P.R. n. 380, si ribadisce come applicabile ratione temporis, non sia stato previsto il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria su istanza del privato per opere edili già eseguite ed assoggettate a controllo preventivo, a nulla rilevando che il fatto sia accertato dagli uffici amministrativi o dagli organi di polizia giudiziaria, ovvero che sia portato a conoscenza dell’ufficio tecnico regionale per effetto di una auto-denuncia di chi ne sia stato l’autore (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.03.2021 n. 1347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Si legga, al riguardo, anche:
  
● M. Grisanti, Non esiste l’autorizzazione sismica a sanatoria. Alias: Dopo la semina c’è il raccolto (commento a TAR Campania-Napoli, 01.03.2021 n. 1347) (11.03.2021 - link a https://lexambiente.it).

febbraio 2021

EDILIZIA PRIVATAL’istituto giurisprudenziale della sanatoria impropria è stato definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, sia amministrativa, sia della Corte Costituzionale.
Invero, è stato affermato che le sopravvenienze positive non consentono di sanare gli abusi pregressi, condonabili nel lasso temporale previsto dalla Legge 326/2003. Diversamente opinando, si incentiverebbe l’abusivismo e si premierebbe la condotta del soggetto che ha trasgredito le norme.
Le sopravvenienze, anche positive, minerebbero la certezza e la sicurezza dei rapporti giuridici, oltre che il buon andamento della Pubblica Amministrazione.

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La ricorrente invoca, infine l’istituto della sanatoria giurisprudenziale, ritenendo che la costruzione abusiva (garage) possa essere oggetto della sanatoria di natura pretoria, in quanto il manufatto, contrastante con il Piano Regolatore Generale esistente all’epoca dell’illecito, sarebbe tuttavia conforme al P.R.G. ora vigente.
Anche tale motivo di doglianza è infondato.
L’istituto giurisprudenziale della sanatoria impropria è stato definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, sia amministrativa, sia della Corte Costituzionale (C.d.S. sez. VI, 09/09/2019, n. 6107; C.d.S., sez. VI, 07.09.2018, n. 5274; C.d.S., sez. VI, 05.03.2018, n. 1389; Corte Cost. n. 101/2013).
Invero, è stato affermato che le sopravvenienze positive non consentono di sanare gli abusi pregressi, condonabili nel lasso temporale previsto dalla Legge 326/2003. Diversamente opinando, si incentiverebbe l’abusivismo e si premierebbe la condotta del soggetto che ha trasgredito le norme. Le sopravvenienze, anche positive, minerebbero la certezza e la sicurezza dei rapporti giuridici, oltre che il buon andamento della Pubblica Amministrazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 23.02.2021 n. 252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale nega cittadinanza all'istituto della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” rilevando che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
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L’appellato chiede in via subordinata il rigetto dell’appello in applicazione dell’istituto della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”.
Sennonché, un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui il Collegio non intende discostarsi, nega cittadinanza al detto istituto rilevando che il requisito della doppia conformità, deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità (Cons. Stato, Sez. VI, 04/01/2021, n. 43; 09/09/2019, n. 6107; 11/09/2018, n. 5319; 18/07/2016, n. 3194; 05/06/2015 n. 2784; Sez. II, 25/05/2020, n. 3314; Sez. IV, 26/04/2006, n. 2306)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.02.2021 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento di conformità, a differenza del condono dal quale si diversifica per presupposti e procedura, richiede il requisito della c.d. “doppia conformità”, ovvero la rispondenza dell’opera alle regole urbanistiche vigenti sia al momento di realizzazione dell’intervento che a quello di presentazione della relativa istanza. Essa costituisce condicio sine qua non della sanatoria, ed investe entrambi i ricordati segmenti temporali.
Le invocate esigenze di economia procedimentale, tali da imporre una valutazione di tipo sostanzialistico di -futura, ma imminente- conformità urbanistica dell’opera, sono già state escluse con riferimento all’istituto, affine sotto il profilo finalistico, della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”.
Secondo l’ormai consolidato orientamento di questo Consiglio Stato, infatti, essa non trova fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha, dunque, affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.

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11. Quanto alla asserita illegittimità del rigetto della istanza di sanatoria ordinaria ovvero di concessione “postuma”, la prospettazione della parte è egualmente infondata.
Il Collegio ritiene innanzi tutto opportuno evidenziare la peculiarità -a tacere della intrinseca contraddittorietà- della richiesta avanzata dall’appellante al Comune di Villanova nelle more della definizione del giudizio di primo grado: a fronte, infatti, dell’avvenuta revoca del condono, seppure ancora sub iudice, si cerca di recuperare gli effetti del titolo edilizio ritirato “commutandolo” in altra tipologia di sanatoria, ovvero, addirittura, in una non meglio qualificata concessione postuma (che proprio in quanto tale, peraltro, non può che costituire essa stessa una sanatoria). In sintesi, da un lato si rivendica la legittimità del titolo edilizio originario; dall’altro si motiva la richiesta di quello alternativo con l’avvenuto annullamento dello stesso, proponendone una sorta di “variante”, quasi a mo’ di impropria convalida.
Ora, seppure astrattamente, non essendo ancora spirati i termini del procedimento sanzionatorio, mai portato ad esecuzione, la parte ben poteva aspirare ad una “sanatoria ordinaria”, è evidente la mancanza dei presupposti normativi per potere accedere alla stessa. L’accertamento di conformità, infatti, a differenza del condono, dal quale si diversifica per presupposti e procedura, richiede il requisito della c.d. “doppia conformità”, ovvero la rispondenza dell’opera alle regole urbanistiche vigenti sia al momento di realizzazione dell’intervento che a quello di presentazione della relativa istanza. Essa costituisce condicio sine qua non della sanatoria, ed investe entrambi i ricordati segmenti temporali.
Le invocate esigenze di economia procedimentale, tali da imporre una valutazione di tipo sostanzialistico di -futura, ma imminente- conformità urbanistica dell’opera, sono già state escluse con riferimento all’istituto, affine sotto il profilo finalistico, della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”.
Secondo l’ormai consolidato orientamento di questo Consiglio Stato, infatti (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087), essa non trova fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione di quello di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
Anche la Corte Costituzionale, peraltro, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” (Corte Cost., 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Il giudice delle leggi ha dunque affermato che il rigore insito in tale principio trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione ovvero con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità (cfr. Cons. Stato, sez. II, 18.02.2020, n. 1240)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.02.2021 n. 1403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2021

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a precludere l'irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'art. 31, comma 9, del medesimo d.P.R. e a determinare, se eventualmente emanata successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, la revoca di detto ordine, può essere solo quella rispondente alle condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del decreto stesso citato, che richiede la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria, dovendo escludersi la possibilità che tali effetti possano essere attribuiti alla cd. "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", che consiste nel riconoscimento della legittimità di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
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7. Il secondo motivo è inammissibile.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto non idonea la documentazione prodotta, sul presupposto che non risultano oggetto di sanatoria le opere di cui al primo e al secondo livello, e, in ogni caso, la configurabilità dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, rende irrilevante la sanatoria.
La Corte ha fatto perciò corretta applicazione del principio, che il Collegio intende ribadire, secondo cui, in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a precludere l'irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'art. 31, comma 9, del medesimo d.P.R. e a determinare, se
eventualmente emanata successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, la revoca di detto ordine, può essere solo quella rispondente alle condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del decreto stesso citato, che richiede la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria, dovendo escludersi la possibilità che tali effetti possano essere attribuiti alla cd. "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", che consiste nel riconoscimento della legittimità di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (da ultimo, cfr. Sez. 3, n. 45845 del 19/09/2019, dep. 12/11/2019, Caprio, Rv. 277265) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2021 n. 1732).

EDILIZIA PRIVATASi osserva che la sanatoria cd. “giurisprudenziale”, ossia volta a considerare la sanabilità rispetto alla sola normativa sussistente al momento della domanda di sanatoria, non è ammissibile, stante il frontale contrasto con il principio di legalità.
La sanatoria di un abuso edilizio è infatti ammissibile solo al ricorrere della cd. doppia conformità, ossia la conformità dell’opera sia con riguardo alla normativa sussistente al momento della realizzazione che a quella vigente al momento di presentazione dell’istanza.
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5. Con il motivo di ricorso sub 3.2, la ricorrente invoca la possibilità di applicazione del meccanismo cd. della “sanatoria giurisprudenziale”, per il tramite dell’art. 3 lr. Campania n. 15/2000 e s.m.i., in tema di recupero dei sottotetti esistenti, con contestuale mutamento di destinazione d’uso, da stenditoio ad abitazione, posto che i lavori per la realizzazione del sottotetto sarebbero stati realizzati nel 1999 e, solo dopo l’entrata in vigore della Legge sul Piano casa, il sottotetto sarebbe stato trasformato in locale con destinazione abitativa. La ricorrente sottolinea la modesta difformità dell’altezza media (mt. 2,20 contro quella assentita di mt. 2,00), nonché la circostanza per cui l’immobile è collocato, dal punto di vista urbanistico, in contesto centrale urbanizzato, privo di vincoli.
Anche doglianza non può essere accolta, a ciò ostando molteplici ragioni:
   - in primo luogo, si osserva che la sanatoria cd. “giurisprudenziale”, ossia volta a considerare la sanabilità rispetto alla sola normativa sussistente al momento della domanda di sanatoria, non è ammissibile, stante il frontale contrasto con il principio di legalità (v., in tal senso, tar Napoli, 01.06.2020, n. 2104). La sanatoria di un abuso edilizio è infatti ammissibile solo al ricorrere della cd. doppia conformità, ossia la conformità dell’opera sia con riguardo alla normativa sussistente al momento della realizzazione che a quella vigente al momento di presentazione dell’istanza;
   - in secondo luogo, come risulta anche dalla nota prot. n. 24216 dell’11.10.2017, versata in atti dal Comune in data 24.10.2017, non risulta depositata, da parte della ricorrente, alcuna istanza di sanatoria, né ai sensi del D.p.r. n. 380/2001, e tanto meno secondo le previsioni della l.r. Campania n. 15/2000 e s.m.i..
Esula pertanto dalla cognizione della presente controversia il tema della sanabilità delle opere, né la valutazione circa la possibilità di conseguire, eventualmente, la sanatoria potrebbe inficiare la legittimità dell’ingiunzione demolitoria, la quale costituisce, come detto, l’ordinario rimedio repressivo a fronte di abusi comportanti difformità dal permesso di costruire (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 07.01.2021 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001, «pur dopo la scadenza del termine procedimentale, e anche in casi di c.d. silenzio-rigetto, l'amministrazione non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio-rigetto esplicitamente previsto solo per consentire all'interessato di adire il giudice; in particolare, la ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U. dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce all'amministrazione di pronunciarsi tardivamente».
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Non è ravvisabile la denunciata violazione delle garanzie di contraddittorio procedimentale laddove risulti in atti che l'istante  ha adeguatamente interloquito col Comune mediante apposite controdeduzioni e che l’amministrazione stessa, dopo averle nominativamente richiamate, ha puntualmente replicato a queste ultime.
Di talché, le garanzie partecipative e gli obblighi motivazionali ex artt. 3 e 10-bis della l. n. 241/1990 non avrebbero potuto, infatti, tradursi –a discapito dei principi procedimentali di efficacia e celerità– in un interminabile confronto dialettico con l’interessata e in un’analitica confutazione degli elementi da quest’ultima forniti nelle cennate controdeduzioni, essendo sufficienti, per la loro osservanza, il compiuto apprezzamento e la perspicua esplicazione dei presupposti fattuali e delle ragioni giuridiche che, in positivo, ossia in logica e insuperata antitesi alle ridette controdeduzioni, hanno giustificato la preannunciata determinazione sfavorevole.

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L'’operatività della c.d. sanatoria giurisprudenziale è ripudiata dall’ormai granitico indirizzo pretorio in subiecta materia, siccome ritenuta normativamente superata, nonché confliggente con i generali principi di legalità, di imparzialità, di buon andamento ed efficacia, di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa.
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4. Previamente allo scrutinio di tale gravame, il Collegio rammenta –a ripudio dell’assunto attoreo secondo cui illegittimamente l’amministrazione comunale intimata avrebbe comunicato i motivi ostativi all’accoglimento all’istanza di accertamento di conformità prot. n. 1091 del 05.12.2017, dopo che su quest’ultima si sarebbe già formato il silenzio-rigetto (cfr. retro, in narrativa, sub n. 9.a)– che –come già osservato dalla Sezione nell’ord. coll. n. 877/2019– «pur dopo la scadenza del termine procedimentale, e anche in casi di c.d. silenzio-rigetto, l'amministrazione non perde il potere di provvedere, essendo il silenzio-rigetto esplicitamente previsto solo per consentire all'interessato di adire il giudice; in particolare, la ricostruzione del silenzio, di cui all'art. 36 T.U. dell'edilizia, in termini di silenzio-rifiuto non impedisce all'amministrazione di pronunciarsi tardivamente» (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 11.07.2013, n. 2059).
5. Con riferimento, poi, alla contestazione di violazione dei principi di leale collaborazione e di partecipazione procedimentale, il Comune di San Valentino Torio non avendo asseritamente fornito alcuna effettiva esplicazione in merito al divisato avviso sfavorevole alla richiesta sanatoria, senza tenere in debito conto le deduzioni formulate al riguardo dall’interessata (cfr. retro, in narrativa, sub n. 12), deve obiettarsi che la Sezione, con l’ord. coll. n. 877/2019, ha richiesto all’ente locale intimato la formulazione di «circostanziati chiarimenti in merito» non già ai contenuti –ex se sufficientemente dettagliati– del preavviso di rigetto prot. n. 2249 del 07.03.2018, bensì soltanto «alla conclusione del procedimento amministrativo di cui al preavviso di rigetto prot. n. 2249 del 07.03.2018», ossia in merito agli eventuali sviluppi provvedimentali a quest’ultimo susseguiti e, in effetti, concretizzatisi, nell’adozione del provvedimento del 26.06.2019, prot. n. 1091, senza, quindi, onerare l’amministrazione di ulteriori attività informativo-istruttorie.
Tanto chiarito, non è ravvisabile, nella specie, la denunciata violazione delle garanzie di contraddittorio procedimentale.
Fermo restando che la C., resa destinataria del preavviso di rigetto prot. n. 2249 del 07.03.2018, ha adeguatamente interloquito mediante apposite controdeduzioni in data 20.03.2018, prot. n. 2699 (nominativamente richiamate nel provvedimento del 26.06.2019, prot. n. 1091) e che l’amministrazione comunale, dopo averle nominativamente richiamate, ha puntualmente replicato a queste ultime, le garanzie partecipative e gli obblighi motivazionali ex artt. 3 e 10-bis della l. n. 241/1990, non avrebbero potuto, infatti, tradursi –a discapito dei principi procedimentali di efficacia e celerità– in un interminabile confronto dialettico con l’interessata e in un’analitica confutazione degli elementi da quest’ultima forniti nelle cennate controdeduzioni del 20.03.2018, prot. n. 2699, essendo sufficienti, per la loro osservanza, il compiuto apprezzamento e la perspicua esplicazione dei presupposti fattuali e delle ragioni giuridiche che, in positivo, ossia in logica e insuperata antitesi alle ridette controdeduzioni, hanno giustificato la preannunciata determinazione sfavorevole (cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, 26.07.2004, n. 836; sez. I, 06.06.2007, n. 285; TAR Friuli Venezia Giulia, 14.05.2005, n. 459; TAR Liguria, sez. II, 07.07.2005, n. 1022; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 07.04.2006, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.08.2006, n. 6950; 14.09.2007, n. 8951; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 16.10.2009, n. 5817; 21.09.2010, n. 17489; 23.07.2014, n. 4131; 21.01.2015, n. 374; 26.08.2015, n. 4269; Salerno, sez. II, 12.07.2018, n. 1067).
6. Fuori sesto si rivela, altresì, l’ordine di doglianze inteso a far valere la recuperabilità degli illeciti edilizi accertati, in base all’assunto della loro natura di difformità parziali sanzionabili in via pecuniaria, e non di variazioni essenziali assoggettate alla misura demolitoria (cfr. retro, in narrativa sub n. 9.bb e 11).
In effetti, dalla puntuale descrizione degli abusi in parola, così come compiuta nell’ordinanza di demolizione prot. n. 10884 del 14.11.2017 sulla scorta della prodromica relazione di sopralluogo prot. n. 10814 del 13.11.2017 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), emerge in termini perspicui come essi, per le relative caratteristiche dimensionali, morfologiche e funzionali, integrino non già gli estremi delle difformità parziali, sanzionabili ai sensi dell’art. 34 del d.p.r. n. 380/2001, bensì gli estremi, se non proprio dell’organismo edilizio totalmente difforme, almeno delle variazioni essenziali rispetto al fabbricato assentito col PdC n. 23/2008.
6.1. In tale prospettiva, non coglie, di certo, nel segno la C., allorquando, onde sottrarsi all’applicazione degli artt. 31 e 32, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001, deduce che negli ampliamenti contestati non avrebbero potuto e dovuto computarsi i volumi accessori in eccedenza (in corrispondenza, segnatamente, del piano interrato) insieme a quelli principali gravanti sul carico urbanistico.
E ciò, per un duplice ordine di considerazioni.
   a) Innanzitutto, perché già l’ampliamento al livello terraneo (non inferiore a mq 76,88 ed a mc 61,86 per ammissione della C., alla stregua della relazione tecnica dalla stessa esibita in giudizio) e l’acclarata modifica di sagoma dell’edificio non presentano, di per sé (e cioè a prescindere dagli incrementi plano-volumetrici al livello interrato), una incidenza quali-quantitativa tanto marginale da poter essere declassati dal rango di variazioni essenziali a quello di variazioni minime (ossia di difformità parziali) (sul punto, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. II, 11.12.2019, n. 8414; TAR Puglia, Bari, sez. III, 16.09.2015, n. 1241; TAR Abruzzo, Pescara, 24.03.2016, n. 99).
   b) Poi, perché, ai fini della valutazione di cui agli artt. 32, comma 1, lett. b), e 34 del d.p.r. n. 380/2001, l’incremento di cubatura e/o di superficie di solaio realizzato (nel complesso, quantificato dal provvedimento del 26.06.2019, prot. n. 1091, nella misura, rispettivamente, di mc 452,93 e di mq 244,43, nonché, addirittura, quantificato dalla relazione tecnica esibita da parte ricorrente nella misura, rispettivamente, di mc 61,86 + 1.000,88 = 1.062,74 e di mq 76,88 + 209,95 = 286,83) andava rapportato non tanto alla destinazione riservata dal progetto assentito ai locali ampliati (con precipuo riferimento al piano interrato, in termini di autorimessa), quanto, piuttosto, alla destinazione (sempre con precipuo riferimento al piano interrato, in termini di deposito commerciale) da questi in concreto conseguita, e cioè alla circostanza che l’attuata trasformazione sia materiale sia funzionale di un cespite immobiliare assentito in via derogatoria come parcheggio interrato ai sensi dell’art. 6 della l.r. Campania n. 19/2001 (articolato in: «- zona di carico e scarico di dimensioni in pianta pari a circa 25 mq e altezza pari a 3,95 m circa, posizionata in prossimità dell'ingresso delimitata con pareti in alluminio; - zona di deposito su scaffalatura di dimensioni in pianta pari a circa 140 mq e altezza pari a 3,95 m circa posizionata tra la zona di carico e scarico e la zona soppalcata; - zona soppalcata di dimensioni in pianta pari a circa 100 mq e altezza pari a 3,95 m circa (il soppalco è posizionato ad un’altezza di cima 2.00 m) posta in sequenza alla zona di deposito su scaffalatura; - zona filtro di dimensioni in pianta pari a circa 31 mq e altezza pari a 3,95 posizionata nel pressi del wc e dell'impianto di sollevamento; - zona destinata a: wc, piccolo locale, celle frigo e deposito su bancali localizzata su tutto il lato est fuori dalla sagoma del corpo dl fabbrica in elevazione di dimensioni in pianta pari a circa 130 mq e altezza pari a 2,95») ha portato, nella sostanza, l’interessata a lucrare indebitamente uno spazio commerciale utile ed aggiuntivo –sia pure con la destinazione accessoria di deposito– avente notevole estensione.
6.2. Subito dopo, occorre rimarcare che, in ogni caso, –come rilevato nel preavviso di diniego prot. n. 2249 del 07.03.2018, confermato nel definitivo provvedimento declinatorio del 26.06.2019, prot. n. 1091, e non smentito efficacemente per tabulas da parte ricorrente– al piano terra si è determinato «un incremento della superficie commerciale di 50 mq corrispondente ad un incremento di circa il 16% rispetto a quanto assentito con il PdC n. 23/2008» e, più in generale, che la volumetria fuori terra, incidente, come tale, sui parametri urbanistici (indice di fabbricabilità fondiaria) risulta aumentata dai mc 1.259 assentiti col PdC n. 23/2008 ai mc 1.597,41 effettivamente realizzati (valori, questi, tendenzialmente convergenti con quelli desumibili dall’ordinanza di demolizione prot. n. 10884 del 14.11.2017), con conseguente incremento pari a circa il 26%.
Di qui, dunque, a dispetto delle proposizioni attoree, l’indubbia alterazione dei parametri urbanistico-edilizi progettuali di cui all’art. 32, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001.
7. Tanto, al punto da rendere, a ripudio proposte censure di deficit motivazionale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 9.ba, 9.c e 11), del tutto perspicuo e congruente il triplice rilievo –costituente il nucleo argomentativo nevralgico del gravato provvedimento declinatorio del 26.06.2019, prot. n. 1091– che:
   a) le acclarate variazioni plano-volumetriche e funzionali hanno finito per stravolgere il progetto approvato col PdC n. 23/2008, sino ad attrarre l’originario contenuto di ristrutturazione mediante demo-ricostruzione all’orbita della nuova costruzione, e quindi, a integrare (anche) gli estremi della variazione essenziale ex art. 32, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001;
   b) la reale attuazione (sine titulo) di quest’ultima tipologia di intervento è risultata infrangersi irrimediabilmente contro il divieto per essa sancito dalle NTA del PRG di San Valentino Torio in zona “di rispetto e tutela stradale”, e quindi, contro il requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001;
   c) comunque, anche a voler reputare le opere in contestazione non debordanti dall’alveo della ristrutturazione mediante demo-ricostruzione, le trasformazioni apportate al progetto approvato col PdC n. 23/2008 non risponderebbero al requisito della conformità all’epoca (2010) della loro realizzazione, allorquando l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001 (nella versione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta dall’art. 30, comma 1, del d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013) prescriveva quella identità della volumetria e della sagoma originaria, che, invece, le opere anzidette non risultano aver assicurato.
8. La C. non riesce, poi, a sottrarsi a quest’ultimo rilievo in base all’assunto che, nella specie, si sarebbe trattato di una trasformazione edilizia ripristinatorio-sostitutiva senza demolizione del fabbricato preesistente e, quindi, senza connesso vincolo di fedeltà di sagoma (cfr. retro, in narrativa, sub n. 9.d e 11).
Tale assunto si si rivela, infatti, essere puramente apodittico ed esplorativo, in quanto destituito di concreto supporto probatorio.
Tanto meno riesce a sottrarsi a detto rilievo evocando l’operatività della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la quale è ripudiata dall’ormai granitico indirizzo pretorio in subiecta materia, siccome ritenuta normativamente superata, nonché confliggente con i generali principi di legalità, di imparzialità, di buon andamento ed efficacia, di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 3194/2016; n. 5319/2018; n. 6107/2019; sez. II, n. 3314/2020; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 4717/2015; Salerno, sez. I, n. 2474/2016; Napoli, sez. II, n. 5160/2017; sez. IV, n. 3076/2019; sez. VIII, n. 2104/2020; TAR Veneto, Venezia, sez. I, n. 1239/2015; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 31/2019) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 05.01.2021 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ricordarsi che l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare l’accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, non potendosi affatto accogliere l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza.
Tale approdo che richiede la verifica della “doppia conformità” deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità”.
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5.3 – Infine, seppur ogni profilo circa la conformità sostanziale degli interventi alla disciplina urbanistica applicabile esuli del presente giudizio, che non ha ad oggetto la sanatoria delle opere, contrariamente alla tesi di parte appellante, deve ricordarsi che l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare l’accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria (cfr. Cons. St., sez. VI, 3194/2016; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101), non potendosi affatto accogliere l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. VI, 3194/2016; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101).
Tale approdo che richiede la verifica della “doppia conformità” deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (cfr. Corte Cost. n. 232 del 2017) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.01.2021 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2020

EDILIZIA PRIVATA: Inapplicabilità della sanatoria in materia antisismica.
Nel sistema introdotto dagli artt. 94 ss., d.P.R. 06.06.2001 n. 380, 27, l.reg. Lazio 11.08.2009 n. 21 e dal r.reg. Lazio 13.07.2016 n. 14, non è previsto il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria su istanza del privato per opere edili già eseguite ed assoggettate a controllo preventivo, a nulla rilevando che il fatto sia accertato dagli uffici amministrativi o dagli organi di polizia giudiziaria ovvero che sia portato a conoscenza dell’ufficio tecnico regionale per effetto di una auto-denuncia di chi ne sia stato l’autore (TAR Lazio-Latina, sentenza 13.10.2020 n. 376 - massima tratta da https://lexambiente.it).
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... per l’annullamento:
   1) della determinazione dirigenziale dell’Area genio civile Lazio Sud della Regione Lazio prot. n. -OMISSIS-, notificata in pari data, con la quale è stata respinta l’istanza di autorizzazione sismica in sanatoria, presentata dalla ricorrente con istanza prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-;
...
3. – Il ricorso è infondato.
3.1 La disamina del primo mezzo di impugnazione richiede una breve ricostruzione del quadro normativo di riferimento in materia di rilascio dell’autorizzazione sismica.
A tal riguardo viene in primo luogo in questione l’art. 94, comma 1, d.P.R. n. 380 cit. (Autorizzazione per l’inizio dei lavori) che, riprendendo l’art. 18, l. 02.02.1974 n. 64, stabilisce: “1. Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico della regione”.
Sul punto è stato chiarito che l’intento unificatore dell’art. 94, d.P.R. n. 380 cit., è “palesemente orientato ad eseguire una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile”, materia in cui peraltro, come per il governo del territorio, compete sempre allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (Corte cost. 05.05.2006 n. 182; conf. Corte cost. 20.07.2012 n. 201).
In questa ottica, l’art. 94, d.P.R. n. 380 cit., che esprime il fondamentale principio della preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale per l’inizio dei lavori nelle località dichiarate sismiche, è stato così ritenuto espressione di un “principio fondamentale in materia di governo del territorio e protezione civile” (Corte cost. 05.11.2010 n. 312; conf. Corte cost. 12.04.2013 n. 64).
Fermo, quindi, il valore di principio fondamentale nella materia de qua della natura preventiva dell’autorizzazione sismica, l’art. 27, l.reg. Lazio 11.08.2009 n. 21 (Misure straordinarie per il settore edilizio ed interventi per l’edilizia residenziale sociale), ha demandato a un regolamento c.d. autorizzato, adottato dalla Giunta ai sensi dell’art. 47, comma 2, lett. c), St. reg., “in conformità alla normativa statale vigente in materia di prevenzione del rischio sismico […]”, la definizione dei criteri e delle modalità, tra l’altro, per il rilascio dell’autorizzazione sismica. In tal senso, l’art. 1, comma 1, lett. c), r.reg. n. 14 del 2016, conferma proprio che le disposizioni in esso contenute sono adottate “in conformità a quanto previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ebbene, con riferimento al quadro giuridico sopra delineato, la tesi sostenuta da parte ricorrente appare destituita di fondamento ove si consideri che né la legislazione statale né quella regionale, adottata in conformità ai principi fondamentali della materia dalla prima evincibili, prevedono l’istituto dell’autorizzazione sismica in sanatoria. Al contrario, stante la ricordata rilevanza di principio fondamentale della materia rivestita dalla natura esclusivamente preventiva del titolo abilitativo de quo, una esplicita previsione a livello di legislazione statale della sua possibilità di rilascio in sanatoria sarebbe stata necessaria, analogamente a quanto, del resto, è previsto in materia edilizia in generale dall’art. 36, d.P.R. n. 380 cit., ovvero dalla legislazione condonistica speciale.
Né a conclusioni diverse può indurre la considerazione di altre disposizioni statali in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, come l’art. 96, d.P.R. n. 380 cit., evocato da parte ricorrente, per il quale: “1. I funzionari, gli ufficiali ed agenti indicati all’articolo 103, appena accertato un fatto costituente violazione delle presenti norme, compilano processo verbale trasmettendolo immediatamente al competente ufficio tecnico della regione. 2. Il dirigente dell’ufficio tecnico regionale, previ, occorrendo, ulteriori accertamenti di carattere tecnico, trasmette il processo verbale all’autorità giudiziaria competente con le sue deduzioni”; infatti, si tratta di norme relative all’accertamento in sede penale delle violazioni sismiche, che in alcun modo possono essere interpretate come volte a consentire il rilascio di un’autorizzazione postuma rispetto a interventi già posti in essere.
Egualmente è a dirsi per i successivi artt. 98, 99 e 100, che consentono:
   a) al giudice penale di impartire con il decreto o la sentenza di condanna le “prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme […], fissando il relativo termine” che, in caso di irrevocabilità della sentenza o di esecutività del decreto, possono essere eseguite dal competente ufficio tecnico regionale, “se del caso con l’assistenza della forza pubblica, a spese del condannato”;
   b) alla Regione, qualora il reato sia estinto per qualsiasi causa, di ordinare con provvedimento definitivo, adottato sentito l’organo tecnico consultivo della Regione, “l’esecuzione di modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse”.
È di ogni evidenza che le disposizioni da ultimo citate non danno in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita, cosa che peraltro, nella specie, non risulta essere ancora avvenuta.
Alle ragioni di parte ricorrente, poi, non giova neppure invocare l’art. 36, d.P.R. n. 380 cit., dal momento che l’applicazione dell’istituto dell’accertamento di conformità non può che essere armonizzata con i successivi artt. 96, 98, 99 e 100, che delineano le uniche modalità attraverso le quali la legge rende possibile pervenire all’effetto utile di conservare un manufatto realizzato ab origine in carenza di autorizzazione sismica.
Peraltro, ove si accedesse alla tesi della società ricorrente, mancando una puntuale disciplina positiva dell’autorizzazione sismica in sanatoria, si finirebbe con l’introdurre in una materia così delicata per l’incolumità delle persone –peraltro neppure pienamente disponibile da parte del legislatore regionale– una sorta di sanatoria giurisprudenziale fondata sull’accertamento postumo della conformità dell’opera comunque edificata alle norme tecniche per la costruzione in zone sismiche al momento della richiesta.
Una simile sanatoria evocherebbe l’omologo controverso istituto riconosciuto privo di valore qualificante in molte pronunce del giudice amministrativo (cfr.: Cons. Stato, sez. VI, 18.01.2019 n. 470; sez. VI, 04.06.2018 n. 3363; sez. VI, 18.07.2016 n. 3194; sez. VI, 18.09.2015 n. 4359; sez. V, 17.09.2012 n. 4914; sez. IV, 26.03.2010 n. 1763; sez. VI, 07.05.2009 n. 2835; sez. IV, 26.04.2006 n. 2306) ed espressamente escluso dall’art. 36, d.P.R. n. 380 cit.
In definitiva, può ritenersi nel sistema introdotto dagli artt. 94 ss., d.P.R. 06.06.2001 n. 380, 27, l.reg. Lazio 11.08.2009 n. 21 e dal r.reg. Lazio 13.07.2016 n. 14, non è previsto il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria su istanza del privato per opere edili già eseguite ed assoggettate a controllo preventivo, a nulla rilevando che il fatto sia accertato dagli uffici amministrativi o dagli organi di polizia giudiziaria ovvero che sia portato a conoscenza dell’ufficio tecnico regionale per effetto di una auto-denuncia di chi ne sia stato l’autore.
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Si legga, al riguardo, acnhe:
  
● M Grisanti, Inesistenza di disciplina in tema di sanatoria sismica (commento a TAR Lazio-Latina, sentenza 13.10.2020 n. 376) (20.10.2020 - link a https://lexambiente.it).

gennaio 2020

EDILIZIA PRIVATASullo svolgimento del procedimento per accertamento di conformità, giova rammentare l’avviso di questo Consiglio anche sotto la vigenza dell’art. 13, II co. della l. 28.02.1985 n. 47, secondo cui, per un verso, l'inerzia serbata sulla relativa domanda era ritenuta atto tacito di rigetto di essa in base proprio al tenore letterale della norma («la richiesta si intende respinta» ... onde il silenzio onera l’interessato a contestarlo in via d’azione nell'ordinario termine di sessanta giorni, a pena di decadenza) e, per altro verso, le altre vicende, specie quelle sulla compatibilità paesaggistica (ma anche quelle penali), non interferiscono con la formazione del silenzio stesso.
Nell’ordinamento vigente, il principio testé visto è parimenti fermo in giurisprudenza, nel senso che, in generale, nessuna norma di legge, del DPR 380/2001 o di altre fonti, prevede l’irrilevanza o la definitiva inefficacia dei precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori emessi con riguardo all'abuso per il quale è proposta istanza per l’accertamento della relativa conformità urbanistico-edilizia o per il sol fatto di tal presentazione, a differenza di ciò che accade in base alle norme sul condono ex l. 47/1985 (che hanno natura eccezionale e non sono suscettibili d’applicazione analogica).
Pertanto, l’inutile decorso del termine ex art. 36, co. 3, del DPR 380/2001 non impone più, in capo alla P.A. alcun obbligo di provvedere ex novo, essendosi già perfezionata una statuizione tacita e negativa, se del caso da impugnare nel termine ordinario di decadenza, di talché, in pendenza di tal termine, non è inibita la funzione repressiva degli abusi edilizi, ma l'esecuzione delle sanzioni resta sospesa in via temporanea e, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego, l'ingiunzione di demolizione è eseguibile e non occorre l'emanazione di ulteriori atti sanzionatori.
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Considerato in diritto che:
   – con ordinanza n. 2626 del 07.06.2018, la Sezione ha accolto la domanda cautelare attorea e ha sospeso la sentenza appellata, in quanto «… l’esito della verificazione e lo svolgimento del procedimento d’accertamento di conformità… sembrano dare fondamento all’appello cautelare e… l’ulteriore esecuzione del procedimento sanzionatorio determina danno grave…»;
   – sullo svolgimento del procedimento per accertamento di conformità, giova rammentare l’avviso di questo Consiglio anche sotto la vigenza dell’art. 13, II co. della l. 28.02.1985 n. 47, secondo cui, per un verso, l'inerzia serbata sulla relativa domanda era ritenuta atto tacito di rigetto di essa in base proprio al tenore letterale della norma («la richiesta si intende respinta»: cfr., per tutti, Cons. St., IV, 03.02.2006 n. 401; id., V, 27.10.2014 n. 5307, onde il silenzio onera l’interessato a contestarlo in via d’azione nell'ordinario termine di sessanta giorni, a pena di decadenza) e, per altro verso, le altre vicende, specie quelle sulla compatibilità paesaggistica (ma anche quelle penali), non interferiscono con la formazione del silenzio stesso;
   – nell’ordinamento vigente, il principio testé visto è parimenti fermo in giurisprudenza, nel senso che, in generale, nessuna norma di legge, del DPR 380/2001 o di altre fonti, prevede l’irrilevanza o la definitiva inefficacia dei precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori emessi con riguardo all'abuso per il quale è proposta istanza per l’accertamento della relativa conformità urbanistico-edilizia o per il sol fatto di tal presentazione (cfr., in questi termini e per tutti, Cons. St., VI, 09.04.2013, n. 1909; id., 02.02.2015 n. 466; id., 04.04.2017 n. 1565; id., 04.12.2017 n. 5653), a differenza di ciò che accade in base alle norme sul condono ex l. 47/1985 (che hanno natura eccezionale e non sono suscettibili d’applicazione analogica);
   – pertanto, l’inutile decorso del termine ex art. 36, co. 3, del DPR 380/2001 non impone più, in capo alla P.A. alcun obbligo di provvedere ex novo, essendosi già perfezionata una statuizione tacita e negativa, se del caso da impugnare nel termine ordinario di decadenza, di talché, in pendenza di tal termine, non è inibita la funzione repressiva degli abusi edilizi, ma l'esecuzione delle sanzioni resta sospesa in via temporanea e, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego, l'ingiunzione di demolizione è eseguibile e non occorre l'emanazione di ulteriori atti sanzionatori (cfr. Cons. St., VI, 17.10.2017 n. 4802; id., 06.06.2018 n. 3417; id., 01.03.2019 n. 1435) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.04.2020 n. 2742 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985 e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”, viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l. 24.11.2003, n. 326) costituisce lo strumento tipico per ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente chieste dalla disciplina medesima, ossia
   - sotto il profilo sostanziale la c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato alla strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso nonché
   - sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso.
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3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
3.2. La sentenza resa dal giudice di primo grado va innanzitutto confermata nel capo in cui è respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune in ordine all’impugnazione proposta avverso il provvedimento n. -OMISSIS- recante il diniego dell’accertamento di conformità del ballatoio, richiesto a’ sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, a quel tempo vigente e ad oggi sostituito dall’omologa disciplina contenuta nell’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero mediante la propria prospettazione l’Amministrazione comunale sostiene un principio alquanto paradossale, ossia che se è in passato intervenuto un provvedimento di diniego di costruire un determinato manufatto e se tale atto non è stato impugnato, risulterebbe tout court precluso l’accertamento di conformità per chi successivamente, e malgrado il diniego, abbia realizzato abusivamente lo stesso manufatto.
La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985 e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”, viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l. 24.11.2003, n. 326) costituisce, infatti, lo strumento tipico per ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente chieste dalla disciplina medesima, ossia sotto il profilo sostanziale la c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato alla strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso: cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 13.06.2019, n. 3958) nonché sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso; condizione, quest’ultima, sicuramente sussistente nel caso di specie e che pertanto abilita la parte interessata a proporre l’istanza che in ogni caso obbliga l’Amministrazione comunale a esprimersi verificando la sussistenza dell’anzidetta “doppia conformità”, nonché l’osservanza di tutte le altre ulteriori disposizioni applicabili in proposito (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.01.2020 n. 355 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
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Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

dicembre 2019

EDILIZIA PRIVATACostruzioni in zona sismica: l'omessa denuncia non si può sanare a posteriori.
Cassazione: il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere, cioè "a sanatoria" della comunicazione richiesta dall'art. 93 Testo Unico Edilizia e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica.
Un'omessa denuncia amministrativa per la realizzazione di un'opera in zona a rischio sismico non si può sanare 'a posteriori'.

Lo ha chiaramente affermato la Corte di Cassazione, Sez. III penale, nella sentenza 23.12.2019 n. 51652, che ha confermato la condanna dell'imputato alle pene di legge in ordine ai reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. b), 71, 72 e 95 del dpr 380/2001 per aver realizzato opere in totale difformità dalla concessione edilizia ottenuta e senza osservare le disposizioni previste dalla disciplina sulle costruzioni in conglomerato cementizio armato ed in zona sismica.
Antitismisca: no alla comunicazione ex post
La difesa sostiene che sussista una violazione dell'art. 546 coc. proc. pen. e la mancanza assoluta di motivazione rispetto alla documentazione che attestava la idoneità sismica delle opere, prodotta sin dal primo grado, e che avrebbe dovuto condurre alla declaratoria di estinzione dei reati edilizi diversi da quello urbanistico strettamente inteso.
Ma la Cassazione smonta questa tesi chiarendo subito che la Corte d'Appello aveva già esaminato la doglianza circa l'omessa valutazione, da parte del giudice di primo grado, della documentazione che attestava la compatibilità delle opere con la disciplina tecnica prevista per le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica, correttamente escludendo che la stessa potesse spiegare l'effetto estintivo dei relativi reati, posto che le comunicazioni erano state effettuate successivamente alla realizzazione delle opere, al fine di ottenerne la regolarizzazione sul piano amministrativo.
Insomma: il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere e, quindi, "a sanatoria", della comunicazione richiesta dall'art. 93 del dpr 380 e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati, in quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 del medesimo dpr alle sole contravvenzioni urbanistiche (Sez. 3, n. 19196 del 26/02/2019, Greco, Rv. 275757; Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa., Rv. 246462).
La sanatoria vale per le contravvenzioni urbanistiche, non per quelle sismiche
Questo principio, sottolinea la Corte suprema, è certamente estensibile anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. del dpr 380 per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica. Diversamente dalla previsione di cui all'art. 45, comma 3, non v'è, di fatti, alcuna disposizione che preveda l'estinzione di detti reati nel caso di tardivo adempimento degli obblighi omessi, o, più in generale, di "sanatoria" amministrativa delle violazioni e, in forza della citata disposizione, lo stesso accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti, Rv. 261099).
Denuncia e autorizzazione sismica sono due cose diverse: chiarimenti
A scopo informativo, chiariamo che:
   • la denuncia di lavori in zona sismica è normata dall'art. 93 del TUE, il quale dispone che, nelle zone sismiche, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione, indicando il proprio domicilio, il nome e la residenza del progettista, del direttore dei lavori e dell'appaltatore. Alla domanda deve essere allegato il progetto, in doppio esemplare e debitamente firmato da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori.
I progetti relativi ai lavori in zona sismica sono accompagnati da una dichiarazione del progettista che asseveri il rispetto delle norme tecniche per le costruzioni e la coerenza tra il progetto esecutivo riguardante le strutture e quello architettonico, nonché il rispetto delle eventuali prescrizioni sismiche contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica. Per tutti gli interventi il preavviso scritto con il contestuale deposito del progetto e dell'asseverazione è valido anche agli effetti della denuncia dei lavori di cui all'art. 65;
   • l'autorizzazione sismica è invece normata dall'art. 94, il quale dispone che nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'art. 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. L'autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza (tratto da e link a www.ingenio-web.it).
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SENTENZA
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Diversamente da quanto si sostiene in ricorso, la sentenza impugnata (pag. 2) ha esaminato la doglianza circa l'omessa valutazione, da parte del giudice di primo grado, della documentazione che attestava la compatibilità delle opere con la disciplina tecnica prevista per le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica, correttamente escludendo che la stessa potesse spiegare l'effetto estintivo dei relativi reati, posto che le comunicazioni erano state effettuate successivamente alla realizzazione delle opere, al fine di ottenerne la regolarizzazione sul piano amministrativo.
La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del consolidato principio, anche di recente ribadito, secondo cui
il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere e, quindi, "a sanatoria", della comunicazione richiesta dall'art. 93 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati, in quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 del medesimo d.P.R. alle sole contravvenzioni urbanistiche (Sez. 3, n. 19196 del 26/02/2019, Greco, Rv. 275757; Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa., Rv. 246462).
Tale principio è certamente estensibile anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. T.U.E. per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica. Diversamente dalla previsione di cui all'art. 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, non v'è, di fatti, alcuna disposizione che preveda l'estinzione di detti reati nel caso di tardivo adempimento degli obblighi omessi, o, più in generale, di "sanatoria" amministrativa delle violazioni e, in forza della citata disposizione, lo stesso accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti, Rv. 261099) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, nella sentenza 23.12.2019 n. 51652).

ottobre 2019

EDILIZIA PRIVATALa presentazione da parte dei ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
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Il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire.
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2.1 Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Preliminarmente, quanto all’assoggettabilità degli interventi al previo rilascio del permesso di costruire, la presentazione da parte dei medesimi ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
In ogni caso parte ricorrente, nel riconoscere la non conformità del manufatto alla normativa urbanistico edilizia vigente nel Comune di Fossacesia, ha dichiarato, inammissibilmente, di voler ottenere una sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 condizionata alla “riconduzione a conformità” dell’intervento abusivo con caratteristiche diverse sì da renderlo assentibile ai sensi della locale disciplina urbanistica ed edilizia.
Una tale domanda non è all’evidenza riconducibile allo schema legale tipico della sanatoria di cui all’art. 36 d.p.r. n. 38072001 che presuppone il completamento e l’ultimazione dell’intervento in tutte le sue componenti sì da renderne verificabile la doppia conformità prima della definizione della istanza e non successivamente.
Ed infatti, il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V, 11.10.2005, n. 5495) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria condizionato alla realizzazione di interventi volti a eliminare gli abusi.
Un provvedimento di accertamento di conformità in sanatoria condizionato all’eliminazione degli abusi si palesa abnorme in quanto la previsione che l’immobile sia accertato conforme a condizione che in futuro siano eliminati gli abusi rilevati (nella fattispecie tra l’altro già accertati definitivamente con una sentenza) si pone in contrasto con la stessa natura dell’atto di accertamento di conformità.
Invero, la giurisprudenza ha chiarito che la sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda; essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere e il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
B.1 Venendo all’esame del primo ricorso per motivi aggiunti, diretto contro il provvedimento dei SUAP Associato Lomazzo prot. 1520 del 06.03.2017 (recante l’annullamento in autotutela del permesso di costruire in sanatoria prot. 7212 del 10.11.2015) e contro la conseguente ordinanza di demolizione del Comune di Cermenate n. 1/17 dell’11.04.2017, il motivo 6.a), con il quale la ricorrente fa valere vizi di illegittimità derivata dagli atti impugnati in via principale, è infondato in quanto quegli atti sono venuti meno e i nuovi provvedimenti si reggono su profili autonomi, oggetto delle doglianze che ora verranno esaminate.
B.2 Il motivo 6.b è infondato.
In primo luogo occorre precisare che
l’atto di autotutela impugnato ha per oggetto un provvedimento di accertamento di conformità in sanatoria condizionato all’eliminazione degli abusi.
L’atto annullato si palesa abnorme in quanto la previsione che l’immobile sia accertato conforme a condizione che in futuro siano eliminati gli abusi rilevati (e già accertati definitivamente con una sentenza) si pone in contrasto con la stessa natura dell’atto di accertamento di conformità.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che “la sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1239; Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n. 2523; 13.08.2015, n. 1900).
Si tratta quindi di un atto con sviamento dalla causa tipica e che correttamente l’Amministrazione comunale ha ritenuto di dover rimuovere in autotutela, in quanto non conforme allo schema legale tipico; il deposito, poi, da parte della ricorrente, di una perizia rivelatrice dell’impossibilità di demolizione delle opere abusive, successiva ad altri atti con i quali la ricorrente si era invece impegnata a demolire dette opere, è solo un motivo ulteriore che ha reso palese all’amministrazione che la ricorrente non aveva intenzione di ricondurre lo stato di fatto allo stato di diritto.
Neppure a tale atto di autotutela è possibile applicare le regole dettate dall'art. 15 del DPR 380/2001 per la dichiarazione di decadenza del permesso di costruire per mancata esecuzione dei lavori nei termini, in quanto
l’atto di accertamento di conformità non abbisogna, per sua natura, di termini di esecuzione dei lavori.
Venendo poi all’affermazione secondo la quale l’amministrazione avrebbe effettuato con il suddetto atto una nuova valutazione della situazione di fatto e di diritto dell’immobile tale da superare quanto stabilito nella sentenza del TAR Lombardia, Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514, deve escludersi che questa sia stata l’intenzione dell’amministrazione, che nell’atto ribadisce più volte l’intenzione di dare esecuzione alla sentenza.
Per quanto riguarda le ulteriori contestazioni di merito relative alla legittimità della realizzazione del fabbricato posto sul mappale n. 651 e 829, occorre in linea generale precisare che il giudizio di impugnazione dell’atto di annullamento dell’accertamento di conformità e del conseguente ordine di demolizione, non può estendersi all’accertamento della legittimità o dell’idoneità del Permesso di Costruire a Sanatoria n. 2015- CER/104 del 10.11.2015 prot. n. 7212 annullato, a ripristinare la situazione quo ante, né tanto meno può essere utilizzato per contestare il provvedimento prot. n. 5782/2012 del 19.11.2012, con il quale è stata respinta la prima richiesta di accertamento di conformità e l’ordinanza di demolizione prot. n. 3688 del 22.02.2013 del Comune di Cermenate, ormai divenuti inoppugnabili. Osta a tale conclusione la natura impugnatoria del giudizio amministrativo ed il principio di autosufficienza dei motivi sulla base dei quali l’amministrazione ha adottato l’atto impugnato.
Così relativamente alle distanze legali tra le costruzioni e dalla strada, occorre precisare che la ricorrente intende conservare le “prescrizioni imposte dal titolo edilizio che, ora, si intende illegittimamente rimuovere”. In merito il profilo di impugnazione è inammissibile in quanto non è indicato alcuna ragione giuridica in base alla quale tali distanze debbano essere confermate.
Per quanto riguarda, invece, “la questione della fascia di rispetto stradale”, come dice la ricorrente, il motivo è inammissibile. Infatti il provvedimento impugnato si limita ad affermare che sussiste un interesse pubblico ad evitare “una riduzione della fascia di rispetto della strada”, mentre la ricorrente contesta la mancata applicazione dell’art. 6.3 delle NTA in una situazione specifica senza indicare di quale situazione si tratti e senza che l’atto contesti l’abuso. E’ intuibile che la ricorrente faccia riferimento ai vizi individuati negli atti precedenti che però sono ormai divenuti definitivi.
Anche la questione relativa all’insussistenza della dedotta violazione delle distanze legali ex art. 9 del DM LL.PP. 1444/1968 è inammissibile in quanto la questione dell’idoneità dell’arretramento della parete finestrata a rimuovere il vizio è superata dall’affermata impossibilità di demolizione per danno alla parte conforme, accertata dai tecnici della ricorrente.
A ciò si aggiunge che,
secondo l’orientamento di questo Tribunale in materia di distanze tra costruzioni (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26/06/2019 n. 1484), l’adozione di misure alternative alla demolizione al fine di ricondurre la situazione di fatto a quella di diritto si scontra con l’art. 36 del DPR 380/2001, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento abusivo risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità). L’accertamento della doppia conformità costituisce quindi condicio sine qua non per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
Per quanto riguarda poi il profilo della dedotta violazione del principio di proporzionalità nella sanzione, in quanto l’amministrazione vorrebbe “far demolire un intiero fabbricato per la quasi totalità regolare per il solo fatto che non sia tecnicamente possibile demolire la porzione irregolare”, occorre rammentare quanto stabilito dalla sentenza TAR Lombardia, Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514 passata in giudicato.
La sentenza, al punto 42, afferma che "Per quanto concerne infine l’argomentazione che lamenta la mancata valutazione della possibilità di applicazione della sanzione pecuniaria, si rileva che, come detto sopra, il manufatto oggetto di causa è stato realizzato in totale assenza di titolo; e che, quindi, trova applicazione nel caso di specie l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale disciplina specificante il trattamento sanzionatorio riservato a questa tipologia di abusi, prevedendo, quale unica misura, la demolizione".
L’istanza redatta dalla ricorrente in data 07.10.2016 è supportata dalla perizia dell’ing. Vi. (doc. 7 e 8 della ricorrente) secondo la quale alla fattispecie è applicabile l’art. 34 del DPR 380/2001, relativo agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, in quanto la rimozione delle strutture portanti verticali non permetterebbe alle travi che sorreggono le porzioni rimanenti delle solette di avere appoggio.
Tale tesi tuttavia si pone in contrasto con quanto già affermato dalla sentenza citata, che ha già espressamente specificato che l’abuso oggetto del giudizio rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e non nell’art. 34 del medesimo corpo normativo, con la conseguenza che su tale questione si è già formato il giudicato esplicito che impedisce di riproporre la questione in un nuovo giudizio.
Alla stessa conclusione della sentenza, e ponendo essa a fondamento del suo ragionamento, è giunto il Comune di Cermenate nel parere pervenuto allo Sportello Unico di Lomazzo in data 16.11.2016 prot. 8237 (doc. 2 e 3 della ricorrente) il quale evidenzia come l’art. 34, c. 2, del DPR 380/2001 non sia applicabile alla diversa fattispecie di edificio realizzato in assenza di titolo abilitativo.
B.3 Anche il motivo 6c) è infondato.
Quanto all’esercizio del potere di autotutela, occorre precisare che il decorso di un certo tempo tra l’emanazione dell’atto di accertamento di conformità condizionato alla demolizione degli abusi, avvenuta in data 10.11.2015, ed il suo annullamento del 06/03/2017 è stato determinato anche dal fatto che la ricorrente prima si è impegnata a realizzare le demolizioni e poi ha dichiarato, con perizia depositata in data 31.01.2017, che la demolizione del capannone non poteva essere eseguita senza danno per la parte conforme.
Quindi il mutamento della posizione comunale e dello Sportello unico di Lomazzo è dipeso dalla modifica dell’atteggiamento della parte ricorrente la quale, chiamata a giustificare l’inadempimento ai termini delle demolizioni, ha sorprendentemente cambiato la sua posizione, rendendosi indisponibile all’eliminazione dell’abuso relativo alla distanza legale.
A ciò si aggiunge che, come chiarito nel ricorso per motivi aggiunti, l’istanza di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente era volta proprio a superare gli effetti della pronuncia del TAR adito resa tra le parti.
Non è quindi possibile ritenere che sussista un affidamento meritevole di tutela nella ricorrente.
B.4 Anche il motivo 7.a), che ha per oggetto l'ordinanza comunale di demolizione n. 1/17 emanata a seguito dell’annullamento in autotutela dell’atto di accertamento di conformità in sanatoria condizionato, è infondato.
L'art. 2, comma 1, del DPR 160/2010 stabilisce, tra l'altro, che "è individuato il SUAP quale unico soggetto pubblico di riferimento territoriale per tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività".
L'art. 4, poi, prevede che "i comuni possono esercitare le funzioni inerenti al SUAP in forma singola o associata tra loro" (comma 5), nonché "salva diversa disposizione dei comuni interessati e ferma restando l'unicità del canale di comunicazione telematico con le imprese da parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le competenze dello sportello unico per l'edilizia produttiva" (comma 6).
La giurisprudenza (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.11.2009 n. 1585), seppur in epoca anteriore alla su indicata disciplina ma con considerazioni che appaiono comunque coerenti con la normativa in esame, ha chiarito che
la trasmissione della pratica al SUAP non implica recesso del Comune dalle proprie prerogative e responsabilità, giacché lo Sportello Unico non rappresenta un nuovo centro di competenze, ma, com’è noto, un modulo organizzativo e procedimentale composito, una sorta di “procedimento di procedimenti” nel quale confluiscono gli atti e gli adempimenti facenti capo a diverse competenze, e richiesti dalle norme in vigore perché l'insediamento produttivo possa legittimamente essere realizzato; in questo senso, quelli che erano, in precedenza, autonomi provvedimenti, ciascuno dei quali veniva adottato sulla base di un procedimento a sé stante, diventano “atti istruttori” al fine dell'adozione dell'unico provvedimento conclusivo, titolo per la realizzazione dell'intervento richiesto.
In sostanza
la legge attribuisce al SUAP una competenza ad adottare i provvedimenti di amministrazione attiva relativi alle imprese, realizzando un ufficio comune a più amministrazioni che costituisce un centro unico di riferimento per i titolari di impresa. Tra di essi rientra anche la cessazione dell’attività d’impresa, nel senso che lo sportello è il punto unico per la presentazione delle comunicazioni relative alla chiusura dell’impresa.
Negli atti relativi alla cessazione dell’attività, a differenza di quanto afferma la ricorrente, non rientra l’adozione di un provvedimento repressivo di abusi edilizi, trattandosi di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, i cui effetti sull’attività economica sono del tutto eventuali ed indiretti.

settembre 2019

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire in sanatoria.
DOMANDA:
E' stata presentata una richiesta di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in difformità rispetto una concessione edilizia del 1985. La difformità consiste nell’allargamento planimetrico dell’abitazione pari a 50 cm. per tutta la lunghezza dell’edificio.
Su tale sanatoria però non sussiste il requisito della c.d. doppia conformità di cui all’art. 36 del DPR 380/2001 (sia al momento della realizzazione dello stesso che al momento della presentazione della domanda), in quanto non sono rispettati gli attuali indici parametrici del PRG (non sono rispettati né la superficie coperta massima e né il volume massimo) e pertanto la richiesta dovrebbe essere negata.
Essendo già presente nell'istanza una perizia giurata di un tecnico abilitato con la quale viene asseverato che la demolizione della parte “difforme” pregiudicherebbe la stabilità statica della parte conforme, le cui considerazioni sono più che veritiere, si dovrebbe applicare l’art. 34 del DPR 380/2001 con l’emissione della sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire.
Al fine di seguire un corretto iter procedimentale si chiede quanto segue:
   - alla luce della mancata “doppia conformità” la richiesta di permesso di costruire di sanatoria dovrebbe essere formalmente negata. Dopo aver negato il pdc, deve seguire l’emissione della sanzione pecuniaria sostitutiva alla sanzione demolitoria? Il procedimento si conclude con il versamento della sanzione pecuniaria da parte del richiedente? Necessitano ulteriori adempimenti da parte del comune? L’iter così come sopra prospettato risulta corretto?
RISPOSTA:
In ordine all'iter procedimentale da seguire qualora la richiesta di permesso di costruire in sanatoria debba essere negata per mancanza del requisito della “doppia conformità” e si possano valutare i presupposti di applicabilità, in luogo della demolizione conseguente al rigetto dell’istanza di sanatoria, della sanzione di cui all'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 per impossibilità di eseguire la demolizione senza pregiudicare la parte eseguita in conformità, la giurisprudenza, richiamata anche nella recente sentenza del Tar Liguria-Genova, Sez. I, n. 470 del 22.05.2019, ha affermato che “con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall'art. 34, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di contenimento del terrapieno” (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169) ed ha altresì precisato che “l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non produce alcun effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, dunque la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (TAR Campania, sez. VIII, 31/07/2018, n. 5122; TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. III, 27/02/2015, n. 717).
Pertanto, stando al suddetto indirizzo giurisprudenziale, il Comune generalmente, qualora in sede di esame di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria ritenga che la stessa debba essere negata per mancanza del requisito della “doppia conformità”, dovrebbe emettere un provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria con contestuale ordine di demolizione, rimandando alla successiva fase esecutiva del predetto provvedimento la valutazione circa l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio e dunque circa l’applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, generalmente i presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 vengono invocati dalla parte interessata, normalmente mediante la presentazione di apposita e specifica istanza, proprio in fase esecutiva, successivamente alla notifica alla stessa dell’ordine di demolizione, la cui legittimità, stando alla giurisprudenza sopra citata, permane anche qualora emergano in fase esecutiva i presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001. Questo è l’iter che dovrebbe dunque essere normalmente seguito.
Tuttavia, nulla vieta alla parte istante di formulare, eventualmente in via subordinata, già nell’ambito dell’istanza di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001, la richiesta di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 nell’ipotesi in cui la richiesta principale venisse rigettata dall’Amministrazione comunale per mancanza del requisito della doppia conformità urbanistica, adducendo e/o fornendo all’Amministrazione comunale, già in tale sede, elementi istruttori volti a far accertare la sussistenza dei presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
In tal caso, si ritiene che il Comune, esaminando entrambe le domande (quella principale e, in caso di suo rigetto, quella subordinata), potrebbe -anche in ossequio ai principi del divieto di aggravio del procedimento, dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità sanciti dalla L. n. 241/1990 e qualora reputi di avere già sufficienti e/o idonei elementi istruttori per compiere la valutazione richiesta dall’art. 34, comma 2 del D.P.R. n. 380/2001 ai fini dell’applicabilità della sanzione ivi prevista– valutare se pronunciarsi con un unico provvedimento su entrambe le istanze, rigettando la domanda principale di sanatoria per verificata mancanza del requisito della “doppia conformità” ed eventualmente, se sussistono -come pare evincersi dal quesito stesso- i presupposti (di cui occorrerebbe ovviamente dare atto nel provvedimento stesso), accogliendo la domanda subordinata di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Nel quesito posto non viene specificato se l’istante abbia o meno già formulato (anche eventualmente in via subordinata) l’istanza di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 nell’ipotesi di rigetto della domanda principale di sanatoria, ma la circostanza -emergente dal quesito- che sia stata già prodotta dall’istante una perizia giurata di un tecnico abilitato con la quale viene asseverato che la demolizione della parte “difforme” pregiudicherebbe la stabilità statica della parte conforme, porta a ritenere che tale richiesta subordinata sia stata effettivamente già presentata o comunque potrebbe sottintenderla ed implicarla implicitamente.
Qualora il Comune avesse dubbi al riguardo, potrebbe acquisire chiarimenti in merito dalla parte interessata anche eventualmente a seguito di un preavviso di rigetto dell’istanza principale di sanatoria ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 o a seguito di una richiesta specifica di chiarimenti. Ai fini del perfezionamento dell’iter, si ritiene necessario il versamento della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 da parte del richiedente (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Domanda di sanatoria – Doppia conformità – Verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici – Rilascio del permesso in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Attività vincolata della P.A. – Necessità di motivazione del pubblico funzionario – Art. 36 D.P.R. 380/2001 – Giurisprudenza.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un’attività vincolata della P.A., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Pertanto, costituendo la verifica della “doppia conformità” il fulcro di tale potere in ordine all’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001, consegue che del relativo accertamento deve darsi conto in motivazione come dimostrazione della avvenuta effettuazione della funzione affidata al pubblico funzionario e quale strumento di controllo del corretto esercizio della medesima.

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Sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità” – Verifica affidata al giudice penale – Responsabile del procedimento amministrativo – Motivazione dell’atto scrutinato – Effetti.
In materia urbanistica, la verifica affidata al giudice penale, diretta a stabilire la sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”, passa per il previo accertamento di una motivazione che dia conto dell’avvenuto, positivo esercizio della funzione di sanatoria dell’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001, incentrata sulla verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro realizzazione e della presentazione della richiesta di sanatoria.
Cosicché, l’eventuale esito negativo della verifica, sul piano motivazionale dell’atto scrutinato, dell’avvenuto espletamento di tale attività, portando all’esclusione del controllo “tipico” dell’atto di sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001, consente al giudice penale già di escludere qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio.
Di converso invece, in caso di verifica positiva del profilo motivazionale dell’atto di sanatoria nei termini anzidetti, non può escludersi che il giudice penale approfondisca ulteriormente, ove ritenuto opportuno, il tema della sussistenza del requisito della “doppia conformità” attraverso una verifica “in concreto” dell’avvenuto rispetto degli strumenti urbanistici nel predetto intervallo temporale, in grado in tal modo di confermare o meno la correttezza del giudizio di doppia conformità sostenuto in motivazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2019 n. 37050 - link a www.ambientediritto.it).

giugno 2019
EDILIZIA PRIVATA: E’ noto, che l’istituto noto come “sanatoria giurisprudenziale” deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
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L’irrilevanza della sopravvenuta normativa urbanistica vale a confutare anche il secondo motivo di doglianza prospettato dalla difesa di parte ricorrente nel ricorso per motivi aggiunti, laddove ha lamentato l’irragionevolezza di un diniego di sanatoria, relativo ad manufatto attualmente, però, realizzabile in maniera del tutto legittima, alla luce della sopravvenuta e attualmente vigente disciplina urbanistica dell’area. In tal modo, la difesa attorea ha inteso richiamarsi ad un istituto giuridico frutto di un risalente orientamento giurisprudenziale, noto come “sanatoria giurisprudenziale”.
E’ noto, infatti, che l’istituto in parola deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione (cfr., ex multis, da ultimo Consiglio di Stato sez. VI, 11/09/2018, n. 5319) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.06.2019 n. 3076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA PRIVATA: L'istituto della cd "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata 'sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione.
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Non può neppure condividersi la tesi tendente ad attribuire rilievo alla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, dato che, secondo recente orientamento giurisprudenziale, tale istituto “deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, ossia a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata 'sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d'ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell'azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione" (Cons. Stato Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 940 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio.
Come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato, <<il permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda; viceversa, con la invocata "sanatoria giurisprudenziale" viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e, pertanto, la stessa non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il caso di rammentare che a favore della incompatibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo di cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l'altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della "doppia conformità" seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici>>.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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4. Non sono condivisibili le ulteriori riflessioni sviluppate dalla parte ricorrente, in quanto:
   - la previsione dettata dall'art. 3, comma 1, lett. e.6), del DPR 380/2001 considera “interventi di nuova costruzione ... gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% (percento) del volume dell'edificio principale”; ciò non significa che  automaticamente– un’opera che occupa un volume e una superficie di misura inferiore sia ascrivibile al genus delle pertinenze, dovendo essere riscontrati i plurimi indici dei quali si è già dato conto;
   - l’invocato art. 41 delle NTA legittima conclusioni opposte a quelle cui addiviene la parte ricorrente, poiché “l’esclusione dal computo della superficie coperta di pensiline e aggetti aperti” è limitata ai manufatti dotati di “sporto non superiore a metri 4” e dunque con dimensioni ben più ridotte di quelle accertate nella fattispecie;
   - la nuova regolamentazione degli edifici aventi destinazione industriale e artigianale D1 intervenuta nelle more del giudizio (cfr. memoria finale di parte ricorrente) –che ammetterebbe l’ampliamento degli edifici esistenti– non esclude comunque la necessità di munirsi del titolo abilitativo;
   - l’invocato istituto della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" deve considerarsi normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio: come ha messo in evidenza il Consiglio di Stato, sez. VI – 24/04/2018 n. 2496, <<il permesso in sanatoria è quindi ottenibile soltanto ex art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda; viceversa, con la invocata "sanatoria giurisprudenziale" viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e, pertanto, la stessa non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa. A questo riguardo pare poi il caso di rammentare che a favore della incompatibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" con il dettato normativo di cui all'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 militano anche argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori. La Corte Costituzionale, poi, ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l'altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della "doppia conformità" (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993 n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici (sent. nn. 370/1998 e 231/93) … >> (si vedano anche Consiglio di Stato, sez. VI – 07/09/2018 n. 5274 e TAR Lombardia Milano, sez. II – 17/05/2018 n. 1297, secondo il quale “Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 discende dall'esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall'intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.)” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.06.2019 n. 546 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
maggio 2019
EDILIZIA PRIVATA: La teoria della sanatoria giurisprudenziale risulta da tempo superata, con la conseguenza che un manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva.
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7.4. Infine, è irrilevante che l’intervento realizzato dal ricorrente sia oggi assentibile.
Invero, la teoria della sanatoria giurisprudenziale risulta da tempo superata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 5319/2018), con la conseguenza che un manufatto contrastante con la disciplina urbanistica vigente al momento della sua costruzione è e resta un’opera abusiva (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.05.2019 n. 1117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria e normativa antisismica: nuovo intervento della Cassazione.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio.
Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 07.05.2019 n. 19221 con la quale ha rigettato il ricorso presentato avverso una sentenza di primo grado che aveva condannato il ricorrente per il reato di abuso edilizio previsto dagli articoli 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001 (c.d. Testo Unico Edilizia).
In particolare, il Tribunale di primo grado aveva condannato l'attuale ricorrente per i suddetti reati, dichiarando di non doversi procedere per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del Testo Unico Edilizia perché estinto per il rilascio del permesso a costruire in sanatoria. In appello, il ricorrente ha fatto presente che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria da parte dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 36 del DPR n. 380/2001 implicherebbe l'estinzione di tutti i reati essendo stata verificata la doppia conformità urbanistica.
Gli ermellini, rigettando il ricorso, hanno confermato che sull'argomento esiste ormai una pacifica giurisprudenza che in tema di reati edilizi afferma che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del Testo Unico Edilizia comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio. Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora evocato, correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in sanatoria al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di cui agli artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 del DPR n. 380/2001 (commento tratto da www.lavoripubblici.it).
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SENTENZA
5. Ciò premesso, il ricorso è inammissibile.
Invero, per pacifica giurisprudenza, in tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017 - dep. 07/08/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099).
Nel caso in esame, il Tribunale si è attenuto al principio ora evocato, correttamente limitando gli effetti del rilascio del permesso in sanatoria al solo reato edilizio, con esclusione degli ulteriori reati di cui agli artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95 d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19221).

marzo 2019
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione.
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La sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo sanante da parte della competente Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di conformità o di non contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lgs. 24.03.2006, n. 157.
Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile.
Questo Consiglio ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria.
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8.4. Non resta quindi che esaminare la critica, avente rilievo centrale nell’economia dell’appello de quo, afferente alla individuazione dei confini applicativi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, secondo la linea interpretativa auspicata dall’appellante, sarebbe in grado di abbracciare anche le opere in progetto e pertanto non ancora eseguite.
La tesi sostenuta dall’appellante non può essere condivisa, avendo questo Consiglio più volte optato per una interpretazione restrittiva della norma che, nel consentire la sanatoria degli abusi formali, ha natura senz’altro eccezionale rispetto al principio del necessario previo ottenimento dell’assentimento edilizio ovverosia da conseguire prima e non dopo l’esecuzione delle opere.
Si è, quindi, di recente osservato che “l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319).
Invero, la sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo sanante da parte della competente Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di conformità o di non contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lgs. 24.03.2006, n. 157. Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile.
Questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410) ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.03.2019 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
febbraio 2019
EDILIZIA PRIVATA: In materia di <sanatoria giurisprudenziale> il Consiglio di Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze a negare la possibilità di ammetterla, affermando il seguente principio:
   - “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 , ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA.
TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione
”.
Anche il TAR Lombardia ha recentemente affermato la persistenza del principio anche in caso di sopravvenuta modifica favorevole dello strumento urbanistico:
   - “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e <RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE DI RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA, ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>.
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzione riservate all'Amministrazione
".
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Si consideri che, in materia di <sanatoria giurisprudenziale> (ipotesi che potrebbe risultare rilevante anche per il caso di specie), il Consiglio di Stato è ormai pervenuto con recenti sentenze (cfr. da ultimo Consiglio di Stato , sez. VI , 11/09/2018 n. 5319) a negare la possibilità di ammetterla, affermando il seguente principio:
   - “L'ISTITUTO DELLA C.D. ‘SANATORIA GIURISPRUDENZIALE' DEVE CONSIDERARSI NORMATIVAMENTE SUPERATO, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile SOLTANTO in presenza dei presupposti espressamente delineati dall' art. 36 d.P.R. n. 380/2001 , ossia a condizione che l'intervento RISULTI CONFORME ALLA DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA VIGENTE AL MOMENTO SIA DELLA REALIZZAZIONE DEL MANUFATTO, SIA DELLA PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale' verrebbe in rilievo UN ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI PRAETER LEGEM, I QUALI SI COLLOCHEREBBERO AL DI FUORI D'OGNI PREVISIONE NORMATIVA. TALE ISTITUTO NON TROVA, PERTANTO, FONDAMENTO ALCUNO NELL'ORDINAMENTO POSITIVO, CONTRASSEGNATO INVECE DAI PRINCIPI DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DI TIPICITÀ E NOMINATIVITÀ DEI POTERI ESERCITATI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, NON POSSONO ESSERE CREATI IN VIA GIURISPRUDENZIALE, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione”.
Anche il TAR Lombardia, sez. II, con sentenza 17/05/2018 n. 1298, ha recentemente affermato la persistenza del principio anche in caso di sopravvenuta modifica favorevole dello strumento urbanistico:
   - “E' legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria. Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e <RISULTA DEL TUTTO RAGIONEVOLE IL DIVIETO LEGALE DI RILASCIARE UNA CONCESSIONE (O IL PERMESSO) IN SANATORIA, ANCHE QUANDO DOPO LA COMMISSIONE DELL'ABUSO VI SIA UNA MODIFICA FAVOREVOLE DELLO STRUMENTO URBANISTICO>. La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. sanatoria giurisprudenziale -consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della solo conformità dell'opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente- finirebbe per dare luogo a un <ATTO ATIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI CHE SI COLLOCA AL DI FUORI DI QUALSIASI PREVISIONE NORMATIVA E CHE, PERTANTO, NON PUÒ RITENERSI AMMESSO NEL NOSTRO ORDINAMENTO, CONTRASSEGNATO DAL PRINCIPIO DI LEGALITÀ DELL'AZIONE AMMINISTRATIVA E DAL CARATTERE TIPICO DEI POTERI ESERCITATI DALL'AMMINISTRAZIONE, ALLA STREGUA DEL PRINCIPIO DI NOMINATIVITÀ>; poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzione riservate all'Amministrazione" (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 09.02.2019 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
gennaio 2019
EDILIZIA PRIVATALa sanatoria giurisprudenziale è “istituto di origine pretoria, la cui praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla Giurisprudenza, in quanto, essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento positivo”.
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2.8 Con ultimo motivo formulato, la società No. S.r.l. Ge.Im. contesta la legittimità dei provvedimenti impugnati e la conseguente sanabilità degli interventi realizzati in base all’istituto giurisprudenziale della “sanatoria giurisprudenziale”, istituto secondo cui le opere sarebbero comunque assentibili in assenza della doppia conformità bastando la sola conformità agli strumenti urbanistici al momento del rilascio del titolo sanante.
2.8.1 Il motivo è infondato.
A tal proposito, il Collegio rileva come tale istituto sia da tempo escluso dal sistema giuridico e, sul punto, ritiene dunque condivisibili le deduzioni di parte resistente secondo cui la sanatoria giurisprudenziale è “istituto di origine pretoria, la cui praticabilità è stata, da tempo, esclusa dalla Giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 21/06/2017, n. 3018; Cons. St., sez. VI, 18.07.2016, n. 3194; Cons. St., sez VI, 05.06.2015 n. 2784; Cons. St., sez IV, 26.04.2006, n. 2306; Corte Cost., 29.05.2013, n. 101), in quanto, essendo il nostro ordinamento giuridico caratterizzato dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei poteri esercitati dalla P.A., nessuna forma di “sanatoria atipica” è ammessa dall’ordinamento positivo” (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.01.2019 n. 153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
EDILIZIA PRIVATA: La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa.
Invero, “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”.
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5. La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa (Cons. Stato Sez. VI, 07/09/2018, n. 5274: “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.01.2019 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
novembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla natura del silenzio ex art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 22 della l.r. 15/2008 – Area Vigilanza urbanistico-edilizia e contrasto all'abusivismo (Regione Lazio, nota 09.11.2018 n. 705439 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'annullamento in autotutela di una licenza edilizia in sanatoria, rilasciata ai sensi della legge 47/1985, ottenuta sulla base di una falsa dichiarazione dell'epoca dell'abuso – Comune di Mazzano Romano (Regione Lazio, nota 06.11.2018 n. 693050 di prot.).

ottobre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Vale osservare come anche il permesso di costruire in sanatoria (emesso a seguito di istanza di accertamento di conformità) abbia carattere vincolato, dal momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso può essere rilasciato solo laddove sia constatata la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e non anche nelle ipotesi in cui il provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto atto in concreto necessitato.
Infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di conformità in questione un esito diverso, atteso il suo innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale.

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5.1 Infine, quanto alla lamentata violazione delle garanzie procedimentali, vale osservare come anche il permesso di costruire in sanatoria (emesso a seguito di istanza di accertamento di conformità) abbia carattere vincolato, dal momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso può essere rilasciato solo laddove sia constatata la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e non anche nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto atto in concreto necessitato (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.01.2011 n. 609); infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di conformità in questione un esito diverso, atteso il suo innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale, come già rimarcato al precedente paragrafo 3 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento di conformità utilizzando volumetria non sfruttata o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti.
   (a) la conformità prevista dall’art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380 per la regolarizzazione degli abusi edilizi può essere ottenuta anche individuando volumetria residenziale non sfruttata in precedenti edificazioni o ristrutturazioni, o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti che ne siano titolari. Si tratta di residui di diritti edificatori che rimangono latenti finché non si presenta l’opportunità di impiegarli per integrare la volumetria già insediata;
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   (b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, in vigore all’epoca della ristrutturazione (v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014 n. 31), aveva la finalità di incentivare gli interventi edilizi in grado di migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Lo strumento incentivante scelto dal legislatore consisteva (e consiste tuttora) nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità di consumazione dei diritti edificatori grazie allo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura;
   (c) la diversa modalità di calcolo si traduce in un risparmio sulla volumetria disponibile, ossia in un bonus edificatorio, che può essere utilizzato immediatamente nella stessa edificazione, ma può anche essere impiegato in un secondo momento per effettuare degli ampliamenti. Come tutti i diritti edificatori, questo bonus è liberamente negoziabile e cedibile, in mancanza di disposizioni in senso contrario nella disciplina urbanistica comunale;
   (d) una serra solare bioclimatica è tale proprio perché consente l’irraggiamento solare, e dunque l’inserimento di una schermatura fissa è un chiaro indizio della trasformazione in volume residenziale, a maggior ragione se si accompagna ad altre opere coerenti con l’uso residenziale, come quelle realizzate dal ricorrente. Di conseguenza, per evitare la rimessione in pristino è necessario verificare se la volumetria risparmiata nel corso dell’intervento di ristrutturazione del 2009 sia sufficiente, applicando i criteri dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a sanare la volumetria residenziale abusiva;
   (e) poiché la quota di volumetria risparmiata attribuibile all’unità abitativa del ricorrente appare inferiore alla volumetria abusiva, il permesso di costruire in sanatoria può essere rilasciato solo qualora i proprietari confinanti, all’epoca coinvolti nella ristrutturazione, cedano la volumetria di rispettiva pertinenza fino alla concorrenza della volumetria da regolarizzare. Occorre precisare che deve trattarsi di vera e propria cessione di volumetria, e non di semplice costituzione di servitù sulla volumetria. L’atto di cessione dovrà essere trascritto, in modo che non si formino aspettative nei terzi circa la possibilità di utilizzare nuovamente questi diritti edificatori in futuro
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1. Il ricorrente, proprietario di un’unità abitativa in un edificio situato nel Comune di Salò, in via del Seminario, ha ottenuto nel 2013 il permesso di costruire per realizzare una serra solare bioclimatica in corrispondenza della terrazza dell’ultimo piano. Il risultato dell’edificazione (v. relazione paesistica e documentazione fotografica) è costituito da una torretta dove era prevista la posa di una copertura in vetro e di pareti ugualmente in vetro. Con queste caratteristiche, il locale non era computabile nella volumetria residenziale dell’edificio.
2. Nel corso dei lavori il ricorrente ha invece abusivamente trasformato la serra in un volume residenziale (113,06 mc), collocando un assito in legno al di sotto della copertura in vetro, realizzando un vano tecnico e una vasca a uso fioriera, e installando una pompa di calore per la climatizzazione.
3. In data 08.06.2016 il ricorrente ha chiesto il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, per consolidare la destinazione residenziale, anche allo scopo di collegare la ex serra solare bioclimatica al piano inferiore mediante una scala interna. Secondo il ricorrente, la volumetria a disposizione per l’ampliamento residenziale deriverebbe dal risparmio di volumetria realizzato nell’intervento di ristrutturazione ultimato nel 2009. Più precisamente, il risparmio sarebbe dovuto all’art. 2, comma 1-ter, della LR 20.04.1995 n. 26 (disciplina regionale sull’efficientamento energetico degli edifici), che consente lo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura quando siano raggiunti determinati obiettivi di risparmio energetico.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica del 29.11.2016, ha respinto la richiesta del ricorrente, in quanto (come chiarito nel preavviso di diniego del 10.10.2016) le modalità di calcolo più favorevoli potrebbero essere applicate solo agli interventi edilizi non ancora realizzati.
5. Contro i suddetti provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione, riproponendo la tesi della scomputabilità dei muri perimetrali e delle solette di copertura, da cui deriverebbe volumetria aggiuntiva utilizzabile per sanare l’ampliamento residenziale dell’edificio. I proprietari confinanti, parimenti interessati dalla ristrutturazione del 2009, sarebbero disposti a cedere la loro quota di volumetria da efficientamento energetico.
6. Il Comune si è costituito in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso.
7. Questo TAR, con ordinanza n. 77 del 02.02.2017, ha accolto la domanda cautelare, vincolando il Comune a ripronunciarsi dopo aver verificato sia la volumetria recuperabile grazie alle norme sull’efficientamento energetico, sia la cessione di volumetria da parte dei proprietari confinanti. Nell’appello cautelare, il Consiglio di Stato Sez. VI, con ordinanza n. 1708 del 24.04.2017, ha sollevato il Comune dall’obbligo di adottare un nuovo provvedimento espresso, ma ha confermato gli adempimenti istruttori.
8. In seguito, il ricorrente (v. deposito di data 30.04.2018) ha trasmesso agli uffici comunali la tabella con il calcolo della volumetria recuperata, nonché il preliminare per la costituzione di una servitù di utilizzo esclusivo della suddetta volumetria. Gli uffici comunali non hanno finora dato il loro assenso, avendo rilevato incongruenze nelle quote rispetto agli elaborati di progetto, e un eccesso di scomputo relativamente alle porzioni di muratura non costituenti involucro esterno. L’interlocuzione è ancora in corso.
9. Così sintetizzata la vicenda contenziosa, sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni, riprendendo quanto anticipato in sede cautelare:
   (a) la conformità prevista dall’art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380 per la regolarizzazione degli abusi edilizi può essere ottenuta anche individuando volumetria residenziale non sfruttata in precedenti edificazioni o ristrutturazioni, o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti che ne siano titolari. Si tratta di residui di diritti edificatori che rimangono latenti finché non si presenta l’opportunità di impiegarli per integrare la volumetria già insediata;
   (b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, in vigore all’epoca della ristrutturazione (v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014 n. 31), aveva la finalità di incentivare gli interventi edilizi in grado di migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Lo strumento incentivante scelto dal legislatore consisteva (e consiste tuttora) nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità di consumazione dei diritti edificatori grazie allo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura;
   (c) la diversa modalità di calcolo si traduce in un risparmio sulla volumetria disponibile, ossia in un bonus edificatorio, che può essere utilizzato immediatamente nella stessa edificazione, ma può anche essere impiegato in un secondo momento per effettuare degli ampliamenti. Come tutti i diritti edificatori, questo bonus è liberamente negoziabile e cedibile, in mancanza di disposizioni in senso contrario nella disciplina urbanistica comunale;
   (d) una serra solare bioclimatica è tale proprio perché consente l’irraggiamento solare, e dunque l’inserimento di una schermatura fissa è un chiaro indizio della trasformazione in volume residenziale, a maggior ragione se si accompagna ad altre opere coerenti con l’uso residenziale, come quelle realizzate dal ricorrente. Di conseguenza, per evitare la rimessione in pristino è necessario verificare se la volumetria risparmiata nel corso dell’intervento di ristrutturazione del 2009 sia sufficiente, applicando i criteri dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a sanare la volumetria residenziale abusiva;
   (e) poiché la quota di volumetria risparmiata attribuibile all’unità abitativa del ricorrente appare inferiore alla volumetria abusiva, il permesso di costruire in sanatoria può essere rilasciato solo qualora i proprietari confinanti, all’epoca coinvolti nella ristrutturazione, cedano la volumetria di rispettiva pertinenza fino alla concorrenza della volumetria da regolarizzare. Occorre precisare che deve trattarsi di vera e propria cessione di volumetria, e non di semplice costituzione di servitù sulla volumetria. L’atto di cessione dovrà essere trascritto, in modo che non si formino aspettative nei terzi circa la possibilità di utilizzare nuovamente questi diritti edificatori in futuro.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati.
11. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune a ultimare le verifiche tecniche sopra descritte, e a chiudere la procedura con un provvedimento espresso, nel termine di 60 giorni dal deposito della presente sentenza. Qualora le verifiche tecniche diano esito favorevole al ricorrente, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria potrà essere condizionato alla trascrizione dell’atto di cessione della volumetria, attribuendo per tale adempimento un termine non inferiore a 30 giorni (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.10.2018 n. 970 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

agosto 2018

EDILIZIA PRIVATA: Individuazione del momento in cui comincia ad applicarsi l’istituto del silenzio-assenso.
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Silenzio della P.A. – Silenzio assenso – Ambito temporale di applicazione – Individuazione.
Il silenzio–assenso, quale speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto, non può farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini, atteso che solo un'istanza posteriore a tale momento può ritenersi qualificata come elemento della relativa fattispecie.
E' necessario, cioè, che sia stata avanzata sotto il vigore della norma che prevede il prodursi di quel particolare effetto, che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di attivarsi tempestivamente.
L’effetto del silenzio-assenso non può prodursi neppure nell’ipotesi in cui l’istanza sia stata avanzata dopo la pubblicazione della legge di nuova introduzione ma prima della sua entrata in vigore, successiva al periodo di vacatio legis, poiché non può attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo in parte, ha avuto luogo (1).

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   (1) Ha ricordato il Tar che in Sicilia il silenzio-assenso sull’istanza di accertamento di conformità è stato introdotto con la legge regionale n. 16 del 10.08.2016, che, all’art. 14, comma 3, ha stabilito che “In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve periodo, ossia fino all’intervento della Corte Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto, dettato dall’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Ai sensi del comma 3 di tale articolo, “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Il Tar ha quindi stabilito, in assenza di disposizione transitoria, quale dei due regimi normativi sia applicabile al procedimento sottoposto al suo esame, avviato con istanza avanzata il 30.08.2016.
Ha chiarito che la legge regionale n. 16 del 2016 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale della Regione Siciliana n. 36 del 19.08.2016 e, pertanto, ai sensi dell’art. 13 dello Statuto regionale, che prevede un periodo di vacatio legis di 15 giorni, è entrata in vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto non può infatti farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 28.08.2018 n. 1741 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Preliminarmente, occorre rilevare l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità e di irricevibilità sollevate dal Comune.
La mancata impugnazione dell’ingiunzione di demolizione non preclude, infatti, l’impugnazione del provvedimento relativo all’istanza di accertamento di conformità.
Né può dirsi che sia stata prestata acquiescenza alla nota prot. 14404 del 04.05.2017, atteso che i ricorrenti hanno impugnato tale atto con il ricorso in esame, notificato il 13.10.2017 e quindi tempestivamente, posto che gli stessi ricorrenti hanno dichiarato di avere conosciuto la citata nota solo in occasione della notifica della nota prot. n. 23242 del 14.07.2017, spedita con raccomandata del 19.07.2017; circostanza, questa, non contestata dal comune.
Ciò premesso, deve passarsi all’esame del ricorso, valutando, preliminarmente, la natura degli atti impugnati, anche tenuto conto della proposizione, da parte dei ricorrenti, di una pluralità di doglianze, graduate in ragione di ciò che questo Collegio riterrà essere il contenuto di tali atti.
La nota prot. n. 14404/2017, infatti, è stata contestata: quale semplice atto con cui, nel presupposto che sull’istanza di accertamento di conformità non si sia formato un provvedimento tacito di assenso, si è preannunciata l’adozione di un provvedimento di diniego (primo motivo); quale atto di ritiro del provvedimento di assenso (secondo motivo) e quale provvedimento di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità (terzo motivo).
Orbene, ritiene il Collegio che non possa prescindersi dal dato testuale (“questo ufficio … provvederà ad emettere il provvedimento definitivo di diniego”), che non consente di attribuire natura provvedimentale alla nota, che preavvisa dell’adozione di un successivo provvedimento di diniego.
Benché tale atto contenga l’indicazione delle ragioni per le quali l’ufficio “ritiene di non accogliere la richiesta di accertamento di conformità”, la manifestazione di tale intendimento deve ritenersi abbia la natura di avviso ex art. 10-bis l. 241/1990, più che di provvedimento sull’istanza e ciò nonostante un primo preavviso di rigetto fosse stato adottato con nota del 24.12.2016.
L’atto, dunque, è stato adottato nel presupposto della pendenza del procedimento e, quindi, della mancata formazione di un provvedimento tacito di assenso; benché si tratti di atto endoprocedimentale, esso presenta autonoma lesività nella misura in cui implicitamente nega che si sia formato il silenzio-assenso e, sotto tale profilo, ne va vagliata la legittimità.
Va, in altre parole, scrutinata la questione dell’avvenuta formazione, nel caso in esame, del provvedimento tacito di assenso.
Il silenzio-assenso sull’istanza di accertamento di conformità è stato introdotto con la legge regionale n. 16 del 10.08.2016, che, all’art. 14, co. 3, ha così stabilito: “In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve periodo, ossia fino all’intervento della Corte Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto, dettato dall’art. 36, D.P.R. 380/2001.
Ai sensi del terzo comma di tale articolo, “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Occorre stabilire, in assenza di disposizione transitoria, quale dei due regimi normativi sia applicabile al procedimento in esame, avviato con istanza avanzata il 30.08.2016.
Deve rilevarsi, a tale proposito, che la legge regionale n. 16/2016 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla gazzetta ufficiale della Regione Siciliana n. 36 del 19.08.2016 e, pertanto, ai sensi dell’art. 13 dello Statuto regionale, che prevede un periodo di vacatio legis di 15 giorni, è entrata in vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto non può infatti farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini.
Ha affermato, in proposito, il Consiglio di Stato: “La procedura di silenzio-assenso è applicabile soltanto alle istanze presentate successivamente all'entrata in vigore delle norme che la istituiscono, atteso che solo un'istanza posteriore a tale momento può ritenersi qualificata come elemento della relativa fattispecie, cioè posta in essere quando è previsto il prodursi di quel particolare effetto di pendenza che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di attivarsi tempestivamente o, in alternativa, l'operare di un effetto abilitativo/permissivo favorevole all'istante, connesso all'inerzia dell'amministrazione oltre il limite temporale indicato dalla norma” (sez. V, 02.10.2008, n. 4755; nello stesso senso, sez. VI, 31.01.2006, n. 327).
La peculiarità della presente fattispecie –che la distingue dai casi esaminati nei precedenti appena citati- sta nel fatto che la nuova normativa è entrata in vigore in pendenza del termine per provvedere e non dopo il suo decorso. Tale circostanza, tuttavia, non consente di pervenire a conclusioni diverse, atteso che, comunque, non potrebbe attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo in parte, ha avuto luogo; ciò anche in considerazione del particolare effetto ad essa connesso, che è quello di “un surrettizio condono edilizio” (così Corte Cost. n. 232/2017).
In altri termini, anche in considerazione della necessità di fissare la regola da applicare al procedimento, non sembra logico che l’esito dello stesso e, soprattutto, la conseguenza della condotta (silenziosa) da parte dell’Amministrazione possa essere mutevole in ragione di una normativa sopravvenuta, venendo meno, così, la certezza del significato del comportamento che quest’ultima deve tenere.
Invero, si ribadisce con la previgente normativa, il mancato esito all’istanza avrebbe manifestato il diniego, mentre, con quella successiva, l’assenso e, quindi, la necessità di attivarsi (in virtù di una norma sopravvenuta), al fine di evitare l’eventuale diniego ritenuto legittimo.
Consegue il rigetto del ricorso.

EDILIZIA PRIVATA: Circa il diniego di sanatoria edilizia ordinaria (ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con riguardo ai due locali deposito realizzati mediante edificazione di un solaio intermedio, non presentando tali locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.
La attività istruttoria svolta in corso di giudizio ha accertato l’inesistenza di un volume realizzato in assenza di titolo sul ballatoio, di tal che per questa parte l’atto impugnato va considerato illegittimo sotto il profilo della carenza istruttoria.
Il provvedimento resiste, però, alle censure attoree nella parte in cui reca il diniego di sanatoria edilizia ordinaria (ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con riguardo ai due locali deposito realizzati mediante edificazione di un solaio intermedio: non presentando tali locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità; cfr. ex multis, TAR Campania, sez. IV, 31/01/2018 n. 695).
Il rilievo esposto consente, dunque, di ritenere superato il primo motivo di doglianza (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2018

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge - rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità – necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it).

maggio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione”.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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14. Non può, poi, darsi rilievo all’allegata conformità delle opere rispetto al vigente PGT, dedotta con il quarto motivo di ricorso.
14.1 Al riguardo, deve anzitutto rilevarsi che il PGT è entrato in vigore in un momento successivo non solo alla realizzazione dell’abuso, ma anche della presentazione della domanda di sanatoria.
14.2 Ciò posto, deve escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico
” (così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
14.3 Anche il quarto motivo di ricorso va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza presentata al Comune ha ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive.
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L'arti. 36 dpr 380/2001 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito.
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza.
In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante”.
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15. Con il quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti deducono la violazione del termine per provvedere, richiamando la disciplina del rilascio del permesso di costruire di cui all’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005.
15.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che, nel caso oggetto del presente giudizio, il superamento del termine per provvedere è ontologicamente inconfigurabile.
L’istanza presentata al Comune, e che ha condotto all’emanazione del provvedimento impugnato, aveva, infatti, ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost. n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681).
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla nuova determinazione negativa assunta espressamente dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
15.2 In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012, n. 1084).
15.3 Anche il quinto e ultimo motivo di impugnazione va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2018

EDILIZIA PRIVATA: L. Vergine, EFFETTI DELLA DOMANDA IN SANATORIA EX ART. 36 DEL DPR 380/2001 IN CASO DI PREGRESSA ADOZIONE DELL’ORDINANZA DI DEMOLIZIONE. Breve nota alla sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia–Lecce.
...
La sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia –Sez. I di Lecce– esamina il caso del ricorso proposto avverso l’ordinanza di demolizione con l’unico motivo della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001.
Tale disposizione espressamente prevede che decorsi 60 giorni dall’istanza senza che l’amministrazione si pronunci si formi il silenzio-rigetto (III comma), che, se non impugnato, rende definitivo il provvedimento implicito di diniego.
La novità dell’arresto giurisprudenziale del Tar è rappresentato dal principio secondo cui anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto –precisa il TAR– la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
Questo indirizzo è conforme alla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria. Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento” (Cons. di Stato, sez. VI, 04.04.2017 n. 1565) (22.03.2018 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
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La ricorrente ha impugnato l'ordinanza n. 25 del 25.11.2016 con la quale il Comune di Seclì le ha intimato la demolizione di un fabbricato in muratura della superficie di mq. 83,67, realizzato in assenza del previo rilascio del necessario titolo edilizio.
Nell’atto introduttivo la ricorrente ha allegato di avere presentato, in data 24.02.2017, istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed ha eccepito, come unico motivo di ricorso, la conseguente illegittimità sopravvenuta dell’atto impugnato.
Il Comune di Seclì si è costituito in giudizio e con memoria depositata in data 19.01.2018 ha evidenziato il formarsi del silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001 sull’istanza presentata dalla ricorrente, essendo decorsi sessanta giorni dal deposito senza che l’Ente si sia espresso favorevolmente e non avendo, peraltro, la signora Mo. articolato alcuna osservazione dopo l’invio da parte del Comune del preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge n. 241 del 1990, né prodotto l’ulteriore documentazione preannunciata con mail del 18.05.2017.
Il Collegio all’esito del giudizio, sulla base delle difese assunte dalle parti, degli atti prodotti e dei principi applicabili alla materia, ritiene il ricorso infondato.
Invero, la ricorrente ha articolato quale unica doglianza l’illegittimità sopravvenuta del provvedimento impugnato, per effetto della presentazione della domanda ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001in relazione al fabbricato abusivo, ma su tale domanda, come dimostrato dall’Ente convenuto, si è formato il silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001, provvedimento implicito che la signora Mo. non ha impugnato nei termini di legge, con conseguente consolidamento dell’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, sentenza n. 1565 del 2017) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.03.2018 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-rigetto tipizzato dall’art. 36, comma 3, del DPR n. 380 del 2001 esonera la Pubblica Amministrazione dal fornire una risposta esplicita sull’istanza e, dunque, non è configurabile a suo carico un’omissione di pronuncia.
L'Amministrazione, secondo la giurisprudenza maggioritaria, è tenuta a riscontrare le istanze dei privati soltanto laddove vi sia un obbligo di avvio del procedimento, che deve essere previsto dall’ordinamento, anche implicitamente.
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Nella fattispecie de qua, l’unica norma che può fondare un tale obbligo di avvio (e correlata conclusione) del procedimento risulta essere il citato art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda l’accertamento di conformità; tuttavia, il comma 3 stabilisce che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Da ciò discende che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione (…)”.
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Come eccepito dalla difesa comunale, i ricorrenti hanno chiesto al Comune, attraverso le due istanze trasmesse il 14.07.2017, di accertare nella sostanza la conformità edilizia di una serie di manufatti realizzati sia prima dell’anno 1977, sia successivamente.
Il contenuto concreto delle istanze appare del tutto evidente, nonostante nelle stesse si utilizzino i termini ‘validazione’ e ‘fiscalizzazione dell’abuso edilizio’, trattandosi dell’istituto disciplinato dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, ossia dell’accertamento di conformità, attraverso il quale “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Difatti, il presupposto normativo posto a fondamento delle istanze è le legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990) e, soltanto nella istanza relativa alle opere realizzate dopo il 1977, è stato richiamato anche il D.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. all. 3 al ricorso); inoltre, l’Amministrazione, secondo la giurisprudenza maggioritaria, è tenuta a riscontrare le istanze dei privati soltanto laddove vi sia un obbligo di avvio del procedimento, che deve essere previsto dall’ordinamento, anche implicitamente (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.05.2017, n. 2099; altresì V, 09.03.2015, n. 1182).
Nella fattispecie de qua, l’unica norma che può fondare un tale obbligo di avvio (e correlata conclusione) del procedimento risulta essere il citato art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda l’accertamento di conformità; tuttavia, il comma 3 stabilisce che “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Da ciò discende che “il silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Con la conseguenza che, all’atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare (…). Pertanto, a fronte di un’istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell’amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell’istanza. In quanto tacito, tale provvedimento impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione (…)” (TAR Calabria, Catanzaro, II, 22.08.2016, n. 1633; più di recente, TAR Puglia, Lecce, II, 12.01.2018, n. 30).
In conclusione, l’impugnativa in epigrafe, proposta nelle forme del ricorso avverso il silenzio-inadempimento, è inammissibile, in quanto il silenzio rigetto tipizzato dall’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 esonera la Pubblica Amministrazione dal fornire una risposta esplicita sull’istanza, e dunque non è configurabile a suo carico un’omissione di pronuncia (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 05.10.2017, n. 4683; TAR Toscana, III, 15.07.2011, n. 1223).
3. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
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L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato».
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7.- Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
8.- È indubbio che il Comune di San Pietro in Casale, allorché tra i motivi posti alla base della sospensione della D.I.A. ha identificato la carenza di titolo alla presentazione della medesima D.I.A. abbia inteso riferirsi, seppur implicitamente, alla carenza del titolo di proprietà che avrebbe legittimato l’intervento sanante di cui trattasi.
In tal senso, ad avviso del Collegio, non ci si trova al cospetto di un’integrazione postuma della motivazione del provvedimento quanto di un’indicazione che, seppur in modo sintetico, ha rilevato la carenza di presupposti per avvalersi della possibilità di ottenere un titolo postumo idoneo a sanare le opere abusivamente realizzate.
Sul punto, costituisce, invero, ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere, non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia, ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia ed anche la l.r. Em. Rom. n. 23 del 2004, art. 17) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
Nel caso di specie, la mancata acquisizione del consenso da parte del Condominio «Il Mu», odierno proprietario del bene, non può giustificarsi sulla base della asserita qualità di cointeressato che lo stesso Condominio rivestirebbe, dovendosi, al contrario, ritenere che il medesimo soggetto giuridico potrebbe astrattamente serbare un interesse alla rimessione in pristino dei luoghi e non già alla conservazione delle opere realizzate in difformità dal titolo abilitativo.
9.- Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta l’inapplicabilità delle misure di salvaguardia al caso di specie poiché non viene in rilievo una D.I.A. ordinaria bensì una D.I.A. in sanatoria volta ad ottenere l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione si porrebbe, ad avviso del ricorrente, poiché è vero che il R.U.E ha introdotto, anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia, la separazione acque bianche/acque nere ma lo stesso R.U.E., seppur adottato anteriormente alla presentazione della D.I.A. in sanatoria, è stato approvato in un momento successivo ad essa.
Tale circostanza deporrebbe, ad avviso della Er. s.r.l., per l’applicazione alla vicenda per cui è causa del pregresso assetto normativo comunale, ossia dell’art. 24 del previgente regolamento per il servizio di fognatura e depurazione approvato nel 1986.
9.1.- Il motivo non è meritevole di pregio.
9.2.- L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato» (Cass. pen. Sez. III, n. 21781 del 2011; sul punto già Cass., sez. III, n. 291 del 2004).
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11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato (TAR Emilia Romagna-Bolgna, Sez. II, sentenza 10.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Al fine del rilascio del permesso in sanatoria, la norma statale prescrive che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di cui all’art. 36 (cosiddetta doppia conformità).
Come confermato dalla giurisprudenza di legittimità e dalla recente giurisprudenza amministrativa, il rilascio del permesso in sanatoria estingue il reato di cui all’art. 44 del Testo unico dell’edilizia, sempre che «ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 della normativa e precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della c.d. sanatoria giurisprudenziale, o impropria, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica».
L’art. 36 del t.u. edilizia stabilisce, inoltre, che, trascorsi 60 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che l’ufficio competente si sia pronunciato, si formi il cosiddetto silenzio-rigetto, che pertanto esclude l’effetto estintivo del reato.
Questa Corte si è più volte occupata del principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 t.u. edilizia e ha affermato che esso, che costituisce «principio fondamentale nella materia governo del territorio», è «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità».
Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto «fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali», laddove il condono edilizio «ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia».
Anche a prescindere da tali classificazioni, occorre ricordare che, sebbene questa Corte abbia riconosciuto che la disciplina dell’accertamento di conformità attiene al governo del territorio, ha comunque precisato che spetta al legislatore statale la scelta sull’an, sul quando e sul quantum della sanatoria, potendo il legislatore regionale intervenire solo per quanto riguarda l’articolazione e la specificazione di tali disposizioni.
Quanto alle Regioni ad autonomia speciale, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, si è puntualizzato che esse devono, in ogni caso, rispettare il limite della materia penale e di «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di grande riforma», come nel caso del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
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4.– Viene, poi, impugnato l’art. 14 della medesima legge regionale n. 16 del 2016, in specie là dove, recependo nell’ordinamento regionale l’art. 36 del t.u. edilizia in materia di “accertamento di conformità”, stabilisce, al comma 1, che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» e, al comma 3, che «[i]n presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita».
Tali previsioni sarebbero entrambe costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 14, primo comma, lettera f), dello statuto speciale e dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Infatti, la prima (il comma 1) introdurrebbe una surrettizia forma di condono edilizio e con ciò eccederebbe dalla competenza legislativa esclusiva attribuita alla Regione in materia di urbanistica dall’art. 14, primo comma, lettera f), dello statuto, con conseguente invasione della sfera di competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Quanto alla seconda (il comma 3 del medesimo art. 14), essa, nella parte in cui introduce un meccanismo di silenzio-assenso ai fini del rilascio del permesso in sanatoria, che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni, in contrasto con la normativa statale, determinerebbe un effetto estintivo delle contravvenzioni contemplate dall’art. 44 del t.u. edilizia, incidendo, anche in tal caso, sulla competenza esclusiva del legislatore statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
L’art. 14, commi 1 e 3, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost. in quanto, secondo il ricorrente, introdurrebbe una discriminazione ingiustificata fra soggetti operanti in diverse Regioni, a parità di comportamento tenuto.
4.1.–
Le questioni promosse nei confronti dell’art. 14, commi 1 e 3, della legge regionale n. 16 del 2016, in riferimento agli artt. 14, primo comma, lettera f ), dello statuto speciale e 117, secondo comma, lettera l ), Cost., sono fondate.
Le disposizioni impugnate sono contenute nell’art. 14 della legge regionale n. 16 del 2016, intitolato «Recepimento con modifiche dell’articolo 36 “Accertamento di conformità” del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380».
Come si evince dalla stessa intitolazione, l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina l’accertamento di conformità e cioè quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di manufatti o opere, realizzati in assenza di titolo edilizio.
Al fine del rilascio del permesso in sanatoria, la norma statale prescrive che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della istanza di cui all’art. 36 (cosiddetta doppia conformità).
Come confermato dalla giurisprudenza di legittimità (di recente Cass., sez. terza, n. 26425 del 2016; Cass., sez. terza, n. 35872 del 2016) e dalla recente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), il rilascio del permesso in sanatoria estingue il reato di cui all’art. 44 del Testo unico dell’edilizia, sempre che «ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 della normativa e precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della c.d. sanatoria giurisprudenziale, o impropria, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica» (Cass., sez. terza, n. 26425 del 2016). L’art. 36 del t.u. edilizia stabilisce, inoltre, che, trascorsi 60 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che l’ufficio competente si sia pronunciato, si formi il cosiddetto silenzio-rigetto, che pertanto esclude l’effetto estintivo del reato.
Questa Corte si è più volte occupata del principio dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 t.u. edilizia e ha affermato che esso, che costituisce «principio fondamentale nella materia governo del territorio» (da ultimo, sentenza n. 107 del 2017), è «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità» (sentenza n. 101 del 2013).
Tale istituto si distingue dal condono edilizio, in quanto «fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali», laddove il condono edilizio «ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia» (sentenza n. 50 del 2017).
Anche a prescindere da tali classificazioni, occorre ricordare che, sebbene questa Corte abbia riconosciuto che la disciplina dell’accertamento di conformità attiene al governo del territorio, ha comunque precisato che spetta al legislatore statale la scelta sull’an, sul quando e sul quantum della sanatoria, potendo il legislatore regionale intervenire solo per quanto riguarda l’articolazione e la specificazione di tali disposizioni (sentenza n. 233 del 2015).
Quanto alle Regioni ad autonomia speciale, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, si è puntualizzato che esse devono, in ogni caso, rispettare il limite della materia penale e di «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di grande riforma», come nel caso del titolo abilitativo edilizio in sanatoria (sentenza n. 196 del 2004).
Nel caso di specie, la norma regionale impugnata consente il rilascio del permesso in sanatoria nel caso di intervento edilizio di cui sia attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al solo momento della presentazione della domanda e non anche a quello della realizzazione dello stesso, in difformità dall’art. 36 del t.u. edilizia (comma 1). La stessa norma (comma 3) introduce anche l’istituto del silenzio-assenso, in luogo di quello del silenzio-rigetto, previsto dal citato art. 36.
Sennonché la scelta della qualificazione giuridica del comportamento omissivo dell’amministrazione costituisce espressione di una norma di principio, condizionando –come nel caso di specie– fra l’altro l’effetto estintivo delle contravvenzioni contemplate dall’art. 44 del tu. edilizia. Queste disposizioni finiscono con il configurare un surrettizio condono edilizio e comunque travalicano la competenza legislativa esclusiva attribuita alla Regione in materia di urbanistica dall’art. 14, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, invadendo la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla sanatoria di abusi edilizi.
Né alcun rilievo assume la presunta coerenza delle disposizioni impugnate con gli approdi di una parte della giurisprudenza amministrativa (sulla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale), peraltro contraddetta da orientamenti consolidati, espressi anche di recente (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), «perché un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe che provenire dal legislatore statale» (sentenza n. 233 del 2015).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 3, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» (comma 1) e non anche a quella vigente al momento della realizzazione dell’intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni» (comma 3) dalla presentazione dell’istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria.
4.2.– Resta assorbita l’ulteriore censura rivolta alle stesse disposizioni in riferimento all’art. 3 Cost.
...
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
...
   2)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 3, della legge della Regione siciliana n. 16 del 2016, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che «[…] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» (comma 1) e non anche a quella vigente al momento della realizzazione dell’intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni» (comma 3) dalla presentazione dell’istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria (Corte Costituzionale, sentenza 08.11.2017 n. 232).

ottobre 2017

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria pronuncia sulla motivazione del provvedimento di annullamento della concessione edilizia in sanatoria adottato a distanza di anni dal rilascio del titolo.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato – Necessità – Limiti
Nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005– l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte. (1)

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   (1) I.- Con ordinanza 19.04.2017 n. 1830 (oggetto della News US in data 26.04.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento), la quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la questione concernente l’ambito della motivazione dell’annullamento di ufficio di una concessione in sanatoria intervenuto a considerevole distanza di tempo dal rilascio del titolo, nella vigenza dell’originaria versione della norma generale sull’annullamento d’ufficio, come introdotta nel corpo della legge 241 del 1990 con la riforma del 2005.
La rimessione è stata adottata nell’ambito di un giudizio di appello proposto per la riforma di una sentenza di primo grado che aveva respinto l’originaria impugnativa dell’annullamento d’ufficio di titoli edilizi rilasciati in sanatoria alcuni anni prima.
La sentenza di primo grado aveva fondato il rigetto del gravame sul principio tradizionale a mente del quale l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata negli abusi edilizi è in re ipsa e non richiede una particolare motivazione, essendo prevalente rispetto all’interesse dei ricorrenti al mantenimento del manufatto abusivo.
In sede di appello, richiamando la questione sollevata da Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 24.03.2017 n. 1337 (concernente la consistenza della motivazione dell’ordine di demolizione adottato a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso), la quarta Sezione ha rilevato il sorgere di un contrasto fra due orientamenti, uno più recente ed uno tradizionale, fatto proprio dal giudice di prime cure. Il primo, sulla base del testo dell’art. 21-nonies cit., e anche in considerazione delle recenti modifiche dello stesso, ritiene necessaria una valutazione dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli originari provvedimenti, in un tempo ragionevole; con la conseguenza che il lungo decorso del tempo agisce a favore dell’affidamento ingenerato nel privato e incide anche sulla valutazione del pubblico interesse in concreto. Il secondo, sino ad ora maggioritario, pur nella vigenza del citato articolo, esclude la necessità della valutazione dell’interesse pubblico in concreto, essendo esso insito nella restaurazione della legalità violata, quantomeno, tutte le volte che la illegittimità sia dipesa dalle prospettazioni non veritiere del privato.
   II.- L’Adunanza Plenaria, dopo aver richiamato in modo analitico le argomentazioni dei due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, opera una complessiva ed innovativa rilettura dello statuto del potere di autotutela in materia edilizia alla luce delle norme sancite dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2015, affermando i seguenti principi:
a) poiché la vicenda contenziosa è governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005, non rilevano, ai fini della decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015, disposizione quest’ultima dalla quale non possono trarsi elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo;
b) l’autotutela in materia edilizia, in mancanza di una disciplina speciale (prevista ad esempio per disciplinare le conseguenze dell’annullamento del titolo edilizio dall’art. 38 del DPR 380/2001), è, a tutti gli effetti, attività di amministrazione attiva in senso proprio, implicante l’esercizio di un potere di valutazione comparativa degli interessi, con la conseguenza che di regola –e salva l’ipotesi di mala fede del privato- grava sull’amministrazione l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti, con ciò dovendosi escludere la possibilità di postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati. Ciò anche in applicazione del generale principio del clare loqui, dell’obbligo di motivazione e della progressiva dequotazione dei vizi meramente formali dei provvedimenti in favore delle c.d. illegittimità praticabili desumibile da precisi indici normativi (cfr. in tal senso la modifica al comma 2 dell’articolo 21-nonies, cit., disposta dall’articolo 25, comma 2, lettera b-quater) del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 nonché il comma 2 dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124 che ha espressamente abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della l. 30.12.2004, n. 311);
c) la teorica dell’interesse pubblico in re ipsa implica la rimozione in via ermeneutica di due elementi normativamente indefettibili quali la ragionevolezza del termine e la motivata valutazione dei diversi interessi in gioco (espressamente contemplati dall’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990), si fonda sul principio di inesauribilità del potere che, tuttavia, nell’attuale fase storica, deve conciliarsi con il valore della certezza delle situazioni giuridiche soggettive e di prevedibilità delle decisioni e si pone anche in contrasto con la natura discrezionale del potere di autotutela rendendo, di fatto, vincolata una decisione solo eventuale;
d) la locuzione ‘termine ragionevole’ deve essere interpretata nel senso che il termine in questione decorre soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto, con la conseguenza che in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere, laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità;
e) l’onere motivazionale, comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato, deve ritenersi comunque attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati. Pertanto laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere ‘autoevidente’, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi;
f) nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo, l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dall’istante, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico, neppure qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198; id., V, 13.05.2014, n. 2451 citate in motivazione);
g) poiché la errata prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole escludono la possibilità di configurare in capo al medesimo una posizione di affidamento incolpevole, l’amministrazione può adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione.
   III.- Per completezza si segnala quanto segue:
h) in tema di autotutela in materia di urbanistica ed edilizia possono richiamarsi diversi orientamenti giurisprudenziali su temi specifici, fra cui:
      I) in relazione alla inesigibilità di particolari garanzie partecipative in vista dell’autotutela in presenza di un titolo edilizio rilasciato in base ad una errata rappresentazione della realtà giuridica e fattuale, Cons. Stato, Sez. IV, 14.06.2017, n. 2885;
      II) in relazione alla differenza fra annullamento in autotutela del titolo edilizio da parte del comune e annullamento regionale ex art. 39 t.u. edilizia (pure presa in considerazione dalla Adunanza plenaria onde evidenziarne la non riconducibilità al medesimo genus e regime giuridico), Cons. Stato, Sez. IV, 16.08.2017, n. 4008 (che si segnala per la completezza della trattazione dell’istituto; si è precisato, invero, che è ben possibile che l’Amministrazione, in presenza di una norma specifica come quella dell’art. 39 cit. disponga l’annullamento del titolo edilizio anche dopo un considerevole lasso di tempo dall’adozione del titolo medesimo, fermo restando che in relazione a tale norma, però, l’annullamento appare espressione della titolarità e cogestione, rispettivamente del potere e dell’interesse, inerenti alla pianificazione urbanistica da parte della regione);
      III) in relazione all’estensione dell’obbligo di motivazione, Cons. Stato, Sez. VI, 28.06.2016, n. 2842, secondo cui “l’amministrazione, soprattutto quando interviene a distanza di anni dalla formazione di un titolo abilitativo astrattamente idoneo alla realizzazione di alcuni lavori, deve illustrare in maniera diffusa le ragioni, anche di interesse pubblico, che giustificano il ritiro dell'abilitazione, ovvero le altre ragioni che impongono il provvedimento sanzionatorio con l'ordine di riduzione in pristino” (in Rivista Giuridica dell'Edilizia, 2016, 4, I, 523; la sentenza richiama, a sostegno delle tesi sostenute, Corte cost., 09.03.2016 n. 49 – ibidem, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, Giur. it., 2016, 2233, con nota di VIPIANA PERPETUA- che ha dichiarato incostituzionale una norma di una legge della Regione Toscana che consentiva all'Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., in un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4, dell'art. 19, della l. n. 241 del 1990);
      IV) in relazione all’annullamento di atto pianificatorio, Tar per il Lazio-Roma, Sez. II-ter, 19.07.2016, n. 8277: “Dal momento che l'approvazione di uno strumento urbanistico dipende da un procedimento complesso al quale concorrono il Comune (cui è demandata la potestà di iniziativa) e la Regione (cui compete la fase di controllo), laddove l'Ente locale territoriale intenda perseguire l'annullamento dell'atto di pianificazione definitivo per ragioni di grave illegittimità deve rispettare il medesimo procedimento previsto per la formazione dello strumento urbanistico che si intende annullare, secondo il principio del “contrarius actus”, dal momento che l'autotutela non può che essere esercitata congiuntamente ed in concerto tra le Amministrazioni che sono competenti all'esercizio del potere di primo grado, nei rispettivi limiti e ruoli: a diversamente ritenere, infatti, si perverrebbe alla conseguenza che, in sede di autotutela, il Comune eserciterebbe un potere di maggiore ampiezza rispetto a quello di cui è titolare in fase di formazione dello strumento urbanistico”;
      V) in relazione alle distanze, Tar per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, 09.05.2016, n. 152: “L'annullamento in autotutela di una concessione edilizia rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal Comune è vincolata”;
      VI) in relazione alla s.c.i.a., Tar per la Liguria, Sez. I, 03.10.2016 n. 970: “nell'atto di annullamento degli effetti della s.c.i.a, l'Amministrazione deve dare conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati”;
i) in dottrina, per una accurata ricostruzione degli istituti dell’annullamento dei titoli edilizi da parte del comune e dell’annullamento regionale, v. da ultimo, R. LEONARDI – M. OCCHIENA, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 896 ss.; P. PORTALURI, ibidem, 925 ss. (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 8 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell'annullamento d'ufficio dell'ordinanza edilizia in sanatoria disposto a distanza di anni dal suo rilascio.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato - Necessità - Limiti.
Nella vigenza dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241 –introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15- l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   b) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (1).

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   (1) La questione era stata sollevata dalla sez. IV con ord. 19.04.2017, n. 1830.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sulla questione si sono formati due orientamenti.
In base a un primo, maggioritario, orientamento (Cons. St., sez. IV, 19.08.2016, n. 3660; id., sez. V, 08.11.2012, n. 5691), l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato.
I fautori di tale tesi ritengono in particolare che non gravi in capo all’amministrazione un particolare onere motivazionale –ovvero l’obbligo di valutare i diversi interessi in campo– laddove l’illegittimità del titolo in sanatoria sia stata determinata da una falsa rappresentazione dei fatti e dello stato dei luoghi imputabile al beneficiario del titolo in sanatoria (Cons. St., sez. IV, 27.08.2012, n. 4619). In base a tale prospettazione, uno specifico onere motivazionale a sostegno dell’autotutela può essere imposto all’amministrazione soltanto laddove l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione imputabili alla stessa amministrazione (Cons. St., sez. V, 08.11.2012, n. 5691).
In base a un secondo orientamento (più recente e allo stato minoritario), anche nel caso di annullamento ex officio di titoli edilizi in sanatoria dovrebbero trovare integrale applicazione i generali presupposti legali di cui all’art. 21-nonies, l. 241 del 1990, non potendo l’amministrazione fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (Cons. St., sez. VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., sez. IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio postula l’apprezzamento di un presupposto –per così dire– ‘rigido’ (l’illegittimità dell’atto da annullare) e di due ulteriori presupposti riferiti a concetti indeterminati, da apprezzare discrezionalmente dall’amministrazione (si tratta della ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e dell’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari: Cons. St., sez. VI, 27.01.2017, n. 341).
In base a tale orientamento, il fondamento di tali ulteriori presupposti va individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del giusto equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell’assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.
L’amministrazione che intende procedere all’annullamento ex officio di un provvedimento di sanatoria di opere abusive di operare un motivato bilanciamento fra (da un lato) l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e (dall’altro) l’interesse dei destinatari al mantenimento dello status quo ante (interesse viepiù rafforzato dall’affidamento legittimo determinato dall’adozione dell’atto e dal decorso del tempo). La motivata ponderazione fra i diversi interessi in gioco risulta tanto più necessaria nel caso di atti di ritiro di titoli edilizi, i quali sono destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto ampliativo, palesando una scelta legislativa volta a riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto i cui effetti si sono ormai prodotti in via definitiva.
L’Adunanza plenaria ha affermato che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti. Conseguentemente, grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti.
Ha aggiunto che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio –anche in sanatoria– rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (Cons. St., sez. IV, 12.12.2016, n. 5198; id., sez. V, 13.05.2014, n. 2451).
La stessa giurisprudenza ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale (Cons. St., sez. VI, 27.09.2016, n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione. In tali ipotesi l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale), l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 8 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa Adunanza Plenaria il ricorso in appello proposto dai signori No. e De Ga. (i quali hanno acquistato un compendio immobiliare nel Comune di Giovinazzo (BA) comprendente, fra l’altro un ex capannone industriale in seguito adibito a cinema e un immobile pertinenziale poi adibito a bar/rosticceria) avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Puglia con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune ha annullato in autotutela il titolo in sanatoria rilasciato circa nove anni prima per il medesimo immobile, ordinandone altresì la demolizione.
2. Come si è anticipato in narrativa,
l’ordinanza di rimessione n. 1830/2017, dopo aver premesso che la vicenda di causa risulta governata dalla previsione dell’articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241 nel testo introdotto dall’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 15, chiede in sostanza a questa Adunanza plenaria di chiarire:
 
  i) se l’annullamento ex officio di un titolo edilizio in sanatoria intervenuto a notevole distanza di tempo dal provvedimento originario debba comunque essere motivato in relazione a un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione e ai contrapposti interessi dei soggetti incisi;
   ii) se, ai fini di tale comparazione, rilevi che il privato abbia indotto in errore l’amministrazione attraverso l’allegazione di circostanze non veritiere idonee a determinare l’adozione dell’originario provvedimento favorevole.

3. Il Collegio ritiene che evidenti ragioni di ordine sistematico ed espositivo inducano in primo luogo ad individuare in modo puntuale il quadro normativo applicabile e a delimitare altresì il thema decidendum, anche al fine di evitare che la vastità della materia trattata induca ad esulare dai confini tracciati dall’ordinanza di rimessione.
4. Va in primo luogo osservato che la vicenda per cui è causa resta pacificamente governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005.
Non rilevano, quindi, ai fini della presente decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015.
Tale disposizione non provvede che per il futuro, sicché dalla stessa non possono essere tratti elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo.
Giova, d’altra parte, rilevare che, la novella del 2015 mira, attraverso la fissazione di un termine di diciotto mesi, alla predeterminazione legale della nozione di ragionevolezza del termine per l'annullamento in autotutela; nessuno specifico e novativo riferimento la nuova disciplina contiene, invece, in relazione alla questione della motivazione del provvedimento di autotutela, limitandosi la novella a richiamare, come già la disciplina previgente, la necessità di tener conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati del provvedimento oggetto del potere di autotutela.
5. Si osserva in secondo luogo (e al fine di sgombrare preventivamente il campo da possibili profili di confusione) che la presente decisione –per come delimitata nel suo ambito oggettivo dall’ordinanza di rimessione– attiene in particolare alla determinazione del quantum di onere motivazionale che grava sull’amministrazione al fine di rappresentare correttamente la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per il legittimo esercizio del potere di autotutela.
6. Si osserva in terzo luogo che non viene qui in rilievo, l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia (doverosamente, sia pure tardivamente) adottato un ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
E’ evidente infatti che in tale ipotesi non vengano in rilievo neppure ai fini motivazionali, le categorie tipiche dell’autotutela decisoria, quanto –piuttosto– il diverso tema del tardivo esercizio di un’attività repressiva che è e resta doverosa indipendentemente dal decorso del tempo e dalla valutazione dei diversi interessi in gioco.
Ciò che qui viene in rilievo è invece la diversa ipotesi in cui l’amministrazione dapprima rilasci un titolo in sanatoria a fronte di un’edificazione abusiva e poi, decorso un apprezzabile lasso di tempo, si avveda dell’illegittimità del titolo in sanatoria a suo tempo rilasciato e ravvisi i presupposti per disporne l’annullamento d’ufficio.
7. Tanto premesso in via generale, si osserva che l’ordinanza di rimessione ha richiamato in modo sintetico ma puntuale gli argomenti essenziali che sostengono le due principali tesi attualmente in campo.
7.1. In base a un primo orientamento, allo stato maggioritario,
l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V, 08.11.2012, n. 5691).
I fautori di tale tesi ritengono in particolare che
non gravi in capo all’amministrazione un particolare onere motivazionale –ovvero l’obbligo di valutare i diversi interessi in campo– laddove l’illegittimità del titolo in sanatoria sia stata determinata da una falsa rappresentazione dei fatti e dello stato dei luoghi imputabile al beneficiario del titolo in sanatoria (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 27.08.2012, n. 4619).
In tali ipotesi
risulterebbe anzi inconferente lo stesso richiamo alla disciplina di cui agli articoli 21-octies e 21-nonies della l. 241 del 1990 poiché è proprio la falsa rappresentazione dei fatti rilevanti a rendere vincolata l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (ivi).
In base a tale prospettazione,
uno specifico onere motivazionale a sostegno dell’autotutela può essere imposto all’amministrazione soltanto laddove l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione imputabili alla stessa amministrazione (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5691 del 2012, cit.).
7.2. In base a un secondo orientamento (più recente e allo stato minoritario),
anche nel caso di annullamento ex officio di titoli edilizi in sanatoria dovrebbero trovare integrale applicazione i generali presupposti legali di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, non potendo l’amministrazione fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., IV, 15.02.2013, n. 915).
Ne consegue che
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio postula l’apprezzamento di un presupposto –per così dire– ‘rigido’ (l’illegittimità dell’atto da annullare) e di due ulteriori presupposti riferiti a concetti indeterminati, da apprezzare discrezionalmente dall’amministrazione (si tratta della ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e dell’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari –Cons. Stato, VI, 27.01.2017, n. 341-).
In base all’orientamento in parola,
il fondamento di tali ulteriori presupposti va individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del giusto equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell’assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.
La richiamata sentenza n. 341 del 2017
ha altresì affermato il generale obbligo per l’amministrazione la quale intenda procedere all’annullamento ex officio di un provvedimento di sanatoria di opere abusive di operare un motivato bilanciamento fra (da un lato) l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e (dall’altro) l’interesse dei destinatari al mantenimento dello status quo ante (interesse viepiù rafforzato dall’affidamento legittimo determinato dall’adozione dell’atto e dal decorso del tempo).
La decisione in parola ha inoltre stabilito che
la motivata ponderazione fra i diversi interessi in gioco risulti tanto più necessaria nel caso di atti di ritiro di titoli edilizi, i quali sono destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto ampliativo, palesando una scelta legislativa volta a riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto i cui effetti si sono ormai prodotti in via definitiva.
8. Tanto premesso dal punto di vista generale, il Collegio ritiene di esaminare la questione sottoposta secondo una precisa sequenza logico-sistematica:
   - in primo luogo occorrerà domandarsi se l’annullamento ex officio di un titolo edilizio in sanatoria presupponga –sulla base di generali principi trasfusi nella previsione dell’articolo 21-nonies, cit.– la motivata valutazione dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, anche alla luce degli interessi dei destinatari alla permanenza di effetti di tale titolo, ovvero se in tale particolare materia possa affermarsi la non necessità di un siffatto onere motivazionale, sussistendo un interesse pubblico in re ipsa al ripristino dell’ordine giuridico violato;
   - in secondo luogo (e laddove si considerino applicabili al caso che ne occupa le generali categorie di cui all’articolo 21-nonies, cit.) ci si domanderà se il decorso di un considerevole lasso di tempo possa incidere in radice sul potere di annullamento d’ufficio e quale sia il corretto dies a quo per l’individuazione del termine ‘ragionevole’ di esercizio di tale potere;
   - in terzo luogo (e sempre laddove si considerino applicabili al caso in esame le richiamate, generali categorie) ci si domanderà se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati;
   - in quarto luogo ci si domanderà se la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole consenta comunque di configurare in capo a lui una posizione di affidamento incolpevole e se (in caso negativo) l’amministrazione possa adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento in base al mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione.
9. Ebbene, prendendo le mosse dal primo dei richiamati quesiti,
questa Adunanza plenaria ritiene che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti.
Conseguentemente,
grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti.
9.1. Non si tratta qui di negare l’evidente esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno dell’abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con strumenti efficaci e tempestivi e con la piena consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale (quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio, nonché la tutela della pubblica incolumità).
Occorre tuttavia responsabilizzare le amministrazioni all’adozione di un contegno chiaro e lineare, tendenzialmente fondato sullo scrupoloso esame delle pratiche di sanatoria o comunque di permesso di costruire già rilasciato, e sul diniego ex ante di istanze che si rivelino infondate, nonché sull’obbligo di serbare –in caso di provvedimenti di sanatoria già rilasciati– un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui.
Se infatti è certamente condivisibile l’intento di agevolare le amministrazioni nel contrastare anche ex post l’abusivismo edilizio (consentendo loro di motivare anche in modo sintetico in ordine alla prevalenza delle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento dei provvedimenti di sanatoria illegittimamente concessi), non emergono invece argomenti che legittimino la sostanziale de-responsabilizzazione delle amministrazioni stesse attraverso una radicale e indistinta esenzione dal generale obbligo di motivazione.
Si osserva al riguardo che l’incondizionata adesione alla (pur suggestiva) formula dell’interesse pubblico in re ipsa può produrre effetti distorsivi, consentendo in ipotesi-limite all’amministrazione -la quale abbia comunque errato nel rilascio di una sanatoria illegittima– dapprima di restare inerte anche per un lungo lasso di tempo e poi di adottare un provvedimento di ritiro privo di alcuna motivazione, in tal modo restando pienamente de-responsabilizzata nonostante una triplice violazione dei principi di corretta gestione della cosa pubblica.
Si osserva inoltre che, nel corso del tempo, la richiamata formula dell’interesse pubblico in re ipsa ha assunto talora una connotazione assiologica, inducendo ad annettere un valore in sé all’annullamento del titolo in sanatoria illegittimo, perfino se fondato su profili di illegittimità di carattere meramente formale o procedimentale.
Ma il punto è che, in siffatte ipotesi, non è predicabile un effettivo ed immanente interesse pubblico alla rimozione di un atto (la sanatoria illegittima) che non si pone in contrasto in termini sostanziali con la pertinente disciplina edilizia e urbanistica (e quindi con il complesso di valori cui tale disciplina presiede), ma risulta viziato soltanto in relazione ad aspetti formali o procedimentali, non giustificando in definitiva –e pure in presenza di un atto illegittimo– il riconoscimento di un interesse pubblico in re ipsa all’adozione dell’atto di ritiro.
Si tratta, del resto, di un aspetto che è stato in tempi recenti puntualmente preso in considerazione dal Legislatore il quale ha escluso che l’annullamento ex officio di un atto illegittimo possa essere disposto nel caso delle illegittimità cc.dd. non invalidanti di cui al comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (in tal senso la modifica al comma 2 dell’articolo 21-nonies, cit., disposta dall’articolo 25 , comma 2, lettera b-quater), del decreto-legge 12.09.2014, n. 133).
9.2. Sempre restando sugli argomenti desumibili dal diritto positivo, è rilevante osservare che il legislatore ha in tempi recenti espunto dall’ordinamento la disposizione che rappresentava il più evidente richiamo alla nozione di interesse pubblico in re ipsa.
In particolare, è noto che il comma 2 dell’articolo 36 della l. 07.08.2015, n. 124 ha espressamente abrogato il comma 136 dell’articolo 1 della l. 30.12.2004, n. 311 (il quale consentiva in ogni tempo alle amministrazioni pubbliche di disporre l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi fosse ancora in corso, a condizione che tale annullamento mirasse “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari”).
9.3. Si osserva poi che il riconoscimento di un interesse pubblico al ripristino della legalità violata (la cui sussistenza è di intuitiva evidenza, anche a notevole distanza di tempo dall’originaria adozione dell’atto) non sta necessariamente a significare che tale interesse sia l’unico fattore idoneo a orientare le scelte discrezionali dell’amministrazione in caso di risalenti violazioni in materia urbanistica, sì da esonerare in radice l’amministrazione da qualunque motivata valutazione in ordine ad ulteriori fattori e circostanze rilevanti.
Si intende con ciò rappresentare che la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione di un atto amministrativo illegittimo (anche a prescindere dal ricorso alla formula dell’interesse in re ipsa) è oggettivamente connaturata alla rilevata sussistenza di una situazione antigiuridica.
Ma ciò non sta a significare che il riconoscimento di un tale interesse (peraltro, espressamente richiamato dal comma 1 del più volte richiamato articolo 21-nonies) comporti di per sé la pretermissione di ogni altra circostanza rilevante (come gli interessi dei destinatari dell’atto, di cui la disposizione chiede espressamente di tener conto) ed esoneri l’amministrazione da qualunque –seppur succintamente motivata- valutazione sul punto.
Una cosa è infatti la tendenziale prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico rispetto agli altri interessi rilevanti; ben altra cosa è la radicale pretermissione, anche ai fini motivazionali, di tali ulteriori circostanze attraverso una loro innaturale espunzione dalla fattispecie (e tanto, in distonia con la generale previsione di cui all’articolo 21-nonies, cit. il quale –con previsione applicabile anche al settore che ne occupa- impone al contrario una considerazione degli elementi sopra indicati).
9.4. Si osserva ancora che la tesi dell’interesse pubblico in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo presenta rilevanti quanto evidenti aspetti di contiguità sistematica con la teorica dell’inconsumabilità del potere (o di quella che un risalente orientamento ebbe a definire “la perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi” –in tal senso: Cons. Stato, II, 07.06.1995, n. 2917/94-).
Ma è altresì evidente che quella teorica (predicabile senza riserve in periodi caratterizzati dalla prevalenza del momento autoritativo nei rapporti fra amministrazione e cittadino e dal sostanziale privilegio riconosciuto all’amministrazione in sede di esercizio dell’autotutela) debba essere almeno in parte rimeditata nell’attuale fase di evoluzione di sistema, che postula una sempre maggiore attenzione al valore della certezza delle situazioni giuridiche e alla tendenziale attenuazione dei privilegi riconosciuti all’amministrazione, anche quando agisce con poteri squisitamente autoritativi e nel perseguimento di primarie finalità di interesse pubblico.
Si osserva inoltre che, laddove si aderisse senza riserve alla tesi dell’interesse pubblico in re ipsa (e conseguentemente alla teorica dell’inconsumabilità del relativo potere), si finirebbe per legittimare nel settore che qui rileva –e in assenza di un solido fondamento normativo– un assetto in tema di presupposti per l’esercizio dell’autotutela decisoria tale da espungere in via ermeneutica due elementi normativamente indefettibili quali la ragionevolezza del termine e la motivata valutazione dei diversi interessi in gioco.
Si osserva infine che, a ben vedere, la teorica dell’interesse in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo, laddove condivisa, finirebbe per rendere nei fatti vincolato l’esercizio del potere di autotutela che un consolidato orientamento giurisprudenziale (prima) e un’espressa previsione di legge (poi) hanno delineato come tipico potere discrezionale dell’amministrazione.
Ed infatti, una volta affermata la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa al ripristino della legittimità violata, non residuerebbero in alcun caso effettivi spazi per l’amministrazione per non esercitare il proprio ius poenitendi attraverso l’annullamento d’ufficio. L’amministrazione non potrebbe valutare a tal fine né il decorso del tempo (inidoneo, nell’ottica in esame, ad attenuare la prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino), né la sussistenza di un interesse pubblico in senso contrario (il quale sarebbe per definizione insussistente, a meno di voler determinare un vero e proprio ossimoro), né –infine– l’interesse del privato destinatario dell’atto, che non potrebbe in alcun caso essere valorizzato neppure nell’ottica del legittimo affidamento.
9.5. E’ necessario riconoscere che il Legislatore (pur consapevole della gravità e diffusività del fenomeno dell’abusivismo edilizio e della frequente inadeguatezza delle risorse messe in campo dalle amministrazioni locali per fronteggiarlo) non ha tutt’oggi approntato una speciale disciplina in tema di presupposti e condizioni per l’adozione dell’annullamento ex officio di titoli edilizi, in tal modo giustificando un orientamento volto a riconoscere anche in tali ipotesi la generale valenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990.
Invero, il Legislatore ha talora disciplinato in modo peculiare le ipotesi di c.d. ‘illegittimità sopravvenuta’ dell’intervento edilizio (in particolare, nel caso di annullamento ex officio o in sede giurisdizionale di un titolo edilizio ab origine sussistente), fissando peraltro un apparato sanzionatorio tendenzialmente meno afflittivo di quello previsto per le ipotesi di interventi ab origine abusivi (in tal senso l’articolo 38 del d.P.R. 06.062001, n. 380, il quale corrisponde in larga parte alle pregresse previsioni dell’articolo 15 della l. 28.01.1977, n. 10 e dell’articolo 11 della l. 28.02.1985, n. 47).
Tuttavia, anche in tali ipotesi il Legislatore si è limitato a disciplinare in modo puntuale le sole conseguenze dell’annullamento del titolo edilizio, ma non anche i relativi presupposti, condizioni e modalità, che restano quindi assoggettati (per quanto riguarda l’annullamento d’ufficio) alla disciplina generale di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, ivi compresi i profili motivazionali.
9.6. Concludendo sul punto, si osserva che,
per le vicende sorte nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005-, l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio anche in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro, tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole, non potendosi predicare in via generale la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione in autotutela di tale atto.
10. E’ ora possibile passare alla disamina del
secondo dei quesiti sub 8 al fine di stabilire se, pur in assenza di puntuali prescrizioni di legge che dispongano in tal senso, il decorso di un considerevole lasso di tempo possa incidere significativamente sul potere di annullamento d’ufficio e quale sia il corretto dies a quo per l’individuazione del termine ‘ragionevole’ di esercizio di tale potere.
10.1. Esaminando la questione nei suoi aspetti generali e sistematici, è innegabile che, anche nel diritto amministrativo, il tempo venga in rilievo -tanto nelle sue singole frazioni, tanto nel suo continuo trascorrere– determinando la costituzione, la modificazione e l’estinzione di situazioni giuridiche.
Secondo un consolidato orientamento, infatti, il tempo rientra nella categoria dei fatti giuridici oggettivi ed è idoneo a sortire i propri effetti sui rapporti giuridici (anche di matrice pubblicistica) indipendentemente dall’atteggiamento psicologico dei soggetti interessati.
L’incidenza del decorso del tempo nei rapporti di diritto pubblico opera tanto sul versante dei poteri esercitabili dall’amministrazione, quanto su quello delle posizioni giuridiche riconosciute ai privati.
Per quanto riguarda il primo aspetto ci si limiterà qui a richiamare le previsioni normative che connettono a carico dell’amministrazione un effetto decadenziale quale conseguenza del mancato esercizio del potere entro un torno temporale normativamente stabilito: si pensi ai termini –perentori– per l’avvio e la conclusione dei procedimenti sanzionatori amministrativi.
Si pensi altresì al rilievo che il decorso del tempo sortisce sul potere di provvedere nelle ipotesi legali di silenzio significativo e all’invalidità che colpisce il provvedimento tardivamente adottato rispetto ai termini in parola.
Per quanto riguarda poi l’incidenza del decorso del tempo sulle posizioni giuridiche dei privati nei rapporti di diritto pubblico basterà qui richiamare la tradizionale ipotesi della decadenza per decorso del tempo quale conseguenza del mancato esercizio delle facoltà inerenti ad un rapporto derivante da un provvedimento amministrativo (si pensi al caso della decadenza del permesso di costruire per mancato rispetto dei termini legali per l’inizio dei lavori e per il completamento dell’opera).
Si pensi inoltre alla previsione di cui all’articolo 2934, primo comma del cod. civ. (secondo cui “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”), la quale trova applicazione anche nei rapporti con la pubblica amministrazione.
D’altro canto, è innegabile che la particolare configurazione dell’ordinamento pubblicistico nazionale riconosca taluni temperamenti al generale principio della consumabilità delle posizioni giuridiche per effetto del decorso del tempo.
Basti richiamare al riguardo la previsione, in ambito pubblicistico, di numerosi diritti indisponibili, ai quali è connesso il carattere della imprescrittibilità ai sensi dell’articolo 2934, cpv. cod. civ. (si pensi al carattere di imprescrittibilità dei diritti sui beni sottoposti al regime demaniale).
10.2. Occorre a questo punto esaminare in che modo il principio della modificabilità delle posizioni giuridiche per effetto del decorso del tempo (e i relativi temperamenti in ambito amministrativo) siano stati declinati nel settore –che qui viene in rilievo– dell’esercizio dell’autotutela decisoria da parte dell’amministrazione.
10.3. Si è già ricordato al riguardo che un pregresso quanto risalente orientamento predicava la sostanziale perennità della potestà amministrativa di annullare in autotutela gli atti invalidi.
La successiva evoluzione dell’ordinamento pubblicistico si è mossa in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi dall’esplicazione del potere di autotutela e, prima ancora che la l. 15 del 2005 legificasse le principali acquisizioni in materia, la giurisprudenza amministrativa aveva già temperato il richiamato principio di perennità predicando invece la necessità che l’annullamento e la revoca intervenissero entro un termine ragionevole (sul punto –ex multis-: Cons. Stato, VI, 15.11.1999, n. 1812; id., V, 20.08.1996, n. 939).
Il richiamo alla ragionevolezza del termine, tuttavia, non stava a significare che il decorso di un lasso temporale particolarmente ampio consumasse in via definitiva il potere di riesame da parte dell’amministrazione, quanto –piuttosto– che tale circostanza imponesse una valutazione via via più accorta fra l’interesse pubblico al ritiro dell’atto illegittimo e il complesso delle altre circostanze e interessi rilevanti (e, in primis, quello del destinatario del provvedimento illegittimo – in ipotesi a lui favorevole il quale maturava, per effetto del decorso del tempo, un affidamento legittimo alla permanenza dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento medesimo).
In definitiva, l’evoluzione dell’ordinamento pubblicistico ha comportato che il decorso del tempo condizioni in modo rilevante le modalità di esercizio del potere di autotutela.
10.4. Ciò non esclude, proprio nella materia che ne occupa, che esistano disposizioni che testimoniano la possibilità per l’amministrazione di disporre l’annullamento del titolo edilizio anche dopo un apprezzabile lasso di tempo dall’adozione del titolo medesimo.
Ci si riferisce in particolare all’articolo 39 del d.P.R. 380 del 2001 che consente alla Regione di annullare entro dieci anni “le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano interventi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione” (è qui appena il caso di osservare che il più risalente antecedente storico di tale previsione –l’articolo 27 della l. 17.08.1942, n. 1150– riconosceva tale potere di annullamento “in qualunque tempo”).
Un condiviso orientamento ha al riguardo peraltro chiarito che il potere in questione non è ascrivibile al novero delle attività di controllo, rappresentando –piuttosto– puntuale espressione del ruolo partecipativo della Regione nella complessiva azione di governo del territorio.
10.5. Deve quindi concludersi nel senso che, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale.
10.6. La locuzione ‘termine ragionevole’ richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie.
Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
In particolare,
in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità.
Si tratta del resto (e ai limitati fini che qui rilevano) di un’impostazione del tutto coerente con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 21-nonies, cit. (per come introdotto con la novella del 2015), secondo cui “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (si osserva anzi che la nuova disposizione neppure richiama per tali ipotesi la nozione di ragionevolezza del termine, limitandosi a stabilire che in tali casi l’annullamento possa essere disposto dopo la scadenza del generale termine di diciotto mesi).
11. E’ ora possibile passare all’esame del
terzo dei quesiti dinanzi richiamati sub 8 e domandarsi se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati.
Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo alla luce della pregnanza degli interessi pubblici sottesi alla disciplina in materia edilizia e alla prevalenza che deve essere riconosciuta ai valori che essa mira a tutelare.
Vero è infatti che –per le ragioni dinanzi esposte– il decorso del tempo onera l’amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela di un titolo edilizio illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. E’ parimenti vero, però, che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica.
Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo edilizio illegittimamente rilasciato in area interessata da un vincolo di inedificabilità assoluta o caratterizzata da un grave rischio sismico: in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie.
Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere –per così dire– ‘autoevidente’), l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi.
Non pare quindi condivisibile la tesi (talora affermata dalla giurisprudenza anche di questo Consiglio) secondo cui, anche in sede di motivazione dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai prodotti in via definitiva.
11.1. Si osserva inoltre che
l’onere motivazionale richiesto all’amministrazione in sede di adozione dell’atto di ritiro risulterà altresì agevolato nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo
Se infatti è vero in via generale che il potere della P.A. di annullare in via di autotutela un atto amministrativo illegittimo incontra un limite generale nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’iniziale adozione dell’atto (i quali plasmano il conseguente obbligo motivazionale), è parimenti vero che le medesime esigenze di tutela non possono dirsi sussistenti qualora il contegno del privato abbia consapevolmente determinato una situazione di affidamento non legittimo. In tali casi l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dal soggetto interessato, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico.

12. Le considerazioni appena svolte consentono di passare all’esame della
quarta delle questioni dinanzi richiamate (se, cioè, la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’adozione dell’iniziale provvedimento favorevole consentano comunque di configurare in capo a lui una posizione di affidamento incolpevole e se -in caso negativo- l’amministrazione possa adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, inveritiera prospettazione).
Al primo di tali quesiti deve essere fornita risposta negativa, non potendosi affermare (per le ragioni già esposte sub 11.1) la sussistenza di un affidamento legittimo e incolpevole al mantenimento dello status quo ante in capo al soggetto il quale abbia determinato, attraverso la non veritiera prospettazione delle circostanze rilevanti, l’adozione di un atto illegittimo a lui favorevole.
Né può deporre in favore del maturare di uno stato di affidamento incolpevole il contegno negligente ed erroneo dell’amministrazione la quale non abbia tempestivamente rilevato l’oggettiva falsità delle circostanze rappresentate.
12.1. La giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio –anche in sanatoria– rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione (in tal senso: Cons. Stato, IV, 12.12.2016, n. 5198; id., V, 13.05.2014, n. 2451).
12.2. La giurisprudenza di questo Consiglio ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, VI, 27.09.2016, n. 3975).
Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione.
In tali ipotesi (e per le ragioni già esposte retro, sub 11 e 11.1) l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione.
Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale),
l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata.
13. In conclusione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “
nella vigenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 –per come introdotto dalla l. 15 del 2005- l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
   ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
”.

settembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Questa Corte ha in passato, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio.
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima.

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La legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
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Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto.
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
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E' illegittimo e non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
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1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte territoriale abbia adeguatamente dato conto del fatto che le opere realizzate -consistenti in una pavimentazione eseguita previa spianatura del terreno esistente e con posa in opera di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di 700 metri quadri, parzialmente destinata a viabilità secondo la variante al P.R.G., in due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30- avessero significativamente inciso sull'assetto urbanistico della zona de qua attraverso una trasformazione permanente del suolo; e che, come tali, esse fossero qualificabili come "nuova costruzione", tanto da richiedere il preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che l'intervento dovesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia", realizzata a servizio del fabbricato. E da tale qualificazione sarebbe derivato che le opere avrebbero potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 ovvero con la D.I.A. sostitutiva o Super-D.I.A. che ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del predetto decreto, nella versione all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo del permesso di costruire, proprio in relazione agli "interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata.
In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A. presentata dalle due imputate aveva qualificato l'intervento edificatorio non come "ristrutturazione edilizia", quanto piuttosto come "manutenzione straordinaria"; ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in ricorso configuri, all'evidenza, un tentativo di giustificare ex post il ricorso allo strumento della D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo confrontata, sia pure criticamente, con tale tesi, mai avanzata nel corso del giudizio di appello.
Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il Collegio che la illegittimità della D.I.A. presentata dalle ricorrenti fosse stata correttamente riscontrata dai giudici di appello sulla base di una serie di concreti elementi, che le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo non sono riuscite a confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, infatti, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. sono qualificati come "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che l'intervento edilizio contestato a Ma. e Ti. Di Re. potesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia".
Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in luogo dell'originaria corte costituente pertinenza del fabbricato circostante, era stata realizzata, mediante livellamento e successiva pavimentazione, una vasta area destinata a parcheggio, con l'erezione di due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché di un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30.
Un intervento complessivo, quello appena descritto, pacificamente riconducibile, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla nozione di "nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, lett. d) ed e), del citato d.P.R., avuto riguardo alla significativa incidenza delle opere sull'assetto urbanistico del territorio, riscontrata dai giudici di appello anche alla stregua della documentazione fotografica in atti.
In passato, del resto, questa Corte ha, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Palma, Rv. 268847) e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001. Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il percorso ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la legittimità del ricorso alla D.I.A. possa ritenersi dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva assentito la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché subordinatamente al rilascio del menzionato atto d'obbligo.
In proposito, è appena il caso di rilevare che la legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di doglianza, con il quale le ricorrenti deducono che in ogni caso l'approvazione della D.I.A. in sanatoria avrebbe realizzato sostanzialmente un accertamento di conformità.
Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e dai motivi di ricorso, infatti, Ma. e Ti. Di Re. avevano presentato una D.I.A. in sanatoria secondo la procedura stabilita dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, a norma del quale "la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di inizio attività" consente al responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile di "ottenere la sanatoria dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio", sempre che l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da quella dettata dall'art. 36 dello stesso decreto, a mente del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16".
Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso (comma 2). Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui deve essere data assoluta continuità, gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep. 14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del 19/05/2009, dep. 09/07/2009, Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, dep. 05/03/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep. 20/12/2006, Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con riferimento all'atto d'obbligo sottoscritto dalla legale rappresentante della società committente, il quale, secondo le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento della fattispecie sanante, che anche con riferimento tale aspetto il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte ritiene che sia illegittimo e non determini l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, dep. 29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, dep. 09/01/2004, P.M. in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie sanante, anche a prescindere dal fatto che l'intervento edilizio incidesse su un'area parzialmente destinata a tratti di viabilità e che, per tale motivo, le opere realizzate si ponessero in conflitto con la disciplina della relativa macrozona del Piano di edilizia economica popolare; ciò che avrebbe, comunque, impedito, anche sotto tale concorrente profilo, l'accertamento di conformità, richiedendo l'art. 36 del d.P.R. citato la piena conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43155).

EDILIZIA PRIVATAL'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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Va premessa la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)".
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003", poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ...".
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego”.
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6.2. Del pari infondato è il secondo motivo di gravame.
Il Collegio intende aderire all’orientamento, anche di recente riaffermato da questo Consiglio di Stato, secondo cui “L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Va premessa, a tal riguardo, la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)" (TAR Lazio, sez. I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest'ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003" (Tar Lazio, sez. I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ..." (Tar Lazio, sez. I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione, con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego
” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Ciò premesso, nella vicenda in esame si rileva che: l'ordinanza di demolizione è stata impugnata anteriormente alla presentazione dell'istanza di accertamento di conformità; nel corso del giudizio si è formato il silenzio-rigetto sull'istanza di sanatoria, di cui non risulta –o almeno di ciò l’appellante non ha fornito la prova– esservi stata impugnazione; all’esito di tutto ciò l'ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2017 n. 4269  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2017

EDILIZIA PRIVATA: Opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato - Efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria - Esclusione - Artt. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
L'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria, deve escludersi per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato. Sul punto la giurisprudenza (Cass. Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998), Agnesse) (Corte Cost. sent. 149 del 30/04/1999). Tali esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in cemento armato (Cass. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A.; Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G. ed altre prec. conf.).
Intervento abusivo - Violazioni edilizie e paesaggistiche - Valutazione della particolare tenuità.
Ai fini della valutazione della particolare tenuità del fatto in tema di violazioni edilizie e paesaggistiche la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione, perché, per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico.
Inoltre, altro indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è rappresentato dalla contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali) (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi; Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38953 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la uniforme giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica.
E tale esclusione riguarda anche la disciplina delle opere in cemento armato.
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3. Del tutto errata risulta, al contrario, l'affermazione, contenuta nel motivo di ricorso in esame, secondo la quale la sanatoria conseguita dall'imputato avrebbe comportato anche l'estinzione della violazione della disciplina antisismica.
Va detto, peraltro, che anche sul punto la sentenza impugnata offre una confusa descrizione della sequenza procedimentale che avrebbe preceduto il rilascio del titolo abilitativo sanante, facendo peraltro riferimento a titoli diversi (concessione, autorizzazione, denuncia attività), ad attività di demolizione di opere in difformità e ad altra procedura di sanatoria pendente per l'abuso di cui al capo a) punto 5 per il quale è intervenuta comunque l'assoluzione.
Ciò nonostante, va comunque osservato che, secondo la uniforme giurisprudenza di questa Corte, deve escludersi l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è uniforme (v., ex pl., Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino, Rv. 246462; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli, Rv. 231850; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998), Agnesse, Rv. 209571) e le esclusioni individuate dalla condivisibile lettura della norma in esame, hanno superato anche il vaglio della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. 149 del 30.04.1999).
Va per inciso rilevato che tali esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in cemento armato, la sanabilità delle quali il Tribunale ha invece erroneamente ammesso (v. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A, Rv. 22143901: Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G, Rv. 20966201 ed altre prec. conf.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38953).

giugno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche - Violazioni della disciplina antisismica - Inefficacia della sanatoria - Ultimazione dei lavori - Criteri - Giurisprudenza - Artt. 36, 65-72, 93-95 del D.P.R. n. 380/2001.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.
Inoltre, l'ultimazione dei lavori, coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura), di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.
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4. Il terzo motivo è manifestamente infondato, considerata l'autonomia delle fattispecie contestate ai capi B), C), e D) dell'imputazione rispetto al reato di cui al capo A) e la assoluta irrilevanza, rispetto alle predette fattispecie contravvenzionali, del rilascio del permesso a costruire in sanatoria.
Costituisce principio consolidato, infatti, che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099; nonché Sez. 3, n. 7764 del 04/05/1999, dep. 16/06/1999, P.M. in proc. Cosentino A ed altro, Rv. 214165 e Sez. 3, n. 2114 del 26/11/2002, dep. 17/01/2003, PG in proc. Frascani e altro, Rv. 223145, pronunciate con riferimento alla omologa disposizione, ratione temporis vigente, di cui all'art. 22 della legge 28.02.1985 n. 47) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30654).

aprile 2017

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia», non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
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I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto.
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5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia strettamente rilevante per la decisione del ricorso in appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse) non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia », non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto
” (Consiglio di Stato, VI, 06.05.2014, n. 2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di potere per difetto di istruttoria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.04.2017 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2017

EDILIZIA PRIVATA: La cd. "soglia di tolleranza" di cui all'art. 34, comma 2-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, si applica esclusivamente all'intervento e alle opere così come realizzati e costituisce unità di misura percentuale della eventuale variazione tra ciò che è stato assentito (che normalmente corrisponde allo "stato di progetto") e quel che è stato realizzato; tale criterio non si applica anche al modo con cui deve essere confezionato lo "stato di fatto" di progetto.
Lo "stato di fatto" deve rappresentare fedelmente la realtà che prevale sempre sulle (eventualmente) diverse risultanze catastali, ciò perché oggetto di valutazione, in sede urbanistico-edilizia, è l'immobile nella sua consistenza effettiva, non in quella catastale.
E' perciò del tutto errata la tesi difensiva secondo cui la corrispondenza deve sussistere tra lo "stato di fatto" di progetto e le planimetrie catastali che, come noto, non sono fidefacenti e proprio per questo sono soggette a continue revisioni e aggiornamenti.
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In materia urbanistica-edilizia, la necessità dell'accertamento della cd. "doppia conformità" dell'opera agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della realizzazione dell'opera stessa che a quello della presentazione della domanda, rende ancora più stringente la necessità che lo "stato di fatto" del progetto rappresenti in modo assolutamente fedele la reale consistenza dell'immobile.
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3. Il primo motivo è infondato.
3.1. Le ipotizzate falsità riguardano gli elaborati tecnici redatti dall'imputato e trasmessi al Comune di Spormaggiore con la richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria (sanatoria effettivamente rilasciata).
Risulta dal testo della sentenza impugnata e di quella di primo grado che la reale situazione di fatto non corrispondeva a quella rappresentata nei grafici. Tale diversità aveva indotto il promissario acquirente dell'immobile a pretendere il rilascio di un secondo permesso di costruire in sanatoria avente ad oggetto l'immobile nella sua reale consistenza.
3.2. Tanto premesso, osserva innanzitutto questa Corte che la questione posta con il primo motivo di ricorso dà per scontato il mancato superamento della soglia di tolleranza di cui all'art. 34, comma 2-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, argomento che non solo non trova alcun riscontro fattuale nella sentenza impugnata ma che sottende la possibilità di estendere tale soglia anche alla fase della progettazione.
3.3.
La cd. "soglia di tolleranza" di cui all'art. 34, comma 2-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, si applica esclusivamente all'intervento e alle opere così come realizzati e costituisce unità di misura percentuale della eventuale variazione tra ciò che è stato assentito (che normalmente corrisponde allo "stato di progetto") e quel che è stato realizzato; tale criterio non si applica anche al modo con cui deve essere confezionato lo "stato di fatto" di progetto.
Lo "stato di fatto" deve rappresentare fedelmente la realtà che prevale sempre sulle (eventualmente) diverse risultanze catastali, ciò perché oggetto di valutazione, in sede urbanistico-edilizia, è l'immobile nella sua consistenza effettiva, non in quella catastale.
E' perciò del tutto errata la tesi difensiva secondo cui la corrispondenza deve sussistere tra lo "stato di fatto" di progetto e le planimetrie catastali che, come noto, non sono fidefacenti e proprio per questo sono soggette a continue revisioni e aggiornamenti.

Non a caso, con d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122 (art. 19, comma 14), è stato espressamente previsto che
«Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari».
3.4. Sicché è del tutto inconferente l'argomento secondo cui le piccole modifiche dell'immobile che, non incidendo sulla rendita catastale, non necessitano di apposita variazione, consentono al progettista di non riportarle nello "stato di fatto" del progetto presentato a fini urbanistico-edilizi. L'eterogeneità dei fini (tributario il primo, conformità dell'opera agli strumenti urbanistici, il secondo) è evidente e non necessita ulteriori spiegazioni.
3.5. V'è piuttosto da aggiungere che,
in materia urbanistica-edilizia, la necessità dell'accertamento della cd. "doppia conformità" dell'opera agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della realizzazione dell'opera stessa che a quello della presentazione della domanda, rende ancora più stringente la necessità che lo "stato di fatto" del progetto rappresenti in modo assolutamente fedele la reale consistenza dell'immobile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.03.2017 n. 15228).

dicembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di Ferno (VA). Richiesta di parere in merito al procedimento di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica prima dell'apposizione del vincolo paesaggistico. Protocollo di riferimento regionale n. T1.2016.0051211 del 10/10/2016. COMUNICAZIONE (Regione Lombardia, nota 01.12.2016 n. 62321 di prot.).

luglio 2016

EDILIZIA PRIVATASi deve escludere –sulla base di un costante insegnamento giurisprudenziale- la compatibilità della c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ con il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R. 380/2001.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene a porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

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Quanto, da ultimo, alla richiamata distinzione fra “abuso formale” ed “abuso sostanziale”, si osserva che, se l’attuale conformità urbanistico-edilizia degli interventi come sopra repressi è, dalla parte ricorrente, concretamente indimostrata, ritiene il Collegio di dover escludere –sulla base di un costante insegnamento giurisprudenziale che si intende, in questa sede, confermare– la compatibilità della c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ con il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati da TAR Campania, Napoli, sez. VII, nelle sentenze nn. 08.10.2015 n. 4718, 10.09.2010 n. 17398, 03.07.2012 n. 3153 e 20.03.2014 n. 1690, che di seguito si riportano:
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in pejus della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello jus superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in pejus dello jus aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi dello jus superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, viepiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole jus superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost., ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene, dunque, a porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.
Le considerazioni precedentemente rassegnate escludono la condivisibilità delle argomentazioni dedotte con il presente mezzo di tutela: che deve, conseguentemente, essere respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 21.07.2016 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Paletti ai permessi in sanatoria. Interventi solo se conformi alla disciplina urbanistica. Lo hanno ribadito in una sentenza i giudici della sesta sezione del Consiglio di stato.
Il permesso in sanatoria ex art. 36 del dpr n. 380 del 2001 è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto e sia della presentazione della domanda.

Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.07.2016 n. 3194.
I supremi giudici amministrativi hanno, altresì, evidenziato come inoltre la cosiddetta «sanatoria giurisprudenziale» vada a generare un atto atipico con effetti provvedimentali e tale atto va a collocarsi al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può assolutamente ritenersi ammesso nel nostro ordinamento.
Infatti, lo stesso ordinamento è contrassegnato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzioni riservate all'amministrazione.
E inoltre, a favore della incompatibilità tra la cosiddetta «sanatoria giurisprudenziale» e il dettato normativo di cui all'art. 36 del T.u. n. 380 del 2001 secondo i giudici è possibile trovare adeguato riscontro in argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori.
Anche se lo stesso Consiglio di stato, adunanza generale, sezione atti normativi, 29.03.2001, protocollo n. 52/2001, segnala come «in via generale va sottolineato come l'accertamento di conformità sia ancora riferito, come prevedeva l'originaria disposizione dell'art. 13 della lr 47/1985, alla sola concessione, mentre, dopo l'evoluzione normativa successiva alla legge n. 47, esso deve essere esteso anche alla denuncia d'inizio attività. Si rileva inoltre che, pur non potendosi, in astratto, contestare la necessità del duplice accertamento di conformità, nella prassi l'applicazione del principio viene disattesa, ritenendosi illogico ordinare la demolizione di un quid che, allo stato attuale, risulta conforme alla disciplina urbanistica vigente e che pertanto, potrebbe ottenere, a demolizione avvenuta, una nuova concessione».
Nella stessa sentenza in commento, poi, i giudici di palazzo Spada hanno osservato come in caso di provvedimento plurimotivato il rigetto della doglianza tesa a contestare una delle ragioni giustificatrici dell'atto lesivo comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle censure ulteriori volte a contestare le altre ragioni giustificatrici dell'atto medesimo, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente a ottenere l'annullamento del provvedimento lesivo, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente e legittimo (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

aprile 2016

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria e prescrizione del reato urbanistico.
Il periodo di sospensione del processo disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione in sanatoria, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinanzi al giudice penale ed all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applicano le disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, par. 3), del codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.
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   1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono le seguenti:
- "
se la sospensione del processo, prevista nel caso di presentazione della istanza di 'accertamento di conformità', ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio";
- "
se, in caso di sospensione del processo disposta su richiesta dell'imputato o del suo difensore oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della prescrizione a norma dell'art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.".
   2. Occorre preliminarmente richiamare l'attenzione sulle differenze intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di cui alle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724, e 24.11.2003, n. 326 (quest'ultima di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad accertamento di conformità, disciplinata dall'art. 36 del Testo Unico dell'edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), specificamente riguardante la questione sottoposta all'attenzione delle Sezioni Unite.
Come è noto, con la legge 28.02.1985, n. 47, si è individuata, per la prima volta, una disciplina organica dell'attività edilizia, sulla quale era in precedenza intervenuta la legge 28.01.1977, n. 10, operandosi una consistente revisione della normativa previgente.
L'entrata in vigore della legge n. 47/1985 venne accompagnata dalla previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di dare un netto taglio al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora realizzate. Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di razionalizzazione della finanza pubblica, con la legge 23.12.1994, n. 724, e, successivamente, con la legge 24.11.2003, n. 326, la quale convertiva, con modificazioni, il decreto-legge 30.09.2003, n. 269.
La legge n. 724/1994 e la successiva legge n. 326/2003, pur prevedendo, per la definizione degli illeciti edilizi presi in considerazione, requisiti e formalità differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato modifiche.
   3. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate disposizioni,
il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata nel tempo, poiché è finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi edilizi realizzati entro un limite temporale individuato dalla norma.
Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di un'oblazione, formalizzato attraverso l'attestazione, da parte dell'autorità comunale, della congruità di quanto corrisposto a tale titolo.
Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche verso reati conseguenti alla violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in cemento armato.

La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 (e, in precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985) opera, al contrario, su un piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via generale, al recupero degli interventi abusivi previo accertamento della conformità degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36,
la sanatoria può essere ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento della presentazione della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata motivazione- entro sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende respinta. L'istanza è subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di oblazione, secondo le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il rilascio della sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente concorrenti.
   4.
Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalità ed ambito di applicazione del tutto differenti e che non possono essere confusi, come ha già rilevato la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del 20/12/2007, dep. 2008, Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/09/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3, n. 9797 del 22/06/1987, Scarcella, Rv. 176643), riconoscendo, tra l'altro, la specialità della disciplina del condono edilizio rispetto a quella della sanatoria conseguente all'accertamento di conformità (Sez. 3, n. 23996 del 12/5/2011, De Crescenzo, Rv. 250607).
A conclusioni analoghe è peraltro pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, rilevando l'antiteticità dei presupposti dei due procedimenti di sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza permesso di costruire agli strumenti urbanistici e riguarda una violazione formale (così, Cons. Stato, sez. 6, n. 466 del 02/02/2015).
   5. Entrambe le procedure, tuttavia, presuppongono periodi di sospensione, diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo riguardo al computo del termine massimo di prescrizione del reato.
In particolare, per ciò che concerne il condono edilizio, sono state individuate due distinte cause di sospensione del processo.
La prima, prevista dall'art. 44 legge n. 47/1985, definita "automatica", in quanto applicabile a tutti i procedimenti in cui risulti contestato un reato urbanistico o commessa una violazione di detta normativa, indipendentemente dalla presentazione o meno di una domanda di condono e quantificata in 223 giorni.
Detta quantificazione veniva effettuata dalle Sezioni Unite (sent. n. 1283 del 03/12/1996, dep. 1997, Sellitto, Rv. 206849), chiamate a risolvere il contrasto venutosi a creare in ordine al calcolo dei termini complessivi di sospensione del decorso della prescrizione in conseguenza della mancata conversione di vari decreti legge, succedutisi nel tempo prima della approvazione della legge n. 724/1994.
La seconda causa di sospensione, prevista dall'art. 38 della stessa legge, indicata come "obbligatoria" -ma subordinata all'accertamento di determinati presupposti, quali la presentazione di una domanda di condono relativa all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei limiti temporali stabiliti ed il versamento della prima rata di oblazione autodeterminata- che non può superare i due anni.
Sull'applicabilità in concreto delle sospensioni previste dalle disposizioni sul condono edilizio si contrapponevano, tuttavia, opposti indirizzi giurisprudenziali, in quanto, secondo un primo orientamento, maggioritario, tanto la sospensione "automatica", quanto quella "obbligatoria" erano applicabili a tutti i procedimenti riguardanti i reati edilizi indicati agli artt. 38, comma 2, legge n. 47/1985 e 39, comma 8, legge n. 724/1994; e ciò indipendentemente dall'epoca di commissione degli illeciti (considerato il requisito temporale previsto per la condonabilità delle opere) e dall'effettiva sospensione disposta con provvedimento del giudice.
L'altro indirizzo, invece, escludeva l'applicabilità della sospensione ai reati la cui consumazione risultava, sulla base della contestazione e degli atti del procedimento, proseguita dopo il 31.12.1993, data individuata dalla legge n. 724/1994 quale termine ultimo per il completamento delle opere, che ne consentiva la condonabilità.
Le Sezioni Unite (sent. n. 22 del 24/11/1999, Sadini, Rv. 214792), chiamate a risolvere il contrasto, hanno ritenuto preferibile quest'ultimo indirizzo interpretativo, sulla base del dato letterale dell'art. 39, comma 1, legge n. 724/1994, il quale richiama, tra l'altro, il capo IV della legge n. 47/1985 -nel quale sono compresi gli artt. 44 e 38, che riguardano le due ipotesi di sospensione dei procedimenti penali e che fanno, a loro volta, riferimento agli artt. 35 e 31, concernenti la presentazione della domanda di condono- osservando come esso non sembri consentire una interpretazione diversa da quella secondo la quale la data del 31.12.1993 costituisce uno dei presupposti per la condonabilità e per la sospensione dei procedimenti penali.
Veniva ulteriormente rilevato che l'inesistenza di detto presupposto impediva non soltanto il condono delle opere abusive, ma anche la sospensione del procedimento penale e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice avesse disposto o negato la sospensione del procedimento, dovendosi, nel primo caso, ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto, del suo fondamentale presupposto.
Analoga lettura delle richiamate disposizioni veniva successivamente offerta dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 21679 del 06/04/2004, Paparusso, Rv. 229319. V. anche Sez. 3, n. 47342 del 15/11/2007, Maffongelli, Rv. 238619; nonché Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino, Rv. 236270, non massimata sul punto), osservandosi che, mentre l'art. 31 legge n. 47/1985, nella sua formulazione testuale, prevedeva una serie di requisiti esclusivamente in relazione alla possibilità di conseguire la concessione o la autorizzazione in sanatoria, l'art. 32, comma 25, decreto legge n. 269/2003, poi convertito dalla legge n. 326/2003 (come già l'art. 39 legge n. 724/1994), subordinava l'applicazione degli interi capi 4 e 5 della legge n. 47/1985 all'esistenza di determinati requisiti di condonabilità dell'opera.
   6. Conseguentemente, l'art. 44 legge n. 47/1985 veniva ritenuto applicabile nei soli casi di oggettiva presenza di detti requisiti, in assenza dei quali era esclusa anche l'applicabilità dell'art. 39 della legge medesima (il quale prevede l'estinzione dei reati conseguente alla mera effettuazione dell'oblazione, «qualora le opere non possano conseguire la sanatoria»), osservandosi che risulterebbe incongruo argomentare che la sospensione possa essere comunque finalizzata a conseguire il beneficio già previsto da tale ultima norma.
Va anche ricordato che,
in relazione al difetto dei requisiti di condonabilità, la possibilità di sospensione del processo era stata esclusa in caso di richiesta di condono presentata per violazioni edilizie relative a nuove costruzioni non residenziali, in quanto l'art. 32 legge n. 326/2003 limita l'applicabilità del condono edilizio alle sole nuove costruzioni residenziali (Sez. 3, n. 8067 del 19/01/2007, Zenti, Rv. 236084; Sez. 3, n. 14436 del 17/02/2004, Longo, Rv. 227959; Sez. 3, n. 3358 del 18/11/2003, dep. 2004, Gentile, Rv. 227178); in relazione a interventi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, rientranti tra quelli esclusi dal condono dall'art. 32, comma 26, lett. a), legge n. 326/2003 (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, Rv. 249606; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi, Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci, Rv. 231315 ed altre conformi) o, più in generale, in caso di presentazione di domanda di sanatoria strumentale o dilatoria e inerente a un fabbricato non ultimato entro il termine stabilito (Sez. 3, n. 5452 del 17/03/1999, Somma G, Rv. 213369).
La sospensione è stata inoltre esclusa anche con riferimento al c.d. "condono paesaggistico" di cui all'art. 37 legge n. 308/2004, mancando una espressa previsione normativa ed in assenza di qualsivoglia correlazione con le disposizioni in tema di condono edilizio (Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, Rv. 246759, non rnassimata sul punto; Sez. 3, n. 32529 del 19/04/2006, Martella, Rv. 234934).
Si è chiarito, inoltre, che la sospensione riguarda soltanto la fase del giudizio e non anche quella delle indagini preliminari (Sez. 3, n. 48986 del 09/11/2004, Cerasoli, Rv. 230475).
In altre decisioni si è poi affermato che l'omessa sospensione del procedimento da parte del giudice non può essere dedotta quale vizio della decisione eventualmente presa, non determinandosi alcuna nullità, stante l'assenza di una previsione di legge in tal senso (Sez. 3, n. 19235 del 15/02/2005, Benzo, Rv. 231848; Sez. 3, n. 7847 del 27/05/1998, Todesco, Rv. 211354; Sez. 3, n. 11422 del 29/09/1997, Onolfo, Rv. 210101 ed altre conformi), osservandosi, tra l'altro, che la sospensione del processo opera indipendentemente dalla pronuncia del giudice, avente natura meramente dichiarativa, purché sussistano i presupposti di legge e può essere accertata anche in sede di giudizio finale (Sez. 3, n. 3871 del 22/10/2010, dep. 2011, Pisa, Rv. 249151, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 22921 del 06/04/2006, Guercio, Rv. 234475; Sez. 3, n. 6054 del 12/03/1999, Bartaloni, Rv. 213763 ed altre conformi)
Inoltre, qualora applicata, la sospensione deve riguardare l'intero procedimento quando il giudice di merito, riconoscendo il vincolo della continuazione, abbia proceduto unitariamente per varie ipotesi di reato, delle quali alcune soltanto siano divenute estinguibili a seguito di condono (v. per tutte Sez. U, n. 9080 del 09/06/1995, Luongo, Rv. 201861).
La possibilità di sospendere il procedimento a seguito della presentazione della domanda di condono edilizio (nella specie, ai sensi della legge n. 326/2003) è stata anche esclusa in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi, sul presupposto che la sospensione deve essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso, mentre, impedendo l'inammissibilità del ricorso la formazione di un valido rapporto di impugnazione, non può ritenersi che tale condizione si sia verificata (Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 9536 del 20/01/2004, Mancuso, Rv. 227404; Sez. 3, n. 979 del 27/11/2003, dep. 2004, Nappo, Rv. 227950; Sez. 3, n. 5309 del 13/11/2003, dep.2004, Sciaccovelli, Rv. 227556).
   7. Alla luce di quanto affermato dalla sentenza Sadini delle Sezioni Unite, si è ricavato -considerando la formulazione "speculare" dell'art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003 rispetto all'art. 39 legge n. 724/1994, preso in esame nella menzionata decisione- un ulteriore principio generale, secondo il quale
il giudice, già prima di sospendere il processo in forza dell'art. 44 legge n. 47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti per la concedibilità in astratto del condono, perché, diversamente opinandosi, si allungherebbero «inevitabilmente ed inutilmente i tempi del processo» e, nel caso in cui il giudice sospenda il processo in assenza dei presupposti di legge, la sospensione deve ritenersi inesistente (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 563 del 17/11/2005, dep. 2006, Martinico, Rv. 233011; Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, cit.; Sez. 3, n. 3350 del 13/11/2003, dep. 2004, Lasí, Rv. 227217).
L'ambito del controllo relativo alle condizioni legittimanti l'accesso alla procedura di sanatoria riguarda, secondo altra pronuncia, la data di esecuzione delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti volumetrici; eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla sanatoria, nonché la tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione (Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Termíniello, Rv. 237824; Sez. 3, n. 28517 del 29/05/2007, Marzano, Rv. 237140, non massímata sul punto).
Il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti per l'applicazione del condono, tuttavia, non determina inevitabilmente l'inesistenza della sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi in considerazione la situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha pronunciato la relativa ordinanza.
Sempre tenendo conto di quanto affermato nella sentenza Sadíní, si è del tutto correttamente rilevato come, in tale pronuncia, venga affermato che, in tema di condono edilizio, le cause di sospensione del processo penale sono soltanto quelle previste dalla legge, che richiedono determinati presupposti, in difetto dei quali la sospensione eventualmente disposta non può produrre risultati efficaci.
Ciò implica, tuttavia, che l'inesistenza di una valida causa di sospensione risulti dagli atti processuali o dalla stessa contestazione del reato e sia, conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice, perché, altrimenti, il successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per l'applicazione della causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno la correttezza dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti ad essa connessi, della conseguente sospensione della prescrizione), avendo il giudice proceduto nella esatta osservanza di quanto previsto dalla legge (Sez. 3, n. 8536 del 18/05/2000, Zarbo, Rv. 217754; conf. Sez. 3, n. 29253 del 24/06/2005, Di Maio, Rv. 231951).
È di tutta evidenza che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate decisioni assumono particolare rilievo per ciò che concerne il computo dei termini di prescrizione, sulla decorrenza dei quali incide, in maniera significativa, la sospensione del procedimento.
   8. Per ciò che riguarda, invece, il diverso istituto della sanatoria conseguente ad accertamento di conformità, va osservato come il già menzionato art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisca, al comma 1, che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240234; Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353), al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Pur verificandosi tale evenienza, tuttavia, l'Amministrazione non perde il potere di provvedere, in quanto il silenzio-rigetto è esplicitamente previsto al solo fine di consentire all'interessato di adire il giudice (ex plurimis Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233. V. anche Sez. 3, n. 11604 del 11/11/1993, Schiavazzi, Rv. 196069; Sez. 3, n. 16245 del 10/10/1989, Allegrini, Rv. 182627),
sebbene l'eventuale instaurazione di un procedimento amministrativo avviato mediante ricorso avverso il diniego di sanatoria non comporti alcuna estensione della durata della sospensione fino alla sua definizione (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, Rv. 265085; Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv. 247692; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, Rv. 245418, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 4614 del 13/01/1994, Cammariere, Rv. 197767; Sez. 3, n. 12779 del 02/12/1991, Leggio, Rv. 188743), come rilevato anche dalla Corte costituzionale nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell'art. 22, primo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (ord. n. 247 del 2000, la quale richiama anche la sentenza n. 85 del 1998 e l'ordinanza n. 309 del 1998).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone la sospensione richiede, peraltro, il previo accertamento della effettiva sussistenza dei presupposti necessari per il conseguimento della sanatoria e, inoltre, la mancata sospensione -in assenza di espressa previsione normativa e non configurandosi pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di giudizio- non determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, cit.).
La sospensione, inoltre, non opera con riferimento ai reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione in sanatoria, diversamente da quanto previsto in materia di condono (Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997, dep. 1998, Casà, Rv. 209662).
   9.
Il richiamo, effettuato espressamente dall'art. 45 d.P.R. n. 380/2001 all'art. 36 dello stesso decreto, il quale prevede, all'ultimo comma, il termine di sessanta giorni entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi sulla domanda di sanatoria, limita -evidentemente- la durata della sospensione a tale determinato lasso temporale. In tal senso si è, peraltro, più volte espressa anche la Corte costituzionale (ordd. nn. 304 e 201 del 1990; n. 423 del 1989).
Sebbene in precedenza (Sez. U, n. 10849 del 01/10/1991, Mapelli, Rv. 188579) si sia affermato che, in mancanza di impugnazione, la sospensione del procedimento, ai sensi dell'allora vigente art. 22 legge n. 47/1985, anche se disposta fuori dei limiti consentiti, produce i suoi effetti propri, tra cui la sospensione del corso della prescrizione, in una successiva pronuncia delle Sezioni Unite (n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv. 190245),
si è osservato come la sospensione dipenda direttamente dalla richiesta del titolo abilitativo in sanatoria e la sua durata corrisponda al tempo stabilito dalla legge per la definizione del procedimento, cioè per sessanta giorni dalla richiesta, con la conseguenza che il provvedimento del giudice, avente natura meramente dichiarativa, non può svolgere alcun ruolo preclusivo, cosicché non potrà assumere rilievo una sospensione disposta in mancanza delle condizioni stabilite, né un periodo di sospensione superiore a quello fissato dalla legge.
A tali principi si sono adeguate successive pronunce, le quali hanno considerato limitato il periodo di sospensione a soli sessanta giorni (Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, cit.; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353; Sez. 3, n. 2220 del 26/01/1999, Sasso, Rv. 212717), evidenziando anche la preclusione, per il giudice penale, a sindacare la legittimità del provvedimento della competente autorità amministrativa di diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, cit.; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, cit.).
   10. Anche riguardo alla disciplina della sanatoria per accertamento di conformità, come già osservato con riferimento al condono edilizio, la prevista sospensione assume rilievo determinante ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato e proprio con riferimento ad essa è stato rilevato il contrasto che ha portato alla rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Si è infatti ritenuta, in una prima pronuncia (Sez. F, n. 34938 del 09/08/2013 Bombaci, Rv. 256714), l'illegittimità dell'ordinanza di sospensione dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla durata della procedura amministrativa per la definizione della sanatoria e conseguente al differimento del procedimento penale, disposto su richiesta della difesa proprio in ragione della pendenza della procedura medesima.
La sospensione è stata infatti considerata in contrasto con il disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, con il limite temporale massimo di sessanta giorni fissato dalla legge per la definizione del procedimento finalizzato al rilascio del titolo abilitativo sanante, trascorso il quale la domanda si intende respinta.
A tale indirizzo interpretativo si è successivamente contrapposta altra decisione (Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv. 260753), nella  quale, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della difesa e giustificato dalla pendenza del procedimento amministrativo, successivamente non perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile abusivo, l'operatività della sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione è stata estesa per l'intera durata del differimento.
Dichiarando di non condividere il diverso orientamento espresso dalla menzionata sentenza Bombaci, la Terza Sezione ricorda come le Sezioni Unite (n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509), sostanzialmente anticipando quanto poi espressamente stabilito dal legislatore con le modifiche apportate, nel 2005, all'art. 159 cod. pen., abbiano affermato che «
oggi il processo vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell'andamento del processo. E debbono assumersi conseguentemente gli oneri connessi all'esercizio dei loro poteri».
La sentenza Zappalorti ritiene, dunque, del tutto incongrua un'interpretazione della norma «che consenta alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata considerazione della sospensione della prescrizione proprio da tale rinvio derivante» (analoghe considerazioni erano state svolte, in precedenza, in Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, C., Rv. 255579), pur distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato invece disposto per impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza di sanatoria e oltre il sessantesimo giorno dall'avvio del relativo procedimento amministrativo, sia disposto d'ufficio dal giudice, in mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli sessanta giorni.
   11. Tale ultimo indirizzo interpretativo risulta pienamente condivisibile. Invero, la sentenza Bombaci, pur partendo da un presupposto corretto e, cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria, è limitato, come si è precisato in precedenza, a soli sessanta giorni, giunge a conclusioni errate laddove sembra fondare la riconosciuta illegittimità del differimento oltre il sessantesimo giorno sul presupposto che la decorrenza di detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando quindi ogni ulteriore rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di prescrizione), anche se espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione non tiene conto del fatto che, nonostante il decorso del termine ed il significativo silenzio dell'amministrazione competente, questa non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei presupposti di legge, il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una eventuale richiesta di rinvio in previsione dell'accoglimento della domanda già presentata risulterebbe pienamente giustificato, considerato, peraltro, i vantaggiosi effetti per l'imputato che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
Al contrario, del tutto irragionevoli risulterebbero le conseguenze di una diversa lettura delle disposizioni richiamate che considerino non superabile, in ogni caso, il termine di sospensione di sessanta giorni.
Invero, detto termine di definizione del procedimento amministrativo di sanatoria non viene, in pratica, quasi mai rispettato per diverse ragioni, e gli effetti, decisamente negativi per il richiedente, conseguenti al fatto che dopo il decorso del temine la domanda si intende rifiutata, sono sostanzialmente compensati dalla più volte ricordata possibilità, per l'amministrazione competente, di rilasciare comunque la sanatoria anche oltre il sessantesimo giorno dalla presentazione della richiesta.
Ebbene, accedendo all'orientamento secondo il quale ogni ulteriore sospensione del procedimento, comunque disposta, sarebbe illegittima, si verrebbe a configurare una singolare situazione, nella quale, al fine di evitare il decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe costretto a proseguire comunque nella trattazione del processo, anche in presenza di una espressa richiesta in tale senso della parte.
Ciò detto, va chiarito che
devono comunque tenersi distinte l'ipotesi della sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza di parte.
Nel primo caso, infatti, vanno applicati i principi, richiamati in precedenza e sviluppati con riferimento tanto alla disciplina del condono che a quella sulla sanatoria per accertamento di conformità, i quali presuppongono, ai fini della legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
L'analisi effettuata dalla giurisprudenza è stata particolarmente approfondita, come si è visto, riguardo alla più ampia casistica sviluppatasi in relazione al condono, sebbene conclusioni non dissimili siano state tratte anche con riferimento alla sanatoria per accertamento di conformità.
Ne consegue che, a fronte di una situazione, risultante chiaramente dagli atti o dall'imputazione, che evidenzi, pacificamente e senza necessità di specifici accertamenti, l'assenza dei requisiti per l'accoglimento della domanda, come, ad esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le previsioni degli strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di sessanta giorni indicato dalla legge per la definizione del procedimento amministrativo (o per quello, superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la dispone), non potrà operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e senza richiesta di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei termini di prescrizione.
Per contro, avranno in ogni caso effetti sospensivi del corso della sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una richiesta dell'imputato o del suo difensore, dovendosi al riguardo condividere le osservazioni svolte dalla citata sentenza Zappalorti.
Ricorda infatti tale pronuncia che la giurisprudenza formatasi in tema teneva necessariamente conto di quanto stabilito dall'art. 159 cod. pen. prima degli interventi modificativi ad opera della legge 05.12.2005, n. 251 («
Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge»), la quale, con l'art. 6, ne ha sostituito il testo che, come è noto, stabilisce ora, al primo comma, n. 3, che il corso della prescrizione rimane, tra l'altro, sospeso in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori, ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore, disponendo che, nella prima ipotesi, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo, in caso contrario, al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni.
La disposizione è stata sempre interpretata nel senso che il rinvio dell'udienza, accordato su richiesta del difensore, determina la sospensione dei termini di prescrizione del reato, ritenendosi, peraltro, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 159 cod. pen., sollevata per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non indica il termine massimo di sospensione della prescrizione conseguente alla richiesta della difesa dell'imputato di un differimento dell'udienza, osservandosi che la previsione di rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata al soddisfacimento di esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento e tiene conto della libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è stato ritenuto logico, in tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario derivante dal soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua determinazione la durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze dell'ufficio medesimo (Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).
Si è inoltre osservato (Sez. 3, n. 29885 del 15/04/2015, Vuolo, Rv 264433) come, in tali casi, la durata del differimento sia discrezionalmente determinata dal giudice in considerazione delle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà delle parti coinvolte nel processo, nonché dei principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite (n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262914) con riferimento a tutti i casi in cui il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio della udienza, pur in mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per concorrente impegno professionale del difensore.
   12. In caso di rinvio su richiesta dell'imputato o del suo difensore, dunque, ai fini della sospensione dei termini di prescrizione operano i principi generali stabiliti dal codice di rito, i quali, peraltro, avranno effetto, a differenza di quanto avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati eventualmente concorrenti con la contravvenzione di cui all'art. 44 del medesimo decreto.
   13. Ne consegue che ai quesiti posti in apertura della presente parte motiva, al § 1, deve rispondersi affermativamente.
...
   15. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento al secondo e al terzo motivo di ricorso, perché le opere, come descritte nel capo di imputazione, necessitavano, per essere eseguite, del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Si tratta di un intervento edilizio che deve essere unitariamente considerato, diversamente da quanto affermato in ricorso, ove viene effettuata la disamina delle singole opere al fine di sostenere la soggezione delle stesse ad un diverso regime autorizzatorio, ponendosi così in contrasto con il principio, ripetutamente affermato, secondo il quale il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, dep. 2015, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011, dep.2012, Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata, ed altre conformi).
Corretta risulta pertanto la soluzione adottata dalla Corte territoriale, la quale ha puntualmente analizzato la natura e consistenza dell'intervento realizzato, qualificando correttamente la condotta oggetto di contestazione, con motivazione adeguata, del tutto immune da salti logici o manifeste contraddizioni, che il ricorso denuncia senza ulteriori specificazioni, evidenziando, così, un'assoluta genericità (Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 13.04.2016 n. 15427 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria.
Non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti, contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
E' "principio generale” che la Pubblica amministrazione “deve verificare prima del rilascio del titolo in sanatoria la compatibilità dello stesso con le norme vigenti”, “assentendo la domanda in caso positivo e negandola nella diversa ipotesi”, e che non è pertanto ipotizzabile convenire con una domanda di sanatoria apponendo delle condizioni, cosa che evidentemente significherebbe l'accertamento di una solo parziale conformità del progetto al piano regolatore e alla normativa edilizia comunale.

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... per l'annullamento del provvedimento del Dirigente il Servizio sportello imprese e cittadini del Comune di Trento di data 18.08.2015, prot. n. 155623/2015, con il quale è stata respinta la richiesta di concessione edilizia in sanatoria per opere abusive in p.ed. 1149, p.m. 10, sub 42, in C.C. Cognola, via degli ...;
...
In punto di diritto, poi, il Collegio rammenta che la giurisprudenza amministrativa, qui condivisa, afferma che:
- la sanatoria è caratterizzata, invero, dalla materiale esistenza dell'opera ammessa, per l’appunto, a sanatoria (cfr. C.d.S., Ad.Pl., 08.01.1986, n. 1);
- “non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell'alveo della legalità … tanto, infatti, contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica” (cfr. C.d.S., sez. IV, 08.09.2015, n. 4176, che testualmente dissente da pronunce di primo grado, citate, che avevano affermato che la “concessione edilizia in sanatoria può introdurre o recepire prescrizioni tese ad imporre correttivi sull'esistente, qualora si tratti di integrazioni minime, di esigua entità” -quali, peraltro, non sarebbero quelle oggetto della vicenda di causa);
- è “principio generale” che la Pubblica amministrazione “deve verificare prima del rilascio del titolo in sanatoria la compatibilità dello stesso con le norme vigenti”, “assentendo la domanda in caso positivo e negandola nella diversa ipotesi”, e che non è pertanto ipotizzabile convenire con una domanda di sanatoria apponendo delle condizioni, cosa che evidentemente significherebbe l'accertamento di una solo parziale conformità del progetto al piano regolatore e alla normativa edilizia comunale (cfr. TAR Liguria, sez. I, 15.01.2016, n. 45; TAR Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 04.06.2014, n. 3066) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 13.04.2016 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2016

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 dispone che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto «se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La domanda di sanatoria presuppone che la parte dimostri la conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione della domanda e al momento della realizzazione dell’opera. L’amministrazione valuta, poi, se la dichiarazione è conforme a legge.

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4.– Con un ulteriore motivo si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato il terzo motivo del ricorso. A tale proposito, si deduce come il Tribunale amministrativo avrebbe “travisato” il contenuto del provvedimento impugnato, in quanto il Comune non ha accertato la mancanza della doppia conformità per contrasto con il nuovo piano adottato. Si aggiunge come sarebbe illegittimo il provvedimento impugnato nella parte in cui ha ritenuto necessario dimostrare la doppia conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 36 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto «se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
L’amministrazione ha, pertanto, correttamente ritenuto necessario che, al fine di potere considerare la domanda come variante in sanatoria, fosse necessario la dimostrazione della doppia conformità. Né varrebbe rilevare che tale regola non sarebbe applicabile in presenza di “varianti proprie” né che fosse onere dell’amministrazione dimostrare la doppia conformità.
In relazione al primo aspetto, l’art. 36 non pone limitazioni di sorta con riferimento all’ambito applicativo della regola della doppia conformità.
In relazione al secondo aspetto, la domanda di sanatoria presuppone che la parte dimostri la conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione della domanda e al momento della realizzazione dell’opera. L’amministrazione valuta, poi, se la dichiarazione è conforme a legge.
In questo contesto, dimostrata la legittimità della valutazione amministrativa basata su quanto esposto, il denunciato “travisamento” da parte del primo giudice del contenuto del provvedimento impugnato non assume rilievo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.03.2016 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2016

EDILIZIA PRIVATA: Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (in motivazione la Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime).
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In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.

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3. Il ricorso è infondato e deve rigettarsi.
In tema di contestazione dell'accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all'indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell'esercizio del diritto di difesa (Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Russo, Rv. 258920; Sez. 6, n. 45289 del 08/11/2011 - dep. 05/12/2011, Floridia, Rv. 250991; Sez. 5, n. 44707 del 09/11/2005 - dep. 07/12/2005, Bombagi, Rv. 233069).
L'imputazione, quindi, deve leggersi nella sua esatta descrizione del fatto, ovvero le norme che vengono in considerazione sono l'art. 93 e l'art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001. Infatti nella descrizione della condotta si individua l'assenza dell'attestato di avvenuto deposito di cui all'art. 65, comma 5, del d.P.R. citato, e l'omessa denuncia dei lavori in zona sismica, ex art 93 del d.P.R. citato. Non è contestata pertanto la condotta prevista dall'art. 94 del d. P.R. n. 380 del 2001, inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione.
Per queste fattispecie dì reato, quindi, non opera la previsione dell'art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001, espressamente riferita alla sola preventiva autorizzazione. Prevede infatti la norma: "Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'art. 83, non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione".
Per la fattispecie dell'art. 93 infatti la Corte di Cassazione ha sempre ritenuto irrilevante il grado di sismicità: "
Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (in motivazione la Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime)" (Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011 - dep. 06/06/2011, Morini, Rv. 250369; nello stesso senso vedi anche Cassazione, sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo).
Irrilevante, quindi, risulta il grado dì sismicità del Comune di Roseto degli Abruzzi.
Infondato è anche il motivo relativo alla sanatoria della Provincia di Teramo (attestato in sanatoria n. 225811 del 19.11.2011).
In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.02.2016 n. 8175).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio.
Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta.
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Il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria.
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.

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... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell’ordinanza n. 2 del 27.11.2014 (prot. n. 3864), notificata in data 18.12.2014, con la quale il Comune di Busso ha ordinato al ricorrente la demolizione di un manufatto realizzato nella parte retrostante il fabbricato di civile abitazione, contenente un serbatoio di acqua potabile avente struttura portante in muratura di mattoni e soprastante terrazzo.
...
Il ricorso è improcedibile.
La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; Tar Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Nel caso di specie, poi, il ricorrente ha prodotto il parere positivo espresso dalla Regione nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione, come di recente rilevato da questo Tribunale in un caso analogo (sentenza 20.11.2015, n. 441), induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: TAR Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
In conclusione, il ricorso è da ritenersi improcedibile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe ragioni che militano per l’orientamento che depone per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
   5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile.

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... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) l’ordinanza di demolizione di opere abusive prot. n. 2/2015, emessa dal Comune di Rocchetta al Volturno in data 08.01.2015, notificata al ricorrente in data 16.02.2015, con la quale è stata ordinata la demolizione delle dette opere a propria cura e spese; 2) ogni atto presupposto, connesso e conseguente;
...
  III - La presentazione da parte del ricorrente della domanda di sanatoria edilizia comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti, in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia del Comune su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; T.a.r. Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: Tar Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
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In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, il silenzio dell'Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un'ipotesi di silenzio-significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare) che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento per la sussistenza della prescritta doppia conformità urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione del tutto scevra da valutazioni discrezionali e riconducibile a mero accertamento comparativo.

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Infondata è poi, per come prospettata, la censura secondo cui l'ordine demolitorio perderebbe tout-court efficacia per effetto della successiva presentazione, in data 19.05.2011, dell'istanza di accertamento di conformità, tenuto conto che "in tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare" (così, C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquisterà la sua efficacia.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr. TAR Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
A maggior ragione inconferente, attesa l'autonomia dei relativi procedimenti, deve ritenersi la dedotta pendenza della domanda di compatibilità paesaggistica ex artt. 167 e 181 e del d.lgs. n. 42 del 2004, inidonea a refluire sulla legittimità della sanzione qui avversata, comminata ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 27 del testo unico sull'edilizia.
Le considerazioni fin qui svolte esplicano una diretta incidenza anche in relazione agli ulteriori motivi di censura articolati in via aggiuntiva con atto depositato in data 26.11.2011 e riferiti al provvedimento di reiezione implicita dell'istanza di accertamento di conformità inoltrata, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 36 e/o 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, in data 19.05.2011.
Ed, invero, la ricorrente ripropone qui il proprio costrutto, sopra già disatteso, secondo cui l'intervento eseguito, riconducibile alla tipologia del risanamento conservativo e/o ristrutturazione edilizia non valutabile in termini di volumi, non sarebbe soggetto a permesso di costruire. Proprio muovendo da siffatta premessa, assume, infatti, che il procedimento di sanatoria attivato con la citata istanza del 19.05.2011 dovrebbe essere ricondotto alla distinta fattispecie di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, che non contemplerebbe ipotesi di silenzio-significativo, di talché l'inerzia serbata dall'Amministrazione intimata andrebbe qualificata come silenzio inadempimento. Ove il Comune avesse, pertanto, inteso avvalersi del disposto di cui all'articolo 36 cit., tale atto legale implicito dovrebbe ritenersi, per ciò solo, illegittimo.
Sul punto, in disparte l'articolazione in forma ipotetica della domanda impugnatoria qui in rilievo, è sufficiente fare rinvio alle considerazioni già sopra svolte, da intendersi integralmente richiamate, in ordine alla insussistenza di conferenti argomenti (e soprattutto di pertinenti elementi probatori) a sostegno di tale assunto ed alla conseguente necessità di qualificare l'opera in addebito come nuova costruzione soggetta a permesso di costruire, con conseguente sussunzione del procedimento di sanatoria attivato dalla ricorrente sotto l'egida dell'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
In aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, occorre soggiungere che il silenzio dell'Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un'ipotesi di silenzio-significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306, 15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e 07.09.2007, n. 7958; sezione settima, 24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173; Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n. 1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla qualificazione operata dall'art. 43 della L.R. Campania n. 16 del 2004 (peraltro successivamente abrogato dall'art. 4, comma 1, lettera n), della L.R. 05.01.2011, n. 1, a decorrere dal 150° giorno successivo a quello della sua pubblicazione) in ordine al silenzio serbato dalle amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001) che "non può riverberare sulla disciplina processuale, di esclusiva competenza statale, posta per la tutela giurisdizionale contro il silenzio della pubblica amministrazione", fermo che "la previsione di cui alla norma regionale si limita, di fatto, a prevedere e disciplinare un rimedio alternativo, meramente amministrativo (attivabile d'ufficio o a cura di parte), avverso la mancata pronuncia delle amministrazioni comunali sulle richieste di accertamento di conformità, senza con ciò interferire sulla qualificazione giuridica del silenzio impugnabile in sede giurisdizionale e sul relativo rito azionabile" (cfr., in tali espliciti sensi, sempre questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito, Cons. Stato n. 598 del 2006 cit.).
Pertanto, il silenzio-diniego formatosi a seguito del decorso del termine di 60 giorni può essere impugnato nel prescritto termine decadenziale, senza però la possibilità di dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura o mancanza di motivazione, non sussistendo l'obbligo di emanare un atto scritto, ripetitivo degli effetti di reiezione della istanza, disposti dal sopra richiamato art. 36.
Il diritto di difesa dell'interessato, tuttavia, non viene ad essere vulnerato dall'anzidetta limitazione all'attività assertiva, ben potendo egli dedurre (e validamente provare) che l'istanza di sanatoria sia meritevole di accoglimento per la sussistenza della prescritta doppia conformità urbanistica delle opere abusivamente realizzate: operazione del tutto scevra da valutazioni discrezionali e riconducibile a mero accertamento comparativo.
In ossequio alle divisate coordinate di riferimento il ricorso per motivi aggiunti non può, dunque, essere accolto siccome imperniato sul presunto obbligo di provvedere e sul difetto di motivazione del silenzio rigetto; inoltre, sotto diverso profilo, non può essere condivisa l’affermazione della conformità dell'opera realizzata alle prescrizioni dello strumento urbanistico e del P.T.P. vigenti anche in ragione del fatto -più volte evidenziato- che viene qui in rilievo l'esecuzione di abusivi interventi di nuova costruzione in zona vincolata e non già di un intervento di risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia (al riguardo, è sufficiente rammentare che le disposizioni del codice dei beni culturali –d.lgs. n. 42/2004 cfr. artt. 146 e 167– precludono il rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria quando siano stati realizzati nuovi volumi).
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni il ricorso, per come integrato dai motivi aggiunti, va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cani, il box non si sana.
Niente sanatoria per il box dei cani sorto a ridosso del confine con la villetta del vicino. E ciò perché è la stessa natura del titolo edilizio concesso ex articolo 36 del testo unico a escludere che il rilascio possa essere subordinato alla realizzazione di altre opere edilizie: l'accertamento di conformità, infatti, presuppone che il manufatto sia già diventato conforme alla disciplina urbanistica con i lavori realizzati nelle more.

È quanto emerge dalla sentenza 09.02.2016 n. 163, pubblicata dalla I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Condizioni igieniche
Accolto il ricorso del confinante che blocca il ricovero per animali domestici «condonato» dal vicino. È lo stesso Comune a riconoscere che le distanze legali previste dal codice civile siano state fatte proprie dal piano regolatore generale dell'ente locale.
Il proprietario del box ammette di aver costruito a meno di mezzo metro dal confine e s'impegna a far arretrare il manufatto nella domanda del titolo edilizio necessario a mettersi in regola. Ma ormai è troppo tardi: una volta emersa l'irregolarità, l'amministrazione non poteva non tenerne conto in sede di sanatoria.
Il Comune, poi, non accerta se il box è adeguato dal punta di vista delle condizioni igienico-sanitarie, visto che deve ospitare animali domestici. E non risulta acquisito dal proprietario il necessario studio di inserimento ambientale: è ragionevole ritenere che il latrato dei cani possa disturbare i vicini. Che infatti bloccano il progetto e si fanno pagare le spese di giudizio dal Comune (articolo ItaliaOggi del 06.04.2016).
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MASSIMA
Osserva il Collegio come una prima questione si incentri sulla compatibilità dell’intervento edilizio con le prescrizioni di cui all’art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale.
La «relazione tecnica» allegata all’istanza di sanatoria aveva evidenziato che “…L’aspetto urbanistico della presente sanatoria è caratterizzato dalla possibilità di sanare il box per cani utilizzando la quota di edifìcabiltà “una tantum” prevista nelle “zone residenziali edificate B1” in cui, come nella fattispecie, la superficie costruita alla data di adozione dello strumento urbanistico vigente era maggiore dell’edificabilità ammessa dall’indice di utilizzazione fondiaria …” e che “…Tale possibilità oltre che per gli ampliamenti della superficie utile abitabile è ammessa anche per la creazione di servizi alle unità immobiliari esistenti. Nella fattispecie si ritiene che il box per il ricovero e la detenzione dei cani di proprietà del sig. Ca.It. sia una superficie di vero e proprio servizio …”, indicazioni poi fatte proprie dal titolo edilizio impugnato (“…Accertata la conformità urbanistica di cui all’art. 28 delle NTA, che ammette la creazione di opere pertinenziali, che concede, per tutti i fabbricati esistenti alla data dell’adozione del PRG vigente, un incremento di superficie utile per il miglioramento dell’abitabilità e per la creazione di servizi delle singole unità immobiliari. Verificato che dal conteggio presentato dal tecnico risulta un incremento di superficie spettante di diritto sull’intero fabbricato pari al 15% […] il manufatto risulta essere stato realizzato in aderenza ad un fabbricato già esistente ed autorizzato da regolare Concessione Edilizia …”).
Le ricorrenti, tuttavia, assumono non ammissibile l’opera in questione perché fonte di rumore ed esalazioni maleodoranti, produttiva di incremento di «superficie non residenziale» anziché di «superficie utile», localizzata in aderenza ad un fabbricato accessorio e non al fabbricato principale, assentita senza il prescritto studio di inserimento ambientale e indebitamente giustificata dall’addotta esigenza di assicurare un idoneo ricovero agli animali domestici del proprietario.
La questione è fondata nei limiti che si indicheranno.
L’art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale disciplina le «zone residenziali edificate (B1)» e prevede al loro interno le «sottozone B1», stabilendo che vi sono ammessi “…tutti gli usi esistenti, compatibilmente con le prescrizioni del Piano Comunale per il Commercio, a condizione che quelli non residenziali non presentino inconvenienti tali da contrastare con il carattere dell’edificio o degli edifici circostanti o da impedire il normale svolgimento delle funzioni abitative (ad esempio: fonti di rumore, esalazioni nocive o maleodoranti ...) come previsto per le zone A …”, con la possibilità di un “…ampliamento “una tantum”, da realizzare in aderenza al fabbricato esistente, per il quale è richiesto uno studio di inserimento ambientale, da estendere alla strada, alla piazza o comunque alla zona in cui è localizzato l’edificio (per un raggio di 50 m. almeno), che dimostri la sua compatibilità ambientale. L’incremento una tantum è previsto per il miglioramento dell’abitabilità delle singole unità immobiliari o per la creazione di servizi nella misura di: 20% per unità immobiliari fino ad 80 mq di Su …”.
Orbene, la circostanza che venga espressamente consentita la “creazione di servizi” rende evidente che l’ampliamento una tantum non è inderogabilmente circoscritto alla «superficie utile» ma può riguardare anche la «superficie non residenziale», benché il parametro di incremento venga commisurato, nella sua misura massima, alle dimensioni della parte abitabile; correttamente, dunque, si è ritenuta realizzabile la struttura destinata al ricovero di animali domestici.
Né il vincolo della costruzione in “aderenza al fabbricato esistente” può intendersi nella fattispecie violato, giacché la ratio di evitare la disordinata collocazione sul territorio di nuovi manufatti viene salvaguardata dallo stretto contatto di dette opere con strutture preesistenti, quantunque connotate da funzione accessoria (in questo caso si tratta di autorimesse).
Illegittimamente, invece, si è concessa la sanatoria nonostante l’istanza del sig. Ca. si fosse limitata a dichiarare soddisfatte le necessarie esigenze sanitarie, ambientali e di benessere, omettendo la produzione del prescritto “studio di inserimento ambientale, da estendere alla strada, alla piazza o comunque alla zona in cui è localizzato l’edificio”, indagine che avrebbe anche consentito di verificare la concreta adozione delle misure utili a garantire l’insussistenza di condizioni incompatibili con l’ordinario svolgimento delle funzioni abitative, in relazione –come prevede l’art. 28 n.t.a.– a possibili fonti di rumore o di esalazioni maleodoranti; sotto questo profilo, relativo ad una carenza di carattere istruttorio, si presenta di conseguenza fondata la censura delle ricorrenti, le quali imputano all’Amministrazione comunale di avere acriticamente condiviso le generiche conclusioni del sig. Ca., nonostante la disciplina urbanistica imponesse in parte qua un accertamento puntuale e determinasse anche la sfera territoriale (non meno di 50 metri) interessata dalla verifica.
Né una deroga a detta prescrizione poteva naturalmente derivare dalla normativa a tutela del benessere animale (legge reg. n. 5/2005), in sé inidonea ad esonerare dall’osservanza delle regole che attengono al governo del territorio.
E’ fondata anche la censura con cui le ricorrenti adducono che la sanatoria avrebbe dovuto essere negata a fronte dell’ammissione del privato di avere edificato in violazione del limite di distanza legale dal confine di proprietà e del dichiarato impegno a rimediare a tale irregolarità (dalla «relazione tecnica» risulta che “…Il box in oggetto è realizzato a circa 34 cm. dalla recinzione che definisce il confine catastale di proprietà; non avendo l’autorizzazione della proprietà confinante per costruire a tale distanza si prevede di arretrare la copertura del manufatto fino a mt. 1,50 da detta recinzione (vedi elaborato grafico). In tal modo si ritiene soddisfatta e rispettata la distanza minima dal confine del nuovo manufatto da sanare imposta dal Codice Civile (Art. 873) …”).
Per costante giurisprudenza, invero,
non è ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 che venga subordinato alla esecuzione di opere edilizie, anche se gli ulteriori interventi sono finalizzati a ricondurre l’immobile abusivo nell’alveo della compatibilità con gli strumenti urbanistici, giacché ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conciliabilità con la disciplina urbanistica (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.06.2014 n. 3066); del resto, la stessa Amministrazione comunale ha riconosciuto come le distanze legali previste dal codice civile siano state fatte proprie dal piano regolatore locale (v. nota prot. n. 16186 del 21.12.2009), sì che –una volta emersa l’irregolarità– non se ne poteva sicuramente prescindere in sede di rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
Né induce a diverse conclusioni l’obiezione secondo cui il precedente proprietario dell’area delle ricorrenti avrebbe a suo tempo acconsentito (nel 1979) a che il confinante edificasse in deroga alle distanze legali, in quanto –a tacer d’altro– quella autorizzazione privata si riferiva unicamente a garages, non a ricoveri per animali domestici.
Quanto, poi, al denunciato silenzio degli atti progettuali allegati all’istanza di sanatoria circa le necessarie misure di tutela igienico-sanitaria –in relazione anche al disposto dell’art. 34 del Regolamento comunale di Polizia urbana e rurale (“…I proprietari di cani e di altri animali o coloro che li abbiano ricevuti in custodia sono responsabili degli insudiciamenti cagionati … Gli stessi devono, inoltre, garantire le condizioni igienico-sanitarie del luogo in cui vivono gli animali e di chi vive nelle vicinanze …”)–, il Collegio rileva in effetti la genericità delle indicazioni in tal senso contenute nella «relazione tecnica» del 15.09.2009.
Oltre all’affermazione secondo cui “…Le acque della copertura sono raccolte da una lattoneria in lamiera d’acciaio e canalizzate verso la fognatura bianca esistente …”, nulla viene specificato circa le modalità di smaltimento delle deiezioni degli animali e delle sostanze liquide legate alla pulizia; profili, questi, che non possono essere rimessi unicamente ad una verifica da effettuare nell’uso quotidiano della struttura di ricovero e alla responsabilità che grava sul proprietario dei cani, ma che necessariamente assumono rilievo in sede di rilascio del titolo edilizio relativo al manufatto a tale funzione destinato.
Né, d’altra parte, l’Amministrazione risulta avere operato in sede istruttoria per accertare l’adeguatezza delle misure eventualmente predisposte dal privato.
Non persuade, invece, la doglianza imperniata sul divieto di cui all’art. 37 del Regolamento comunale di Polizia urbana e rurale (“Nel centro abitato è vietato costruire ricoveri per animali quali pollai, stalle, canili, porcili e simili. E’ altresì vietato l’allevamento di animali da stalla e da cortile”).
Si tratta di prescrizione necessariamente riferita ad allevamenti e ricoveri relativi all’esercizio di attività di impresa, non ai box che, senza fini di lucro e per le sole finalità del proprietario, ospitino animali domestici o di compagnia, tanto più che le disposizioni contenute negli artt. 36 e 36-bis recano norme in materia di custodia dei cani che sottintendono la loro presenza in luoghi di residenza non isolati.
Circa, infine, la lamentata incoerenza dell’azione amministrativa del Comune di Vergato, che dopo l’ingiunzione di demolizione del precedente manufatto avrebbe omesso di sanzionare il nuovo abuso del sig. Ca. e avrebbe ingiustificatamente tollerato la presenza del manufatto sine titulo fino alla presentazione della relativa istanza di sanatoria,
il Collegio osserva come il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione non vizi ex se il successivo permesso di costruire in sanatoria, il cui presupposto è costituito unicamente dalla conformità dell’intervento alla disciplina urbanistico-edilizia (oltre al versamento di contributi vari). Il tardivo agire dell’ente locale, insomma, non incide sulla legittimità di un atto il cui rilascio non è soggetto a scadenza, neppure quando si sarebbe potuto da tempo ingiungere al proprietario la demolizione delle opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo.
In conclusione, il ricorso va accolto per la mancata acquisizione del prescritto “studio di inserimento ambientale”, per la violazione della distanza legale ex art. 873 cod. civ. (fatta propria dal piano regolatore comunale) e per l’omesso accertamento dell’adeguatezza del manufatto quanto alle condizioni igienico-sanitarie da assicurare per una simile destinazione d’uso. Dal che l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria n. 445/A - prot. n. 16010 del 17.12.2009.

gennaio 2016

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 36, secondo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 che <<Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia […]. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso>>.
Come si vede, la norma, in relazione agli interventi eseguiti in parziale difformità da un titolo già rilasciato, correla l’oblazione alla parte di opera difforme dal titolo stesso.
E’ opinione del Collegio che per <<parte di opera difforme>> si debba intendere quella porzione di intervento, concretamente esistente, non corrispondente alle previsioni del progetto assentito.
Non è dunque possibile pretendere il pagamento dell’oblazione per parti non realizzate.
Ne consegue che se la difformità consiste semplicemente nella mancata realizzazione di una parte dell’intervento assentito, l’oblazione non è dovuta.
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La domanda di condanna alla restituzione della somma versata a titolo di oblazione (non dovuta) non può che essere accolta.
Di conseguenza, l’Amministrazione deve essere condannata, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., alla restituzione della somma indebitamente percepita a titolo di oblazione oltre interessi sino all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non essendo stata provata la sua malafede, a decorrere dal giorno della domanda e, quindi, dal giorno di notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio.
Trattandosi di debito di valuta, e non essendo stata dimostrata la sussistenza del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ., non è invece dovuta la rivalutazione monetaria.
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1. Con concessione edilizia n. 73 del 1999 rilasciata dal Comune di Arcore, la società Dalmine s.p.a., odierna ricorrente, è stata autorizzata a realizzare un intervento di ristrutturazione edilizia su un immobile di sua proprietà situato nel territorio del predetto Comune ed adibito a sede di attività produttiva.
2. L’intervento avrebbe dovuto comportare la realizzazione di nuova superficie pari a mq. 1.152,95.
3. I lavori effettivamente eseguiti hanno però comportato la realizzazione di una superficie inferiore pari a mq. 856,80. La ricorrente riferisce che la contrazione di superficie dipende dal fatto che parte delle opere assentite non sarebbero state nel concreto realizzate.
4. Al fine di conseguire la conformità fra assentito e realizzato, la stessa ricorrente, in data 31.10.2006, ha presentato al Comune di Arcore una domanda di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
5. L’Amministrazione, con provvedimento del 15.05.2009, ha accolto l’istanza, richiedendo tuttavia il pagamento, a titolo di oblazione, di una somma pari ad Euro 88.039,94.
6. La ricorrente ritiene che tale somma non sia dovuta. Per questa ragione, con il ricorso in esame, chiede l’annullamento in parte qua dell’atto di cui sopra. Chiede inoltre che il Comune di Arcore venga condannato alla restituzione della suddetta somma (nel frattempo versata), oltre che alla restituzione di quella parte del contributo di costruzione -versato a seguito del rilascio della concessione edilizia n. 73 del 1999– relativa alle opere non effettivamente eseguite, oltre rivalutazione ed interessi.
7. Si è costituito in giudizio, per opporsi all’accoglimento delle domande avverse, il Comune di Arcore.
8. Dopo la proposizione del ricorso, la ricorrente è venuta in possesso di alcuni atti endoprocedimentali, e precisamente: del parere favorevole della Commissione edilizia del Comune di Arcore del 09.03.2009; del parere favorevole dell’Azienda Sanitaria Locale dell’08.04.2005; del parere favorevole dell’Ufficio Tecnico del Comune di Arcore del 12.05.2009.
9. L’esame di questi atti ha consentito all’interessata di dedurre nuove censure mediante la proposizione di motivi aggiunti. Con i motivi aggiunti viene anche impugnata la delibera di Giunta Comunale n. 70 del 05.05.2009, con la quale sono state dettate disposizione in materia di quantificazione del costo di costruzione.
...
12. Con il primo motivo di ricorso, l’interessata sostiene che oggetto dell’atto di sanatoria sarebbe, in sostanza, una parte del medesimo intervento già assentito con la concessione edilizia n. 73 del 1999, per il quale il contributo di costruzione è già stato interamente versato. Pertanto, a dire della stessa parte, non sarebbe neppure configurabile un’ipotesi di abuso ed, in ogni caso, sarebbe del tutto illegittimo pretendere il versamento di un’oblazione correlata alla superficie in concreto non realizzata. La ricorrente deduce anche il vizio di eccesso di potere per sviamento, in quanto, a suo dire, con l’atto impugnato, l’Amministrazione avrebbe inteso perseguire la finalità di assicurarsi un indebito introito finanziario.
13. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce il difetto motivazionale del provvedimento impugnato, non avendo l’Amministrazione illustrato le modalità di calcolo della somma pretesa a titolo di oblazione.
14. Le Argomentazioni dedotte nel ricorso introduttivo sono state riprese e sviluppate nei motivi aggiunti, nei quali si ribadisce l’assurdità di calcolare l’oblazione facendo riferimento alla superficie non realizzata. Sempre nei motivi aggiunti, la ricorrente rileva che le modalità di calcolo del costo di costruzione stabilite dalla delibera di Giunta Comunale n. 70 del 2009 non sarebbero, nel concreto, applicabili, posto che tale delibera individua dei valori parametrici utilizzabili in caso di mancata produzione, da parte del richiedente, di un preventivo di spesa idoneo a dimostrare il reale costo dei lavori, e che il Comune di Arcore non le ha mai richiesto la produzione di tale preventivo. Peraltro, secondo la ricorrente, anche questa delibera sarebbe stata approvata al solo fine di assicurare all’Amministrazione la percezione di una consistente introito finanziario; sarebbe pertanto sussistente il vizio di eccesso di potere per sviamento.
15. Ritiene il Collegio che le censure siano fondate nei termini e nei limiti di seguito esposti.
16. Stabilisce l’art. 36, secondo comma, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che <<
Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia […]. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso>>.
17. Come si vede, la norma, in relazione agli interventi eseguiti in parziale difformità da un titolo già rilasciato, correla l’oblazione alla parte di opera difforme dal titolo stesso.
18. E’ opinione del Collegio che per <<parte di opera difforme>> si debba intendere quella porzione di intervento, concretamente esistente, non corrispondente alle previsioni del progetto assentito.
19. Non è dunque possibile pretendere il pagamento dell’oblazione per parti non realizzate.
20. Ne consegue che se la difformità consiste semplicemente nella mancata realizzazione di una parte dell’intervento assentito, l’oblazione non è dovuta.
21. E’ dunque fondata la censura prospettata dalla parte la quale, come visto, lamenta proprio che il Comune di Arcore ha preteso il pagamento di un’oblazione correlata a quella porzione di opere assentite con la concessione del 1999 ma non concretamente eseguite.
22. Il Comune di Arcore eccepisce che, in realtà, nel caso concreto, la difformità non sarebbe solo dovuta alla semplice mancata realizzazione di una parte delle opere assentite, ma anche al fatto che, a seguito dell’intervento, il fabbricato avrebbe assunto una struttura parzialmente diversa rispetto a quella assentita, anche se, effettivamente, di superficie inferiore.
23. Va però osservato che non è in ogni caso contestato che l’oblazione è stata in concreto calcolata facendo riferimento alla minore superficie realizzata; e ciò, per le motivazioni sopra illustrate, non può considerarsi corretto.
24. Il Comune, in applicazione del ridetto art. 36, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, ai fini della quantificazione dell’oblazione, avrebbe tutt’al più dovuto quantificare la superficie della porzione di fabbricato difforme rispetto all’assentito, e calcolare quindi l’oblazione stessa in funzione di tale superficie.
25. Va pertanto ribadita la fondatezza delle doglianze esaminate il cui accoglimento determina il pieno soddisfacimento dell’interesse dedotto nel giudizio e consente, conseguentemente, l’assorbimento delle censure non espressamente scrutinate.
26. Come anticipato, oltre alla domanda di annullamento, viene proposta una domanda di condanna alla restituzione della somma versata a titolo di oblazione nonché della somma relativa a quella parte del contributo di costruzione -versato a seguito del rilascio della concessione edilizia n. 73 del 1999– correlato alle opere non effettivamente eseguite.
27. Per quanto riguarda il primo profilo, a seguito dell’annullamento in parte qua del provvedimento impugnato, la domanda non può che essere accolta.
28. Di conseguenza, l’Amministrazione deve essere condannata, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., alla restituzione della somma indebitamente percepita a titolo di oblazione, pari ad euro 88.039,94, oltre interessi sino all’effettivo soddisfo, da calcolarsi, non essendo stata provata la sua malafede, a decorrere dal giorno della domanda e, quindi, dal giorno di notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio.
29. Trattandosi di debito di valuta (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 20.12.1996, n. 11440), e non essendo stata dimostrata la sussistenza del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ. (TAR Campania Napoli, sez. IV, 02.04.2015, n. 1907), non è invece dovuta la rivalutazione monetaria.
30. Rimane ovviamente salva la possibilità per il Comune, ove ne ricorrano i presupposti, di ricalcolare correttamente l’ammontare dell’oblazione e pretenderne, dopodiché, il versamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.01.2016 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità della sanatoria condizionata.
Deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.

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4. Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (v. Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009, Peoloso, non massimata; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro, Rv. 238020; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv. 226897 ed altre prec. conf.).
Tali principi, pienamente condivisi dal Collegio, devono pertanto essere ribaditi
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2015 n. 51013).

novembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Condizione imprescindibile per l’applicabilità dell’istituto di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 è la sussistenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera eseguita deve essere, cioè, conforme sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti alla presentazione della domanda.
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Vale, tuttavia, precisare che, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 06.06.2001 n. 380 “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso … il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Condizione imprescindibile per l’applicabilità dell’istituto in questione, dunque, è la sussistenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera eseguita deve essere, cioè, conforme sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti alla presentazione della domanda.
Pur dando atto della sussistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali, ritiene, infatti, il Collegio di aderire alla scelta ermeneutica più rigorosa, deponendo in tale senso la stessa lettera della norma, come sopra specificato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.04.2006 n. 2306; Sez. V, 25.02.2009 n. 1126; Sez. IV, 02.11.2009 n. 6784; TAR Reggio Calabria, n. 861 del 2015; TAR Lombardia, Brescia 23.06.2003 n. 870; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.06.2006 n. 1352; TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 15.01.2004 n. 16; TAR Emilia-Romagna, Parma 13.12.2007 n. 620; TAR Piemonte, Sez. I, 18.10.2004 n. 2506; 20.04.2005 n. 1094; TAR Liguria, Sez. I, 23.02.2007 n. 364; TAR Catania, Sez. I, 09.01.2009 n. 5; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 07.05.2008 n. 3501; Sez. VI, 04.08.2008 n. 9723 e Sez. III 19.11.2008 n. 19875; Cass. pen., Sez. III, 26.04.2007 n. 24451, 21.10.2008 n. 42526, 21.09.2009 n. 36350 e 21.01.2010 n. 9446)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.11.2015 n. 13283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sistema delineato con l'art. 36 dpr  380/2001 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi formali, ovvero degli interventi edilizi realizzati senza titolo abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla disciplina edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro esecuzione e a quella operante al momento in cui l’interessato avanza istanza di sanatoria.
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Con la richiesta di permesso di costruire in sanatoria in esame, si intende ricondurre a conformità (con riferimento al rispetto delle distanze dai confini) alcuni dei manufatti in questione attraverso una serie di interventi di demolizione parziale o di demolizione e ricostruzione; in altri termini, nelle intenzioni della ricorrente, il rispetto della "doppia conformità" viene subordinato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a fare acquisire ai manufatti la doppia conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata rimodulazione degli interventi già di per sé attesta la mancanza del requisito della doppia conformità (al momento della presentazione della domanda) ed anche la giurisprudenza chiamata ad affrontare casi analoghi ha adottato la medesima soluzione, affermando che:
- laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria;
- la sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere.
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La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude il principio di legalità perché svuota la portata precettiva e vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, vìola la tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 alle sole violazioni di ordine formale, così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti degli autori degli illeciti edilizi.

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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 2727 del 15.03.2013, con il quale il responsabile del servizio Area Tecnica del Comune di Grisignano di Zocco comunicava il diniego del rilascio del permesso di costruire in sanatoria P.E. n. 12P/25.
...
1. Deve rilevarsi, in via preliminare, come l’atto oggetto di impugnativa debba intendersi come atto plurimotivato, alla stregua di quanto sopra rappresentato.
E’ noto che nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi, il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.
2. Nel caso in esame, il principale profilo ostativo posto dal Comune a base della propria valutazione negativa, verte sulla mancanza del requisito della doppia conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001.
3. A riguardo giova ricordare che il sistema delineato con il citato art. 36 consente la sanatoria dei soli c.d. abusi formali, ovvero degli interventi edilizi realizzati senza titolo abilitativo, ma sostanzialmente conformi alla disciplina edilizia-urbanistica vigente all’epoca della loro esecuzione e a quella operante al momento in cui l’interessato avanza istanza di sanatoria.
4. Ciò premesso, vi è da osservare, in via preliminare, che la società agricola Argo, con la richiesta di permesso di costruire in sanatoria in esame, intende ricondurre a conformità (con riferimento al rispetto delle distanze dai confini) alcuni dei manufatti in questione attraverso una serie di interventi di demolizione parziale o di demolizione e ricostruzione; in altri termini, nelle intenzioni della ricorrente, il rispetto della "doppia conformità" viene subordinato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a fare acquisire ai manufatti la doppia conformità di cui sopra.
Ebbene, tale prospettata rimodulazione degli interventi già di per sé attesta la mancanza del requisito della doppia conformità (al momento della presentazione della domanda).
Anche la giurisprudenza chiamata ad affrontare casi analoghi ha adottato la medesima soluzione, affermando che: “laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria”.
Ed ancora che “La sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere” (Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n. 2523; 13.08.2015, n. 1900).
...
6. Né, infine, anche a prescindere da quanto esposto al punto 4) della presente motivazione, ha pregio l'ulteriore doglianza secondo cui il Comune avrebbe omesso ogni valutazione sulla eventuale conformità sopraggiunta dell'immobile, ovvero sulla pretesa assentibilità dell'opera al momento della presentazione della nuova domanda di sanatoria.
La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude, infatti, il principio di legalità perché svuota la portata precettiva e vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, vìola la tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 alle sole violazioni di ordine formale, così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti degli autori degli illeciti edilizi (cfr., per tutte, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n. 1689)
  (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1239 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 del Dpr 380/2001, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
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Secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).

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La censura è infondata.
L’art. 36 del Dpr 06.06.2001, n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione
>> (TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644).
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
Pertanto, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta istanza, valutato come significativo (nonostante, per definizione, risulti privo di motivazione), la tesi della ricorrente per la quale la presentazione di una istanza di sanatoria paralizzerebbe il potere repressivo del Comune sino alla definizione della predetta istanza non è condivisibile.
Sul punto, secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Pertanto le argomentazioni di parte ricorrente nel senso da ultimo precisato, non tengono conto che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine di settanta giorni dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, si forma il silenzio-diniego ed, in tal caso, è onere del ricorrente impugnare tale silenzio -che a tutti gli effetti costituisce un provvedimento tacito- a pena di inammissibilità o improcedibilità del ricorso proposto avverso i successivi provvedimenti repressivi adottati dall’Autorità comunale (ordinanza di demolizione e/o l’atto di acquisizione al patrimonio comunale, a seconda dello stato di avanzamento del procedimento).
D’altronde, nella fattispecie in esame, l’affermazione della ricorrente secondo cui l’istanza di autorizzazione in sanatoria per i lavori oggetto dell’impugnato provvedimento demolitorio e del successivo accertamento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2001 sarebbe meritevole di accoglimento (con il conseguente diritto ad ottenere il permesso di costruire in sanatoria), in considerazione del fatto che l’immobile insisterebbe in una zona completamente mutata da un punto di vista urbanistico e sarebbe risalente nel tempo risulta poi stata smentita per tabulas dai sopravvenuti provvedimenti di diniego, dalla ricorrente ritualmente impugnati con i primi ed i secondi motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se con il termine "sanatoria impropria" vuolsi ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che solo successivamente siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Infatti, “l'attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia”.
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e, soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze della popolazione”, non più attuale e vigente.

Ancora, parte ricorrente, richiamandosi alla c.d. doppia conformità urbanistica prevista dall’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, per la quale la sanatoria di un’opera abusiva richiederebbe la conformità della stessa alla strumentazione urbanistica, sia con riferimento al momento della realizzazione dell’opera che al momento della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, asserisce che la giurisprudenza avrebbe accolto un concetto di sanatoria impropria.
Al riguardo nota il Collegio che, se con tale termine vuolsi ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che solo successivamente siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (cfr. Cass. pen., sez. III, 21/10/2014, n. 47402).
Infatti, “l'attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia” (cfr. TAR Salerno, sez. II, 27/09/2012, n. 1699).
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e, soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze della popolazione”, non più attuale e vigente.
Sotto tale profilo irrilevante (e non può invocarsi un concetto di “sanatoria giurisprudenziale impropria”), l’argomento addotto da parte ricorrente per il quale, risalendo il P.R.G. del Comune di San Giuseppe Vesuviano agli anni ‘80 esso dovrebbe considerarsi quasi abrogato per desuetudine, atteso che le previsioni dei piani regolatori generali che abbiano carattere pianificatorio, ossia di mera conformazione del territorio, sono destinati a durare a tempo indeterminato, salvo ovviamente le varianti in corso di vigenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene di dover escludere che l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento.
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi:
   a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
   b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
   c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo. Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio, nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda.
   d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa.
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria.
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso.
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore.
E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
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In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

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4.3. La pretesa applicabilità dei principi sottesi alla c.d. sanatoria giurisprudenziale non soccorre, infine, alla tesi propugnata da parte ricorrente nel senso della presunta conformità urbanistico-edilizia delle opere controverse rispetto alla sopravvenuta disciplina del vigente piano urbanistico comunale di Orta di Atella.
In proposito, fermo restando che l’attuale conformità urbanistico-edilizia dedotta dai nominati in epigrafe è rimasta concretamente indimostrata, e ribadita l’insussistenza di apposita domanda di sanatoria (cfr. retro, sub n. 4.1), il Collegio ritiene di dover escludere che l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e n. 1690 del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 in area paesaggisticamente vincolata - Comune di Riano (Regione Lazio, parere 13.10.2015 n. 400993 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, se l’autorità amministrativa non si pronuncia sull’istanza di accertamento di conformità nel termine di 60 giorni, la richiesta è da considerare come respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza che il silenzio serbato dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto” e non come silenzio “inadempimento”.
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo da escludere che l’amministrazione, una volta formato il silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui all’art. 117 c.p.a..
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio del potere amministrativo previo accertamento dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella violazione dell’obbligo di concludere un procedimento mediante un provvedimento espresso, purché la legge non assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato.
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque previsto un termine decadenziale per la proposizione del ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del Comune sull’istanza in questione.
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per cui l’amministrazione non perde il relativo potere di provvedere in merito, fermo restando che tale potere ha carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela.

1. Preliminarmente è da osservare che, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, se l’autorità amministrativa non si pronuncia sull’istanza di accertamento di conformità nel termine di 60 giorni, la richiesta è da considerare come respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 14/02/2006, n. 598) che il silenzio serbato dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto” e non come silenzio “inadempimento” (inerzia a fronte di attività vincolata, ovvero “rifiuto”, inerzia a fronte di attività discrezionale: cfr. TAR Sicilia, sez. I Catania, 02/11/2010, n. 4309).
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo da escludere che l’amministrazione, una volta formato il silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui all’art. 117 c.p.a. (cfr. TAR Campania, sez. III, 31/03/2015, n. 1874).
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio del potere amministrativo previo accertamento dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella violazione dell’obbligo di concludere un procedimento mediante un provvedimento espresso, purché la legge non assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato (cfr. Cons. St., sez. III, 03/03/2015, n. 1050).
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque previsto un termine decadenziale per la proposizione del ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del Comune sull’istanza in questione (cfr. Cons. St., sez. IV, 13/01/2010, n. 100).
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per cui l’amministrazione non perde il relativo potere di provvedere in merito (cfr. TAR Campania, sez. III, 13/07/2010, n. 16689), fermo restando che tale potere ha carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela (cfr. Cons. St., sez. V, 25/07/2014, n. 3964) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 01.10.2015 n. 4673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: La "sanatoria giurisprudenziale" non esiste più.
Predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

In proposito, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara, 11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e n. 1690 del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost..
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.).
In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2015

EDILIZIA PRIVATA: Senza il titolo abilitante salta la concessione.
È legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 13.08.2015 n. 1900.
Secondo i giudici amministrativi milanesi, anche in aderenza a un ormai consolidato orientamento che tra spunto sia dalla Corte costituzionale che dal Consiglio di stato, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte cost., 29.05.2013, n. 101) ha la facoltà di prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso), pertanto risulta coerente il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche nel caso in cui dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico (si veda: Cons. stato, sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
È possibile rinvenire la ragionevolezza di tale divieto dall'esigenza, presa in considerazione dalla legge, di sfuggire alla situazione in cui il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) nonché è possibile cogliere una finalità dissuasiva dall'intenzione di commettere abusi, «poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico».
Inoltre, secondo i giudici lombardi, nel caso in cui un'istanza di sanatoria vada a prevedere la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, sarà evidente una sorta di insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Pertanto, un eventuale provvedimento di sanatoria che prevedesse l'esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l'articolo 36 del dpr n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a. (articolo ItaliaOggi Sette del 24.08.2015).

EDILIZIA PRIVATADeve escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, anche della Sezione, con orientamento che il Collegio ritiene di dover fare proprio e ribadire, laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Un provvedimento di sanatoria che prevedesse l’esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a..

11.1 Ora, a fronte di tali dati, non possono trovare accoglimento le censure formulate dalla parte, e con le quali essa invoca la possibilità di ottenere l’assenso al progetto, in quanto sostanzialmente “nuovo” e comportante solo una “sanatoria parziale”, che sarebbe giustificata dall’asserita conformità delle opere allo strumento urbanistico vigente.
Deve anzitutto rilevarsi che correttamente l’Amministrazione ha richiamato, nel provvedimento impugnato, il contenzioso che ha interessato l’immobile oggetto dell’intervento, ritenendo inammissibile l’istanza di Com. Univ., in quanto avente in parte ad oggetto le stesse opere già realizzate. La circostanza che tali opere siano già esistenti e abbiano carattere abusivo non può, infatti, essere ulteriormente messa in discussione.
11.2 Ciò posto, il provvedimento è pure correttamente motivato nella parte in cui esclude la possibilità di ottenere la parziale sanatoria del manufatto, attraverso la presentazione di un nuovo progetto, che però tende a conservare alcune delle opere abusivamente realizzate, in assenza del requisito della c.d. “doppia conformità”, prescritto dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, deve infatti escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306). Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico” (così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza di tale divieto discende dall’esigenza, presa in considerazione dalla legge, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
11.3 Parimenti corretta è da ritenere l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale “la sanatoria di quanto realizzato è fattibile mediante una previsione di opere da eseguirsi e pertanto non sussiste il requisito della doppia conformità”. I ricorrenti osservano, al riguardo, che “Il Comune sembra (...) ritenere che la doppia conformità in effetti esista, sia pure con la realizzazione delle opere previste in progetto” (v. p. 17 del ricorso), e traggono da ciò argomento per affermare la contraddittorietà del giudizio di inammissibilità del progetto.
Al riguardo, occorre ricordare che, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, anche della Sezione, con orientamento che il Collegio ritiene di dover fare proprio e ribadire, laddove un’istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l’opera conforme alle norme vigenti, è palese l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria. Un provvedimento di sanatoria che prevedesse l’esecuzione di tali ulteriori lavori sarebbe quindi illegittimo, poiché l’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della p.a. (Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Queste considerazioni sono integralmente applicabili nel caso di specie, non potendovi ostare la circostanza che l’istanza della Società ricorrente sia stata formalmente presentata come avente ad oggetto un nuovo intervento, invece che come domanda di accertamento di conformità. Rileva, infatti, il dato sostanziale, correttamente evidenziato nel provvedimento impugnato, che il progetto presentato miri a conservare una parte delle opere già abusivamente realizzate.
11.4 In conclusione, deve quindi ribadirsi l’infondatezza del secondo motivo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.08.2015 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2015

EDILIZIA PRIVATAIn caso di successione nel tempo di strumenti urbanistici generali, relativamente al rapporto fra opere abusive e la normativa urbanistica deve tenersi conto della c.d. coppia conformità, positivamente sancita dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi in occasione della presentazione di istanza di accertamento di conformità, nel senso che condizione fondamentale per l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della realizzazione delle opere per le quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e, quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme allo strumento urbanistico vigente all’atto della valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della sua realizzazione.

Con la seconda censura è dedotta la violazione di legge (L.R. Campania 21/2003; D.L. vo 42/2004; L. 17.08.1942, n. 1150), oltre alla Violazione Piano Regolatore Generale D.P.G.R. 29.12.1980, n. 14069 ed al Regolamento edilizio D.P.G.R. 29.11.1976, n. 4160.
La censura va disattesa.
Contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dai ricorrenti, il Comune non pone in discussione che la realizzazione dell’immobile sia avvenuta previa rilascio di concessione edilizia e non fa derivare l’abusività dell’opera per la circostanza di non essere stata previo rilascio di adeguato titolo abilitativo, ma, sulla base del verbale redatto in data 28.06.2014, dal locale Comando di Polizia Municipale n. 135/2003/Ed, atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso (cfr. C. di S., sez. V, 05.11.2010, n. 7770), ritiene che, in difformità con quanto previsto nella concessione n. 813/92, è stato realizzato un “Cambio di destinazione d’uso del piano a civile abitazione, precedentemente adibito a vano garage, mediante messa in opere di tramezzature interne e di tutte le componenti tecnico-idraulico ed elettriche ed il completo arredamento delle superfici abitative pari a mt. 12,00 x 13.00 ed altezza m. 3,00”, opere che, quindi, non risultano presidiate dall’appropriato titolo abilitativo.
Infatti la suddetta concessione edilizia abilitava i ricorrenti soltanto a costruire il manufatto nella conformazione planovolumetrica assentita e non certo a mutare la destinazione del piano seminterrato, precedentemente adibito a garage, in civile abitazione con la realizzazioni di ulteriori opere non previste nella suddetta concessione edilizia, peraltro in una zona classificata urbanisticamente come E1 agricola normale. Inoltre la legge regionale n. 21 del 2003 tende appunto ad escludere l'aumento dei volumi abitabili e dei carichi urbanistici nelle zone a rischio vulcanico dell'area Vesuviana, contemplando espressamente il divieto di ogni mutamento di destinazione d'uso che comporta l'utilizzo a scopo abitativo.
Le parti ricorrenti contestano siffatta destinazione ed a comprova di tanto asseriscono che fin dalla realizzazione dell’immobile lo hanno utilizzato a scopo abitativo-residenziale.
Tuttavia tali argomentazioni sono ultronee e inconferenti.
Nell’impugnato provvedimento si afferma che l'opera edile ricade in zona classificata urbanisticamente in E1 agricola normale, mentre parti ricorrenti soltanto apoditticamente, senza sul punto fornire alcuna prova, ad esempio esibendo un certificato di attuale destinazione urbanistica, asseriscono, fermamente, con il supporto della relazione tecnica allegata, che le opere realizzate dovrebbero urbanisticamente inquadrarsi, rispetto al vigente P.R.G., in zona B3 di “completamento delle frazioni”, rispetto al quale le predette opere risulterebbero compatibili.
In ogni caso la valutazione di compatibilità urbanistica delle opere ritenute abusive va operata sempre con riferimento (anche) alla strumentazione urbanistica vigente all’epoca di realizzazione dell’immobile.
Infatti, in caso di successione nel tempo di strumenti urbanistici generali, relativamente al rapporto fra opere abusive e la normativa urbanistica deve tenersi conto della c.d. coppia conformità, positivamente sancita dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nella valutazione da effettuarsi in occasione della presentazione di istanza di accertamento di conformità, nel senso che condizione fondamentale per l’accoglimento della predetta istanza è che le opere siano conformi, sia con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della realizzazione delle opere per le quali si chiede la sanatoria, che con riferimento allo strumento urbanistico esistente all’atto della presentazione dell’istanza di sanatoria.
Ne consegue che secondo l’ordinamento positivo l’opera realizzata è da considerare illegittima e non sanabile (e, quindi, da eliminare), allorquando essa si presenta conforme allo strumento urbanistico vigente all’atto della valutazione dell’istanza di sanatoria, ma non altrettanto con riferimento allo strumento urbanistico vigente all’atto della sua realizzazione, come nel caso di specie, laddove nel Piano Regolatore Generale approvato con D.P.G.R. n. 14069 del 29.12.1980 la zona interessata dall’intervento era classificata urbanisticamente come E1, agricola normale e le previsioni urbanistiche contenute nel suddetto Piano Regolatore Generale ed invocate dai ricorrenti si rivelano, nel caso di specie, inapplicabili ed analogo discorso vale per le limitazioni d’uso del territorio, attuate con la Legge Regionale n. 21/2003, secondo i ricorrenti, ripetutamente violata dal Comune di Pompei, in uno alle altre leggi indicate nel secondo motivo di impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' inammissibile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria".
Per costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica che modifichino il preesistente regime edificatorio dei suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità penale delle eventuali condotte già poste in essere in contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione urbanistica.
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici adottati in sede locale possa valere a recuperare a legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto con la disciplina vigente al momento della loro edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma all'amministratore locale il potere (che, si badi, per essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale) di adottare sostanziali misure di condono edilizio territorialmente circoscritte, i cui effetti, difficilmente preventivabili, sarebbero certamente pesantemente pregiudizievoli sull'ordinato assetto del territorio.

Quale ulteriore motivo di lagnanza il D. ha dedotto la ingiustificata protrazione del sequestro sull'intera area del complesso edilizio, evidenziandosi in tale modo l'evidente sproporzione fra gli effetti dell'atto impugnato e le sue finalità cautelari; d'altra parte, aggiungeva il ricorrente, la approvazione del nuovo PUG da parte del Comune di Porto Cesareo dovrebbe sicuramente incidere positivamente nel senso della revoca del sequestro stante la evidente manifestazione di volontà da parte del detto Comune di riconoscere, ex post, la conformità degli interventi realizzati alle nuove previsioni urbanistiche.
Ambedue le doglianze non appaiono condivisibili.
Con riferimento alla prima, osserva la Corte che, per costante giurisprudenza di legittimità, l'eventuale sopravvenienza di strumenti di pianificazione urbanistica che modifichino il preesistente regime edificatorio dei suoli non è fattore idoneo a rimuovere la illegittimità penale delle eventuali condotte già poste in essere in contrasto con la preesistente disciplina urbanistica.
Ha, infatti, chiarito questa Corte che in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del dPR cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero ai sopravvenuti strumenti di pianificazione urbanistica (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18.11.2014, n. 47402; idem Sezione III penale, 21.06.2007, n. 24451).
D'altra parte la originaria illiceità degli interventi edilizi compiuti nel tempo all'interno del complesso turistico denominato Riva degli angeli è stata ampiamente testimoniata dalla sentenza di questa Corte, richiamata anche dalla difesa del D., con la quale è stata rigettata la impugnazione della ordinanza reiettiva del riesame ex art. 309 cod. proc. pen. del provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip di Lecce; in quella sede, infatti, questa Corte ebbe a ritenere che "in buona sostanza, le opere realizzate dovevano ritenersi assolutamente incompatibili con la destinazione urbanistica della zona e, sin dall'origine, finalizzate a realizzare un ampio complesso residenziale che è stato abusivamente e progressivamente ampliato".
Ritenere, come parrebbe fare il ricorrente, che l'intervenuta modificazione degli strumenti urbanistici adottati in sede locale possa valere a recuperare a legittimità tutti i manufatti che, realizzati in contrasto con la disciplina vigente al momento della loro edificazione, si trovino per avventura ad essere conformi a quella sopravvenuta, equivarrebbe ad attribuire non al legislatore, tantomeno a quello nazionale, ma all'amministratore locale il potere (che, si badi, per essere legittimamente utilizzato dal legislatore nazionale deve essere dominato dal carattere della eccezionalità, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale: cfr. sentenze n. 196 del 2004 e n. 256 del 1996) di adottare sostanziali misure di condono edilizio territorialmente circoscritte, i cui effetti, difficilmente preventivabili, sarebbero certamente pesantemente pregiudizievoli sull'ordinato assetto del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2015 n. 26715).

EDILIZIA PRIVATA: Giova ricordare l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi del quale “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, (…)il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i presupposti soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il beneficio della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati, oltre al proprietario dell’immobile abusivo, anche il responsabile dell’abuso, ossia colui il quale è legato da una relazione di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria.
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all'adeguamento dell'assetto urbano.
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Deve ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della sanatoria, atteso che la posizione di responsabili dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e sufficiente a legittimare la presentazione del richiesto titolo edilizio in sanatoria.

... per l'annullamento della nota prot. n. 3952 notificata il 20.10.2014, con la quale il Comune di Longobardi ha comunicato il diniego del permesso di costruire ed ha, altresì, adottato tutti i provvedimenti di competenza successivi previsti per la repressione dell’abuso, nonché della relazione istruttoria n. prot. 2834 del 09.07.2014 del Responsabile del procedimento, nonché di ogni atto comunque connesso, presupposto e consequenziale al provvedimento impugnato.
...
5. - La soluzione del caso in esame non può prescindere dal richiamo all’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi del quale “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, (…)il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i presupposti soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il beneficio della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati, oltre al proprietario dell’immobile abusivo, anche il responsabile dell’abuso, ossia colui il quale è legato da una relazione di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013, n. 3220; Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all'adeguamento dell'assetto urbano (TAR Liguria, Sez. I, 28.05.2014, n. 800).
Ciò ricordato, va evidenziato che il Comune di Longobardi ha adottato il provvedimento di diniego del permesso di costruire in sanatoria sull’assunto della mancata dimostrazione, da parte dei ricorrenti, del diritto di proprietà di una porzione di fondo sul quale insiste la res abusiva.
Nondimeno, sulla base di quanto sinora illustrato, deve ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della sanatoria, atteso che la posizione di responsabili dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e sufficiente a legittimare la presentazione del richiesto titolo edilizio in sanatoria.
Il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.06.2015 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: ILLEGITTIMA LA SANATORIA SUBORDINATA ALL’ESECUZIONE DI OPERE EDILIZIE SULL’IMMOBILE ABUSIVO PER RENDERLO “SANABILE”.
Non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l’immobile stesso nell’alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente contrastante con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella giurisprudenza di legittimità, della possibilità di ammettere la c.d. sanatoria edilizia anche in relazione ad immobili abusivi, condizionando la sanatoria medesima all’esecuzione di opere sull’immobile abusivo per renderlo sanabile.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna, emessa in appello, che aveva riformato quella di primo grado che aveva assolto gli imputati dal reato di avere realizzato, in concorso tra loro, in parziale difformità rispetto alla concessione edilizia, interventi nei locali interrati di un edificio in costruzione, modificativi delle altezze predefinite, con conseguente variazione volumetrica degli stessi, con realizzazione di una rampa con pendenza differente da quella abilitata.
La Corte d’Appello di Trento, chiamata a pronunciarsi sull’appello interposto dal Procuratore della Repubblica, aveva dichiarato i prevenuti responsabili del reato ad essi ascritto.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori, in particolare sostenendo l’estinzione del reato edilizio per intervenuto rilascio della concessione in sanatoria.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare osservando come nessun rilievo può attribuirsi alla concessione in sanatoria in quanto la stessa risultava condizionata alla effettuazione di determinati interventi: infatti, in materia edilizia, per giurisprudenza pacifica della Cassazione, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, d.P.R. n. 380 del 2001, ex artt. 36 e 45, subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 12.11.2007, n. 41567, P.M. in proc. R. e altro, in CED, n. 238020) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2015 n. 24583 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla “sanatoria giurisprudenziale”, si tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una normale via di ordinaria gestione degli interventi sul territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile dissipazione di mezzi e risorse.
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti realizzati senza previo titolo.

Va a questo punto considerato quanto alla, evocata dall’amministrazione, “sanatoria giurisprudenziale”, che si tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una normale via di ordinaria gestione degli interventi sul territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile dissipazione di mezzi e risorse (tra varie, Cons. Stato, V, 06.07.2012, n. 3961).
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti realizzati senza previo titolo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.06.2015 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2015

EDILIZIA PRIVATAL'interpretazione della norma alla quale accede la giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il presupposto applicativo della doppia conformità di guisa da escludere cittadinanza alla pur divisata sanatoria giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria, infatti, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.
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Il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.
I. Il ricorso è infondato.
Viene all’esame del Collegio la questione della legittimità del provvedimento con il quale il Comune di Montoro ha respinto l’istanza di accertamento di conformità avanzata dai ricorrenti per la sanatoria di un fabbricato, sito alla località Macchioni della frazione San Bartolomeo.
Tale atto denegante si fonda sulla seguente testuale motivazione: “la mancanza del lotto minimo di mq. 4.000,00 previsto dalle norme di attuazione del piano regolatore generale; - la destinazione del fabbricato a civili abitazioni in contrasto con le normative vigenti in zona agricola che prevedono la realizzazione di un immobile a servizio di un fondo agricolo con maggiore destinazione d’uso a pertinenza agricola”.
Poiché le ricorrenti, nel corso del procedimento, avevano evidenziato di avere acquistato, con atto di compravendita rep. n. 37680 del 15.12.2012, un’ulteriore consistenza immobiliare al rappresentato fine di conseguire la minimale estensione del lotto, a tal riguardo, nel corredo motivazionale dell’atto impugnato, specificamente si osserva che “Solo successivamente all’accertamento edilizio ed all’emissione dell’ordinanza n. 124 del 14/09/2012, e precisamente in data 15/12/2012, i coniugi G.M. e P.L. hanno acquistato un terreno confinante per raggiungere le dimensioni del lotto minimo”.
I.1. Parte ricorrente contesta la legittimità di tale diniego, assumendo, nell’ambito del primo motivo di ricorso, che la conseguita conformità urbanistica ed edilizia del manufatto alla data (16.01.2014) cui risale l’istanza di sanatoria, attraverso il predetto atto di compravendita di un terreno attiguo (foglio n. 18, part.lle 1671-1673-320), sarebbe sufficiente ai fini del rilascio del sospirato titolo edilizio, ostando il principio della doppia conformità di cui all’art. 36 d.p.r. n. 380/2001 solo nell’ipotesi di variazione peggiorativa della disciplina edilizia ed urbanistica di zona e non anche nell’ipotesi di conformità dell’intervento alla data di rilascio del titolo. Sussisterebbero, in ogni caso, i presupposti per la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, risultando così sufficiente la conformità sopraggiunta dell’intervento al momento della proposizione della domanda.
I rilievi sollevati non colgono nel segno, in quanto trascurano la precisa formulazione del citato art. 36, che così dispone: “1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articolo 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
L'interpretazione della norma alla quale accede la giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il presupposto applicativo della doppia conformità di guisa da escludere cittadinanza alla pur divisata sanatoria giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento maggiormente seguito in sede pretoria, infatti, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 06.06.2001) alle sole violazioni di ordine formale; inoltre si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (TAR Perugia, sez. I, 03.12.2014, n. 590; TAR Napoli, sez. VIII, 20.03.2014, n. 1690; TAR Aosta-Valle d'Aosta - sez. I, 11.03.2014, n. 13; TAR Firenze-Toscana - sez. III, 27.03.2013, n. 497; Consiglio di Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Il conseguimento del lotto minimo solo in data successiva alla realizzazione del manufatto non integra quindi il presupposto per rilascio del titolo edilizio secondo i due riferimenti temporali normativamente imposti. Né vi sono spiragli per accedere alla lettura restrittiva della norma auspicata in ricorso, non potendosi ricavare dal suo tratto testuale che il requisito della doppia conformità non sia richiesto in assenza di modifiche della disciplina urbanistica intercorse tra i due momenti in cui la verifica di compatibilità deve essere effettuata. Ciò che invariabilmente richiede la norma infatti è che, in relazione a ciascuno di essi, le opere oggetto di sanatoria devono risultare conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente. La censura in esame va quindi disattesa.
I.2. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si assume la infondatezza del secondo versante motivazionale, afferente al rilevato contrasto della destinazione d’uso con le normative vigenti in zona agricola, non potendosi condividere quanto auspicato dai ricorrenti nel senso che il rilevato contrasto si sarebbe potuto superare con una semplice prescrizione sul rapporto tra le diverse destinazioni, in quanto, come da costante orientamento della giurisprudenza, la sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 36, per sua stessa natura, non può contenere prescrizioni atte a modificare l’esistente.
Questa stessa Sezione (28.05.2014, n. 1017) ha, infatti, di recente evidenziato che il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni. Ad ogni modo, stante la idoneità del corno motivazionale afferente alla rilevata mancanza del requisito del lotto minimo all’epoca di realizzazione del manufatto a sorreggere la impugnata determinazione, la disamina del motivo in esame diviene superflua.
Costituisce invero “ius receptum” che quando la reiezione di una pretesa vantata dall'interessato si fondi su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna sufficiente a sorreggere la determinazione negativa, il consolidamento anche di uno solo dei motivi di diniego, per la mancata deduzione di censure contro di esso o per l'infondatezza delle relative doglianze, comporta l'inammissibilità delle contestazioni rivolte contro tutti gli altri elementi ostativi. Infatti, laddove un atto sia plurimotivato, ovvero fondato su più profili motivazionali da soli idonei a sorreggerlo, la mancata formulazione di censure avverso una di tali parti motivazionali rende il ricorso inammissibile per difetto di interesse a ricorrere, restando l'atto idoneamente sorretto dal profilo motivazionale non oggetto di impugnativa (TAR Napoli–Campania - sez. VII, 05.12.2014, n. 6377) (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI, 10.02.2015, n. 978) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento oggi prevalente, predicare l’operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, desumibile da una fitta trama di norme costituzionali, e poi ribadito expressis verbis dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria (art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo e del territorio.

4. - E’ evidente peraltro che il perno centrale intorno al quale ruota il ricorso è costituito dalla terza censura, con la quale si invoca, seppure in via subordinata al mancato riconoscimento della doppia conformità (implicita peraltro nel precedente giudicato amministrativo, concernente l’ordinanza di demolizione del 1999), richiesta dall’art. 17 della l.r. n. 21 del 2004 per l’accertamento di conformità, la c.d. sanatoria giurisprudenziale, sussistendo attualmente le condizioni per assentire la sanatoria edilizia, in subordine ipotizzandosi anche l’illegittimità costituzionale della disciplina statale e regionale relativa all’accertamento di conformità, nella prospettiva che non sia ragionevole né conforme al canone del buon andamento imporre la demolizione dell’opera, allorché poi sussista la possibilità giuridica di riedificazione dello stesso immobile.
Anche tale motivo non appare meritevole di condivisione.
A questo proposito non può il Collegio non richiamare il proprio recente precedente (TAR Umbria, 03.12.2014, n. 590) con il quale si è precisato che, secondo l’orientamento oggi prevalente, predicare l’operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, desumibile da una fitta trama di norme costituzionali, e poi ribadito expressis verbis dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria (art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre verrebbero in tale modo ad essere premiati gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni, da altri, invece, violate e risulterebbe anche fortemente limitata la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio, posto a presidio della disciplina del governo e del territorio.
Anche in relazione alla prospettata questione di legittimità costituzionale, il precedente da ultimo richiamato ne ha rilevato la manifesta infondatezza, proprio alla stregua delle coordinate ermeneutiche inferibili dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte ribadito la natura di principio, vincolante per la legislazione regionale, della “doppia conformità” (Corte cost. 31.03.1998, n. 370; 13.05.1993, n. 231; 27.02.2013, n. 101) (TAR Umbria, sentenza 12.05.2015 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' principio vigente nella materia de qua, confermato dalla recente legislazione (art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) che esplicitamente richiede la cd. “doppia conformità” -valevole anche riguardo al caso in esame- quello secondo cui la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti, sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di sanatoria o condono..
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume, pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita senza titolo, sulla base della normativa urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
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Alla luce del costante orientamento della giurisprudenza, non è obbligatorio il parere della commissione edilizia comunale, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie di sanatoria, in quanto, tra l’altro, non espressamente previsto dalla normativa specifica in materia.

Quanto al secondo motivo: la questione essenziale è se l’immobile di cui trattasi si trovasse sia al tempo della sua edificazione, sia a quello della richiesta di sanatoria, secondo la regola della cd. doppia conformità -di cui in seguito si dirà e che parte ricorrente ha del tutto omesso di considerare- entro la fascia d’inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia ai sensi del combinato disposto degli artt. 23 della l.r. n. 37 del 1985 e 15, lett. a), della l.r. n. 78 del 1976, e, in caso affermativo, se la costruzione sia stata iniziata prima dell' entrata in vigore della medesima legge (16.06.1976) e le sue strutture essenziali portate a compimento entro il 31.12.1976.
Ebbene, va rilevato che parte ricorrente, su cui gravava tale prova, non ha assolto detto onere, essendosi limitata a contestare labialmente e genericamente l’attendibilità probatoria del fotopiano cui ha fatto riferimento il Comune intimato per accertare che alla data del 15.06.1976 l’immobile de quo non era ancora esistente e neanche in fase di avvio di edificazione: ne discende, quanto meno, che la dichiarazione resa sul punto dalla prima proprietaria al fine dell’ottenimento del titolo edilizio in sanatoria, non sarebbe veritiera.
Nessuna documentazione ha allegato parte ricorrente (ad es. atto di acquisto, perizie tecniche, planimetrie, fotografie aeree, fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali, sopralluoghi, e così via), da valere almeno quale principio di prova, volto a dimostrare che alla data di commissione dell’abuso edilizio, e al momento della domanda di sanatoria, l’immobile non si trovasse entro la fascia dei 150 dalla battigia, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso del Comune acquisiti, verosimilmente, anche sulla base della documentazione prodotta in seno all’istanza di sanatoria, richiamata nella motivazione del diniego di sanatoria, dalla quale evincere anche la localizzazione dell’opera (in materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, ex multis v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; sez. V, 06.02.1999, n. 124; 24.10.1996, n. 1275; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.05.2011, n. 3813; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 27.04.2011, n. 2365; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 19.04.2011, n. 1003).
Resta pertanto incontestabile che dalla ripresa aerea del 15.06.1976, sull’area in questione non è stata rilevata l’esistenza di alcun manufatto, magari in fase di iniziale edificazione, restando irrilevante l’asserita finalità di studio per la quale tale ripresa aerea sarebbe stata originariamente effettuata, poiché ciò, ovviamente, non incide sul dato notorio che l’aerofotogrammetria è attualmente il sistema di rilevamento più utilizzato nella realizzazione di cartografia per uso tecnico attesa la velocità di tracciamento dei particolari del terreno e la precisione geometrica che la caratterizza, relativamente a zone molto ampie di territorio da cartografare.
A fronte di tale omesso principio di prova, ritiene il Collegio di non poter far uso del proprio potere acquisitivo, seppur sollecitato dalla ricorrente.
Giova, a questo punto, ricordare che è principio vigente nella materia de qua, confermato dalla recente legislazione (art. 36, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) che esplicitamente richiede la cd. “doppia conformità” -valevole anche riguardo al caso in esame- quello secondo cui la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti, sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di sanatoria o condono (cfr. TAR Sicilia, Palermo, III, 09.11.2009, n. 1743; II, 11.02.2003, n. 805; TAR Sicilia, Catania, I, 09.01.2009, n. 5).
L'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nel citato art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Il provvedimento di accertamento di conformità assume, pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita senza titolo, sulla base della normativa urbanistica e edilizia vigente, in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
E’ altrettanto privo di fondamento l’assunto che vorrebbe attribuire effetto viziante alla mancanza del parere della Commissione edilizia comunale, alla luce del costante orientamento della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, secondo il quale non è obbligatorio il parere della commissione edilizia comunale, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie di sanatoria, in quanto, tra l’altro, non espressamente previsto dalla normativa specifica in materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998, n. 1306; TAR Sicilia, Palermo, III, 03.05.2012, n. 906; TAR Lazio, Roma, II-bis, 21.01.2013, n. 646) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità deve riguardare opere già provviste di doppia conformità e solo formalmente abusive, in quanto carenti di titolo ma conformi alla disciplina urbanistica. Non è dunque ammissibile una sanatoria mediante lavori di regolarizzazione (come appunto nella specie) e non di semplice completamento.
Circa la c.d. sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe sufficiente la regolarità edilizia ed urbanistica solo al momento della presentazione della domanda di sanatoria) essa è affermata in un orientamento giurisprudenziale minoritario e non condivisibile, rispetto a quello che postula il requisito della doppia conformità, conformemente d’altra parte al dettato normativo delle conferenti disposizioni statuali e regionali.
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma, tra l’altro, che detto istituto, di matrice giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione.

L’Amministrazione, ha precisato, in effetti, che gli abusi hanno determinato, già al momento della realizzazione degli stessi, la non conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche della zona in cui ricade il lotto interessato (sul punto nemmeno vi è specifica e puntuale confutazione da parte della ricorrente).
Ha evidenziato poi, con ampio e condivisibile excursus argomentativo (che il Collegio fa proprio): che l’accertamento di conformità deve riguardare opere già provviste di doppia conformità e solo formalmente abusive, in quanto carenti di titolo ma conformi alla disciplina urbanistica; che non è dunque ammissibile una sanatoria mediante lavori di regolarizzazione (come appunto nella specie) e non di semplice completamento; che circa la c.d. sanatoria giurisprudenziale (per cui sarebbe sufficiente la regolarità edilizia ed urbanistica solo al momento della presentazione della domanda di sanatoria) essa è affermata in un orientamento giurisprudenziale minoritario e non condivisibile, rispetto a quello che postula il requisito della doppia conformità, conformemente d’altra parte al dettato normativo delle conferenti disposizioni statuali e regionali (sul punto, in aggiunta a quanto sopra, questo Collegio si limita a richiamare, per tutte, le pronunce del CdS, V, n. 3961/2012; IV, n. 3072/2013; V, n. 3220/2013).
In quest’ultima, in particolare, correttamente si afferma, tra l’altro, che detto istituto, di matrice giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.05.2015 n. 6371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2015

EDILIZIA PRIVATANon trova spazio nell’ordinamento (connotato da una disciplina puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo del condono, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 32 cit.) alle sole violazioni di ordine formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.

Difatti, non trova spazio nell’ordinamento (connotato da una disciplina puntuale ed esauriente delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia) la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata.
Difatti, predicarne l’operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall’art. 1 comma 1, l. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo del condono, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 32 cit.) alle sole violazioni di ordine formale.
Si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (cfr. TAR Napoli Campania, sez. VIII 03/07/2012 n. 3153, con argomenti che, sia pure con riguardo alla domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, sono riproducibili anche nel presente giudizio) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.04.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2015

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di accertamento di conformità non ha alcuna refluenza sul piano della legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo, al più, condizionare la possibilità di portarla ad esecuzione.
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Il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.

7. Del pari va escluso alcun effetto inficiante dell’ordine di demolizione gravato in conseguenza dell’intervenuta presentazione di un’istanza di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380/2001.
Non può difatti sostenersi che il Comune avrebbe dovuto revocare l’ordine di demolizione in seguito alla presentazione della predetta istanza, alla luce del costante giurisprudenza della sezione secondo cui l’istanza di accertamento di conformità non ha alcuna refluenza sul piano della legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo, al più, condizionare la possibilità di portarla ad esecuzione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; nello stesso senso v. Consiglio Stato, sez. IV, 19.02.2008, n. 849 e Consiglio di stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3236).
Peraltro è da rilevare che l’istanza di cui all’art. 36 d.p.r. n. 380/2001 è stata presentata subordinatamente all’esecuzione di ulteriori opere per ricondurre a conformità il manufatto tompagnato, provvedendo ad eliminarne le pareti per ricondurre la sanatoria ad una mera tettoia pertinenziale.
Come noto, il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un diverso e più consolidato orientamento, al quale il Collegio aderisce, la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Peraltro l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione del manufatto, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost..
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 (riprodotto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria.

Infatti, è pur vero che il principio della cd. “doppia conformità” ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite “sanatoria giurisprudenziale”, e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza.
Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, al quale il Collegio aderisce, secondo cui la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione (cfr. da ultimo TAR Campania, Salerno, sez. I, 10.09.2014, n. 1523 che richiama Cons. Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3220).
Peraltro l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione del manufatto, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126).
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 (riprodotto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria (cfr. Cons. Stato, 3220/2013 cit.) (TAR Molise, sentenza 13.03.2015 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2015

EDILIZIA PRIVATAPer l’esame della questione è anzitutto necessario richiamare la differente natura dei due istituti, dell’istanza di sanatoria, ovvero di richiesta dell’accertamento della così detta doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, e della domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47/1985, n. 724/1994 e n. 326/2003, che, nella prospettazione della ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché “…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)”.
Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47/1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724/1994 e dell’art. 32 della legge n. 326/2003”, poiché, come anche precisato, “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47” (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) “…non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47/1985 con riferimento alle domande di condono edilizio".
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Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull’erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa, cosicché l’Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza “si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
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Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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3. L’appello è infondato nel merito essendo da respingere i motivi, dirimenti per la decisione della controversia, relativi alla rilevanza della presentazione nel 2004 delle sopra citate quattro domande di condono (di cui sopra sub. 2.a) e dell’intervenuta presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (sopra sub. 2.b).
...
3.2. La presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2011.
3.2.1. Per l’esame della questione è anzitutto necessario richiamare la differente natura dei due istituti, dell’istanza di sanatoria, ovvero di richiesta dell’accertamento della così detta doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, e della domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003, che, nella prospettazione della ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell’opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché “…i presupposti dei due procedimenti di sanatoria –quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica– sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l’uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l’altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l’accertamento ex post della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)” (TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania-Napoli, sezione VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest’ultima citata). Per tali osservazioni alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003” (Tar Lazio, sezione I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47” (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) “…non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; …” (Tar Lazio, sezione I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione, con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull’erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa, cosicché l’Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza “si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, non potendo trovare applicazione tali principi “al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente”, per cui “Sostenere…che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
3.2.2. In questo contesto nella vicenda in esame si rileva che:
- l’ordinanza di demolizione è stata notificata il 19.03.2012; l’istanza di accertamento di conformità è stata presentata il 12.04.2012; l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione è stata proposta successivamente, il 10.05.2012; il 13.06.2012 si è formato il silenzio-rigetto sull’istanza di sanatoria, come riscontrato con l’ordinanza cautelare di rigetto, n. 904 del 22.06.2012, adottata in primo grado e non impugnata; il 12.09.2012 è stato emanato il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione notificato il 12 ottobre successivo;
- ne emerge perciò:
   a) che la ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione dopo la presentazione dell’istanza di accertamento della conformità, manifestando con ciò interesse all’annullamento dell’ordinanza nonostante la previa presentazione dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e non valendo perciò l’asserita improcedibilità dell’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse, rilevata in giurisprudenza quando l’impugnazione del provvedimento sanzionatorio precede la presentazione dell’istanza di sanatoria per conformità;
   b) che il silenzio-rigetto dell’istanza non è stato impugnato, non di per sé né per via dell’impugnazione dell’ordinanza cautelare di primo grado che l’ha riscontrato;
   c) che all’esito di tutto ciò l’ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia risultando dovuto il consequenziale accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza stessa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2014

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria “giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in base allo strumento vigente, deve recedere di fronte a quello, di pari rango costituzionale, di legalità che vuole che, anche in questa materia, siano osservate le disposizioni del legislatore.
Accanto alla sanatoria legale di cui all’art. 36 del d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza ha riconosciuto in via puramente pretoria la possibilità di sanatoria anche in presenza della sola conformità urbanistico-edilizia con riferimento alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità, evidenziando l’evidente contrasto con i principi di buon andamento, economicità e ragionevolezza dell’attività amministrativa che si verificherebbe dando ingresso nell’ordinamento alla demolizione di opera solo formalmente abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella stessa forma e consistenza dietro presentazione di istanza di rilascio di titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso.
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da talune pronunce dell’adito Tribunale oltre che del supremo consesso di Giustizia amministrativa.
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato aveva espresso parere favorevole in ordine all’ammissibilità, entro certi limiti, di tale ulteriore forma di sanatoria, fermo restando la sanzione penale per l’illecito commesso nonché il pagamento di una oblazione maggiore rispetto all’ipotesi di doppia conformità.
Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.
Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe “bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso- valutare l’irrazionalità della demolizione ai fini dell’applicazione di una diversa sanzione.
Osserva il Collegio come, in linea di principio, l’istituto della sanatoria giurisprudenziale possa rispondere effettivamente ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa, dal momento che sarebbe obiettivamente in contrasto con il principio di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici oltre che di giustizia sostanziale e di proporzionalità, procedere alla demolizione di manufatto abusivo realizzabile dall’interessato con la stessa forma e consistenza immediatamente dopo, mediante la presentazione di istanza di rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur se non automatico) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico, ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa eccezionalità degli strumenti di sanatoria per i quali sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di forme atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con funzione di conservazione di pregressa attività illegittima, bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto principio di sanabilità dell’attività illecita.
Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art 17 della legge regionale umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia nella parte in cui limitano o non prevedono con carattere di generalità tale forma di sanatoria “minore” -con la doverosa sottoposizione al pagamento di oblazione in misura maggiore, in ossequio al principio di uguaglianza- poiché parrebbe porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di situazioni obiettivamente diverse, quali la realizzazione di opera tout court abusiva e la realizzazione di opera originariamente abusiva ma poi divenuta conforme ai successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha affermato che il rigore insito nel principio della “doppia conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria in questione, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.

5. Preme evidenziare come con l’atto di motivi aggiunti parte ricorrente non muova censure avverso la sussistenza o meno del negato requisito della “doppia conformità” richiesto dall’art. 17 della L.R. 21/2004, del tutto non contestato, limitandosi ad invocare in buona sostanza l’applicazione dell’istituto della “sanatoria giurisprudenziale”.
5.1. Questione di diritto unica per la decisione della presente controversia consiste pertanto nella ammissibilità o meno, accanto alla sanatoria legale di tipo formale codificata dall’art. 17 della richiamata legge regionale (sostanzialmente ma non completamente ricalcante la disposizione di cui all’art. 36 del vigente testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. 380/2001) del controverso istituto della sanatoria “giurisprudenziale”, ovvero di una forma di sanatoria “minore” valevole ai soli fini amministrativi, da ritenersi -secondo esegesi affatto pacifica- implicita nell’ordinamento in base a diverse ragioni logico sistematiche.
Come noto, sia in base all’art. 17 della L.R. Umbria 21/2004 che all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (e ancor prima all’art. 13 L. 47/1985) è possibile ottenere il permesso in sanatoria solamente se l'intervento sine titulo realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della sua realizzazione, sia della presentazione della domanda.
A dire il vero, il citato art. 17 della legge regionale umbra presenta alcuni significativi profili di deroga rispetto alla fattispecie di cui al testo unico dell’edilizia, dal momento che nell’ultimo periodo del primo comma è consentita la sanatoria anche in caso di sola conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda seppur limitatamente ai soli cambi di destinazione d’uso. Il successivo art. 18 poi, sempre in aperta deroga alla normativa statale, seppur in via esclusivamente transitoria (“norme di prima applicazione”) consente la sanatoria anche per le opere conformi solo in via postuma, con la fissazione di un termine (perentorio) per la presentazione delle relative istanze di 120 giorni dall’entrata in vigore della legge 1/2004 (su cui TAR Umbria 14.01.2011, n. 9).
5.2. Accanto alla sanatoria legale di cui all’art. 36 del d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza ha riconosciuto in via puramente pretoria la possibilità di sanatoria anche in presenza della sola conformità urbanistico-edilizia con riferimento alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità, evidenziando l’evidente contrasto con i principi di buon andamento, economicità e ragionevolezza dell’attività amministrativa che si verificherebbe dando ingresso nell’ordinamento alla demolizione di opera solo formalmente abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella stessa forma e consistenza dietro presentazione di istanza di rilascio di titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961).
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da talune pronunce dell’adito Tribunale (TAR Umbria 14.01.2011, n. 9; vedi ex multis anche TAR Abruzzo-Pescara 30.05.2007, n. 583) oltre che del supremo consesso di Giustizia amministrativa (Consiglio di Stato sez. V, 28.05.2004, n. 3431; id. sez. V, 21.10.2003, n. 6498; id. sez. VI, 07.05.2009 n. 2835).
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato (parere n. 52/2001) aveva espresso parere favorevole in ordine all’ammissibilità, entro certi limiti, di tale ulteriore forma di sanatoria, fermo restando la sanzione penale per l’illecito commesso nonché il pagamento di una oblazione maggiore rispetto all’ipotesi di doppia conformità.
5.3. Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (ex multis TAR Campania Napoli sez. VIII, 03.07.2012, n. 3153; TAR Toscana sez. III, 13.05.2011, n. 837; Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961).
5.4. Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe “bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso- valutare l’irrazionalità della demolizione (TAR Piemonte 18.10.2004, n. 2506) ai fini dell’applicazione di una diversa sanzione.
5.5. Osserva il Collegio come, in linea di principio, l’istituto della sanatoria giurisprudenziale possa rispondere effettivamente ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa, dal momento che sarebbe obiettivamente in contrasto con il principio di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici oltre che di giustizia sostanziale e di proporzionalità, procedere alla demolizione di manufatto abusivo realizzabile dall’interessato con la stessa forma e consistenza immediatamente dopo, mediante la presentazione di istanza di rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur se non automatico cfr. Cassazione penale sez. III, 05.07.2010, n. 25387) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico, ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa eccezionalità degli strumenti di sanatoria (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 13.02.2013, n. 894) per i quali sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di forme atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con funzione di conservazione di pregressa attività illegittima, bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto principio di sanabilità dell’attività illecita (ex multis TAR Piemonte 18.10.2004, n. 2506).
5.6. Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art 17 della legge regionale umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia nella parte in cui limitano o non prevedono con carattere di generalità tale forma di sanatoria “minore” -con la doverosa sottoposizione al pagamento di oblazione in misura maggiore, in ossequio al principio di uguaglianza- poiché parrebbe porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di situazioni obiettivamente diverse, quali la realizzazione di opera tout court abusiva e la realizzazione di opera originariamente abusiva ma poi divenuta conforme ai successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993 n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici (sent. 370/1998 e 231/1993).
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha affermato che il rigore insito nel principio della “doppia conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria in questione, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.
La Consulta ha dunque già vagliato anche sotto il profilo amministrativo la costituzionalità della disciplina in questione, nel senso della assoluta inconciliabilità tra l’istituto legale e quello pretorio, ragion per cui ritiene il Collegio di non dover sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale, da ritenersi manifestamente infondata alla luce delle precisazioni del giudice costituzionale -come peraltro incidentalmente già rilevato (Consiglio di Stato sez. V, 11.06.2013, n.3220)- se non inammissibile.
In disparte per tanto ogni considerazione, sul piano della opportunità, in merito al mancato riconoscimento in via normativa di tale forma di sanatoria, è da escluderne la creazione per via ermeneutica, come vorrebbero i ricorrenti.
5.7. In definitiva, non è possibile l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria “giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in base allo strumento vigente, deve recedere di fronte a quello, di pari rango costituzionale, di legalità che vuole che, anche in questa materia, siano osservate le disposizioni del legislatore (ancora TAR Puglia Lecce sez. III, 09.12.2010 n. 2816).
5.8. Fermo restando quanto sopra esposto, ritiene invece il Collegio non escludibile a priori, in nome dei richiamati principi di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici, la possibilità per l’Amministrazione di valutare discrezionalmente, in sede sanzionatoria, la possibilità di applicare misure alternative alla demolizione, ove non sussistano al riguardo ragioni ostative al pubblico interesse da indicare con congrua motivazione (quali la presenza di vincoli ambientali ecc.) analogamente a quanto già previsto in riferimento ad altre ipotesi di violazioni edilizie meramente formali, segnatamente all’art. 38 del T.U. edilizia, seppur norma di “speciale favore” (cfr. TAR Liguria sez. I, 18.02.2014, n. 282) (TAR Umbria, sentenza 03.12.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2014

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria.
La legittimazione postuma dell’opera abusiva per effetto della c.d. sanatoria giurisprudenziale non determina l’estinzione del reato urbanistico e non giustifica neanche la revoca dell’ordine di demolizione dell’opera medesima.
4. Pare, infatti, che il provvedimento di sanatoria sia stato subordinato a condizioni e prescrizioni, tanto che, come affermato nel provvedimento impugnato, la sua inefficacia, dichiarata dalla Direzione Urbanistica di Firenze (prot. 29146/2013 dell'01.07.2013), sarebbe stata determinata dal «mancato compimento delle opere di adeguamento nei termini assegnati», venendosi così a creare una situazione in apparente contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della RA., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Sez. III n. 3895, 26.09.2013; Sez. III n. 23726, 08.06.2009 non massimata; n. 41567, 12.11.2007; n. 48499, 18.12.2003; n. 740, 13.01.2003; n. 42927, 19.12.2002; n. 41669, 21.11.2001; n. 10601, 11.10.2000).
Per le stesse ragioni questa Corte ha pure escluso l'ammissibilità di una sanatoria parziale, dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità (v. Sez. III n. 19587, 18.05.2011; n. 45241, 05.12.2007, non massimata; n. 291, 09.01.2004).
5. Detto provvedimento, inoltre, viene denominato «sanatoria giurisprudenziale», evidentemente con riferimento alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale o impropria individuata, in passato, dalla giurisprudenza amministrativa (v., ad es., Cons. St. Sez. V n. 1796, 19.04.2005) ed in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite.
Si tratta, tuttavia, di un orientamento nettamente minoritario che può dirsi ormai definitivamente superato, avendo la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. St. Sez. IV, n. 4838, 17.09.2007) successivamente escluso l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul presupposto che la sua applicazione contrasterebbe con il principio di legalità, dal momento che non vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando l'articolo 36 del d.P.R. 380/2001 ha sostituito la corrispondente disciplina della legge urbanistica 47/1985, nonostante il favorevole parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato, che ne aveva sollecitato l'introduzione al legislatore delegato il quale, tuttavia, come evidenziato nella Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, non raccoglieva il suggerimento, ponendo in evidenza l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale che impediva la formazione di un diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale ed il parere nettamente contrario espresso dalla Camera.
Lo stesso giudice amministrativo ha inoltre osservato, in un secondo tempo, che l'articolo 36 citato, in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva (Cons. St. Sez. IV n. 6784, 02.11.2009) e che la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi applicabile in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa e non potendosi ritenere ammessi nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (così Cons. St. Sez. V n. 3220, 11.06.2013).
Più recentemente, il Consiglio di Stato ha ulteriormente confermato la propria posizione in tema di sanatoria giurisprudenziale (alla quale, peraltro, risultano conformati anche i Tribunali Amministrativi Regionali) osservando come il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico sia giustificato della necessità di «evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)» oltre che dall'esigenza di «disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico» (Cons. Stato Sez. V 17.03.2014, n. 1324. Conf. Sez. V 27.05.2014, n. 2755).
6. L'attuale, consolidato orientamento del giudice amministrativo ha trovato peraltro conferma in una recente decisione della Corte Costituzionale (sent. 101/2013) la quale, nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico»), ha affermato che il principio della «doppia conformità» risulta finalizzato a «garantire l'assoluto rispetto della 'disciplina urbanistica ed edilizia' durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità» e, richiamando la giurisprudenza amministrativa, ha pure osservato che la sanatoria, che si distingue dal condono vero e proprio, «è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi 'formali', ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, 'anche di natura preventiva e deterrente', finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture 'sostanzialiste' della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell' istanza per l'accertamento di conformità».
7. Va a questo punto ricordato come la giurisprudenza di questa Corte abbia, in passato, preso atto delle diverse posizioni del giudice amministrativo aderendo, in un primo tempo, a quella che riconosceva efficacia alla sanatoria giurisprudenziale, escludendone comunque ogni effetto estintivo dei reati urbanistici e precisando che detto titolo abilitativo sanante avrebbe dovuto essere conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio, escludendo, peraltro, la possibilità di procedere ad una diversa qualificazione giuridica dell'intervento edilizio per consentirne la regolarizzazione, parcellizzando le opere (Sez. III n. 286 e 291, 09.01.2004, non massimate sul punto).
In altre occasioni, confermando che la sanatoria impropria sarebbe comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico all'ordine di demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon andamento ed all'economia dell'azione amministrativa invocato dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi essere legittimamente ricostruito (v. Sez. III n. 14329, 07.04.2008; Sez. III n. 40969, 11.11.2005; Sez. III n. 1492, 09.02.1998. V. anche Sez. III n. 3082, 21.01.2008, non massimata; Sez. III n. 24451, 21.06.2007). Veniva comunque dato atto anche dell'orientamento difforme del giudice amministrativo (v. Sez. III n. 21208, 28.05.2008, non massimata).
8. La più recente ed approfondita disamina della questione concernente l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria da parte del giudice amministrativo e l'autorevole richiamo a tale giurisprudenza operata dalla Corte Costituzionale consentono di ritenere ormai superate le argomentazioni sviluppate nelle decisioni di questa Corte appena ricordate, in quanto fondate, prevalentemente, sul mero richiamo di un orientamento, già minoritario, che può dirsi ormai completamente abbandonato dagli stessi giudici che lo avevano in passato formulato.
Le argomentazioni sviluppate a sostegno dell'attuale indirizzo interpretativo appaiono, ad avviso del Collegio, del tutto condivisibili, poiché tengono conto della formulazione letterale della norma e della sua genesi e risultano pienamente conformi al richiamato principio di legalità cui deve necessariamente conformarsi l'azione amministrativa perché, come osservato in dottrina, non può esservi rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione se non vi è, al tempo stesso, rispetto del principio di legalità.
La espressa previsione, nell'art. 36 d.P.R. 380/2001, del requisito della doppia conformità delle opere da sanare e la deliberata scelta del legislatore di non inserire nel Testo Unico dell'edilizia la sanatoria giurisprudenziale nonostante le indicazioni in tal senso ricevute dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato rendono evidente la volontà di limitare la possibilità di sanatoria ai soli abusi formali.
Altrettanto significative appaiono, poi, le considerazioni della più recente giurisprudenza amministrativa riguardo alla negativa incidenza sull'effetto deterrente dell'ordine di demolizione -che il legislatore ha evidentemente voluto- che sarebbe provocata dalla previsione di una sanatoria conseguente ad una conformità dell'opera sopravvenuta alla sua realizzazione, creando l'aspettativa di una futura possibile regolarizzazione anche in presenza di condizioni inizialmente ostative alla esecuzione dell'intervento edilizio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.11.2014 n. 47402 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Blonda, Il rilascio della c.d. concessione in sanatoria estingue anche i reati antisismici? Ecco cosa comporta costruire un immobile in violazione delle norme antisismiche (06.11.2014 - link a www.condominioweb.com).

ottobre 2014

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria disciplinata dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne soltanto i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
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2. Non può nutrirsi alcun dubbio sul fatto che la sanatoria disciplinata dall'art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 concerne soltanto i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività diversa da quella attinente l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio (Sez. 3, n. 2114 del 26/11/2002 - 17/01/2003, Frascani, Rv. 223145); pertanto nessun rilievo può assumere la concessione in sanatoria richiamata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 22.10.2014 n. 44015).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio della concessione in sanatoria determina la estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non riguarda gli altri reati concernenti aspetti delle costruzioni aventi una oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio (nel caso di specie la violazione della normativa antisismica).
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RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 25/10/2013, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Fr.Pa.Sa. e An.Sa., in ordine al reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, nonché di violazione della normativa antisismica, per intervenuto rilascio di concessione edilizia in sanatoria. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, eccependo violazione di legge, in quanto il decidente ha errato nel considerare che la sanatoria ottenuta dai prevenuti potesse avere incidenza anche sui reati ex artt. 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve, infatti, osservarsi che l'art. 95, d.P.R. 380/2001, sanziona la violazione delle norme tutte dettate per le costruzioni in zone sismiche, previste nel medesimo testo unico ovvero nei decreti interministeriali cui rinviano gli artt. 52 e 83, citato decreto.
Le contravvenzioni de quibus possono concorrere con le fattispecie di cui all'art. 44 del citato t.u., tuttavia ad esse non è applicabile la disciplina relativa alla richiesta di sanatoria ex art. 45, essendo questa riferita alle sole norme che regolano l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Conseguentemente, il rilascio della concessione in sanatoria determina la estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non riguarda gli altri reati concernenti aspetti delle costruzioni aventi una oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio (ex multis Cass. 12/05/2005, n. 21978).
La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio, affinché il giudice ad quem proceda in ordine ai reati di cui ai 2) e 3) della imputazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.10.2014 n. 42550).

EDILIZIA PRIVATA: In alternativa al provvedimento definitivo espresso sull’istanza di accertamento di conformità, ex art. 36 del DPR n. 380/2001, la legge ha previsto, dopo il decorso di 60 gg., la formazione di un silenzio-significativo con valore legale di rigetto.
Siffatto silenzio, nella specie, si è formato e poiché il cittadino può sempre tutelarsi mediante impugnativa del silenzio-diniego (la cui formazione, essendo prevista dalla legge come alternativa al provvedimento esplicito, non è illegittima soltanto perché intervenuta appunto per silentium), non vi è alcun obbligo per l’Amministrazione, sanzionabile con l’illegittimità del silenzio, di pronunciarsi espressamente.
Tale principio non può non valere anche per la presente fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto, per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di rigetto (e le osservazioni stesse).
Non si tratta, ripetesi, di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-significativo con valore di reiezione dell’istanza, per il quale non è configurabile un obbligo per l’Amministrazione di emanare un atto scritto reiterativo degli effetti di diniego disposti dal sopra richiamato art. 36.

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Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in quanto tale, è ontologicamente privo di motivazione, sicché esso è impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo specifico di motivazione in caso diniego tacito di sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione, alla stregua del contenuto del preavviso di rigetto, ha anche manifestato (ad abundantiam) le ragioni del diniego al soggetto richiedente, sulle quali quest’ultimo è stato quindi posto in grado di argomentare anche nel ricorso che ne occupa. Ciò non cambia evidentemente la tipologia del silenzio: da rigetto ad inadempimento.
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In ordine al profilo del difetto di legittimazione dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto dall’Amministrazione, il Collegio concorda con la ricostruzione in fatto ed interpretativa dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n. 380/2001 che l’art. 22, comma 1, della LR n. 15/2008 (norme che espressamente regolano il permesso di costruire in sanatoria) indicano, come soli soggetti legittimati a chiedere il permesso stesso, “il responsabile dell’abuso” e il “proprietario”.
Nessun cenno è operato al conduttore dell’immobile o ad altri soggetti. Nel caso di specie poi il consenso del proprietario nemmeno è stato (previamente) fornito in sede procedimentale, né tale consenso può essere automaticamente desunto dal contratto e dal rapporto di locazione.
Infine anche la generica disponibilità manifestata in sede di osservazioni di far firmare l’istanza al sig. Ta. non si è mai concretizzata davanti all’Amministrazione fino alla presentazione del ricorso, non potendo quindi farsi ricadere sull’Amministrazione stessa la responsabilità dell’omissione per mancata richiesta di documentazione integrativa, essendo onere del soggetto interessato quello di dimostrare gli elementi di legittimazione alla presentazione dell’istanza.
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... per l'annullamento, quanto al ricorso introduttivo:
- del provvedimento implicito di rigetto in ordine alla domanda di sanatoria edilizia del 03.06.2011 di cui al prot. n. 3152 presentata, ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001, dal sig. Vi.Mi. in qualità di affittuario e possessore dei terreni su cui insistono gli immobili sanandi: provvedimento implicito che si impugna, ove da intendersi formato silenzio significativo nonostante l’intervenuta successiva comunicazione interlocutoria di avvio del procedimento di rigetto dell’istanza sopra indicata del 10.06.2011 prot. n. 4280 a firma del Responsabile del procedimento cui non tuttavia fatto seguito alcun provvedimento espresso di rigetto;
- della nota del 10.06.2011 prot. n. 4280, successivamente notificata ed avente ad oggetto la comunicazione di avvio del provvedimento di rigetto mai assunto in via espressa, emessa dal responsabile del procedimento in relazione all’istanza di permesso di costruire in sanatoria prot. n. 3152 del 03.06.2011 presentata dal signor Mi.Vi.;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse;
e per l’annullamento, altresì, quanto ai motivi aggiunti:
- della Ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 Ord. n. 32/UT con il quale il responsabile del Comune di Carbognano, ritenendo consolidati gli effetti della ingiunzione di demolizione n. 21/UT del 27.04.2011, applicava al signor Ta.Le., ritenuto quale unico responsabile dell’abuso, la sanzione pecuniaria di € 20.000, ai sensi dell’art. 15 della L.R. n. 15/2008;
- dell’accertamento prot. n. 1620 del 02.04.2012 redatto dall’Ufficio di Polizia Locale del Comune di Carbognano dal quale emergerebbe che le opere per le quali è stata emessa l’ingiunzione di demolizione n. 21/UT del 27.04.2011 non sono state demolite;
- per quanto occorrer possa, del verbale di accertamento prot. n. 1458 del 24.03.2011 della Polizia Locale in quanto richiamato nella ordinanza del 02.05.2012 prot. n. 2124 ord. N. 32/UT;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali, ancorché eventualmente non richiamati nel provvedimento impugnato e rispetto ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse;
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Premesso quanto sopra, la valutazione propria della sede di merito convince il Collegio dell’infondatezza del ricorso e dei motivi aggiunti, alla stregua delle seguenti considerazioni:
1) La vicenda per cui è causa trae origine da un sopralluogo sull’immobile distinto in catasto terreni al fgl. 11, part.lle 272, 291 e 169, ed in catasto fabbricati al fgl. 11, part.lla 292, da cui emergeva l’esistenza di opere non assistite da titolo abilitativo. Seguivano, da parte del Comune di Carbognano, ordinanze di sospensione lavori e di demolizione, del 27.04.2011, notificate al sig. Ta.Le. il 28.04.2011.
Tali provvedimenti non risultano impugnati. Sono invece gravati, con il ricorso introduttivo, il diniego tacito sull’istanza di sanatoria, ex art 36 del DPR n. 380/2001, presentata il 03.06.2011 dal sig. Mi. in qualità di affittuario degli immobili, nonché la nota del 10.06.2011, successivamente notificata, avente ad oggetto la comunicazione di avvio del procedimento di rigetto, mai peraltro successivamente assunto in via espressa;
2) Il primo motivo del ricorso suddetto è privo di fondamento, dal momento che in alternativa al provvedimento definitivo espresso sull’istanza di accertamento di conformità, ex art. 36 del DPR n. 380/2001, la legge ha previsto, dopo il decorso di 60 gg., la formazione di un silenzio-significativo con valore legale di rigetto (cfr. articolo predetto, ma anche art. 22, comma 4, della L.R. Lazio n. 15/2008).
Siffatto silenzio, nella specie, si è dunque formato dopo il decorso di 60 gg. dal 03.06.2011 e comunque, a tutto concedere, anche successivamente alla richiesta di controdeduzioni (notificata al sig. Mi. il 31.08.2011), non essendo ulteriormente seguito alcun provvedimento espresso.
Poiché il cittadino può sempre tutelarsi mediante impugnativa del silenzio-diniego (la cui formazione, essendo prevista dalla legge come alternativa al provvedimento esplicito, non è illegittima soltanto perché intervenuta appunto per silentium), non vi è alcun obbligo per l’Amministrazione, sanzionabile con l’illegittimità del silenzio, di pronunciarsi espressamente.
Tale principio non può non valere anche per la presente fattispecie.
Sull’istanza di accertamento di conformità prodotta dall’affittuario del terreno si è formato silenzio-rigetto, per decorso dei termini prescritti sia prima che dopo la notifica della richiesta di osservazioni sul preavviso di rigetto (e le osservazioni stesse). Non si tratta, ripetesi, di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-significativo con valore di reiezione dell’istanza, per il quale non è configurabile un obbligo per l’Amministrazione di emanare un atto scritto reiterativo degli effetti di diniego disposti dal sopra richiamato art. 36 (cfr. CdS, IV, 13.01.2010, n. 100 e CdS, VI, n. 395 del 27.01.2014);
3) Trattandosi di silenzio-significativo, ne consegue che è anche privo di fondamento il profilo di censura relativo al difetto di motivazione.
Invero, il provvedimento tacito, in quanto tale, è ontologicamente privo di motivazione, sicché esso è impugnabile non per difetto di esplicazione dell’iter giustificativo, ma per il suo contenuto di rigetto, potendo farsi valere quindi, contro di esso, direttamente censure afferenti alla fondatezza della pretesa, che siano quindi idonee a dimostrare la sussistenza dei presupposti a base dell’invocata sanatoria (sull’insussistenza di un obbligo specifico di motivazione in caso diniego tacito di sanatoria, cfr. da ultimo, tra le tante, citata decisione CdS, VI, n. 395/2014).
Peraltro, nel caso di cui trattasi, l’Amministrazione, alla stregua del contenuto del preavviso di rigetto, ha anche manifestato (ad abundantiam) le ragioni del diniego al soggetto richiedente, sulle quali quest’ultimo è stato quindi posto in grado di argomentare anche nel ricorso che ne occupa. Ciò non cambia evidentemente la tipologia del silenzio: da rigetto ad inadempimento.
Il contegno del Comune di Carbognano continua a mantenere il suo significato di rigetto dell’istanza e delle controdeduzioni, non potendo evidentemente una condotta in via amministrativa modificare la qualificazione del silenzio operata da una disposizione di legge;
4) In ordine al profilo del difetto di legittimazione dell’affittuario a presentare istanza di sanatoria, opposto dall’Amministrazione sia nella nota n. 4280 del 10.06.2011 che in sede difensiva, il Collegio concorda con la ricostruzione in fatto ed interpretativa dell’Amministrazione.
Invero, sia l’art. 36 del DPR n. 380/2001 che l’art. 22, comma 1, della LR n. 15/2008 (norme che espressamente regolano il permesso di costruire in sanatoria) indicano, come soli soggetti legittimati a chiedere il permesso stesso, “il responsabile dell’abuso” e il “proprietario”. Nessun cenno è operato al conduttore dell’immobile o ad altri soggetti. Nel caso di specie poi il consenso del proprietario nemmeno è stato (previamente) fornito in sede procedimentale, né tale consenso può essere automaticamente desunto dal contratto e dal rapporto di locazione.
Infine anche la generica disponibilità manifestata in sede di osservazioni di far firmare l’istanza al sig. Ta. non si è mai concretizzata davanti all’Amministrazione fino alla presentazione del ricorso, non potendo quindi farsi ricadere sull’Amministrazione stessa la responsabilità dell’omissione per mancata richiesta di documentazione integrativa, essendo onere del soggetto interessato quello di dimostrare gli elementi di legittimazione alla presentazione dell’istanza.
Il secondo motivo è quindi privo di fondamento (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.10.2014 n. 10204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2014

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti di efficacia del permesso in sanatoria.
I presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, sussistono solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda, con la conseguenza che detta vicenda estintiva non può prodursi se sia necessario procedere ad ulteriori interventi che riconducano i lavori realizzati a tale doppia conformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2014 n. 30275 - tratto da www.lexambiente.it).

giugno 2014

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 36 del t.u. edilizia ammette all’accertamento di conformità le opere “eseguite” nel senso di “realizzate”, venendo dunque in rilievo l’opera nello stato di fatto in cui si trova e non in quello ipotetico che potrebbe verificarsi a seguito dell’effettiva realizzazione degli interventi indicati nell’istanza di sanatoria o in atti successivi.
In altre parole o la conformità sussiste al momento della presentazione dell’istanza oppure non sussiste, con conseguente carenza dei presupposti di carattere tassativo e stretta interpretazione per concederla, non potendo configurarsi nemmeno in astratto una sanatoria -anche se formale- con prescrizioni ovvero di tipo condizionato all’esecuzione di opere, venendo meno lo stesso requisito della conformità con riferimento alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della presentazione della domanda.
Deve pertanto escludersi la possibilità -ai sensi degli artt. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 e 36 del t.u. edilizia- di una sanatoria formale con prescrizioni ovvero condizionata alla realizzazione di future opere poiché “ontologicamente” in contrasto con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, di stretta interpretazione, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la integrale conformità alla disciplina urbanistica.

3.5. A diverse conclusioni non può giungersi dando rilievo, come vorrebbe la ricorrente, all’impegno manifestato sia nella prima che nella seconda istanza di sanatoria ad effettuare futuri interventi di adeguamento, consistenti nella riconduzione del piano interrato nei limiti assentiti, mostrando adesione alla tesi pur sostenuta da parte della giurisprudenza (TAR Liguria sez. I, 13.06.2006, n. 542) della ammissibilità di un titolo abilitativo a sanatoria con prescrizioni.
Infatti, sia l’art. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 che l’art. 36 del t.u. edilizia ammettono all’accertamento di conformità le opere “eseguite” nel senso di “realizzate”, venendo dunque in rilievo l’opera nello stato di fatto in cui si trova e non in quello ipotetico che potrebbe verificarsi a seguito dell’effettiva realizzazione degli interventi indicati nell’istanza di sanatoria o in atti successivi.
In altre parole o la conformità sussiste al momento della presentazione dell’istanza oppure non sussiste, con conseguente carenza dei presupposti di carattere tassativo e stretta interpretazione (TAR Toscana sez. I, 27.11.2006, n. 6040) per concederla, non potendo configurarsi nemmeno in astratto una sanatoria -anche se formale- con prescrizioni ovvero di tipo condizionato all’esecuzione di opere, venendo meno lo stesso requisito della conformità con riferimento alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della presentazione della domanda (C.G.A.S. 15.10.2009, n. 941; id. 29.02.2012, n. 242; Consiglio di Stato sez. V, 23.11.2006, n. 6862; TAR Campania Salerno sez. II, 02.05.2013, n. 1034; Cassazione penale sez. III, 05.12.2007 n. 45241).
3.6. Deve pertanto escludersi la possibilità -ai sensi degli artt. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 e 36 del t.u. edilizia- di una sanatoria formale con prescrizioni ovvero condizionata alla realizzazione di future opere poiché “ontologicamente” in contrasto con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, di stretta interpretazione, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la integrale conformità alla disciplina urbanistica.
3.7. Anche pertanto a voler ammettersi il discusso istituto della “sanatoria giurisprudenziale” invocato da parte ricorrente -peraltro recentemente escluso dalla più recente giurisprudenza (ex multis TAR Toscana sez. III, 27.03.2013, n. 497; Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961)- sarebbe ugualmente da escludersi nella fattispecie la sussistenza dei relativi presupposti, non risultando l’intervento abusivo neppure conforme alla disciplina urbanistico edilizia vigente al momento della presentazione della domanda.
4. Tanto premesso, il motivo della non assentibilità della richiesta sanatoria per la presenza di nuovi volumi risulta del tutto legittimo e pienamente ostativo al conseguimento dell’accertamento di conformità, sia quanto al profilo paesaggistico che edilizio, con conseguente improcedibilità per carenza di interesse delle ulteriori censure dedotte, dal momento che per giurisprudenza del tutto consolidata, in caso di provvedimento basato su una motivazione plurima, accertata la legittimità anche solo di uno dei motivi posti a fondamento del medesimo, è superfluo l'esame della fondatezza delle censure dedotte dai destinatari dell'atto, avverso gli ulteriori motivi addotti a supporto del provvedimento impugnato, poiché esso non può essere annullato qualora anche uno solo dei motivi posti a suo fondamento fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata (ex multis TAR Lombardia Milano sez. IV, 12.11.2013, n. 2511; TAR Toscana sez. II, 13.10.2010, n. 6457; Consiglio di Stato sez. V, 10.03.2009, n. 1383; TAR Friuli Venezia Giulia, 11.02.2010, n. 101) (TAR Umbria, sentenza 26.06.2014 n. 356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
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Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...".

Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che
si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
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2.4. Sul punto, quanto alla doglianza circa la negata valenza del permesso in sanatoria come causa estintiva del reato urbanistico, la Corte di appello si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale
non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini ed altro, Rv. 250477).
Nella specie, il permesso di costruire in sanatoria è stato concesso con specifiche prescrizioni, è poi pacifico che l'autorimessa seminterrata, ipoteticamente sanabile, sia stata esclusa dalla sanatoria stessa, essendone stata prevista la demolizione e, a dimostrazione dell'inammissibilità di una sanatoria parziale o condizionata alla demolizione di una parte degli interventi, la Corte di appello ha anche correttamente rilevato come, dall'esame della pratica di sanatoria, anche altre opere siano state sottratte all'accertamento dì conformità essendo stata prevista anche l'eliminazione dei muri di chiusura della loggia e la risistemazione esterna del terreno, così da incidere sull'altezza del piano di calpestio del fabbricato rispetto al piano di campagna.
2.5. Corretto deve ritenersi anche l'approdo cui i Giudici dell'appello sono pervenuti nel ritenere configurata la fattispecie della difformità totale procedendo ad valutazione concernente l'opera nel suo insieme e stigmatizzando il contrario approccio pronosticato dai ricorrenti e diretto a valutare singolarmente le varie difformità parcellizzando l'esame critico degli interventi.
Dalla valutazione unitaria dell'immobile realizzato, la Corte ha tratto corretto e logico argomento per desumere la realizzazione di un organismo integralmente diverso da quanto previsto nell'atto di assenso sul rilievo del macroscopico incremento volumetrico comportante la realizzazione di un immobile di dimensioni molto più ampie, traslato sul terreno, con un'autorimessa seminterrata non prevista dal permesso di costruire.
Il concetto della totale difformità è antitetico rispetto a quello della parziale difformità e ciò giustifica il diverso approccio valutativo e comparativo per la riconoscibilità, che deve essere eseguita su base normativa, dell'una o dell'altra tipologia di difformità edilizia.
La nozione della parziale difformità evoca un intervento costruttivo, specificamente individuato, che, quantunque contemplato dal titolo abilitativo, venga tuttavia realizzato secondo modalità diverse da quelle fissate a livello progettuale.
Il concetto di totale difformità presuppone invece un intervento costruttivo che esclude una valutazione frammentaria di esso e che perciò va riguardato unitariamente e nel suo complesso posto che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 descrive le opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire come quelle "che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso...".

Come è stato esattamente evidenziato,
l'art. 31, comma 1, TUE richiama un concetto di "totale difformità" ancorato, più che al confronto tra la singola difformità e le previsioni progettuali dell'intervento edilizio, alla comparazione sintetica tra l'organismo programmato nel progetto assentito e quello che è stato realizzato con l'intervento edilizio scaturito dall'attività costruttiva, con la conseguenza che, mentre il metodo valutativo utilizzabile per definire il concetto di "parziale difformità" ha carattere analitico, quello destinato ad accertare la "totale difformità" si fonda su una valutazione di sintesi collegata alla rispondenza o meno del risultato complessivo dell'attività edilizia rispetto a quanto è stato rappresentato nelle previsioni progettuali, le uniche prese in considerazione in fase di assenso amministrativo.
A tale significativa conclusione era infatti già pervenuta la giurisprudenza di questa Corte quando, nel previgente e non antitetico assetto normativo, aveva chiarito che
si ha difformità totale di un manufatto edilizio allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione: diversa per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera (Sez. 3, n. 1060 del 07/10/1987, dep. 30/01/1988, Ferrali Rv. 177490).
2.6. A questo punto, appare chiaro come sia del tutto irrilevante il richiamo nelle doglianze dei ricorrenti alla legislazione regionale per desumere, rispetto alle singole difformità e non alle anomalie nel loro complesso, il carattere di variazione non essenziale dei singoli interventi (come ad esempio dell'autorimessa) e ciò sulla base del disposto dell'art. 32 TUE e del rinvio alla legislazione regionale integrativa.
Nel caso di specie, attesa la clausola di salvezza posta in apertura delle disposizione, l'art. 32 TUE non è applicabile stante la natura totale delle difformità edilizie unitariamente riguardate e di conseguenza alcun effetto giuridico produce la legislazione regionale nella determinazione integrativa delle variazioni essenziali in presenza appunto di conclamate totali difformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2014 n. 40541 - udienza).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera, da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con quella conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere.
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale conformità consentendo di "correggere" il concreto contenuto di un permesso di costruire (da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui nei reati edilizi "sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda").
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L'articolo 1, commi 37, 38 e 39, l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo sono stati inseriti i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano, non configurando il condono neppure come automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica
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L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi espressamente, in caso di accertamento della compatibilità paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis.
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3. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo adduce che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere non sussistente la c.d. doppia conformità e sarebbe incorsa in un vizio di contraddittorietà motivazionale per non aver adeguatamente valutato la testimonianza del tecnico comunale Le..
Il motivo non trova riscontro nell'effettivo contenuto della motivazione della sentenza impugnata, che esclude la doppia conformità sulla base di elementi specifici, rilevando che il permesso in sanatoria, pur essendovi attestata la doppia conformità, non è conforme alla pianificazione adottata al momento della realizzazione dell'opera.
In particolare nel permesso di costruire 96/2002, rispetto al quale le opere abusive sono state costruite in variazione essenziale secondo il capo di imputazione sub A, rileva il giudice d'appello che il magazzino, per quel che emerge dalla relazione 14.03.2007, doveva essere interrato, per evitare una cubatura esterna, non prevista in quella zona dagli strumenti urbanistici, laddove -evidenzia sempre il giudice d'appello- la documentazione fotografica attinente al manufatto dimostra che ciò non è avvenuto.
D'altronde è stata vagliata la deposizione del Le., evincendone una natura insufficiente a superare l'elemento oggettivo sopra richiamato (osserva tra l'altro il giudice d'appello che il teste "si è limitato a sostenere che, in occasione del sopralluogo che ha dato origine al processo, sarebbe incorso in un errore di computo ma non ha spiegato il percorso dell'asserito errore") tenuto conto del contrasto, in particolare, con le fotografie, con la relazione 14.03.2007 e con la planimetria di raffronto tra quanto assentito e quanto realizzato (motivazione, pagine 2-3).
Nessun vizio motivazionale risulta pertanto sussistere nella esposizione che la corte territoriale offre della sua valutazione che ha negato l'esistenza della doppia conformità. Non può non ricordarsi, d'altronde, che giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che
la sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera (Cass., sez. III, 21.10.2008 n. 42526; Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499; Cass., sez. III, 18.03.2002 n. 11149), da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici (Cass. sez. III, 31.03.2011 n. 16591) e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con quella conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere (Cass. sez. III, 27.04.2011 n. 19587; Cass. sez. III, 26.11.2003-09.01.2004 n. 291 e Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499, cit.).
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale conformità consentendo di "correggere" il concreto contenuto di un permesso di costruire (da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui nei reati edilizi "sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda").
Risulta pertanto normativamente esatta la valutazione effettuata dalla corte territoriale, per cui, in conclusione, il motivo rimane infondato.
Il secondo motivo, a ben guardare, si incentra sulla fattispecie dell'autorizzazione paesaggistica, che, essendo stata concessa dal Comune di Pieve Ligure nel caso di specie in data 27.02.2009 (sulla base di un parere della Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria nel senso che l'intervento non comprometteva gli equilibri ambientali della zona), avrebbe dovuto, ad avviso del ricorrente, togliere ogni rilievo penale al reato di cui al capo B ai sensi dell'articolo 181, comma 1-ter, d.lgs. 42/2004. La corte territoriale avrebbe dunque violato tale normativa e fornito una motivazione illogica perché di contenuto diverso rispetto ai pareri delle autorità amministrative.
Rilevato che comunque una motivazione di per sé non può definirsi illogica meramente perché non coincide, come contenuto, con un parere della P.A., si osserva che la corte territoriale ha esattamente affermato la non incidenza delle valutazioni della competente autorità amministrativa in ordine alla sussistenza del reato, laddove trattasi di fattispecie di cui all'articolo 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, in forza di "vincolo specifico istituito con D.M. 14.12.1959".
E invero,
l'articolo 1, commi 37, 38 e 39, l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo inserendo i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano, non configurando il condono neppure come automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica (Cass. sez. III, 19.09.2013 n. 44189; Cass. Sez. III, 07.12.2007-09.01.2008 n. 583; Cass. sez. III, 10.05.2006 n. 15946; Cass. sez. III, 26.10.2005-03.02.2006 n. 4429).
L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi espressamente, in caso di accertamento della compatibilità paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis.
Deve pertanto concludersi per l'infondatezza anche del secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.06.2014 n. 27491 - udienza).

maggio 2014

EDILIZIA PRIVATA: La particolare sanatoria prevista dall’art. 36 DPR 380/2001 non può essere più richiesta quando sia definitivamente decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i contrapposti interessi in conflitto, subordinando la sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la violazione dello stesso, stante invece la sua doppia conformità edilizia ed urbanistica (al momento della realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al mancato definitivo consolidarsi del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia stata effettivamente già portata ad esecuzione.
Da ciò deriva la natura perentoria dei termini sopra indicati.
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Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio, tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico.

L’articolo 13 della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380), su cui è stata fondata l’istanza di concessione in sanatoria dell’abuso edilizio, negata col provvedimento impugnato in primo grado, stabilisce che il responsabile dell’abuso possa ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria, quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda, “fino alla scadenza del termine di cui all’art. 7, terzo comma, per i casi di opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con varianti essenziali, o dei termini stabiliti nell’ordinanza del sindaco di cui al primo comma dell’art. 9, nonché, nei casi di parziale difformità, nel termine di cui al primo comma dell’art. 12, ovvero nel caso di opere eseguite in assenza di autorizzazione ai sensi dell’art. 10 o comunque fino alla irrogazione delle sanzioni”.
La particolare sanatoria prevista dall’articolo in esame non può pertanto essere più richiesta quando sia definitivamente decorso il termine di novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi (nel caso di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità e con variazioni essenziali, art. 7) ovvero quello fissato dal sindaco nell’ordinanza di demolizione (nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia, art. 9, comma 1, e di opere eseguite in parziale difformità dalla concessione, art. 12, comma 1) e, nel caso di opere eseguite senza autorizzazione, ex art. 10, fino alla irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il legislatore ha in tal modo inteso contemperare i contrapposti interessi in conflitto, subordinando la sanatoria dell’abuso edilizio, di natura esclusivamente formale per la sola mancanza del titolo abilitativo o per la violazione dello stesso, stante invece la sua doppia conformità edilizia ed urbanistica (al momento della realizzazione dell’opera e al momento della domanda), al mancato definitivo consolidarsi del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di irrogazione della sanzione, indipendentemente dal fatto che la sanzione sia stata effettivamente già portata ad esecuzione (sul rapporto di consequenzialità tra provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime rispetto all'ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e sulla loro non autonoma impugnabilità in mancanza di tempestiva impugnazione dell'atto con cui era stata ingiunta la demolizione, tra le tante Cons. St., sez. V, 10.01.2007, n. 40).
Da ciò deriva la natura perentoria dei termini sopra indicati.
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Per la consolidata giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.
Come rilevato da questo Consiglio (Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, cit.), tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge:
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile);
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2755 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sentenza impugnata del TAR fonda l’accoglimento del ricorso di primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a seguito della presentazione della successiva istanza di sanatoria dichiarata improcedibile.
Il ricorso in appello del comune è fondato.
La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.
Quei principi non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
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1. L’odierno appellato sig. Ba.Al. ha adito il Tribunale amministrativo regionale per la Campania per l’annullamento del provvedimento prot. n. 1266 del 07.03.2013, con il quale il responsabile del servizio assetto del territorio del Comune di Casapesenna ha dichiarato acquisite di diritto al patrimonio del medesimo comune l’opera edilizia abusiva (consistente in due fabbricati abusivi) e la relativa area di sedime, site in via .., n. 5 e n. 7 in catasto fg. 8 p.lle 652/A e 652/b, stante l’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione n. 18 dell’08.11.2012 come da verbale prot. n. 172/P.M. del 04.03.2013.
2. Nella sentenza impugnata si dà atto che il sig. Ba. aveva impugnato il predetto ordine di demolizione con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dell’08.03.2013 e aveva inoltrato, dopo la notifica in data 09.11.2012 dell’ordine di demolizione, posto a base della gravata acquisizione, istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 in data 27.12.2012.
La sentenza impugnata dà altresì atto che il Comune di Casapesenna aveva opposto che l’istanza di sanatoria era stata dichiarata improcedibile con provvedimento n. 27 del 02.01.2013 in quanto priva di documentazione e di aver ivi invitato il ricorrente a presentare nuova istanza corredata di documentazione.
3. La sentenza impugnata fonda l’accoglimento del ricorso di primo grado sulle seguenti considerazioni:
- secondo consolidata giurisprudenza, la presentazione dell’istanza di sanatoria, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporta la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio rigetto, di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa;
- che, nell’ipotesi di rigetto anche tacito dell’istanza di sanatoria l’amministrazione è in ogni caso tenuta, anche nel medesimo contesto documentale e con rinvio ai pregressi elementi istruttori e motivazionali, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere.
Il ricorso è stato accolto perché l’ordine di acquisizione impugnato traeva il suo presupposto dall’inottemperanza ad un pregresso ordine di demolizione da intendersi superato a seguito della presentazione della successiva istanza di sanatoria dichiarata improcedibile.
4. Il Comune di Casapesenna ha proposto ricorso in appello deducendo un unico complesso motivo così epigrafato: error in procedendo; error in iudicando; violazione dell’art. 112 del Cod. pro. Civ.; erroneità nella ricostruzione dei termini fattuali della vicenda sostanziale e nella sua valutazione giuridica; contraddittorietà; errata determinazione del thema decidendum; errata determinazione del thema probandum.
5. Il ricorso in appello è fondato.
6. La consolidata giurisprudenza cui fa riferimento la sentenza impugnata si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi.
7. Quei principi non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto.
8. Per completezza di esposizione il Collegio non può non rilevare che, nella ricostruzione della vicenda effettuata dal giudice di primo grado, del tutto irrilevante si è rivelata la circostanza che il ricorrente abbia impugnato l’ordinanza di demolizione con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
D’altro canto dalla sentenza impugnata non emerge che tale provvedimento sia stato sospeso, con la conseguenza che esso poteva costituire idoneo presupposto per l’adozione del provvedimento di acquisizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2014 n. 2307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2014

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidata e condivisibile giurisprudenza, l’accertamento di conformità di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione: ciò in quanto la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica.
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Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa, a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in quanto la corretta determinazione di queste ultime dovrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorquando sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.

Infine, non hanno pregio le ulteriori doglianze illustrate nel ricorso, secondo cui l’amministrazione avrebbe omesso qualsivoglia verifica diretta a scrutinare l’eventuale sanabilità delle opere e non avrebbe dettagliatamente indicato l’area pertinenziale dell’opera abusiva da acquisire in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio.
Sul primo profilo, si rammenta che, secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza, l’accertamento di conformità di cui all'art. 36 del D.P.R. 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 06.11.2008 n. 19290; TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389): ciò in quanto la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica.
Sull’ultimo rilievo è agevole rilevare che, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164; Sez. VI, 09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n. 3530), a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, ivi compresa quella relativa alle aree pertinenziali in quanto la corretta determinazione di queste ultime dovrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorquando sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. Edilizia, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2014

EDILIZIA PRIVATA: a) in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990 trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
b) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica ed ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio, in assenza del medesimo ovvero con variazioni essenziali, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
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Non inficia la legittimità dell’azione amministrativa l’esiguo tempo decorso tra il verbale di sopralluogo e l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che, come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica collide con la descritta natura del potere di vigilanza in materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente l’ordine urbanistico violato.
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L'accertamento di conformità ex art. 36 DPR 380/2001 va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione.
Ed invero la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di sanatoria.

Il ricorso è manifestamente infondato.
La censure (sviluppate con il primo ed il quarto motivo di gravame) che attengono alla violazione delle garanzie partecipative prescritte dalla L. 241/1990 e alla omessa specificazione dell’interesse pubblico al ripristino si infrangono contro il granitico indirizzo pretorio, dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi, secondo cui:
a) in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990 trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII Napoli, 18.12.2013 n. 5811; 29.01.2009 n. 5001);
b) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica ed ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio, in assenza del medesimo ovvero con variazioni essenziali, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 02.12.2004 n. 18085).
Non ha pregio il secondo motivo di diritto con il quale i ricorrenti deducono il difetto di motivazione ed osservano che la contestazione dell’illecito edilizio sarebbe avvenuta in un ristretto arco temporale rispetto alla data di accertamento dell’abuso (verbale di accertamento del 06.02.2007 – ordine demolizione del 13.02.2007).
Quanto al difetto di motivazione, si osserva che nell’atto sono specificate le ragioni poste a fondamento del gravato ordine demolitorio, controvertendosi appunto di un manufatto abusivo realizzato in zona agricola in mancanza di permesso di costruire.
Inoltre non inficia la legittimità dell’azione amministrativa l’esiguo tempo decorso tra il verbale di sopralluogo e l’irrogazione dell’ingiunzione ripristinatoria.
Difatti, l’attività provvedimentale è stata posta in applicazione degli artt. 27 e 31 del D.P.R. 380/2001 che, come noto, riconoscono all'amministrazione comunale un generale potere-dovere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, del tutto privo di margini di discrezionalità siccome rivolto a reprimere gli abusi accertati al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.01.2013 n. 62).
Neppure può convenirsi circa la presunta esistenza di un termine dilatorio dall’accertamento dell’abuso, decorso il quale l’amministrazione potrebbe procedere alla irrogazione delle sanzioni edilizie: in disparte l’assenza di qualsivoglia fondamento normativo, tale opzione ermeneutica collide con la descritta natura del potere di vigilanza in materia edilizia che, una volta soddisfatta l’esigenza di adeguata verifica dell’abuso, va esercitato entro un ristretto arco temporale al fine di ripristinare celermente l’ordine urbanistico violato.
Con il terzo motivo di diritto gli esponenti assumono che l’ente locale, prima di adottare il provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto verificare preliminarmente la sanabilità del manufatto de quo ai sensi dell’art. 36 del T.U. Edilizia.
L’argomentazione è priva di pregio.
In primo luogo, a fronte della dichiarata abusività dell’opera (che, si rammenta, è stata realizzata in zona agricola ed in difetto di titolo abilitativo), i ricorrenti non hanno in alcun modo comprovato la conformità rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001, onde la censura si appalesa generica e priva di alcun riscontro probatorio.
In ogni caso, si aggiunga che l'accertamento di conformità di cui alla richiamata disposizione va effettuato su iniziativa dell'interessato e non dell'amministrazione (TAR Lazio, Roma, 04.09.2009 n. 8389). Ed invero la normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo al Comune, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità, atteso che è rimessa all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di sanatoria (TAR Campania Napoli, Sez. VI, 06.11.2008 n. 19290) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 26.03.2014 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario, ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento.
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi:
a) Argomento letterale.

Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
La regola in parola sarebbe, dunque, enucleata “contro l'inerzia dell'amministrazione”, e starebbe a indicare “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria”.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo. Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio, nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda.
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa.
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità. Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli dell’osservanza sostanziale delle disposizioni generali e locali in materia di uso del territorio).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso.
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.

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In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

Non soccorre, infine, alla tesi propugnata da parte ricorrente circa l’invocata applicabilità analogica dei principi sottesi alla c.d. sanatoria giurisprudenziale.
In proposito, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara, 11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze n. 17398 del 10.09.2010 e n. 3153 del 03.07.2012.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
La regola in parola sarebbe, dunque, enucleata “contro l'inerzia dell'amministrazione”, e starebbe a indicare “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria” (Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6498).
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità. Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli dell’osservanza sostanziale delle disposizioni generali e locali in materia di uso del territorio) (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 20.03.2014 n. 1690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA L’utilizzo di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001 (DIA semplice) per regolarizzare le opere difformi è una strada impercorribile, in quanto, una volta ultimati i lavori, l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001.
Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova costruzione e dalla ristrutturazione pesante.
Quando la difformità rispetto al titolo edilizio riguardi opere già eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate mediante DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex art. 37 del DPR 380/2001.
Nel caso in esame, invece, poiché le difformità riguardano opere inserite in un nuovo edificio, il regime sostanziale è quello della costruzione nel suo complesso. Di conseguenza, le difformità riscontrate possono essere sanate solo nei limiti in cui è ammesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001.
---------------
L’accertamento di conformità presuppone che le opere rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in vigore sia al momento della realizzazione delle stesse sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria (questo secondo riferimento temporale, vista la particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al 04.09.2004, data di presentazione della DIA).
Nel definire se un’opera risulti conforme alla disciplina urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni essenziali. Se il progetto della nuova costruzione, regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi come variazioni non essenziali estende l’area dell’accertamento di conformità, preservando le opere così qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino, anche se di fatto comportino un incremento degli indici edificatori ammessi;
In altri termini, la qualificazione degli interventi difformi come variazioni non essenziali non fa rientrare i suddetti interventi nella categoria dell’attività edilizia libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma consente di collocarli tra quelli sanabili ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001 per accessione rispetto alla nuova costruzione (o alla ristrutturazione pesante).
Una precisazione deve essere fatta per il parametro dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della LR 11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma costituisce un canone interpretativo a favore della conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la lettura più estensiva delle norme tecniche.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 6 del 27.12.2004, con la quale il responsabile del Settore Edilizia e Urbanistica ha ingiunto la demolizione delle opere realizzate in difformità dalla concessione edilizia n. 17 del 04.10.2001;
...
Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) la revoca del provvedimento impugnato determina la sopravvenuta carenza di interesse per la parte impugnatoria del ricorso;
(b) rimane però ferma l’esigenza di una valutazione dei profili urbanistici della vicenda, in quanto occorre decidere sulla domanda risarcitoria e sulle spese di giudizio;
(c) in proposito, si osserva in primo luogo che l’utilizzo di una DIA ex art. 22, comma 2, del DPR 380/2001 (DIA semplice) per regolarizzare le opere difformi è una strada impercorribile, in quanto, una volta ultimati i lavori, l’unico strumento utilizzabile è l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del DPR 380/2001. Oltretutto, l’impiego della DIA semplice è limitato alle opere minori, ossia agli interventi diversi dalla nuova costruzione e dalla ristrutturazione pesante. Quando la difformità rispetto al titolo edilizio riguardi opere già eseguite che avrebbero potuto essere autorizzate mediante DIA semplice, si applica la speciale sanatoria ex art. 37 del DPR 380/2001;
(d) nel caso in esame, invece, poiché le difformità riguardano opere inserite in un nuovo edificio, il regime sostanziale è quello della costruzione nel suo complesso. Di conseguenza, le difformità riscontrate possono essere sanate solo nei limiti in cui è ammesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
(e) a sua volta, l’accertamento di conformità presuppone che le opere rispettino la disciplina urbanistica sostanziale in vigore sia al momento della realizzazione delle stesse sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria (questo secondo riferimento temporale, vista la particolarità della fattispecie, può essere ricondotto al 04.09.2004, data di presentazione della DIA). Nel definire se un’opera risulti conforme alla disciplina urbanistica vengono in rilievo le norme sulle variazioni essenziali. Se il progetto della nuova costruzione, regolarmente assentito, esauriva in tutto o in parte le facoltà edificatorie, la qualificazione delle opere difformi come variazioni non essenziali estende l’area dell’accertamento di conformità, preservando le opere così qualificabili dalla sanzione della rimessione in pristino, anche se di fatto comportino un incremento degli indici edificatori ammessi;
(f) in altri termini, la qualificazione degli interventi difformi come variazioni non essenziali (qui effettuata direttamente dal Comune con il provvedimento del 24.03.2005) non fa rientrare i suddetti interventi nella categoria dell’attività edilizia libera ex art. 6 del DPR 380/2001, ma consente di collocarli tra quelli sanabili ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001 per accessione rispetto alla nuova costruzione (o alla ristrutturazione pesante). Una precisazione deve essere fatta per il parametro dell’altezza, che svolge anche una funzione di garanzia per i diritti dei terzi. La circostanza che la maggiore altezza sia considerata variazione essenziale solo quando eccede il progetto di oltre un metro (v. art. 54, comma 1.c.1, della LR 11.03.2005 n. 12) non significa che le altezze di zona possano sistematicamente essere sforate di un metro, ma costituisce un canone interpretativo a favore della conservazione di quanto edificato, nel senso che nei casi dubbi (come quello in esame) deve essere preferita la lettura più estensiva delle norme tecniche;
(g) in contrasto con la tesi dell’attività edilizia libera, è poi evidente che almeno alcune delle opere difformi realizzate dalla ricorrente, se considerate isolatamente, costituiscono veri e propri ampliamenti, come tali assimilabili alle nuove costruzioni ex art. 3, comma 1.e.1, del DPR 380/2001 e sottoposti a permesso di costruire. È questo il caso dell’incremento di volumetria dell’autorimessa (che è solo parzialmente interrata) e della traslazione verso l’alto dell’intero edificio. Inoltre, se si considera l’insieme di queste e delle altre opere difformi (con particolare riferimento a quelle che comportano incremento della superficie residenziale), emerge chiaramente un nuovo disegno edilizio, con utilità aggiuntive, la cui sanabilità deve parimenti essere valutata ai sensi dell’art. 36 del DPR 380/2001;
(h) il fatto che gli interventi difformi siano stati qualificati dal Comune come variazioni non essenziali e la possibilità di interpretare le norme tecniche nel senso dell’osservanza dell’altezza massima di zona sono senz’altro elementi a favore della ricorrente. Si deve però ritenere che l’attività di vigilanza del Comune sia stata correttamente svolta sotto i seguenti profili: (1) nell’individuazione delle difformità rispetto all’originaria concessione edilizia; (2) nel giudizio di inidoneità espresso sulla DIA semplice presentata a lavori conclusi; (3) nell’esclusione delle opere difformi dalla categoria dell’attività edilizia libera. Di conseguenza, anche se l’ordinanza di demolizione è stata adottata prima dello svolgimento della procedura ex art. 36 del DPR 380/2001, non sembra essere sorta alcuna obbligazione risarcitoria in capo al Comune, tenuto conto della tempestività della revoca in autotutela (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.03.2014 n. 235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma che ribadisce la regola della “doppia conformità” è l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 in forza della quale la sanatoria di immobili abusivi, perché realizzati senza titolo abilitativo, è possibile solo se sono conformi allo strumento urbanistico esistente al momento della realizzazione dell’opera e al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Invero, la valutazione di doppia conformità non può che avere riguardo ai lavori così come realizzati, senza che possano essere presi in considerazione i lavori necessari per rendere l’opera conforme alla normativa urbanistica e vincolistica.
L’accertamento di conformità è uno strumento di conservazione di opere già realizzate e provviste della doppia conformità, senza che possono venire in rilievo le opere da eseguirsi per rendere le opere già eseguite conformi alla normativa urbanistica e vincolistica.
L'istituto in esame, già previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985 n. 47 ed ora regolato dall'art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 è infatti diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (c.d. doppia conformità).
In simili ipotesi, la valutazione che l’amministrazione deve svolgere è del tutto doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, di tal che il provvedimento di accertamento di conformità assume una connotazione oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali.
Ne consegue che la sanatoria non è invocabile in forza dell’esecuzione di ulteriori lavori, volti a rendere oggi conformi alla normativa urbanistica e vincolistica delle opere da essa difformi al tempo della loro realizzazione.
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Né può essere invocata la c.d. sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell'opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l'opera è stata realizzata.
Secondo consolidata giurisprudenza quest'ultimo istituto non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.

La ricorrente contesta gli atti con i quali l’amministrazione resistente ha ritenuto sanati gli abusi edilizi commessi dai controinteressati, omettendo così di esercitare i poteri repressivi di cui è titolare e nonostante la mancata esecuzione dell’ordinanza di demolizione adottata dal Comune in data 22.08.2011.
In particolare si lamenta l’insussistenza dei presupposti per la sanatoria (accertamento di conformità) previsti dall’art. 84 della legge regionale n. 11/1998 e dall’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001
Le censure sono fondate.
Non è contestato il carattere abusivo dell’opera, consistente nella realizzazione di un deposito con annessa tettoia, a modificazione, strutturale e di destinazione, del pollaio esistente al tempo della licenza edilizia n. 52/1974, tanto che i controinteressati hanno presentato una DIA in sanatoria, sul presupposto della natura abusiva delle opere realizzate.
Il problema consiste, allora, nello stabilire se gli interventi eseguiti sul deposito e sull’annessa tettoia -richiamati dall’amministrazione nel provvedimento con il quale ha dato atto della sanatoria ed escluso la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere repressivo- siano idonei a realizzare le condizioni per l’accertamento di conformità e a superare l’abuso edilizio commesso.
L’art. 84 della legge regionale della Valle d’Aosta n. 11/1998 prevede che “fino alla scadenza dei termini fissati negli ordini del Sindaco di ripristino, e fino all'irrogazione delle sanzioni pecuniarie, i responsabili dell'abuso dotati di idoneo titolo possono richiedere la concessione in sanatoria quando l'intervento è conforme agli strumenti di pianificazione nonché ai piani, programmi, intese e concertazioni attuativi del PRG e non contrasta con quelle dei piani medesimi, adottate, sia con riferimento al tempo della realizzazione dell'intervento, sia con riguardo al momento della presentazione della domanda di concessione in sanatoria”.
La norma ribadisce la regola della “doppia conformità”, presente anche nella legislazione nazionale (in particolare l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001), in forza della quale la sanatoria di immobili abusivi, perché realizzati senza titolo abilitativo, è possibile solo se sono conformi allo strumento urbanistico esistente al momento della realizzazione dell’opera e al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
La fattispecie in esame si pone al di fuori del meccanismo ora indicato, in quanto l’amministrazione ha ritenuto sanabile un’opera edilizia modificata, per destinazione e dimensioni, rispetto a quella in un primo tempo realizzata.
Invero, la valutazione di doppia conformità non può che avere riguardo ai lavori così come realizzati, senza che possano essere presi in considerazione i lavori necessari per rendere l’opera conforme alla normativa urbanistica e vincolistica.
L’accertamento di conformità è uno strumento di conservazione di opere già realizzate e provviste della doppia conformità (cfr TAR Trentino Alto Adige Trento, 20.03.2003 , n. 117), senza che possono venire in rilievo le opere da eseguirsi per rendere le opere già eseguite conformi alla normativa urbanistica e vincolistica.
L'istituto in esame, già previsto dall'art. 13 della l. 28.02.1985 n. 47 ed ora regolato dall'art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 -da leggersi nel caso della Regione Valle D’Aosta in relazione al disposto con il citato art. 84 della legge regionale n. 11/1998- è infatti diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (c.d. doppia conformità).
In simili ipotesi, la valutazione che l’amministrazione deve svolgere è del tutto doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, di tal che il provvedimento di accertamento di conformità assume una connotazione oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali (per tali considerazioni si veda espressamente TAR Valle d’Aosta, 02.11.2011, n. 71, che richiama TAR Campania Napoli, sez. III, 05.10.2009, n. 5149; TAR Campania Napoli, sez. VI, 11.03.2009, n. 1393; TAR Campania Napoli, sez. VI, 17.12.2008, n. 21345).
Ne consegue che la sanatoria non è invocabile in forza dell’esecuzione di ulteriori lavori, volti a rendere oggi conformi alla normativa urbanistica e vincolistica delle opere da essa difformi al tempo della loro realizzazione.
Insomma, la circostanza che la ricorrente abbia riportato il manufatto alle dimensioni riferite nella licenza edilizia n. 52/1974, non vale ad escludere che il manufatto stesso sia diverso da quello richiamato nell’indicata licenza e poi trasformato in deposito, in violazione della normativa urbanistica vigente al tempo della trasformazione.
Inoltre, a seguito degli accertamenti istruttori disposti dal Tribunale è emerso che l’opera attualmente esistente eccede le dimensioni massime previste dall’art. 29 delle NTA dello strumento urbanistico vigente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria.
Invero, l’opera presenta un’altezza variabile tra m. 3,58 e m. 3,15, di gran lunga superiore a quella massima prevista per i depositi dall’art. 29 delle NTA e fissata in “m. 2,50 compresa la soletta di copertura”, sicché l’opera non è comunque conforme alle norme urbanistiche vigenti al tempo della presentazione della domanda di sanatoria.
Né può essere invocata la c.d. sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell'opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l'opera è stata realizzata.
Secondo consolidata giurisprudenza quest'ultimo istituto non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia, fermo restando, in ogni caso, che nella fattispecie in esame neppure sussiste la conformità del deposito realizzato con la normativa esistente al tempo della sua realizzazione (cfr. tra le tante Tar Toscana, 27.03.2013, n. 497).
In definitiva, sono del tutto assenti i presupposti per ritenere sanata l’opera di cui si tratta, atteso che non sussistono le condizioni della doppia conformità, perché il deposito è difforme dalla disciplina urbanistica vigente al tempo della sua realizzazione, mentre sono irrilevanti le modificazioni successivamente apportate ed, inoltre, risulta difforme dalla normativa urbanistica vigente al tempo della domanda di sanatoria.
Ne deriva la fondatezza delle censure in esame, perché l’amministrazione ha ritenuto di non esercitare i propri poteri repressivi in materia edilizia, ritenendo sanato l’abuso nonostante la palese mancanza dei presupposti legali per l’accertamento di conformità (TAR Valle d'Aosta, sentenza 11.03.2014 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Invero, l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".

Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è, infatti, necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Ai fini del rilascio dell’assenso edilizio in sanatoria è, infatti, necessario dimostrare che l’opera abusiva è conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente alla data in cui l’assenso viene richiesto, ma anche a quella vigente all’atto della realizzazione dell’opera.
Come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. V, 11.06.2013, n. 3220), l'art. 36 del d.p.r. 06.06.20012, n. 380, come già l'art. 13 della legge n. 47 del 1985, pone come condizione inderogabile, ai fini del rilascio della sanatoria, che “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2014

EDILIZIA PRIVATA: In tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare.
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
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Il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.

Anzitutto, mette conto evidenziare che «in tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare» (così, C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr. TAR Napoli Campania sez. VI, n. 5515 del 04.12.2013; TAR Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
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Ed, invero, mette conto evidenziare, in aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306, 15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e 07.09.2007, n. 7958; sezione settima, 24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173; Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n. 1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla qualificazione operata dall'art. 43 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004 in ordine al silenzio serbato dalle amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) che "non può riverberare sulla disciplina processuale, di esclusiva competenza statale, posta per la tutela giurisdizionale contro il silenzio della pubblica amministrazione", fermo che "la previsione di cui alla norma regionale si limita, di fatto, a prevedere e disciplinare un rimedio alternativo, meramente amministrativo (attivabile d'ufficio o a cura di parte), avverso la mancata pronuncia delle amministrazioni comunali sulle richieste di accertamento di conformità, senza con ciò interferire sulla qualificazione giuridica del silenzio impugnabile in sede giurisdizionale e sul relativo rito azionabile" (cfr., in tali espliciti sensi, sempre questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito, Cons. Stato n. 598 del 2006 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.02.2014 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dal Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto di rigetto, e non come silenzio-inadempimento all'obbligo di provvedere, autonomamente impugnabile.
A fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il silenzio dell'amministrazione costituisce una ipotesi di silenzio-significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel caso di specie, non sussiste.

Va detto, infatti, che il silenzio serbato dal Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto di rigetto, e non come silenzio inadempimento all'obbligo di provvedere, autonomamente impugnabile (Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2691).
Come nota la giurisprudenza copiosa anche di questa sezione, a fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il silenzio dell'amministrazione costituisce una ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel caso di specie, non sussiste (v. ex multis, la Sent. n. 3555/2012 di questa Sezione)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2014

EDILIZIA PRIVATA: Il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto espresso o tacito, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario tanto che l’eventuale impugnazione proposta avverso quest’ultimo atto diverrebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse perché l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio si sposta, dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all’annullamento dell’eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori, che dovranno essere comunque adottati anche a seguito della formazione del silenzio rigetto.
... per l'annullamento del provvedimento del 09.07.2013 prot. n. 8513 avente ad oggetto: accertamento inottemperanza all'ordinanza n. 18/2012 relativa al ripristino dello stato dei luoghi adottata ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 - acquisizione delle opere e dell'area pertinenziale sita in Amorosi alla via Fontanelle;
...
Considerato che il ricorso è fondato per le ragioni di seguito illustrate:
- ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm. il punto di diritto risolutivo del giudizio attiene alla insussistenza dei presupposti di legge affinché l’intimata amministrazione locale potesse legittimamente procedere all’acquisizione gratuita dell’opera abusiva ai sensi dell’art. 31 terzo comma del D.P.R. 380/2001 che, come noto, consistono nella mancata esecuzione di una ordinanza di demolizione valida ed efficace, oltre che al decorso del termine di 90 giorni per la relativa esecuzione;
- ciò in quanto, nella fattispecie in scrutinio, la presentazione ad opera del ricorrente della domanda di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 relativamente alle opere abusive determina la sopravvenuta inefficacia dell’ordinanza demolitoria: ne consegue altresì che, sotto il profilo processuale, non rileva l’omessa impugnazione dell’atto sanzionatorio il quale, siccome inefficace, si appalesa inidoneo a reggere la sequela procedimentale che è culminata nell’adozione del gravato provvedimento acquisitivo;
- formatosi il provvedimento tacito di diniego conseguente al decorso del termine di 60 giorni di cui al terzo comma dell’art. 36 in assenza di statuizione espressa dell’amministrazione, quest’ultima avrebbe dovuto rieditare il procedimento sanzionatorio ed adottare una nuova ingiunzione demolitoria assegnando al privato un nuovo termine per adempiere;
- difatti, secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale da cui la Sezione non ritiene di discostarsi (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.10.2006 n. 8424; Sez. VI, 12.11.2008 n. 5646; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 23.02.2011 n. 1041 e 22.03.2011 n. 1622; Sez. VII, 08.03.2012 n. 1202; 20.11.2007, n. 14442; Sez. IV 02.10.2006, n. 8424 e 26.07.2007 n. 7071; Sez. III, 30.04.2009 n. 2252) il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto espresso o tacito, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario tanto che l’eventuale impugnazione proposta avverso quest’ultimo atto (che nel caso specifico non è stata proposta) diverrebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse perché l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio si sposta, dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all’annullamento dell’eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori, che dovranno essere comunque adottati anche a seguito della formazione del silenzio rigetto.
Le considerazioni svolte conducono, con assorbimento delle ulteriori doglianze, all’accoglimento del gravame con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2013

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità diniego di sanatoria edilizia per difetto di motivazione.
E’ illegittimo il diniego di sanatoria edilizia per difetto di motivazione allorché si fa riferimento sia a caratteristiche dei materiali utilizzati per la realizzazione del manufatto, genericamente definiti “inadeguati”, sia a caratteristiche estetiche delle forme del manufatto, definite “rozze”; per altro verso, si sottolinea la (mera) ubicazione dell’opera che contribuirebbe a renderne intollerabile la presenza.
Ambedue i profili richiamati, tuttavia, non contribuiscono a definire le ragioni ostative alla sanatoria, rappresentando essi, nel primo caso, mere valutazioni non circostanziate da elementi di fatto volti a supportare il giudizio negativo formulato; nel secondo caso, una semplice descrizione di luoghi, in relazione ai quali il concreto contrasto del manufatto non risulta reso evidente
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.12.2013 n. 6065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lett. c), della legge regionale 61/1985.
Per cui
la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area.
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Al momento della realizzazione del fabbricato l’area di sedime realmente interessata dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che al momento della realizzazione dell’opera questa risultava illegittimamente posizionata in una area non edificabile, non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti al momento della realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui è stata richiesta la sanatoria.

Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e mancano del requisito della doppia conformità sia al momento della realizzazione che al momento dell’istanza.
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Va ricordato che dal 1999 tutto il territorio comunale è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso.
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria (ndr: di un abuso realizzato nel 1984) è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.

FATTO
Con il ricorso introduttivo il signor T.O., proprietario in Comune di Monfumo di un compendio immobiliare così catastalmente censito: N.C.T. – Comune di Monfumo – Foglio II- mappali nn. 25, 27, 32, 300, 494, 507, ha impugnato l’ordinanza n. 16 del 24.07.1997, con la quale l’amministrazione comunale, dopo aver precedentemente ordinato la sospensione di una serie di lavori presenti nell’ambito delle aree di proprietà del ricorrente, attesa la documentazione successivamente fornita dal medesimo e rilevato che, per quanto specificamente riguardava i fabbricati individuati ai punti 4) costruzione di un capannone in difformità dalla concessione edilizia n. 783/84, 5) realizzazione di annesso a sud del suddetto capannone e 6) realizzazione di annessi a nord-est dell’abitazione, così come evidenziati in giallo nella planimetria allegata, questi risultavano ricadere in zona di vincolo cimiteriale, già preesistente alla data del 01.09.1967, così da rendere ininfluente la dichiarata realizzazione anteriore a tale data almeno per due di essi, ordinava al ricorrente di provvedere alla loro demolizione nel termine di 90 giorni.
A sostegno della richiesta di annullamento del provvedimento impugnato parte istante ha dedotto una serie articolata di motivi, evidenziando in primo luogo e con specifico riferimento al fabbricato individuato con il n. 4 (capannone realizzato in difformità rispetto alla concessione edilizia n. 783/84) che le difformità rilevate non potevano essere ricondotte alle ipotesi di variazioni essenziali o di completa difformità rispetto al titolo assentito, per cui risultava del tutto sproporzionata l’applicazione della più grave sanzione della demolizione, anziché quella pecuniaria, applicabile agli interventi eseguiti solo in parziale difformità.
Per altro verso e con specifico riferimento alla rilevata insistenza dei fabbricati da demolire in ambito soggetto a vincolo cimiteriale e quindi di inedificabilità, la difesa istante rilevava come l’amministrazione comunale avesse modificato l’estensione della fascia di rispetto cimiteriale con deliberazione antecedente la data di adozione del provvedimento impugnato, così finendo per ordinare la demolizione dei fabbricati sulla base dell’erroneo presupposto della loro insistenza in ambito soggetto al vincolo cimiteriale.
Infine, per quanto riguarda gli altri manufatti, in particolare per il ricovero attrezzi agricoli e fieno, parte istante evidenziava che, sebbene non ne fosse stata contestata la realizzazione successivamente al 1967, trattavasi di manufatti del tutto precari e funzionali all’edificio principale, come tali non assoggettabili a concessione edilizia o ad autorizzazione e quindi neppure a provvedimenti sanzionatori.
Con ordinanza n. 1875/97 il Tribunale, valutato il danno, accoglieva la richiesta di sospensione dell’ordinanza impugnata.
Nelle more il ricorrente veniva affiancato nell’attività aziendale dalla figlia T.S., la quale ha quindi presentato in data 22.05.2006 una domanda per il rilascio del permesso di costruire in “variante a concessione edilizia n. 783 del 28.03.1984”, riguardante nello specifico il solo fabbricato individuato nelle planimetrie come edificio “G”, corrispondente al punto n. 4 dell’ordinanza n. 16/97.
Nonostante la domanda non fosse stata formalmente formulata come istanza di sanatoria, l’amministrazione, intendendo comunque determinarsi come se tale fosse stata la volontà della richiedente, si pronunciava, previa comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10-bis L. 241/1990, con il provvedimento finale di rigetto dell’istanza, datato 26.09.2006.
Avverso il diniego di sanatoria insorgeva nuovamente il ricorrente congiuntamente alla figlia S. con la proposizione di motivi aggiunti, con i quali venivano rinnovate le doglianze già dedotte in occasione del ricorso introduttivo, soprattutto per quanto riguarda la classificazione come variazione essenziale delle modifiche apportate all’originario progetto concessionato nel 1984 relativamente alla costruzione nell’area pertinenziale dell’edificio “G”, rilevando come detta erronea classificazione avrebbe illegittimamente impedito anche la sanabilità dell’intervento, laddove fosse stato correttamente qualificato come difformità parziale.
Inoltre, con specifico riguardo al diniego di sanatoria ed alla motivazione posta a fondamento dello stesso, la difesa istante ha sottolineato l’insufficienza e la contraddittorietà delle ragioni addotte dall’amministrazione, difettando ogni indicazione delle normative di riferimento e soprattutto mancando di rilevare come il richiamato vincolo ambientale fosse stato imposto soltanto in epoca successiva alla esecuzione degli interventi.
Per altro verso, parte istante ha denunciato la difformità dei contenuti della nota con la quale sono stati comunicati i motivi ostativi e la successiva determinazione finale dell’amministrazione, soprattutto per quanto riguarda il parere reso dalla commissione edilizia, denotando ancora una volta la contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale. Senza contare, altresì, l’inutile ed inconferente aggravio procedimentale derivante dalle ulteriori allegazioni richieste per quanto riguarda le caratteristiche aziendali.
L’amministrazione intimata, già costituitasi in giudizio con un primo collegio difensivo, con la nomina dei nuovi difensori provvedeva a depositare le proprie controdeduzioni, evidenziando la legittimità dei provvedimenti impugnati, in modo particolare per quanto riguarda l’ordine di demolizione dei fabbricati realizzati in assenza di titolo e, per quanto riguarda l’edificio “G”, l’avvenuta esecuzione degli interventi in palese variazione essenziale rispetto all’assentito, tenuto conto dell’avvenuta traslazione dell’edificio in una posizione diversa nell’ambito dell’area di pertinenza (spostata di 60ml verso nord) e con dimensioni diverse e maggiori rispetto a quanto indicato nel progetto iniziale.
Inoltre, veniva ribadita l’insistenza dell’immobile in un ambito ricadente nella fascia di rispetto cimiteriale e quindi l’assenza del requisito della doppia conformità per quanto riguarda la sanatoria edilizia, indipendentemente dalle sopravvenute modifiche dell’estensione della fascia di rispetto, senza contare l’esistenza del vincolo ex lege 431/1985, esteso a tutto il territorio comunale di Monfumo, che impedisce in ogni caso il rilascio a posteriori dell’autorizzazione paesaggistica.
Con successive memorie di replica ciascuna parte precisava le proprie conclusioni: in particolare veniva dato atto dell’intervenuta spontanea demolizione dei manufatti oggetto dell’ordinanza n. 16/97, fatta eccezione per quel che riguarda l’edificio “G” e quello individuato con la lettera “F” nelle planimetrie, in quanto strettamente funzionale al primo.
Inoltre, entrambe le difese hanno dato atto dei tentativi effettuati per una soluzione extragiudiziale della controversia, anche al fine di non compromettere la prosecuzione dell’attività aziendale, tentativi che tuttavia non sono giunti a buon fine.
All’udienza del 13.11.2013, uditi i procuratori delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente è necessario dare atto che, con riferimento ai fabbricati oggetto dell’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza n. 16/97, parte ricorrente ha provveduto a demolire spontaneamente parte di essi (oltre ad altri fabbricati non contemplati in tale provvedimento), residuando, per quanto interessa il presente gravame, i soli fabbricati che nella richiamata ordinanza erano identificati ai punti 4 e 5 e che corrispondono agli edifici contraddistinti con le lettere “G” ed “F” nelle planimetrie allegate da parte ricorrente.
Di tale modifica della situazione di fatto danno conferma parte ricorrente e la stessa difesa del Comune nella memoria del 22.10.2013.
Va peraltro osservato che, almeno per quanto riguarda l’edificio “F” (sulla cui epoca di realizzazione, denunciata dal signor T. come antecedente il 1967, l’amministrazione ha depositato documentazione –accatastamento del 1989– dalla quale non risulta la presenza prima di tale anno), non è stata comunque presentata da parte ricorrente alcuna istanza di sanatoria, per cui per tale edificio persiste l’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza n. 16/97.
Sempre in punto di fatto, al fine di chiarire i presupposti dei provvedimenti impugnati, va dato atto delle progressive modifiche del perimetro dell’area individuata dal Comune quale fascia di rispetto cimiteriale, che da ultimo, per quanto rileva nella presente controversia, con deliberazione del 24.07.1997 è stata oggetto di riduzione, positivamente riscontrata dalla C.T.R. il 18.02.1998 e quindi formalmente recepita con decreto sindacale del 23.06.1998, risultando attualmente –nell’ambito de quo– pari a 50 metri.
Per quanto riguarda poi l’esistenza del vincolo ambientale, va ancora dato atto –come documentato dall’amministrazione– che a seguito della delibera della Commissione provinciale per l’apposizione e la revisione dei vincoli paesaggistici del 30.09.1999, l’intero territorio comunale risulta assoggettato vincolo paesaggistico con decorrenza dall’avvenuta pubblicazione della suddetta delibera all’albo pretorio (15.11.1999).
Ciò premesso, benché la stessa parte ricorrente abbia manifestato l’interesse per quanto riguarda il fabbricato “F” soltanto in rapporto alla persistenza e quindi al mantenimento dell’edificio “G”, ove è svolta l’attività del’azienda agricola, va osservato che, come risulta dalla produzione documentale agli atti, detto manufatto risulta abusivamente realizzato, in assenza di titolo, nonostante l’epoca della sua realizzazione non fosse antecedente al 1967, come sostenuto dall’istante, bensì successiva, come attestato dall’amministrazione.
Per tale manufatto, non interessato da alcuna istanza di sanatoria, è quindi legittimo l’ordine di demolizione impartito con l’ordinanza impugnata.
Resta quindi da esaminare la posizione dell’edifico “G”, per il quale l’ordine di demolizione inizialmente impartito risulta superato dalla nuova determinazione assunta dal Comune
per effetto dell’istanza di sanatoria presentata da T.S., determinazione che ha respinto la richiesta e che quindi darà seguito ad una nuova ordinanza di demolizione (allo stato peraltro non ancora adottata dal Comune).
Riguardo all’istanza così presentata dalla ricorrente, va indubbiamente dato atto della inesatta formulazione della stessa, in quanto redatta come istanza di permesso di costruire in variante, quando in realtà l’obiettivo era quello di regolarizzare le difformità rilevate dal Comune: tuttavia, come peraltro inteso dalla stessa amministrazione, la richiesta è stata valutata e definita come istanza di sanatoria per quanto riguarda la variazioni apportate al progetto inizialmente assentito con la concessione edilizia n. 783/84.
Esaminati quindi i motivi aggiunti proposti avverso il diniego di sanatoria opposto dall’amministrazione con provvedimento del 26.09.2006, ritiene il Collegio che per quanto attiene alla qualificazione dell’abuso riscontrato e la conseguente irrogazione della sanzione pecuniaria –sebbene si tratti di profili che esulano dai contenuti del diniego di sanatoria, ma che parte istante nuovamente ripropone in occasione dei motivi aggiunti in quanto il provvedimento di diniego non ne avrebbe tenuto conto– le doglianze siano infondate e che correttamente l’abuso rilevato per quanto riguarda la realizzazione del fabbricato “G” sia riconducibile ad un’ipotesi di variazione essenziale, come tale sanzionabile con l’ordine di demolizione.
Invero, come è dato rilevare dai riscontri effettuati dall’amministrazione e soprattutto dalla visione delle planimetrie, l’edificio realizzato sulla base della concessione n. 783/84 doveva essere localizzato in una posizione più arretrata rispetto a quella rilevata, mentre risulta sopravanzato in direzione nord di ben 60 ml.
In tal modo, benché, come riportato testualmente nella concessione edilizia 783/84 (cfr. doc. 6 del Comune), la costruzione avrebbe dovuto interessare unicamente il mappale n. 27, nella realtà il suddetto mappale è stato coinvolto nell’intervento in minima parte, risultando la quasi totalità del fabbricato posizionata sui diversi mappali 300 e 25, entrambi proiettati in direzione nord verso il cimitero (cfr. doc. 5 Comune).
Ne consegue che, anche tenendo conto delle diverse e maggiori dimensioni del fabbricato in termini di superficie e volumetria rispetto a quanto autorizzato (in tal senso le stesse misurazioni contenute nella domanda di sanatoria dimostrano tali incrementi),
la diversa oggettiva localizzazione del fabbricato su una porzione dell’area di sedime diversa da quella individuata in occasione del rilascio del titolo autorizzatorio, non può, come auspicato da parte ricorrente, essere semplicemente ricondotta ad una difformità parziale, bensì deve essere qualificata come variazione essenziale, così come definita dall’art. 8, lett. c), della legge n. 47/1985 e dall’art. 92, comma 3, lett. c), della legge regionale 61/1985.
Va, quindi, condiviso e confermato l’orientamento interpretativo richiamato dalla difesa del Comune, già manifestato da questo Tribunale, per cui
la modifica della localizzazione dell’edificio, tale da comportare lo spostamento del fabbricato in un’area –come nel caso in esame– pressoché diversa da quella prevista all’atto del rilascio del titolo edilizio, costituisce una variante essenziale, in quanto profilo che può condizionare la compatibilità dell’intervento con i parametri urbanistici e le connotazioni dell’area: ed il caso in esame è la prova della rilevanza del rispetto di tali parametri, proprio in considerazione della necessità di rispettare il vincolo cimiteriale, di modo che lo spostamento in avanti e verso nord, in direzione del cimitero, avrebbe evidentemente costituito, laddove correttamente rappresentato, una causa di impedimento al conseguimento della concessione edilizia..
Invero,
nonostante che nella planimetria allegata al permesso di costruire il fabbricato venisse posizionato al di fuori del limite della fascia di rispetto cimiteriale, in realtà questo è stato poi localizzato in un’area che all’epoca della sua realizzazione era pacificamente considerata rientrante nella fascia di inedificabilità per la presenza nelle vicinanze del cimitero.
Sul punto –passando così ad affrontare la questione relativa alla sanabilità dell’abuso- è agevole desumere dall’esame del documento n. 7 del Comune i diversi momenti storici nei quali è stata prevista la diversa estensione del vincolo cimiteriale.
Orbene, sicuramente sino al 1998 (anche fosse il 1997 la questione non muterebbe, dovendosi fare riferimento all’epoca di costruzione del capannone ed in base all’accatastamento del 1989 l’edificio “G” risulta già esistente) il fabbricato insisteva in area coperta dal vincolo di rispetto cimiteriale, solo successivamente eliminato.
Ne consegue che
al momento della realizzazione del fabbricato “G” l’area di sedime realmente interessata dall’intervento era compresa nell’ambito della fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base di questo dato oggettivo, il quale conferma che al momento della realizzazione dell’opera questa risultava illegittimamente posizionata in una area non edificabile, non è possibile il conseguimento della sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 per mancanza della cd. “doppia conformità”, ossia la conformità alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti al momento della realizzazione dell’opera e quelle vigenti al momento in cui è stata richiesta la sanatoria.

Il dato così rilevato assume rilevanza dirimente rispetto ad ogni altra considerazione circa la pretesa illegittimità del provvedimento che ha denegato la sanatoria, in quanto, come correttamente ritenuto nel provvedimento di diniego,
le variazioni apportate all’originaria licenza costituiscono variazione essenziale rispetto all’originaria licenza e mancano del requisito della doppia conformità sia al momento della realizzazione che al momento dell’istanza.
A tale, si ripete, dirimente profilo, che è sufficiente a sorreggere il provvedimento di diniego, si aggiunge l’ulteriore aspetto evidenziato nel provvedimento impugnato e cioè l’impossibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Sul punto va ricordato che
dal 1999 tutto il territorio di Monfumo è soggetto a vincolo paesaggistico, per cui, in base alla normativa oggi vigente in materia di rilascio delle autorizzazioni per interventi da eseguirsi in ambiti protetti, comunque non sarebbe consentito ottenere un’autorizzazione a sanatoria.
A tale riguardo è costante l’orientamento giurisprudenziale in base al quale in sede di sanatoria o di condono di un manufatto abusivo risulta ininfluente l'epoca in cui è sorto il vincolo, purché questo sia ancora in essere alla data in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, sicché detta regola vale anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso (Cons. Stato, sez. IV, 18.09.2012, n. 4945; sez. VI, 27.11.2012, n. 5984).
Invero, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria, la valutazione della compatibilità dell’intervento con il vincolo deve essere effettuata in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
Atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata nel 2006 e quindi in un’epoca in cui il vincolo già era esistente, trattandosi di opera implicante incremento di superficie e di volume e quindi non rientrante nell’ambito delle ipotesi in cui è eccezionalmente consentito, in base ai commi 4 e 5 dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato risulta corretto.
Né sussistono gli ulteriori profili di illegittimità denunciati per quanto riguarda il preteso contrasto fra quanto anticipato in sede di comunicazione dei motivi ostativi e quanto poi concluso nel provvedimento finale.
Invero, anche alla luce delle osservazioni rese dalla ricorrente a seguito della comunicazione ex art. 10-bis, si evince che la stessa è stata posta nelle condizioni di comprendere appieno i motivi ostativi al rilascio del tiolo a sanatoria, in ordine alla doppia conformità ed alla sussistenza del vincolo, essendo le problematiche relative all’intervento argomento ben conosciuto e ampiamente dibattuto fra privato ed amministrazione.
In conclusione, attese le considerazioni sin qui espresse, ritenuta l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso va respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza II, sentenza 10.12.2013 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2013

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o parziali.
È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2013 n. 44189 - tratto da www.lexambiente.it).
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3.2 Il secondo motivo censura la corte, ancora anche sul piano motivazionale, per avere escluso che la sanatoria edilizia abbia estinto il reato edilizio, essendo la concessione in sanatoria subordinata ad una serie di opere (che la sentenza elenca specificatamente a pagina 6 della motivazione).
Il ricorrente non contesta la non idoneità a estinguere il reato di una concessione in sanatoria che prescriva interventi di adeguamento dell'opera abusiva; contestazione che, semmai, si porrebbe chiaramente in contrasto con la giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale insegna che la sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera (Cass., sez. III, 21.10.2008 n. 42526; Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499; Cass., sez. III, 18.03.2002 n. 11149), da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici (da ultimo Cass. sez. III, 31.03.2011 n. 16591) e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con la conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere (da ultimo Cass. sez. III, 27.04.2011 n. 19587: "È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica"; conformi Cass. sez. III, 26.11.2003-09.01.2004 n. 291 e la già citata Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499).
Il ricorrente, invece, contesta che le opere prescritte siano attinenti alle opere abusive in cui si è concretato il reato edilizio, dovendosi riferire, a suo avviso, ad opere ulteriori. Si tratta, evidentemente, di una questione di fatto, attinente alla correlazione delle opere prescritte, correlazione che è stata comunque oggetto di uno specifico vaglio da parte del giudice d'appello, che lo ha esternato con una motivazione logica e congrua, la quale illustra come le prescrizioni non potevano non concernere proprio e soltanto le opere abusive contestate all'imputato (motivazione, pagine 7-8). Anche questo motivo risulta pertanto infondato.

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o parziali - Illegittimità - Doppia conformità agli strumenti urbanistici - Artt. 36, 44 e 45, lett. c), d.p.r. n. 380/2001.
La sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. n. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera (Cass., sez. III, 21/10/2008 n. 42526; Cass., sez. III, 18/12/2003 n. 48499; Cass., sez. III, 18/03/2002 n. 11149), da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici (Cass. sez. III, 31/03/2011 n. 16591) e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con la conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere (Cass. sez. III, 27/04/2011 n. 19587: "È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati o, ancora, subordinato all'esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica"; conformi Cass. sez. III, 26/11/2003-09/01/2004 n. 291; Cass., sez. III, 18/12/2003 n. 48499) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2013 n. 44189 - link a www.ambientediritto.it).

settembre 2013

EDILIZIA PRIVATA: M. Asprone e A. Magliulo, LE AZIONI ESPERIBILI DAI TERZI CONTROINTERESSATI IN MATERIA DI SCIA ALLA LUCE DEGLI ULTIMI APPRODI NORMATIVI E GIURISPRUDENZIALI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2013).
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Segnalazione certificata di inizio attività, SCIA. Il delicato aspetto controverso, connesso alla questione relativa alla natura giuridica e i termini entro cui proporre tale azione.
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Sommario: 1. Il dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, sulla sanatoria giurisprudenziale. - 2. Considerazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: La richiesta di sanatoria (già art. 13, L. 47/1985 ed ora art. 36 T.U.) non richiede la presenza necessaria di alcun provvedimento sanzionatorio. Sono sì previsti dei termini per la richiesta di sanatoria in caso di presenza di provvedimenti sanzionatori, ma in assenza dei medesimi, la sanatoria può essere chiesta in qualsiasi momento.
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L’art. 13, L. 47/1985 e l’attuale art. 36 T.U. Edilizia subordinano al pagamento del doppio del contributo di costruzione non l’emissione della concessione in sanatoria, bensì il suo rilascio al richiedente, per cui l’assenza della quantificazione nel permesso di costruire in sanatoria non costituisce vizio invalidante del medesimo.
Difatti, l’obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e consequenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto.

Il motivo è infondato.
Non vi è violazione dell’art. 13, L. n. 47/1985, dato che la richiesta di sanatoria non richiede la presenza necessaria di alcun provvedimento sanzionatorio. Sono sì previsti dei termini per la richiesta di sanatoria in caso di presenza di provvedimenti sanzionatori, ma in assenza dei medesimi, la sanatoria può essere chiesta in qualsiasi momento.
Per quanto riguarda l’assenza della previsione dell’oblazione, come osservato dal resistente l’art. 13, L. 47/1985 e l’attuale art. 36 T.U. Edilizia subordinano al pagamento del doppio del contributo di costruzione non l’emissione della concessione in sanatoria, bensì il suo rilascio al richiedente, per cui l’assenza della quantificazione nel permesso di costruire in sanatoria non costituisce vizio invalidante del medesimo. Difatti, l’obbligazione pecuniaria del pagamento dell'oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e consequenziale rispetto all'atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell'intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l'emissione dell'atto (Cds sez. IV 24.02.2011 n. 1235) (TAR Marche, sentenza 25.09.2013 n. 639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all'art. 13 l. 47/1985, che è fedelmente riproposta nel successivo art. 36 d.p.r. n. 380/2001, si richiede per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, ed è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all’inerzia dell’Amministrazione.
Si avverte, quindi, in giurisprudenza che da ciò è dato desumere “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all'art. 97 Cost.. Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.

Il ricorso è fondato.
In particolare, persuade il Collegio la censura, avente rilievo preliminare ed assorbente, di cui al primo secondo motivo di gravame, con la quale l’istante lamenta il difetto di motivazione nel quale l’Amministrazione sarebbe incorsa per non avere specificato il provvedimento impositivo del vincolo preordinato all’esproprio secondo i parametri fissati dall’art. 13 della l.n. 47/1985.
Invero, in base a tale norma, che è fedelmente riproposta nel successivo art. 36 d.p.r. n. 380/2001, si richiede per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, ed è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all’inerzia dell’Amministrazione.
Si avverte, quindi, in giurisprudenza (C. Stato, Sez. V, 11.06.2013, n. 3220; idem, 13.02.1995, n. 238) che da ciò è dato desumere “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all'art. 97 Cost.. Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126)”.
Orbene, a fronte di tale precisi parametri temporali fissati dal citato art. 13, l’Amministrazione si è limitata a rilevare che “l’opera realizzata contrasta con la strumentazione urbanistica vigente in quanto configura la realizzazione di una volumetria in zona a destinazione pubblica con vincolo espropriativo”, senza quindi operare alcun riferimento all’epoca alla quale risale l’introduzione di detta disposizione vincolistica. Ricorre quindi il lamentato difetto motivazionale, tale da inficiare con assorbimento di ogni altra censura, la legittimità dell’impugnato diniego, che pertanto va annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.09.2013 n. 1866 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: P. Giannone, L’istituto della sanatoria disciplinata dall’art. 36 del D.P.R. 380/2001 e la sua estensibilità all’Autorizzazione Unica alla realizzazione ed all’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica mediante utilizzo di fonti energetiche rinnovabili di cui all'art. 12, comma 3, del D.Lgs. 387/2003 - PARTE 1^ (link a www.ambientediritto.it).

giugno 2013

EDILIZIA PRIVATA: L. Lavitola e A. Di Leo, LA SANATORIA “GIURISPRUDENZIALE” AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE: LA SENTENZA 101/2013 SULLA L.R. TOSCANA, IL “PRINCIPIO DELLA DOPPIA CONFORMITÀ” E LA L.R. EMILIA ROMAGNA - Con la sentenza del 27.02.2013 n. 101, la Corte Costituzionale -sia pur con espresso riferimento solo alla doppia conformità alla normativa tecnico-sismica- ha affermato che la regola oggi contenuta nell’art. 36 del Testo Unico dell’Edilizia (e, prima, nell’art. 13 della l. n. 47/1985) è da considerarsi principio della legislazione statale, come tale non derogabile dalla normativa regionale. La pronuncia della Corte, pertanto, risulta di interesse sia nell’ambito del dibattito –sempre vivo- sulla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, sia in quanto porta all’attenzione un ulteriore profilo problematico, rappresentato dalla conformità a Costituzione di quelle norme regionali (attualmente vigenti) che hanno codificato l’istituto pretorio (Gazzetta Amministrativa n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: S. Pollastrini e L. Ruggeri, La concessione in sanatoria e gli orientamenti della giurisprudenza (Il Tecnico Legale n. 6/2013).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, IL CONDONO EDILIZIO GIURISPRUDENZIALE - Abusi d’ufficio dei magistrati amministrativi? (sulla generale inapplicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. alla materia del governo del territorio) (17.06.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’onere motivazionale che grava in capo alla p.a. rinviene la sua giusta misura nell’esigenza che il destinatario del provvedimento sia messo in grado di percepire quali siano le ragioni che hanno portato al diniego dell’istanza proposta.
Pertanto, se non risulta sufficiente il generico richiamo alla norma di legge, è consentito adoperare una motivazione che, sia pure in modo sintetico ovvero attraverso un meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, esterni le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza (di sanatoria), così da consentire al privato di valutare l’opportunità di un’eventuale reazione giurisdizionale.
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E' legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
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L’attività sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni , non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto. Pertanto , il giudice può verificare la correttezza di tale attività accertativa svolta dalla P.A., non diversamente da quanto avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici condotti dalla P.A. in altri contesti.
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare. Del resto, un eventuale affidamento a favore dell’amministrato potrebbe solo sorgere all’indomani della conoscenza che l’amministrazione abbia dell’esistenza del manufatto, rispetto alla quale mantenga una colpevole inerzia e non come nel caso di specie dove l’intervento repressivo è stato disposto dopo pochi giorni il diniego di sanatoria.

Quanto alle residue censure le stesse appaiono tutte infondate. Ed infatti, corretta è la pronuncia gravata nella parte in cui esclude che il diniego di sanatoria sia inficiato da un difetto motivazionale. Appare evidente che l’onere motivazionale che grava in capo alla p.a. rinviene la sua giusta misura nell’esigenza che il destinatario del provvedimento sia messo in grado di percepire quali siano le ragioni che hanno portato al diniego dell’istanza proposta (Cons. St., Sez. II, 24.05.2006, n. 7681; Id. 05.02.1997, n. 336).
Pertanto, se non risulta sufficiente il generico richiamo alla norma di legge (Cons. St., Sez. V, 04.04.2006, n. 1750), è consentito adoperare una motivazione che sia pure in modo sintetico ovvero attraverso un meccanismo motivazionale che utilizza il rinvio per relationem al contenuto di atti endoprocedimentali, come nella fattispecie, esterni le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza, così da consentire al privato di valutare l’opportunità di un’eventuale reazione giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, il rinvio alla relazione del responsabile del procedimento e della Commissione edilizia, unitamente alla contrarietà derivante dalla circostanza che l’opera sananda comportava un incremento volumetrico non consentito, anche perché non riconducibile nell’ambito dell’ipotesi di adeguamento igienico-sanitario, risulta soddisfare il precetto contenuto nell’art. 3, l. n. 241/1990.
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In ordine alla seconda censura, appare condivisibile la premessa giuridica da cui parte, e rispetto alla quale non si registra alcuna difformità con la sentenza gravata, circa la necessità della conformità del manufatto oggetto di sanatoria con la disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, con quella vigente al momento della presentazione dell’istanza e con quella al tempo dell’adozione del provvedimento.
Non condivisibile, è invece, la conclusione raggiunta dall’appellante circa il soddisfacimento della regola in esame da parte della richiesta dell’interessato. Infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio ha da tempo chiarito che ai sensi dell'art. 13 L. 28.02.1985 n. 47, è legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009; sez. V, 17.09.2012, n. 4914).
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Infine, quanto all’ultima delle censure in esame, incentrata sulla presunta illegittimità dell’ordine di demolizione per difetto di motivazione, appare sufficiente richiamare il consolidato orientamento di questo Consiglio in merito alla natura vincolata dell’ordine di demolizione: “L’attività sanzionatoria della P.A. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni , non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto. Pertanto , il giudice può verificare la correttezza di tale attività accertativa svolta dalla P.A., non diversamente da quanto avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici condotti dalla P.A. in altri contesti” (Cons. St., Sez. IV, 17.05.2010, n. 3126), per escludere la sussistenza del supposto vizio motivazionale atteso che: “L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. St., Sez. V, 11.01.2011, n. 79).
Del resto, un eventuale affidamento a favore dell’amministrato potrebbe solo sorgere all’indomani della conoscenza che l’amministrazione abbia dell’esistenza del manufatto, rispetto alla quale mantenga una colpevole inerzia e non come nel caso di specie dove l’intervento repressivo è stato disposto dopo pochi giorni il diniego di sanatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5523 del 2012; VI, n. 7129 del 2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio della cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la stessa, poiché introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.
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Nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati, rendendo pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria specificamente destinata all’esame di questioni che necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie.
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, è pur vero che il principio della cd. “doppia conformità” ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite “sanatoria giurisprudenziale”, e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza.
Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Alla luce di tali argomenti, è altresì evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale.
Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126).
Peraltro, giova osservare che l’art. 36 del d.P.R. 06.06.20012, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, norma attualmente vigente sul medesimo tema, e non innovativa rispetto alla norma anteriormente vigente (l’art. 13 1. n. 47 del 1985), e che disciplina l’accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente, recita: “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire…il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda” (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, parere 24.06.2011, n. 4162/2009; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Pertanto, è la stessa norma, che come si ribadisce non ha carattere innovativo, trattandosi di norma raccolta nel predetto T.U. ai fini del coordinamento normativo ex art. 7 Legge 08.03.1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998 – Bassanini Quater), che attualmente conferma l’insussistenza dell’istituto sopra sunteggiato, denominato “sanatoria giurisprudenziale”.
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria.
Nel caso di specie (come si evince dalla relazione depositata dal comune intimato in primo grado) risulta che le opere in assenza di concessione, ovvero la sopraelevazione di porzione di edificio fino a mt. 9.50, sono state realizzate nell’agosto 1999 mentre era vigente l’art. 33.3.4. delle N.T.A del P.R.G. che permetteva un’altezza massima di mt. 8.50; solo al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria il suddetto articolo, nel frattempo modificato, autorizzava un’altezza massima di mt. 10.50, così consentendo tale intervento, non però anche l’eventuale sanatoria, che richiedeva la doppia conformità e che è stata dunque legittimamente negata, mancando la conformità originaria dell’opera.
Anche la censura d’appello relativa all’illegittimità del diniego di sanatoria per omessa acquisizione del parere della commissione edilizia è infondata, atteso che, come detto, nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28.02.1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 12.02.2010, n. 772), rendendo pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria specificamente destinata all’esame di questioni che necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2013 n. 3220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2013

EDILIZIA PRIVATANon è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce agli interventi “realizzati” in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso), relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
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Le opere di sistemazione esterna strumentali ad un edificio principale abusivo ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono, sicché –attesa la loro unitarietà funzionale, attestata anche dalla presentazione di un’unica istanza di sanatoria– non sono autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio principale, difetta il requisito della doppia conformità.
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L'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso.
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La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità condiziona al più l’efficacia della precedente ordinanza di demolizione, ma non può giammai -per il principio tempus regit actum- costituire parametro della sua legittimità (viepiù se non impugnata, come nel caso di specie), sicché l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione l’ordine di demolizione non appena abbia rigettato tale domanda.
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente.
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.

Quanto al primo motivo si osserva che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale il collegio non vede motivo per discostarsi, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex art. 13 L. n. 47 del 1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce agli interventi “realizzati” in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso), relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Cass. Pen., III, 14.06.2007, n. 23129).
Quanto all’estensione del diniego impugnato anche ad opere (percorso di accesso, cancello, recinzione, muri di fascia e scavo per la piscina) che non fanno volume né superficie, è dirimente il rilievo che le opere di sistemazione esterna strumentali ad un edificio principale abusivo ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono (in tal senso cfr. TAR Toscana, III, 12.06.2012, n. 1124; id., 11.01.2012, n. 25), sicché –attesa la loro unitarietà funzionale, attestata anche dalla presentazione di un’unica istanza di sanatoria– non sono autonomamente sanabili se, rispetto all’edificio principale, difetta il requisito della doppia conformità.
Quanto al secondo motivo, è sufficiente richiamare il costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale l'obbligo di esame ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990 delle memorie procedimentali presentate dal privato non impone un'analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalle parti stesse, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso (cfr., per tutte, Cons. di St., VI, 11.3.2010, n. 1439).
Il ricorso per motivi aggiunti è invece inammissibile per difetto di interesse, attesa l’inoppugnabilità della precedente provvedimento di ingiunzione della demolizione delle medesime opere abusive 04.05.2007, n. 50 prot. 20907, espressamente richiamata nel preambolo dell’atto impugnato.
Difatti, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità condiziona al più l’efficacia della precedente ordinanza di demolizione, ma non può giammai -per il principio tempus regit actum- costituire parametro della sua legittimità (viepiù se non impugnata, come nel caso di specie), sicché l'amministrazione è tenuta a mandare ad esecuzione l’ordine di demolizione non appena abbia rigettato tale domanda (così TAR Lazio, I, 09.07.2012, n. 6197; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1084).
Più precisamente, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, nel senso che questa è soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente (cfr., tra le tante, TAR Campania, II Sezione, 04.02.2005, n. 816 e 13.07.2004, n. 10128).
Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di sanatoria, l’ordine di demolizione viene inevitabilmente meno per il venir meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda.
In caso di rigetto, invece, il provvedimento sanzionatorio a suo tempo adottato riacquista la sua efficacia –che non era definitivamente cessata ma solo sospesa in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale– con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (così TAR Campania-Napoli, II, 02.03.2010, n. 1259; TAR Liguria, I, 05.02.2011, n. 226) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia e urbanistica - Calamità pubbliche e protezione civile - Norme della Regione Toscana - Opere edilizie realizzate nei comuni già classificati sismici, in assenza dell'autorizzazione o dell'attestato di avvenuto deposito - Possibilità di ottenere l'accertamento di conformità in sanatoria - Disciplina dei requisiti - Principio statale della doppia conformità, finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità - Inosservanza - Violazione della competenza legislativa statale nella materia concorrente della protezione civile - Illegittimità costituzionale.
E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., l'art. 5, commi 1, 2 e 3 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4, che consente la possibilità di ottenere l'accertamento di conformità in sanatoria per le opere edilizie realizzate nei comuni già classificati sismici, in assenza dell'autorizzazione o dell'attestato di avvenuto deposito, che risultano conformi alla normativa tecnico-sismica vigente soltanto al momento della loro realizzazione ovvero al momento dell'inizio dei lavori.
Infatti, ciò contrasta con il principio statale della doppia conformità di cui all'art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001, finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità e, pertanto, viola la competenza legislativa statale nella materia concorrente della protezione civile.
   - Sulla problematica in argomento si vedano le sentenze nn. 182/2006, 201/2012, e con particolare riferimento alla questione dell'illegittimità di deroghe regionali, le sentenze nn. 64/2013, 254/2010 e 248/2009.
   - Sulla necessità che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all'epoca di esecuzione degli abusi, si veda Consiglio di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657; sezione IV, 02.11.2009, n. 6784; sezione V, 29.05.2006, n. 3267; sezione IV, 26.04.2006, n. 2306.
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Edilizia e urbanistica - Calamità pubbliche e protezione civile - Norme della Regione Toscana - Procedimento per accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità - Disposizioni in stretta correlazione con quelle già dichiarate incostituzionali - Illegittimità costituzionale.
Testo
Sono costituzionalmente illegittime, in violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., le norme di cui all'art. 6 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4, che regolamentano il procedimento per l'accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e in quelle a bassa sismicità, in quanto non si tratta di norme tecniche di costruzione, bensì di disposizioni in stretta correlazione con quelle già dichiarate incostituzionali. Infatti, la Corte costituzionale ha già avuto modo di stabilire che le norme sismiche dettano una disciplina unitaria a tutela dell'incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale.
   - Si veda la sentenza n. 182/2006, confermata dalle sentenze nn. 201/2012 e 254/2010.
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Edilizia e urbanistica - Calamità pubbliche e protezione civile - Norme della Regione Toscana - Salvezza delle disposizioni contenute nel nuovo testo della legge regionale n. 1 del 2005, per il governo del territorio - Conseguente separazione e autonomia dell'accertamento di conformità relativo alle norme sismiche dal generale accertamento di conformità relativo alle norme edilizie e urbanistiche - Contrasto con il principio fondamentale della doppia conformità - Violazione della competenza legislativa statale nella materia concorrente della protezione civile - Illegittimità costituzionale.
E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., l'art. 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4, che, facendo salva l'applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo testo dell'art. 118 della legge regionale n. 1 del 2005, sancisce la separazione e l'autonomia dell'accertamento di conformità relativo alle norme sismiche dal generale accertamento di conformità relativo alle norme edilizie ed urbanistiche, garantendo l'effetto voluto dalla Regione con la normativa impugnata, ma che risulta lesivo del principio fondamentale della doppia conformità e quindi viola la competenza legislativa statale nella materia concorrente della protezione civile (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 101).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio della sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 presuppone la "doppia conformità" anche per il rispetto delle norme tecniche previste per le zone sismiche.
Va dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico»).
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Il principio della doppia conformità è previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende respinta.»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca di esecuzione degli abusi.
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.
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In particolare, il capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche». Il termine «particolari» indica evidentemente che si tratta di prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come è confermato dall’inserimento del citato capo IV nell’ambito della Parte II dello stesso testo unico, dedicata alla «Normativa tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche sono parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e non ne sono separate o autonome, come invece sostiene la Regione Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di principio e financo da quelle regionali, traspare evidente il necessario collegamento tra i vari accertamenti concernenti il rispetto delle normative di settore e il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata dalla dichiarazione del progettista che asseveri la conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di settore, tra le quali la disposizione statale, significativamente, richiama «in particolare» le «norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto, collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio attività, esclude che l’autocertificazione consentita in tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della «normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha ritenuto illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con un semplice preavviso.
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
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L’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità.
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Quanto alla ratio del principio statale sul quale si fonda la previsione della sanatoria di cui all’art. 36 dpr 380/2001, deve osservarsi che il requisito della doppia conformità risulta strettamente correlato alla natura della violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve essere di tipo «puramente formale».
Questa Corte ha ritenuto che tale intento è «palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
La Corte ha anche affermato che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale».

3.— Nel merito, la questione è fondata.
Al fine di individuare la materia nella quale rientrano le disposizioni impugnate, è opportuno premettere che l’accertamento di conformità in sanatoria per le opere edilizie è stato previsto, per la prima volta, dall’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), e successivamente è stato recepito dalla più recente e completa regolazione prevista dal testo unico approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 che, all’art. 1, comma 1, qualifica le norme in esso contenute come «principi fondamentali e generali […] per la disciplina dell’attività edilizia».
In particolare, si osserva che le norme censurate intervengono nell’ambito della disciplina delle costruzioni nelle zone sismiche, dettando specifiche disposizioni ai fini del conseguimento del suddetto accertamento di conformità nei casi di interventi edilizi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, o in corso di realizzazione in tali zone.
Questa Corte si è, in più occasioni, pronunciata con riguardo alla legittimità di disposizioni regionali intervenute nella disciplina delle costruzioni nelle zone sismiche, valutandone la coerenza con le norme statali di principio contenute nel richiamato testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001. Nella sentenza n. 182 del 2006, la Corte ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., una disposizione della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005 in considerazione del mancato rispetto, sotto un diverso profilo, di una norma statale di principio prevista dall’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001 sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non stabiliva che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione. La disposizione regionale prevedeva, infatti, il semplice preavviso alla struttura regionale competente, senza richiedere la predetta autorizzazione.
Più in generale, in questa pronuncia la Corte ha affermato che «l’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
Inoltre, con sentenza n. 201 del 2012, è stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione della legge della Regione Molise 09.09.2011, n. 25 (Procedure per l’autorizzazione sismica degli interventi edilizi e la relativa vigilanza, nonché per la prevenzione del rischio sismico mediante la pianificazione urbanistica), che, disciplinando le procedure per l’autorizzazione sismica per gli interventi edilizi, prevedeva, in caso di modifica architettonica che comportasse un aumento dei carichi superiore al 20%, l’obbligo di redazione di una variante progettuale da depositare preventivamente, mentre per le modifiche inferiori a questo limite si richiedeva il deposito della sola verifica strutturale nell’ambito della direzione dei lavori. Questa Corte ha ritenuto che la norma regionale violasse il principio di cui all’art. 88 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Anche in questo caso la Corte ha ribadito che «la normativa regionale impugnata, occupandosi degli interventi edilizi in zone sismiche e della relativa vigilanza, rientra nella materia della protezione civile, oggetto di competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.».
Tale inquadramento, recentemente ribadito nella sentenza n. 64 del 2013, era peraltro già stato affermato nelle sentenze n. 254 del 2010 e n. 248 del 2009, in riferimento alla illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale per l’edilizia in zone sismiche, ed in relazione al titolo competenziale di tale normativa: la Corte ha ritenuto che essa rientri nell’ambito del governo del territorio, nonché nella materia della protezione civile, per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del 2010).
Di conseguenza, nel contesto legislativo e giurisprudenziale, ora sinteticamente richiamato, deve ritenersi che le norme impugnate nel presente giudizio –che riguardano la disciplina dei requisiti per ottenere l’accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi edilizi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, il relativo procedimento, ed il collegamento di tali disposizioni con la procedura di accertamento di conformità in sanatoria per le opere edilizie di cui all’art. 140 della legge regionale n. 1 del 2005– rientrano anch’esse nelle materie relative al governo del territorio e, per i profili indicati, alla protezione civile, e non costituiscono norme tecniche che esulano da tali ambiti.
4.— Il principio della doppia conformità, invocato dal Presidente del Consiglio dei ministri, è previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che così recita: «1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende respinta.
»
Come è evidente dal contenuto letterale della norma, tale principio risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.
Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca di esecuzione degli abusi (pronunce del Consiglio di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657; sezione IV, 02.11.2009, n. 6784; sezione V, 29.05.2006, n. 3267; sezione IV, 26.04.2006, n. 2306).
In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione –in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono– è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità (citata pronuncia del Consiglio di Stato, sezione IV, 21.12.2012, n. 6657).
Ora, risulta pacifico, anche dalle argomentazioni della Regione Toscana, che le disposizioni di cui all’art. 5 della legge regionale impugnata non rispettano il principio di doppia conformità, inteso nel senso sopra descritto, ma prevedono tre distinte ipotesi di contrasto con le norme sismiche di opere già realizzate, ovvero in corso di realizzazione, senza richiedere che la sostanziale conformità alle medesime norme sussista sia nel momento della realizzazione che in quello di presentazione dell’istanza per ottenere la sanatoria. Discostandosi nettamente da tale principio, il comma 3 dell’art. 5 consente persino la regolarizzazione di opere realizzate o in corso di realizzazione, mediante la presentazione di un «progetto di adeguamento conforme alla normativa tecnica vigente al momento di presentazione della stessa».
La Regione Toscana giustifica il mancato rispetto del principio della doppia conformità edilizia ed urbanistica nelle norme impugnate con una serie di argomentazioni fondate sul presupposto interpretativo secondo il quale tale principio non possa applicarsi alla disciplina antisismica, che per sua natura rientrerebbe nelle norme tecniche di costruzione.
Peraltro, dall’esame del quadro normativo di riferimento nel quale si inseriscono le norme censurate, tale presupposto interpretativo risulta errato.
In primo luogo, la Regione afferma che l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 è collocato nella parte I (Attività edilizia), titolo IV (Vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, responsabilità e sanzioni), capo II (Sanzioni), mentre la disciplina per le costruzioni nelle zone sismiche è contenuta nella parte II (Normativa tecnica per l’edilizia), capo IV (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche) del medesimo decreto recante il testo unico dell’edilizia. Da tale collocazione la Regione desume un argomento a favore dell’autonomia della verifica dell’osservanza delle norme sismiche rispetto a quella richiesta dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che si riferisce alla normativa urbanistica ed edilizia, nella quale non rientrerebbe la disciplina delle costruzioni in zone sismiche.
Questa ricostruzione non è condivisibile, dal momento che risulta contraddetta dalla stessa lettura sistematica delle norme richiamate.
In particolare, il capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, reca il titolo «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche». Il termine «particolari» indica evidentemente che si tratta di prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come è confermato dall’inserimento del citato capo IV nell’ambito della Parte II dello stesso testo unico, dedicata alla «Normativa tecnica per l’edilizia».
Pertanto, le «particolari prescrizioni» antisismiche sono parte della normativa tecnica generale sull’edilizia e non ne sono separate o autonome, come invece sostiene la Regione Toscana.
In secondo luogo, dall’esame delle norme statali di principio e financo da quelle regionali, traspare evidente il necessario collegamento tra i vari accertamenti concernenti il rispetto delle normative di settore e il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria di cui all’art. 36 del testo unico. In riferimento alle prime, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, prevede che la relativa domanda sia accompagnata dalla dichiarazione del progettista che asseveri la conformità del progetto oltre che agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, anche alle altre normative di settore, tra le quali la disposizione statale, significativamente, richiama «in particolare» le «norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie».
Parimenti, l’art. 23, comma 1-bis, dello stesso decreto, collocato nel capo III, concernente la denuncia di inizio attività, esclude che l’autocertificazione consentita in tali casi possa estendersi al rispetto, tra le altre, della «normativa antisismica». Inoltre, l’art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche […] non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione», e questa Corte ha ritenuto illegittima la sostituzione dell’autorizzazione con un semplice preavviso (sentenza n. 182 del 2006).
Se pertanto, nel sistema dei principi delineati dalla normativa statale, sia gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il collegamento tra la verifica del rispetto della normativa per gli interventi in zone sismiche e il procedimento di accertamento di conformità edilizia, disciplinato dall’art. 140 della legge regionale toscana n. 1 del 2005, nel testo in vigore fino all’approvazione delle norme impugnate, è evidente anche nel richiamo, operato dal comma 3 di quest’ultimo articolo, all’art. 83 della stessa legge regionale, al fine di indicare le norme generali sul procedimento ed i requisiti per ottenere il permesso di costruire in sanatoria. In particolare, il comma 4 dell’art. 83 prevede che «la domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati oppure adottati, ai regolamenti edilizi vigenti e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie […]».
Nel medesimo senso, va osservato che l’art. 140, come riconosciuto anche dalla Regione, richiama l’art. 84 della stessa legge regionale n. 1 del 2005, che per le opere soggette a SCIA dispone che la relazione del progettista abilitato asseveri la conformità delle opere a tutte le norme edilizie, e «in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie […]».
Sotto un ulteriore profilo, va rilevato che la pretesa autonomia del procedimento di «accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità» non trova alcun riferimento nella normativa statale di principio contenuta nel testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina esclusivamente l’accertamento di conformità di cui all’art. 36, a sua volta riferito alla sanatoria di «interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa».
4.1.— Deve pertanto ritenersi che l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare, al quale si riferisce il criterio della doppia conformità.
Inoltre, non può essere condivisa l’argomentazione della difesa della Regione, che desume dalle disposizioni contenute negli articoli 98 e 100 del d.P.R. 380 del 2001 un indirizzo legislativo favorevole all’adeguamento alle norme antisismiche, piuttosto che alla sanzione, nei casi di opere edilizie non in regola con tali norme.
In particolare, il richiamato art. 98 prevede che il giudice, con il provvedimento di condanna in sede penale, in alternativa alla demolizione del manufatto, possa impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme sismiche. Al riguardo, si osserva che l’applicazione di tale disposizione, che disciplina una facoltà del giudice penale, presuppone l’accertamento del reato e, quindi, la violazione delle norme sismiche.
Tutt’altra ipotesi si rinviene nella norma impugnata che consente una possibilità di sanatoria delle violazioni delle norme sismiche e che attribuisce al privato interessato una posizione soggettiva tutelata nei confronti dell’amministrazione, al fine di ottenere l’accertamento di conformità.
Parimenti, anche la competenza rimessa alla regione dall’articolo 100 del d.P.R. 380 del 2001, secondo la quale la regione può ordinare «la demolizione delle opere o delle parti di esse eseguite in violazione delle norme del capo I del testo unico e delle norme tecniche di cui agli articoli 52 e 83, ovvero l’esecuzione di modifiche idonee a renderle conformi alle norme stesse», presuppone sempre l’accertamento di un reato, anche se estinto per qualsiasi causa, e pertanto disciplina una fattispecie nettamente distinta da quelle previste dall’articolo 5 impugnato.
4.2.— Infine, quanto alla ratio del principio statale sul quale si fonda la previsione della sanatoria di cui all’art. 36, deve osservarsi che il requisito della doppia conformità risulta strettamente correlato alla natura della violazione edilizia sottostante, che come si è visto deve essere di tipo «puramente formale».
All’opposto, sembra invece evidente che l’interpretazione proposta dalla Regione condurrebbe alla previsione di un vero e proprio condono edilizio, vanificando l’intento perseguito dal legislatore statale con l’adozione delle norme antisismiche. Come si è ricordato, questa Corte ha ritenuto che tale intento è «palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali» (sentenza n. 182 del 2006). La Corte ha anche affermato che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n. 254 del 2010).
5.— Un ulteriore argomento prospettato dalla Regione Toscana si fonda sulla valenza da attribuire alla giurisprudenza della Corte di cassazione, che limita ai soli reati edilizi gli effetti estintivi, a norma dell’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio dell’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 dello stesso decreto, restando punibili i connessi reati previsti dalle norme sismiche. Da questa limitazione, la Regione ricava un argomento aggiuntivo per sostenente l’autonomia delle norme sismiche rispetto a quelle edilizie e, di conseguenza, la riferibilità del principio della doppia conformità alle sole norme edilizie e non anche a quelle sismiche.
In particolare, la Regione afferma che la Corte di cassazione, valutando gli effetti estintivi dei reati che derivano dal rilascio di provvedimenti di sanatoria, ha costantemente affermato che il permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 estingue, a norma dell’art. 45 dello stesso decreto, «i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e non si estende ad altri reati correlati alla tutela di interessi diversi rispetto a quelli che riguardano l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio, quali i reati previsti dalla normativa sulle opere in cemento armato, sulle costruzioni in zone sismiche, sulla tutela delle zone di particolare interesse paesaggistico ed ambientale» (sentenza della Corte di cassazione, 05.03.2009, n. 9922; nello stesso senso, la Regione richiama le sentenze della medesima Corte 09.03.2011, n. 9277, e 23.03.2006, n. 10205).
Anche questa argomentazione non risulta conferente.
Al riguardo, deve innanzitutto rilevarsi che l’oggetto del giudizio penale di accertamento dei vari reati previsti dall’ordinamento a tutela del rispetto delle norme edilizie, urbanistiche, sismiche, igieniche, paesaggistiche ed ambientali, risulta nettamente distinto da quello del presente giudizio.
Nella materia dell’edilizia il legislatore ha previsto che vari comportamenti siano puniti con sanzioni amministrative e penali, a maggior tutela del rispetto delle disposizioni contenute nei diversi settori in cui si articola la medesima materia. In tal senso, nel testo unico contenuto nel d.P.R. n. 380 del 2001, si rinvengono sanzioni penali in caso di comportamenti che vanno dalla lottizzazione abusiva (art. 44) alla violazione di tutte le norme sismiche previste dal capo IV dello stesso decreto (art. 95). Nella sede penale il giudice è pertanto tenuto alla individuazione dei reati sulla base dei principi di stretta legalità e di tipicità, accertando caso per caso la sussistenza dei requisiti richiesti dalle singole fattispecie criminose che il legislatore ha previsto nei vari ambiti suddetti.
In particolare, i reati previsti a tutela della normativa sismica non sono considerati dall’art. 45, del d.P.R. n. 380 del 2001, specificamente dedicato alle «norme relative all’azione penale», che al comma 3 prevede che «il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti».
Come risulta evidente dal suo contenuto letterale, tale disposizione è finalizzata a disciplinare gli effetti estintivi per i soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche, ma non contribuisce in alcun modo a definire il contenuto e la portata delle norme che delineano il principio della doppia conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che presuppone il rispetto delle norme edilizie.
Pertanto, l’oggetto dei giudizi penali definiti dalla richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, e le disposizioni in quei casi applicate, previste dall’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono del tutto estranee all’oggetto del presente giudizio, nel quale rileva l’individuazione dell’area applicativa del principio generale della doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, contenuto nell’ articolo 36 dello stesso decreto e compreso nell’ambito delle materie del governo del territorio e della protezione civile alle quali afferiscono le norme sismiche, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata.
6.— In riferimento al censurato art. 6 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012, la Regione afferma che non potrebbe essere dichiarato illegittimo neppure se si ritenesse fondata la questione relativa all’art. 5, dal momento che esso introduce l’art. 118-bis nella legge regionale n. 1 del 2005, che si limita a regolare il procedimento mediante il quale l’ufficio tecnico regionale procede all’accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità, senza condizionarne l’esito in alcun modo. In questa prospettazione, si sostiene che la neutralità di tale disciplina procedimentale, impedisce di ritenere la consequenzialità dell’illegittimità dell’art. 6 in virtù del semplice richiamo operato dall’art. 5 della legge impugnata.
Anche questa affermazione della Regione contrasta con il contenuto della disposizione impugnata che, in particolare, recita: «1. Dopo l’articolo 118 della L.R. 1/2005 è inserito il seguente: “Art. 118-bis - Procedimento per accertamento di conformità in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche e nelle zone a bassa sismicità.
1. Per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei casi di cui all’articolo 118, commi 1 e 2, la struttura regionale competente rilascia l’autorizzazione in sanatoria entro sessanta giorni dalla trasmissione della relativa istanza.
2. Per le opere realizzate nelle zone a bassa sismicità, nei casi di cui all’articolo 118, commi 1, 2 e 3, la struttura regionale competente rilascia l’attestato di avvenuto deposito in sanatoria nei quindici giorni successivi alla trasmissione della relativa istanza. Il progetto delle opere da sanare è assoggettato alle procedure di cui all’articolo 105-quater, comma 5.
3. Entro sessanta giorni dalla trasmissione della relativa istanza, per le opere realizzate nelle zone sismiche, nei casi di cui all’articolo 118, comma 3, la struttura regionale competente accerta la conformità del progetto di adeguamento alle norme tecniche vigenti e rilascia l’autorizzazione in sanatoria a condizione che siano eseguite le opere di adeguamento ivi previste.
4. Il progetto delle opere di adeguamento di cui all’articolo 118, comma 3, lettera b) è trasmesso anche al comune, per le relative verifiche di conformità urbanistica ed edilizia. Le opere di adeguamento sono eseguite a seguito del rilascio da parte del comune del titolo edilizio in sanatoria di cui all’articolo 140, che ne autorizza l’esecuzione. Il titolo edilizio in sanatoria acquista efficacia a seguito della trasmissione al comune degli atti di cui al comma 5.
5. Al termine dei lavori relativi alle opere di adeguamento, l’interessato inoltra gli atti, di cui all’articolo 109, alla struttura regionale competente, che provvede alla vidimazione e all’inoltro al comune interessato. A tale inoltro al comune, può provvedere direttamente anche l’interessato
».
Come emerge dal loro contenuto letterale, le disposizioni dell’art. 6 si pongono in stretta correlazione con quelle previste dall’art. 5 della legge regionale impugnata, come confermato dai richiami ai commi 1, 2, e 3 del nuovo testo dell’art. 118 della legge regionale n. 1 del 2005, introdotto dallo stesso art. 5.
In particolare, le norme procedimentali di cui all’art. 6 sono direttamente strumentali al rilascio dell’ autorizzazione in sanatoria per gli interventi realizzati nelle zone sismiche secondo le previsioni contenute nel censurato art. 5, e costituiscono il necessario completamento della disciplina del rilascio dell’accertamento di conformità in violazione del principio della doppia conformità. Consegue da questa stretta compenetrazione tra le norme impugnate, l’illegittimità dell’art. 6 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012 per le motivazioni sopra indicate.
7.— Infine, il censurato art. 7, facendo salva l’applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo testo dell’art. 118 della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, sancisce la separazione e l’autonomia dell’accertamento di conformità relativo alle norme sismiche dal generale accertamento di conformità relativo alle norme edilizie ed urbanistiche, garantendo l’effetto voluto dalla Regione con la normativa impugnata, ma che, per le ragioni anzidette, risulta lesivo del richiamato principio fondamentale della doppia conformità.
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 7 della legge della Regione Toscana n. 4 del 2012.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 03.01.2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico») (Corte Costituzionale, sentenza 29.05.2013 n. 101).

aprile 2013

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica, presentata ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura di provvedimento tacito di reiezione della domanda di sanatoria (e, quindi, di silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto), sicché una volta decorso il termine di sessanta giorni (previsto dal citato art. 36) si forma il silenzio-diniego, che è un provvedimento tacito che va impugnato dall’interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua formazione.
Il Collegio –premesso che, notoriamente (alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale consolidato), il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica, presentata ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura di provvedimento tacito di reiezione della domanda di sanatoria (e, quindi, di silenzio-rigetto, e non di silenzio-rifiuto), sicché una volta decorso il termine di sessanta giorni (previsto dal citato art. 36) si forma il silenzio-diniego, che è un provvedimento tacito che va impugnato dall’interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni dalla sua formazione (“ex plurimis”: Consiglio di Stato, IV Sezione, 13.01.2010 n° 100)– ritiene sufficiente rilevare che, nella fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, il ricorrente ha (in sostanza) contestato il provvedimento comunale (tacito) di rigetto dell’istanza di sanatoria quasi un anno dopo la formazione del silenzio diniego, proponendo (in data 14.07.2012) ricorso dinanzi a questo TAR (con “petitum” qualificabile come domanda di annullamento) ben dopo la scadenza del predetto termine di decadenza di sessanta giorni, previsto dagli artt. 29 e 41 del Codice del Processo Amministrativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.04.2013 n. 995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: INAPPLICABILITA' DELLA SANATORIA GIURISPRUDENZIALE O IMPROPRIA AI REATI EDILIZI.
La sanatoria giurisprudenziale o impropria attiene ad un provvedimento giustificabile in relazione ai principi generali inerenti al buon andamento e all’economia dell’azione amministrativa; il tutto in riferimento ad opere che, benché non conformi alle norme urbanistiche/edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui le stesse vennero eseguite, lo siano diventate successivamente per effetto di normative/o disposizioni sopravvenute.
Detto permesso in sanatoria non determina, tuttavia, l’estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45, per carenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.

Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte attiene, all’applicabilità dell’istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale (o impropria) alle opere abusive edilizie, con particolare riferimento all’effetto estintivo che la stessa può o meno esplicare sui reati edilizi.
La vicenda processuale vedeva imputati gli attuali ricorrenti dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 44, 64, 71, 65, 72, 93, 95 e 94 (ossia costruzione di manufatti abusivi con violazione delle prescrizioni in materia di opere in conglomerato cementizio e della normativa antisismica); all’esito del doppio giudizio di merito gli stessi venivano condannati con demolizione delle opere abusive.
Contro la sentenza di condanna gli interessati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in particolare esponendo che non sussisteva la responsabilità penale degli stessi essendo intervenuto il rilascio di valida concessione in sanatoria.
La tesi è stata però respinta dai giudici di legittimità che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno fatto coerente applicazione di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, formatosi ormai da tempo nella giurisprudenza secondo cui non è applicabile la disciplina del condono edilizio né è invocabile la cosiddetta sanatoria ‘‘giurisprudenziale’’ o ‘‘impropria’’ in presenza di una conformità postuma dell’opera, originariamente abusiva, alle norme urbanisticoedilizie ovvero alle previsioni degli strumenti pianificatori, atteso che da ciò non seguirebbe comunque alcun effetto estintivo del reato urbanistico per l’inapplicabilità dell’art. 45 D.P.R. n. 380 del 2001 (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 21.06.2007, n. 24451, in CED Cass., n. 236912) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.04.2013 n. 16769 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato sull'istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 non ha natura di silenzio-inadempimento (cui conseguirebbe l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere), ma di silenzio provvedimentale (avente contenuto tipizzato, di atto tacito di reiezione dell'istanza), con la conseguenza che, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-rigetto, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza formatasi sul punto, il silenzio serbato sull'istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 non ha natura di silenzio-inadempimento (cui conseguirebbe l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere), ma di silenzio provvedimentale (avente contenuto tipizzato, di atto tacito di reiezione dell'istanza), con la conseguenza che, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-rigetto, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 100; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.02.2010, n. 844) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.04.2013 n. 1903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2013

EDILIZIA PRIVATAPer il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è necessaria la c.d. doppia conformità, e cioè che l'intervento sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Né, va precisato, trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell'opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l'opera è stata realizzata; quest'ultimo istituto, infatti, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.

L’Amministrazione, infatti, ha tenuto conto, in linea con quanto disposto dall’art. 140 della L.R. Toscana n. 1/2005 –che riproduce, in parte qua, l'art. 13 della legge n. 47/1985 e l'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001– che per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è necessaria la c.d. doppia conformità, e cioè che l'intervento sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Né, va precisato, secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, pienamente condiviso dal Collegio, in presenza di tale chiaro disposto legislativo, trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell'opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l'opera è stata realizzata; quest'ultimo istituto, infatti, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (cfr., ex multis, TAR Toscana, III, 11.02.2011, n. 263 e riferimenti giurisprudenziali nella stessa contenuti) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.03.2013 n. 497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: SANATORIA EDILIZIA, DOPPIA CONFORMITA' E ATTIVITA' VINCOLATA DELLA P.A..
Al fine del rilascio del provvedimento di sanatoria, ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, è necessario che l’intervento edilizio sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda; ciò si riconnette ad una attività vincolata della p.a., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare il tema della sanatoria edilizia, focalizzando in particolare l’attenzione sulla natura giuridica dell’attività amministrativa sottesa all’esercizio del potere valutativo dell’istanza di sanatoria.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte del GIP di un’istanza di dissequestro avanzata nell’interesse dell’indagato per i reati di abuso d’ufficio e costruzione edilizia abusiva; la misura cautelare aveva per oggetto un immobile in fase di edificazione in proprietà all’indagato medesimo. Il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sull’appello interposto dall’indagato, con ordinanza rigettava il gravame. La difesa proponeva ricorso per cassazione, sostenendo la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e art. 36, per la ritenuta non conformità del permesso di costruire in sanatoria al modello ex art. 36 citato decreto.
La tesi è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno richiamato una consolidata giurisprudenza (v., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 24.03.2011, n. 11960, in CED Cass., n. 249747), peraltro osservando, in relazione al caso in esame, che il provvedimento, lungi dall’asseverare la doppia conformità di un’opera ultimata, e già conforme alle regole urbanistiche ed edilizie, presentava il contenuto tipico di un nuovo titolo abilitativo e si riferiva ad un mutamento della destinazione d’uso, autorizzata con il precedente permesso, mutamento che, tuttavia, risultava già realizzato mediante la edificazione della casa colonica al posto del mero deposito di attrezzi agricoli.
Stante la natura ibrida dell’atto, non inquadrabile in una sanatoria, che presupporrebbe l’assenza di prescrizioni e condizioni (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 12.11.2007, n. 41567, in CED Cass., n. 238020), né un permesso in variante, che dovrebbe precedere e non seguire la realizzazione dell’opera difforme, il giudice di merito ha concluso, correttamente secondo la Cassazione, col ritenere che il provvedimento de quo rappresentasse delle nette dissonanze rispetto all’istituto della sanatoria, sicché lo stesso non poteva essere produttivo di alcun effetto estintivo dell’abuso edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.03.2013 n. 13020 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2013).

gennaio 2013

EDILIZIA PRIVATALA DOPPIA CONFORMITA` QUALIFICA LA ‘‘VERA’’ SANATORIA EDILIZIA.
Per il rilascio della sanatoria ex D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (art. 36) è necessario che l’intervento sia «conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda», ciò connettendosi ad un’attività vincolata della p.a., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Questione ricorrente e, proprio per questo, frutto di tentativi di interpretazione spesso contrario alla ratio normativa, quella oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento, in cui la Corte si sofferma ad analizzare il tema della configurabilità della sanatoria edilizia.
La vicenda processuale vedeva imputati due soggetti per avere realizzato, in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza del prescritto permesso di costruire, le strutture in legno di uno stabilimento balneare; la Corte aveva escluso la ‘‘precarietà’’ dei manufatti e, per quanto qui di interesse, aveva affermato che il reato non poteva ritenersi estinto in seguito all’avvenuto rilascio, da parte del Comune, di permesso di costruire, non potendo assimilarsi tale titolo edilizio a quello previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso il difensore degli imputati, il quale -per quanto qui di interesse- eccepiva l’erroneo disconoscimento di efficacia sanante al permesso di costruire rilasciato dal Comune, in quanto era pacifica la ‘‘doppia conformità’’ delle opere agli strumenti urbanistici vigenti, sia all’epoca della loro realizzazione sia a quella di rilascio del provvedimento, secondo le previsioni del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.
La Corte, nel respingere il ricorso, coglie l’occasione per precisare le condizioni ed i requisiti in base ai quali può considerarsi ‘‘sanante’’ il rilascio del permesso di costruire agli effetti dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
In particolare, osserva la Corte, nella fattispecie in esame, il provvedimento rilasciato dal Comune:
a) non conteneva alcun riferimento all’indispensabile verifica di ‘‘doppia conformità’’ alle previsioni di piano;
b) non recava la menzione espressa dell’avvenuto versamento della somma di danaro dovuta a titolo di oblazione (che neppure risulta determinata e richiesta).
Da qui, dunque, la conclusione che il titolo edilizio rilasciato dal Comune non comportava l’estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (art. 45), difettandone i presupposti (in precedenza, sulla possibilità per il giudice, in tali casi, di disapplicare la concessione illegittima ex art. 5 della L. 20.03.1865 n. 2248, all. E): Cass. pen., sez. III, 20.05.2005, n. 19236, in Ced Cass., n. 231834) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2013 n. 4131 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di conformità), comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto, con conseguente onere impugnatorio immediato da parte del soggetto richiedente del diniego tacito in tal modo formatosi sulla sua istanza.
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L'accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 investe profili distinti ed autonomi rispetto all'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004. Cosicché le vicende concernenti il primo procedimento non sono da reputarsi suscettibili di incidere sull'iter corrispondente al secondo.

L’art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001 (accertamento di conformità), comma 3, stabilisce che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Pertanto, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza, e quindi è un silenzio-significativo e non un silenzio-rifiuto (Cons. St., sez. IV, 13.01.2010, n. 100), con conseguente onere impugnatorio immediato da parte del soggetto richiedente del diniego tacito in tal modo formatosi sulla sua istanza.
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In particolare, la giurisprudenza ha precisato che “L'accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 investe profili distinti ed autonomi rispetto all'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004. Cosicché le vicende concernenti il primo procedimento non sono da reputarsi suscettibili di incidere sull'iter corrispondente al secondo” (Tar Napoli, sez. VIII, 01.09.2011, n. 4270) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Anzio - Parere in merito all'applicabilità dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 ad abusi conformi alla legge regionale 21/2009 c.d. Piano Casa (Regione Lazio, parere 18.01.2013 n. 488227 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le modifiche della disciplina urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più generale principio dell’irretroattività degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto.
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Il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301, laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
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In presenza del requisito c.d. “doppia conformità” il rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di diniego.
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa sufficiente la sussistenza della conformità edilizia all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano, e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione, che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo, contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità e che –per l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al secondo.
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L. 28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13 della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto l’immediato profilo letterale divergono da quello dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è, il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.

Nel caso di specie va in effetti evidenziato che la variante allo strumento urbanistico primario comunale, ancorché approvata mediante deliberazione della Giunta Regionale, non reca alcuna espressa disciplina di rimozione della deliberazione della medesima Giunta Regionale qui impugnata, la quale dunque seguita a dispiegare effetto per il passato; e, del resto, risulta pure assodato che le modifiche della disciplina urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più generale principio dell’irretroattività degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, 26.11.2001 n. 5949).
Né, comunque, la disciplina introdotta dalla variante urbanistica è tale da consentire la convalida dell’anzidetto piano di lottizzazione, se non altro in considerazione della circostanza che con la variante medesima vengono introdotte ben più elevate dotazioni di aree a standard.
Va anche soggiunto che il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301, laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
A ragione il giudice di primo grado, pertanto, ha evidenziato che in presenza dei requisiti testé descritti (c.d. “doppia conformità”) il rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di diniego (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 02.11.2009 n. 6784).
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa sufficiente la sussistenza della conformità edilizia all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano, e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione, che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo, contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità e che –per l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al secondo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 21.10.2003 n. 6498 e 13.02.1995 n. 238).
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L. 28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13 della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto l’immediato profilo letterale divergono da quello dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è, il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.
Concludendo sul punto, il TAR ha pertanto a ragione ricusato di dichiarare nella specie la cessazione della materia del contendere, in quanto l’operato dell’Amministrazione susseguente alla proposizione della causa non si configura integralmente satisfattivo dell’interesse azionato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5595)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria - Limiti - C.d. sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria" - Estinzione del reato urbanistico - Esclusione - Artt. 3, 36, 44 lett. c), 45 Dpr n. 380/2001.
In materia urbanistica, non è sanabile l'opera che non sia "conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda" ex art. 36 del Dpr n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 111149 del 15/02/2002, Rossi).
Né appare invocabile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale", secondo cui sarebbe ammissibile la sanatoria di opere che, benché non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui siano state eseguite, lo siano diventate successivamente. L'orientamento che riconosce tale possibilità di sanatoria (c.d. "giurisprudenziale" o "impropria") si basa essenzialmente sull'argomento secondo cui non avrebbe senso dare corso alla demolizione di un'opera che subito dopo potrebbe essere assentita.
In nessun caso, tuttavia, tale tipo di sanatoria può comportare l'estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il disposto di cui all'art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, P.G. in proc. Micolucci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento maggioritario che esclude la regola pretoria della "sanatoria giurisprudenziale".
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione del canone della doppia conformità militano argomenti interpretativi sia di carattere letterale che logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell'opera abusiva "sia" al momento della sua realizzazione "sia" al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con l'espressione "sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto dell'accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo abilitativo. Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti temporali, condono mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa condonistica.
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile né di applicazione analogica né di un'interpretazione riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe sufficiente la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda.
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Non appare condivisibile l'argomento secondo il quale bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per tutti quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere condiviso quell'orientamento della giurisprudenza secondo il quale il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei cosiddetti abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio vigente sia al momento dell'istanza di sanatoria, che all'epoca della loro realizzazione.

Il Collegio ritiene di non aderire alla tesi sostenuta dal’Amministrazione resistente e dal controinteressato, sebbene pregevolmente argomentata e supportata da un autorevole orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.02.2003, n. 592; Cons. Stato, VI, 12.11.2008, n. 5646; Cons. Stato, VI, 07.05.2009, n. 2835), e di condividere, invece, l’orientamento maggioritario che esclude la regola pretoria della "sanatoria giurisprudenziale" (cfr. Cons. Stato, IV, 26.04.2006, n. 2306; Cons. Stato, 17.09.2007, n. 4838; Cons. Stato, V, 25.02.2009, n. 1126; Cons. Stato, IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Veneto, II, 22.11.2010, n. 6091; TAR Sicilia, Catania, I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, VIII, 10.09.2010, n. 17398).
E, infatti, nel senso di una rigorosa applicazione del canone della doppia conformità militano argomenti interpretativi sia di carattere letterale che logico-sistematico.
L'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 espressamente stabilisce che, "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire , o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda".
Il tenore letterale della norma è inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell'opera abusiva "sia" al momento della sua realizzazione "sia" al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Orbene, a fronte di siffatto dettato normativo, non appare condivisibile l'approccio ermeneutico elaborato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2835/2009 secondo il quale il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano il diritto di edificare sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
E, infatti, una simile interpretazione abroga l'inciso "sia al momento della realizzazione dello stesso" (e cioè dell'immobile abusivo), mentre il legislatore, con l'espressione "sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", ha inteso chiaramente individuare l'intero arco temporale lungo il quale si è protratto l'abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo.
Il Collegio evidenzia inoltre che l'istituto dell'accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, cioè di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi solo il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Tale interpretazione è vieppiù rafforzata dalla considerazione che alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato il diverso istituto del condono edilizio nei limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Tanto premesso, se si accedesse alla tesi prospettata dall’Amministrazione resistente e dal controinteressati, ne conseguirebbe l'introduzione nell'ordinamento di una sorta di condono atipico, affrancato dai richiamati limiti temporali, condono mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un'apposita disciplina legislativa condonistica (cfr. in termini TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.9.2010, n. 17398).
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ritiene, quindi, che l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto norma circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile né di applicazione analogica né di un'interpretazione riduttiva, secondo la quale, in evidente contrasto col suo tenore letterale, per assentire la sanatoria sarebbe sufficiente la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui sia proposta l'istanza di accertamento. A contrario, stante l'evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; Cons. Stato, sez. IV, 02.11.2009, n. 6784).
Né, infine, appare condivisibile l'argomento secondo il quale bisognerebbe accogliere l'istanza di sanatoria per tutti quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, al fine di evitare uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione sia del privato.
Ad avviso del Collegio, infatti, merita di essere condiviso quell'orientamento della giurisprudenza secondo il quale il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei cosiddetti abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio vigente sia al momento dell'istanza di sanatoria, che all'epoca della loro realizzazione (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale, in sede di esame dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di una sua espressa previsione normativa e la specialità del procedimento di sanatoria edilizia.
Infine, non è meritevole di accoglimento l’ultimo motivo, in quanto, secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dalla Sezione (TAR Campania VIII Sezione 10.09.2010 n. 17398), l'acquisizione del parere della commissione edilizia comunale, in sede di esame dell'istanza di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, è da reputarsi facoltativa, considerata la mancanza di una sua espressa previsione normativa e la specialità del procedimento di sanatoria edilizia (Consiglio di Stato Sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 16.07.2003, n. 8434; Tar Campania Sezione II, 30.10.2006, n. 9243; TAR Campania Sezione VII, 21.05.2007, n. 5489; TAR Campania 05.12.2008, n. 21230; TAR Campania Sezione VI, 22.04.2009, n. 2097; TAR Campania Sezione VII, 03.11.2009, n. 6809) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.11.2012 n. 4698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento di conformità regolato dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è diretto a sanare opere formalmente abusive perché eseguite senza il richiesto titolo ma conformi, nella sostanza, alla disciplina edilizio-urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente sia al momento della realizzazione che a quello della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali.

Va preliminarmente osservato che l’accertamento di conformità regolato dall’articolo 36 del d.P.R. 380/2001 è diretto a sanare opere formalmente abusive perché eseguite senza il richiesto titolo ma conformi, nella sostanza, alla disciplina edilizio-urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente sia al momento della realizzazione che a quello della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
Il comune è chiamato a svolgere una valutazione da rapportare ad un assetto di interessi prefigurato dalla citata disciplina, dal che deriva che l’accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva pertanto di appezzamenti discrezionali (Tar Puglia, Bari, III, 26.01.2012, n. 246; Tar Campania, Napoli, II, 11.01.2012, n. 55) (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.10.2012 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non condivide l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd. sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.

Il Collegio non condivide l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd. sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria, come recentemente rilevato dal Consiglio di Stato (Sez. V, 06.07.2012, n. 3961) <<ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo>>.
Tuttavia, sempre secondo il Supremo Consesso, <<l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità>> (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine alla natura giuridica del silenzio maturato sulla richiesta di cui all'art. 36 cit., benché sia stato avanzato in giurisprudenza un indirizzo per lo più minoritario secondo cui la configurabilità nella specie di un diniego tacito con valore significativo contrasterebbe con i principi di trasparenza, chiarezza e leale collaborazione tra amministrazione e privato, questo Collegio ritiene di aderire all'orientamento ormai prevalente in giurisprudenza che attribuisce alla fattispecie di silenzio in esame una valenza provvedimentale con significato legale tipico di diniego.
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse.
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Il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula indubbiamente l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale.

Va premesso, in ordine alla natura giuridica del silenzio maturato sulla richiesta di cui all'art. 36 cit., che, benché sia stato avanzato in giurisprudenza un indirizzo per lo più minoritario secondo cui la configurabilità nella specie di un diniego tacito con valore significativo contrasterebbe con i principi di trasparenza, chiarezza e leale collaborazione tra amministrazione e privato (Tar Lazio Roma sez. III-bis n. 8/2008), questo Collegio ritiene di aderire all'orientamento ormai prevalente in giurisprudenza che attribuisce alla fattispecie di silenzio in esame una valenza provvedimentale con significato legale tipico di diniego (cfr C.d.S. sez. IV 03.03.2006 n. 1037; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 13.12.2011, n. 5797; Tar Piemonte, Torino 08.03.2006 n. 1173; Tar Campania, Salerno, sez. II 13.01.2005 n. 18).
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse (cfr. Cons. Stato, V, 06.09.1999, n. 1015; C.d.S. sez. V, 11.02.2003 n. 401; C.G.A.R.S. 21.03.2001, n. 142).
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Nella specie, il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula indubbiamente l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr Tar Campania Napoli sez. VI, 05.05.2005 n. 5484)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.08.2012 n. 1614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale presupposto per il rilascio del titolo in sanatoria, la conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” è da ritenersi indubbiamente ricompresa anche la disciplina urbanistica solo adottata, le cui disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art. 12, d.P.R. n. 380/2001.

L’art. 36, d.P.R. n. 380/2001 prevede, quale presupposto per il rilascio del titolo in sanatoria, la conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Nel concetto di “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” è da ritenersi indubbiamente ricompresa anche la disciplina urbanistica solo adottata, le cui disposizioni sono vigenti ai sensi dell’art. 12, d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.07.2012 n. 2157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinamento conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso non si condivide l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.

Peraltro, occorre ricordare che l’ordinamento conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso non solo non si condivide l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa, ma si rileva che essa non è neppure applicabile nel caso di specie.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Nella materia oggetto del contendere, il punto di equilibrio fra efficienza e legalità è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell'attività edificatoria, e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3961 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola pretoria della sanatoria giurisprudenziale, in base alla quale il beneficio può essere concesso anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento divenuto permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento.
Difatti, predicarne l'operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli artt. 24, 97, 101 e 113 Cost. oltre che dall'art. 1, primo comma, della L. 241/1990 (secondo cui "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.

Deve essere confutato il presupposto logico–giuridico sul quale si fonda il ragionamento del ricorrente secondo cui, come si è visto, sarebbe sufficiente la conformità agli strumenti urbanistici vigenti al momento della presentazione dell’istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 anche se non al tempo della realizzazione del bene (c.d. “sanatoria giurisprudenziale”).
Invero, come già statuito dalla Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.09.2010 n. 17398), la regola pretoria della sanatoria giurisprudenziale, in base alla quale il beneficio può essere concesso anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento divenuto permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento.
Difatti, predicarne l'operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli artt. 24, 97, 101 e 113 Cost. oltre che dall'art. 1, primo comma, della L. 241/1990 (secondo cui "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio, ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale.
In ogni caso il sindacato del giudice amministrativo sul diniego implicito presuppone che sia assolto da parte del ricorrente l'onere di provare la illegittimità del rifiuto ossia la fondatezza della sua pretesa sostanziale al rilascio di un provvedimento a lui favorevole

Per quanto concerne l’inquadramento del provvedimento di diniego tacito ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 concretizzatosi per effetto del decorso del termine di sessanta giorni, l’orientamento giurisprudenziale prevalente, da cui questo Collegio non ha motivo di discostarsi (ex multis, TAR Campania, Napoli sez. VIII 13.12.2011 n. 5797), ritiene che nella formulazione di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni (C.d.S. sez. IV 3.03.2006 n. 1037l; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; TAR Piemonte, Torino 08.03.2006 n. 1173; TAR Campania, Salerno, sez. II 13.01.2005 n. 18).
Una volta riconosciuto il valore di provvedimento amministrativo al silenzio di cui all'art. 36 cit. e la natura impugnatoria del presente giudizio, va precisato che nella specie, il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio, ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr. TAR Campania Napoli questa stessa sezione, 05.05.2005 n. 5484).
In ogni caso il sindacato del giudice amministrativo sul diniego implicito presuppone che sia assolto da parte del ricorrente l'onere di provare la illegittimità del rifiuto ossia la fondatezza della sua pretesa sostanziale al rilascio di un provvedimento a lui favorevole
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi: a) Argomento letterale; b) Argomento storico; c) Argomento logico-sistematico; d) Argomento teleologico.
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Predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando – come detto – gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

Innanzitutto, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara, 11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, recepita nell’art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno, sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nella sentenza n. 17398 del 10.09.2010.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
La regola in parola sarebbe, dunque, enucleata “contro l'inerzia dell'amministrazione”, e starebbe a indicare “che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria” (Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6498).
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità. Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli dell’osservanza sostanziale delle disposizioni generali e locali in materia di uso del territorio) (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.06.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, riveniente dagli artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”), sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, riveniente dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di imparzialità”), in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, rivenienti dall’art. 97 Cost., oltre che dall’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 (secondo cui “l’attività amministrativa è retta da criteri … di efficacia”), in quanto, premiando – come detto – gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, rivenienti, rispettivamente, dall’ordinamento comunitario e dagli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale quest’ultimo è stato enucleato e commisurato dal legislatore.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la regola della ‘sanatoria giurisprudenziale’, recepita nell’art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno, risulta porsi in rapporto di antinomia col canone della doppia conformità, del quale si è dianzi predicata l’immanenza all’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001.
La disposizione regolamentare di cui al citato art. 31 delle n.t.a. del p.u.c. di Villa Literno (sulla valenza regolamentare degli strumenti di pianificazione urbanistica, nella parte incidente in via generale e astratta sul governo del territorio, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 08.09.2009, n. 5258; sez. IV, 28.03.2011, n. 1868; sez. VI, 30.06.2011, n. 3888; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 10.11.2008, n. 2439; TAR Marche, Ancona, 03.06.2009, n. 458; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 17.06.2009, n. 186; TAR Liguria, Genova, sez. I, 20.07.2011, n. 1148) va, pertanto, disapplicata dall’adito giudice amministrativo, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nonché in omaggio al principio di gerarchia delle fonti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.01.1992, n. 154; sez. VI, 29.04.2005, n. 2034; 02.03.2009, n. 1169; sez. IV, 16.02.2012, n. 812, secondo si tratterebbe non già di una disapplicazione in senso proprio, bensì “del risultato conseguente alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto, in naturale applicazione dei principi che regolano i rapporti tra le fonti del diritto”), in quanto contrastante con la previsione di rango legislativo di cui all’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.05.2012 n. 2369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANonostante alcune oscillazioni giurisprudenziali riscontratesi sul punto in vigenza dell’art. 13 della legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha recepito “in toto” la precedente formulazione, pienamente ribadendo il principio della “doppia conformità”, secondo il quale il presupposto inderogabile per la sanatoria ordinaria è la conformità dell’abuso sia alla disciplina vigente al momento della realizzazione, che a quella vigente al momento della domanda.
In sintesi, gli abusi sostanziali sono sanabili solo attraverso il diverso istituto giuridico del condono, e nei limiti temporali legislativamente previsti, ad evitare che ogni abuso possa essere sanato dalla sopravvenienze normative, con effetti sostanzialmente premianti per le difformità sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della imposizione di una doppia attività (prima demolitiva e poi ricostruttiva) per realizzare uno stesso risultato edilizio attualmente assentibile, va rimarcato che, per insindacabile valutazione legislativa, il punto di equilibrio tra legalità ed economicità è stato individuato nella ordinaria sanabilità dei soli abusi formali, cioè sottraendo alla demolizione le sole opere che, ancorché realizzate senza titolo, siano “ab origine” e attualmente conformi; e che, comunque, il procedimento sanzionatorio e quello autorizzativo sono reciprocamente autonomi e non dipendenti.

Con il primo motivo la ricorrente invoca la conformità delle opere abusive alla disciplina vigente al momento della domanda e l’istituto della “sanatoria giurisprudenziale”.
La sezione ritiene che, nonostante alcune oscillazioni giurisprudenziali riscontratesi sul punto in vigenza dell’art. 13 della legge 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha recepito “in toto” la precedente formulazione, pienamente ribadendo il principio della “doppia conformità”, secondo il quale il presupposto inderogabile per la sanatoria ordinaria è la conformità dell’abuso sia alla disciplina vigente al momento della realizzazione, che a quella vigente al momento della domanda (cfr. TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 873; Tar Emilia Romagna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; TAR Lombardia, Milano, n. 1352/2006; Tar Piemonte, sez. I, 20.04.2005 n. 1094; TAR Toscana, sez. III, 15.06.2006, n. 2792; Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838).
In sintesi, gli abusi sostanziali sono sanabili solo attraverso il diverso istituto giuridico del condono, e nei limiti temporali legislativamente previsti, ad evitare che ogni abuso possa essere sanato dalla sopravvenienze normative, con effetti sostanzialmente premianti per le difformità sostanziali.
Quanto alla dedotta antieconomicità della imposizione di una doppia attività (prima demolitiva e poi ricostruttiva) per realizzare uno stesso risultato edilizio attualmente assentibile, va rimarcato che, per insindacabile valutazione legislativa, il punto di equilibrio tra legalità ed economicità è stato individuato nella ordinaria sanabilità dei soli abusi formali, cioè sottraendo alla demolizione le sole opere che, ancorché realizzate senza titolo, siano “ab origine” e attualmente conformi; e che, comunque, il procedimento sanzionatorio e quello autorizzativo sono reciprocamente autonomi e non dipendenti (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.05.2012 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAComune di Roccasecca - Parere in merito all'oblazione prevista dall'accertamento di conformità urbanistica disciplinato dall'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e dall'art. 22 della L.R. n. 15/2008 (Regione Lazio, parere 19.04.2012 n. 389143 di prot.).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria giurisprudenziale non trova ormai alcuno spazio, trattandosi di istituto elaborato dalla giurisprudenza nel vigore della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una specifica regolamentazione legislativa ma che non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
Secondo il costante orientamento interpretativo, la sanatoria giurisprudenziale (alla quale, in definitiva, dovrebbe assimilarsi l’ipotesi di cui si controverte, con un titolo edilizio rilasciato illegittimamente ma conforme, secondo la prospettazione della p.a., alla normativa vigente al momento dell’esame successivo) non trova ormai alcuno spazio, trattandosi di istituto elaborato dalla giurisprudenza nel vigore della l. n. 10 del 1977 e in mancanza di una specifica regolamentazione legislativa ma che non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (fra le ultime, Tar Toscana, III, 11.02.2011, n. 263) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.04.2012 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer le opere di adeguamento è necessaria apposita motivazione in ordine al profilo della "doppia conformità" per la sanatoria ordinaria ex art. 36 del T.U..
Nel giudizio in esame il ricorrente impugna un provvedimento di diniego di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 adottato dal Comune e -con i successivi motivi aggiunti- la conseguente ordinanza di demolizione. In particolare detti provvedimenti hanno ad oggetto una struttura aderente ad un appartamento di uso residenziale (originariamente individuata come una veranda da adibire a cucina).
Il Collegio ha accolto il ricorso ritenendo fondata la censura di difetto di motivazione del diniego di sanatoria, in quanto:
- in linea di principio il carattere vincolato degli atti impugnati non esclude quantomeno la necessarietà dell'esplicazione dei presupposti del provvedimento (TAR Lazio Roma, sez. III, 10.08.2010, n. 30576), soprattutto in presenza di vicende non connotate da immediata e lineare comprensibilità sotto il profilo della situazione di fatto;
- nel caso di specie non risulta chiaro il profilo della sussistenza della “doppia conformità” prevista dalla legge per la sanatoria ordinaria ex art. 36 del T.U. Edilizia;
- le ulteriori questioni in ordine alla possibilità di questo tipo di sanatoria in presenza di opere di adeguamento richiedono apposita motivazione in relazione agli esiti provvedimentali ipotizzabili, non apparendo sufficienti le deduzioni prospettate dall’Amministrazione in questa sede a titolo di integrazione della motivazione (TAR Lazio, Sez. II-bis, sentenza 11.04.2012 n. 3296
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il d.P.R. n. 380/2001 ha predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta sanatoria giurisprudenziale.
... Rilevato che anche questo Collegio ritiene che, salvo ogni ulteriore approfondimento riservato alla fase di merito, deve ritenersi non sussistente il vizio di illegittimità derivata in considerazione del fatto che il provvedimento in origine impugnato appare adottato nel rispetto del requisito della “doppia conformità” di cui all’ art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 e, ciò, anche in considerazione di recenti pronunce che hanno affermato che “Il d.P.R. n. 380/2001 ha, infatti, predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta sanatoria giurisprudenziale" (TAR Puglia Lecce Sez. III, 02-09-2010, n. 1887) (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 29.03.2012 n. 236 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, richiede l'accertamento, da parte del responsabile dell’istruttoria, della sussistenza della c.d. “doppia conformità” delle opere realizzate.
L’accertamento del rispetto delle distanze va effettuato sulla base dell’effettivo stato dei fatti e dei luoghi, a prescindere, pertanto, dalla legittimità della costruzione, rispetto alla quale deve essere verificata la permanenza della distanza minima, proprio a tutela di quell’interesse pubblico alla salubrità degli assetti urbanistici, al quale non è possibile derogare.
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Non si possono rilasciare concessioni edilizie in sanatoria “con prescrizione”, in quanto in tal modo gli immobili abusivi vengono resi conformi ex post agli strumenti urbanistici, così violando l’osservanza della “doppia conformità” richiesta dalla legge, che va accertata senza concedere alcun potere discrezionale alla P.A..

... il Tribunale adito, richiamando la disciplina di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, confermata con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, la cui univoca interpretazione si è consolidata in giurisprudenza, anche di questo C.G.A. (cfr. decisione n. 941/2009), ha correttamente ritenuto che nel caso di specie andasse richiesto l’accertamento, da parte del responsabile dell’istruttoria, della sussistenza della c.d. “doppia conformità” delle opere realizzate; conformità, cioè, sia agli strumenti urbanistici vigenti alla data di rilascio della prima concessione edilizia, portante il n. 30/2004, sia a quelli in vigore alla data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria n. 37/2005.
Con riferimento a questi ultimi requisiti, il TAR li ha ritenuti insussistenti perché dal progetto allegato all’istanza di concessione edilizia in sanatoria si evinceva la necessità di eseguire ulteriori opere per rendere l’edificio abusivo conforme agli strumenti urbanistici vigenti, per cui, atteso che la C.E. in sanatoria era da considerare alla stregua di una nuova concessione, risultava evidente la carenza del necessario presupposto della “doppia conformità”.
Il TAR adito, infatti, ha condivisibilmente rilevato che, al momento della presentazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, esisteva il vano porta nella parete dell’edificio frontista, per cui risultava violato il requisito della prescritta distanza dei 10 metri tra un edificio e l’altro, atteso che tale distanza veniva misurata in ml. 9,1, a nulla rilevando il fatto che l’apertura del vano porta era stata eseguita abusivamente; in tal senso il Giudice di prime cure ha richiamato a sostegno della propria decisione la giurisprudenza amministrativa formatasi nella materia de qua, secondo cui l’accertamento del rispetto delle distanze va effettuato sulla base dell’effettivo stato dei fatti e dei luoghi, a prescindere, pertanto, dalla legittimità della costruzione, rispetto alla quale deve essere verificata la permanenza della distanza minima, proprio a tutela di quell’interesse pubblico alla salubrità degli assetti urbanistici, al quale non è possibile derogare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.12.2006, n. 8262).
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Al riguardo, il Giudice di prime cure ha, invece, condivisibilmente argomentato con puntuale riferimento all’orientamento giurisprudenziale imperante in materia, secondo cui non si possono rilasciare concessioni edilizie in sanatoria “con prescrizione”, in quanto in tal modo gli immobili abusivi vengono resi conformi ex post agli strumenti urbanistici, così violando l’osservanza della “doppia conformità” richiesta dalla legge, che va accertata senza concedere alcun potere discrezionale alla P.A. (C.G.A.R.S., sentenza 29.02.2012 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza del chiaro disposto legislativo, non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata; quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.
L’art. 13 della legge n. 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 140 della L.R. n. 1/2005 abilitano al rilascio della concessione edilizia in sanatoria quando l’intervento è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in presenza del chiaro disposto legislativo non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata; quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (Cons. Stato, IV, 26/04/2006, n. 2306; TAR Lombardia, Milano, II, 02/05/1989, n. 193; TAR Lombardia, Brescia, 23/06/2003, n. 873; TAR Toscana, III, 15/04/2002, n. 724; si veda anche Cons. Stato, IV, ordinanza cautelare, 06/11/2010, n.5046).
Nel caso di specie, tuttavia, il Comune di Firenze, con l’art. 9-bis del regolamento edilizio, ha aderito all’orientamento minoritario che riconosce l’istituto in questione sulla base dell’art. 97 della Costituzione (sull’assunto che sarebbe contrario al buon andamento demolire un’opera che può essere nuovamente assentita sulla base della differente disciplina urbanistica attualmente in vigore: Cass. pen., III, 26/11/2003, n. 291).
Tuttavia, concedere la sanatoria in questione senza applicare alcuna sanzione amministrativa significherebbe creare una disparità di trattamento rispetto a chi ottiene la sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, e a chi, in caso di difformità parziale dalla concessione edilizia, conserva l’opera abusiva per impossibilità della demolizione ex art. 139, comma 2, della L.R. n. 1/2005.
Invero le opere abusive conformi sia alla disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’intervento, sia a quella vigente al momento del rilascio del titolo sanante, e quindi rientranti nella sanatoria ordinaria, sono connotate da un minor disvalore rispetto a quelle assentibili con la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2011 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di rigetto dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria deve essere supportato da una motivazione consistente nella concreta individuazione di un contrasto del progetto presentato con specifiche norme urbanistiche, esplicitamente indicate, dovendosi procedere ad una valutazione della compatibilità dell'intervento già realizzato con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso che al momento della presentazione della domanda, valutazione che costituisce l'essenza dell'istituto dell'accertamento di conformità di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Ed invero, il provvedimento censurato, a supporto del rigetto della domanda di sanatoria, si limita a riportare pedissequamente il contenuto dell’art. 36 del D.P.R. 381/2001.
Viceversa, rileva il Collegio, che il provvedimento di rigetto dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria deve essere supportato da una motivazione consistente nella concreta individuazione di un contrasto del progetto presentato con specifiche norme urbanistiche, esplicitamente indicate, dovendosi procedere ad una valutazione della compatibilità dell'intervento già realizzato con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso che al momento della presentazione della domanda, valutazione che costituisce l'essenza dell'istituto dell'accertamento di conformità di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 15.12.2011 n. 2391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità è strumento di conservazione di opere già realizzate e provviste della doppia conformità, senza che possono venire in rilievo le opere da eseguirsi per rendere le opere già eseguite conformi alla normativa urbanistica e vincolistica.
L'istituto dell'accertamento di conformità, già previsto dall'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47 ed ora regolato dall'art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001 è infatti, come noto, diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono (vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria: c.d. doppia conformità). Nel caso, l'Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione eminentemente doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, di tal che il provvedimento di accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali.
Pertanto, alcuna pretesa può avere la parte istante ad ottenere la concessione edilizia in sanatoria in forza dell’esecuzione di ulteriori lavori, volti a rendere le opere difformi alla normativa urbanistica e vincolistica, ad essa conformi.

L’accertamento di conformità è strumento di conservazione di opere già realizzate e provviste della doppia conformità (TAR Trentino Alto Adige Trento, 20.03.2003, n. 117), senza che possono venire in rilievo le opere da eseguirsi per rendere le opere già eseguite conformi alla normativa urbanistica e vincolistica.
L'istituto dell'accertamento di conformità, già previsto dall'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47 ed ora regolato dall'art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001 è infatti, come noto, diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono (vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria: c.d. doppia conformità). Nel caso, l'Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione eminentemente doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, di tal che il provvedimento di accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali (TAR Campania Napoli, sez. III, 05.10.2009, n. 5149; TAR Campania Napoli, sez. VI, 11.03.2009, n. 1393; TAR Campania Napoli, sez. VI, 17.12.2008, n. 21345).
Pertanto alcuna pretesa può avere la parte istante ad ottenere la concessione edilizia in sanatoria in forza dell’esecuzione di ulteriori lavori, volti a rendere le opere difformi alla normativa urbanistica e vincolistica, ad essa conformi (TAR Valle d'Aosta, sentenza 02.11.2011 n. 71 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente alla sanatoria di abusi edilizi, va condiviso il principio della “doppia conformità”, secondo cui “la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di condono”.  
Il Collegio ritiene di condividere, sulla base delle motivazioni espresse al riguardo dal Giudice di prime cure, il principio della “doppia conformità”, secondo cui “la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di condono
(CGARS, sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria “impropria”: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della legge n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia la quale, nonostante il diverso auspicio espresso dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato nel parere del 29.03.2001, non recepisce il precedente, delineato indirizzo ermeneutico.
Secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria “impropria”, invocata dal Consorzio ricorrente: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della legge n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia la quale, nonostante il diverso auspicio espresso dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato nel parere del 29.03.2001, non recepisce il precedente, delineato indirizzo ermeneutico (cfr., fra le molte, Tar Valle d’Aosta Aosta, I, 11.05.2011, n. 34; Tar Toscana Firenze, III, 11.02.2011, n. 263; Tar Campania Napoli, VII, 14.01.2011, n. 150; Tar Puglia Lecce, III, 02.09.2010, n. 1887; Consiglio Stato, IV, 02.11.2009, n. 6784).
In termini generali, dunque, il richiamo alla sanatoria giurisprudenziale non merita di essere condiviso e il motivo di gravame va, pertanto, disatteso
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 04.08.2011 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che ammette la generale sanabilità degli abusi edilizi laddove gli interventi realizzati siano conformi alla legge vigente al momento della disamina dell’istanza. Invero, pare irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l'orientamento del Consiglio di Stato in tema di rilevanza su tale ordine dell'istanza di sanatoria.
Il Collegio condivide la tesi di parte ricorrente circa l’applicabilità in linea astratta della L.R. n. 24/09 sul Piano Casa in via di sanatoria, facendo leva sull’interpretazione sistematica della normativa de qua, avuto riguardo alla necessità del rispetto dei principi di ragionevolezza e di economicità dell’azione amministrativa, sottesi a quell’orientamento giurisprudenziale che ammette la generale sanabilità degli abusi edilizi laddove gli interventi realizzati siano conformi alla legge vigente al momento della disamina dell’istanza (ex multis da ultimo Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009 , n. 2835).
Alla stregua di tale orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, pare irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l'orientamento del Consiglio di Stato in tema di rilevanza su tale ordine dell'istanza di sanatoria (Consiglio di Stato sez. VI, 12.11.2008, n. 5646, ex multis).
Il principio normativo della "doppia conformità", secondo tale orientamento giurisprudenziale infatti, è riferibile all'ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso obiettivo delle parole utilizzate dall'art. 13 della legge n. 47 del 1985, ovvero dal vigente art. 36 del DPR 06.06.2001, n. 380, ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi quale sussistente al momento dell'istanza.
In questa prospettiva la tipicità del provvedimento di accertamento in sanatoria, quale espressione di disposizione avente carattere di specialità, va rigorosamente intesa come riferimento al diritto "vigente", (Consiglio di Stato sez. V 29.05.2006, n. 3267), e commisurata alla finalità di "favor" obiettivamente tutelata dalla previsione, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza, nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato.
La norma, infatti, non può ritenersi diretta a disciplinare l'ipotesi inversa dello jus superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza. In effetti, imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente "conforme", una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza, contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell'impatto territoriale ed ambientale, (altrimenti considerato in termini più ridotti alla luce della "ratio" della norma in tema di accertamento di conformità) (Così Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835 cit.).
A conforto di tale opzione ermeneutica il Consiglio di Stato ha infatti affermato, che "gli artt. 13 e 15 della l. 28.02.1985, n. 47, richiedenti per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l'inerzia dell'Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria" (Consiglio di Stato sez. V, 21.10.2003, n. 6498) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 14.06.2011 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità risulta essere uno strumento per sanare quanto già realizzato in assenza di permesso di costruire e non può prendere in considerazione eventuali future modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina il rilascio del permesso di costruire in sanatoria al presupposto della c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva, per poter essere sanata, deve, cioè, essere conforme, come già accennato, non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in sede di istanza di sanatoria si preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, è palese l'insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Per tale ragione sarebbe illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della P.A..

Il Collegio osserva che l’accertamento di conformità risulta essere uno strumento per sanare quanto già realizzato in assenza di permesso di costruire e non può prendere in considerazione eventuali future modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina il rilascio del permesso di costruire in sanatoria al presupposto della c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva, per poter essere sanata, deve, cioè, essere conforme, come già accennato, non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in sede di istanza di sanatoria si preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, è palese l'insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria (TAR Lombardia Milano Sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Per tale ragione sarebbe illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della P.A. (C.G.A. Regione Sicilia, 15.10.2009, n. 941).
I titoli abilitativi in sanatoria sono provvedimenti tipici, che eliminano l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il potere repressivo dell'amministrazione, con la conseguenza che il loro ambito di applicazione non può che essere specificamente disciplinato dalla normativa, non risultando consentito l'esercizio, da parte della P.A., di un potere di sanatoria che vada oltre i limiti imposti dal legislatore (Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.04.2006, n. 2306)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in presenza del chiaro disposto legislativo, non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata.
Quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia.

Con la prima censura la ricorrente deduce che il contestato regolamento edilizio, nel disciplinare la sanatoria giurisprudenziale, ha istituito una sanzione amministrativa non prevista dal legislatore, in contrasto con i principi di legalità e tipicità delle sanzioni; la stessa osserva al riguardo che la sanatoria giurisprudenziale non è un condono edilizio, ma un’attestazione di non contrasto con i valori attualmente tutelati, alla quale non è riconducibile alcuna sanzione prevista per legge.
Il rilievo è infondato.
L’art. 13 della legge n. 47/1985, l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 140 della L.R. n. 1/2005 abilitano al rilascio della concessione edilizia in sanatoria quando l’intervento è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Secondo l’ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in presenza del chiaro disposto legislativo, non trova spazio la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, che ricorrerebbe allorquando la conformità dell’opera abusiva sussista rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento del rilascio del titolo sanante, ma non anche rispetto a quella del tempo in cui l’opera è stata realizzata; quest’ultimo istituto, infatti, elaborato dalla giurisprudenza quando era in vigore la legge n. 10/1977, in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi, non ha più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale ed esaustiva delle ipotesi di condono e sanatoria edilizia (Cons. Stato, IV, 26/04/2006, n. 2306; TAR Lombardia, Milano, II, 02/05/1989, n. 193; TAR Lombardia, Brescia, 23/06/2003, n. 873; TAR Toscana, III, 15/04/2002, n. 724; si veda anche Cons. Stato, IV, ordinanza cautelare, 06/11/2010, n. 5046).
Nel caso di specie, tuttavia, il Comune di Firenze, con l’art. 9-bis del regolamento edilizio, ha aderito all’orientamento minoritario che riconosce l’istituto in questione sulla base dell’art. 97 della Costituzione (sull’assunto che sarebbe contrario al buon andamento demolire un’opera che può essere nuovamente assentita sulla base della differente disciplina urbanistica attualmente in vigore: Cass. pen., III, 26/11/2003, n. 291).
Tuttavia, concedere la sanatoria in questione senza applicare alcuna sanzione amministrativa significherebbe creare una disparità di trattamento rispetto a chi ottiene la sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, e a chi, in caso di difformità parziale dalla concessione edilizia, conserva l’opera abusiva per impossibilità della demolizione ex art. 139, comma 2, della L.R. n. 1/2005.
Invero le opere abusive conformi sia alla disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’intervento, sia a quella vigente al momento del rilascio del titolo sanante, e quindi rientranti nella sanatoria ordinaria, sono connotate da un minor disvalore rispetto a quelle assentibili con la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2011 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 - Necessità del presupposto della c.d. doppia conformità - Motivazione in merito alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico - Non necessita.
2. Misure repressive - Vetustà dell'opera - Esclusione del potere di controllo e sanzionatorio della P.A. - Inconfigurabilità.
3. Ordinanza di demolizione di opere abusive - Natura - E' atto vincolato che non richiede una motivazione diversa dall'accertamento dell'abuso.

1. Nell'esercizio del potere di accertare la conformità o meno di un'opera abusiva, ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, la P.A. è unicamente chiamata a verificare il requisito della doppia conformità -e cioè che l'opera abusiva sia conforme non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera- e non deve affatto motivare in merito alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico.
2. La vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, dal momento che l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza: ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. TAR Milano, sent. n. 2045/2008).
3. I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in quanto atti vincolati, sono sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti (T.A.R. Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318, sent. n. 702/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito di conformità “sopraggiunta” dell’intervento in un primo tempo illegittimamente assentito.
Anche recentemente, è stato riaffermato (cfr. Cons. Stato, VI, 07.05.2009, n. 2835) che:
- la sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito di conformità “sopraggiunta” dell’intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell’interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all’originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; pare pertanto palesemente irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l’orientamento di questo Consiglio in tema di rilevanza su tale ordine dell’istanza di sanatoria (cfr. VI, 12.11.2008, n. 5646, ex multis);
- il principio normativo della “doppia conformità”, infatti, è riferibile all’ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso obiettivo delle parole utilizzate dall’articolo 13 della legge 47/1985, ovvero dal vigente articolo 36 del d.P.R. 380/2001, ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi quale sussistente al momento dell’istanza.
Quindi, la tipicità del provvedimento di accertamento in sanatoria, quale espressione di disposizione avente carattere di specialità, va rigorosamente intesa come riferimento al diritto vigente (cfr. V, 29.05.2006, n. 3267), e commisurata alla finalità di favor obiettivamente tutelata dalla previsione, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell’interesse pubblico e privato;
- la norma, infatti, non può ritenersi diretta a disciplinare l’ipotesi inversa dello jus superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell’istanza.
In effetti, imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente “conforme”, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza, contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell’impatto territoriale ed ambientale, (altrimenti considerato in termini più ridotti alla luce della ratio della norma in tema di accertamento di conformità);
- gli articolo 13 e 15 della legge 47/1985, richiedenti per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l’inerzia dell’Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda.
Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria (cfr. V, 21.10.2003, n. 6498).
Questo Tribunale ha aderito al rammentato indirizzo giurisprudenziale (sentt. 30.03.2000, n. 290; 08.07.2002, n. 505; 29.10.2004, n. 656; 08.09.2005, n. 431; da ultimo, 20.05.2010, n. 329).
Il Collegio, pur consapevole della cautela con la quale è necessario applicare il principio in questione, non ritiene di discostarsi in questa occasione dall’orientamento ricordato (TAR Umbria, sentenza 14.01.2011 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATA: Non può essere accolta l'istanza di sanatoria di manufatti, quand’anche gli stessi ben potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della pronuncia sull’istanza medesima ancorché non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, tanto comportando il sostanziale ripudio dell'esigenza della doppia conformità, ad onta della sua esplicita previsione negli artt. 13 e 36 cit. e dello stesso principio di legalità.
In sede di accertamento di conformità ex art. 13 della legge n. 47/1985 (ed ora ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, sostanzialmente identico, per quanto qui ne occupa, all’art. 140 della L.R. Toscana n. 1/2005), non può essere accolta l'istanza di sanatoria di manufatti, quand’anche gli stessi ben potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della pronuncia sull’istanza medesima ancorché non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, tanto comportando il sostanziale ripudio dell'esigenza della doppia conformità, ad onta della sua esplicita previsione negli artt. 13 e 36 cit. e dello stesso principio di legalità (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 06.11.2010 n. 5046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di sanatoria ex art. 13 L. 47/1985 (ora art. 36 DPR 380/2001) il Collegio richiama la tesi tradizionale e più rigorista anche recentemente sposata dalla Sezione, che impone la verifica di conformità dei lavori eseguiti sine titulo con riguardo ad un doppio parametro normativo: quello vigente alla data di realizzazione, e quello vigente alla data di esame della domanda di sanatoria; il tutto in ossequio al principio di legalità.
Laddove si chiede l’applicazione della cd. “sanatoria giurisprudenziale” il ricorrente allude, in particolare, al filone giurisprudenziale che –nell’interpretare l’art. 13 della L. 47/1985 (ed il corrispondente art. 36 del D.P.R. 380/2001)– ha ritenuto sanabili le opere realizzate in assenza o in difformità dal titolo edilizio, purché risultino conformi alla normativa urbanistica vigente al momento dell’esame della relativa domanda di sanatoria (cfr. Cons. Stato, V, 6498/2003; Cons. Stato, VI, 2835/2009).
Si tratta, in sostanza, di un orientamento che ritiene sanabile l’abuso “formale”, non necessariamente in presenza della “doppia conformità”, ma a condizione che sussista almeno la compatibilità delle opere rispetto allo strumento urbanistico vigente al momento della loro realizzazione.
Pur non disconoscendo le ragioni di utilità pratica che sottostanno al predetto orientamento, il Collegio richiama la tesi tradizionale e più rigorista anche recentemente sposata dalla Sezione, che impone la verifica di conformità dei lavori eseguiti sine titulo con riguardo ad un doppio parametro normativo: quello vigente alla data di realizzazione, e quello vigente alla data di esame della domanda di sanatoria; il tutto in ossequio al principio di legalità.
Si richiamano, in proposito, le approfondite argomentazioni in punto di diritto contenute nella sentenza n. 5/2009 di questa Sezione (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 02.07.2010 n. 2641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima la sanatoria giurisprudenziale degli abusi edilizi.
Il Tribunale è consapevole del fatto che la giurisprudenza non sia univoca sul tema giacché l'art. 36 del d.p.r. 380/2001 richiede, ove interpretato in senso strettamente letterale, la doppia conformità (alla strumentazione urbanistica vigente al momento della realizzazione delle opere e al momento della richiesta di sanatoria).
Tuttavia, si osserva come l’art. 36 cit. sia sostanzialmente analogo, per i profili che qui interessano, al precedente art. 13 L. n. 47/1985 che richiedeva, per la sanatoria delle opere prive di concessione, che esse fossero conformi alla strumentazione urbanistica approvata e non in contrasto con quella adottata al momento sia dell'edificazione, sia della richiesta di sanatoria (c.d. doppia conformità).
Orbene, è noto come in vigenza di quest'ultima norma (poi abrogata del D.P.R. n. 380/2001 cit.) la giurisprudenza abbia affermato la sufficienza della sola conformità alla strumentazione urbanistica in vigore al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Questo, rilevando come l’istituto della sanatoria fosse di carattere generale e trovasse la propria genesi in giurisprudenza consolidata ed in prassi amministrative univoche ed antiche fondate sui precetti di buon andamento dell’attività amministrativa statuiti dall’art. 97 Cost. (Cons. Stato Sez. V 13.02.1995 n. 238).
Invero, si è ritenuto che di detto istituto generale l’art. 13 cit. costituisse solo una fattispecie particolare (c.d. sanatoria a regime), la cui esistenza lasciasse intatte le logiche di efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa cui si ispirava, da sempre, il ripetuto istituto generale (Cons. Stato Sez. V n. 238/1995 cit.).
Diversamente opinando, è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, si perverrebbe all’irragionevole risultato di far demolire un’opera della quale, contemporanemente, si dovrebbe concedere la costruzione.
Questo Tribunale ha costantemente aderito al rammentato indirizzo giurisprudenziale (TAR Umbria; 30.03.2000 n. 290; id. 08.07.2002 n. 505; id. 29.10.2004 n. 656; id. 08.09.2005 n. 431) e non vede ora motivi per discostarsene, a ciò ostando il comune buon senso cui sempre deve ispirarsi il diritto (TAR Umbria, sentenza 20.05.2010 n. 329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Tolfa - Parere sulla possibilità di rilasciare un permesso di costruire ai sensi dell'art. 36 D.P.R. 380/2001 in area sottoposta al vincolo paesaggistico di cui all'art. 142, comma 1, lett. g) D.Lgs. 42/2004 (Regione Lazio, parere 30.03.2010 n. 18318 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: L'edificazione di un edificio in difformità dal titolo abilitativo per quanto concerne un incremento in altezza dovuto al maggior spessore di ciascuno dei solai di divisione dei piani e di quello di copertura ben può legittimamente usufruire della c.d. sanatoria giurisprudenziale, proprio con riferimento alle opere originariamente abusive (dacché non rispettose delle norme urbanistico-edilizie vigenti al momento della loro esecuzione) e tuttavia conformi agli strumenti urbanistici venuti in essere successivamente e vigenti all’epoca di presentazione dell’istanza di accertamento di conformità.
Lo scomputo volumetrico di cui al D.M. 27.05.2007, in materia di contenimento energetico,  può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle.
Le difformità realizzate dalla Caria Costruzioni s.r.l. nell’edificazione del fabbricato sito nel Comune di Elmas, lottizzazione Suella, lotto A, rispetto al titolo edilizio ottenuto, non hanno riguardato né la superficie calpestabile né la volumetria utilizzabile, concernendo soltanto un incremento in altezza dell’edificio dovuto al maggior spessore di ciascuno dei solai di divisione dei piani e di quello di copertura.
Ciò al fine di realizzare una maggiore insonorizzazione tra le singole unità abitative e per migliorare, a fini di risparmio energetico, la coibentazione termica dell’edificio.
E’ invero pacifico che le disposizioni oggi in vigore in materia di risparmio energetico nella progettazione e realizzazione degli edifici, sopravvenute alla realizzazione del fabbricato per cui è causa, consentono, entro certi limiti, che la modifica di spessori e altezze finalizzate al miglioramento energetico non debbano essere computati (cfr: art. 3, commi 3 e 4 del D.M. 27.07.2005, concernente il regolamento di attuazione della legge 09.01.1991 n. 10, ancora in vigore, giusto il richiamo dell’art. 11 D.Lgvo 30.05.2005 n. 192, nelle more dell’adozione dei nuovi regolamenti di cui all’art. 4, comma 1, del medesimo decreto legislativo).
Ritiene pertanto il Collegio che al momento dell’adozione del provvedimento di definizione del procedimento di accertamento di conformità presentato dalla ricorrente il Comune di Elmas non potesse non considerare, in applicazione dei principi di buona amministrazione sottesi dall’art. 97 Cost., l’illogicità di una decisione volta a ordinare la demolizione di un fabbricato che in base allo ius superveniens la ricorrente avrebbe potuto tranquillamente edificare, beneficiando addirittura, almeno in parte, di contribuzioni finanziarie pubbliche.
In relazione a tali fattispecie, invero, la giurisprudenza amministrativa che il Collegio ritiene di condividere ha da tempo affermato la legittimità della c.d. sanatoria giurisprudenziale, proprio con riferimento alle opere originariamente abusive (dacché non rispettose delle norme urbanistico-edilizie vigenti al momento della loro esecuzione) e tuttavia conformi agli strumenti urbanistici venuti in essere successivamente e vigenti all’epoca di presentazione dell’istanza di accertamento di conformità.
L’istituto, pur non comportando l’estinzione del reato eventualmente consumato, né il venir meno dell’obbligo di pagare la relativa sanzione, risponde ad una chiara esigenza di economicità e di buon andamento dell’azione amministrativa, giudicandosi illogico demolire manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia per poi doverne eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma e consistenza (cfr: Cons. Stato, Sez. V, n. 3431 del 28.05.2004).
Nel caso di specie, la ricorrente potrebbe addirittura beneficiare della contribuzione finanziaria prevista dalla normativa statale per le edificazioni realizzate nel rispetto della nuove prescrizioni in materia di risparmio energetico.
L’incongruenza delle conclusioni cui è addivenuto il Comune induce, dunque, il Collegio a privilegiare un’interpretazione della legge regionale n. 23/1985 che, conformemente alle richiamate acquisizioni giurisprudenziali, consente, ai soli fini di esclusione delle conseguenze demolitorie, il mantenimento di edificazioni conformi al quadro normativo vigente al momento della definizione del procedimento di accertamento di conformità.
Né appare condivisibile ritenere, come pure indicato nel provvedimento impugnato, inapplicabile lo scomputo di cui al D.M. 27.07.2005 perché non ancora recepito dal Comune di Elmas nel regolamento edilizio.
Come detto, l’art. 4, comma 3, del suddetto Decreto ministeriale, al fine di agevolare l’attuazione delle norme sul risparmio energetico e per migliorare la qualità degli edifici, ha previsto la non commutabilità, ai fini del calcolo della superficie utile lorda di cui all’art.13 del Regolamento edilizio regionale tipo (approvato con D.P.G.R. n. 23 del 14.09.1989), dello spessore delle strutture verticali idonee a migliorare l’isolamento termico degli edifici per la parte superiore a 30 cm. di spessore, fino ad un massimo di ulteriori 25 cm..
A tale riguardo, l’art. 2, commi 6 e 7 dello stesso D.M., nel prevedere l’obbligo per i Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici per migliorare lo sfruttamento delle radiazioni solari quale fonte di calore, attraverso indicazioni in ordine all’orientamento dei fabbricati ed alla utilizzazione di elementi di tamponatura delle facciate di notevole spessore, ha stabilito lo scorporo dal calcolo dei volumi massimi previsti nelle diverse zone urbanistiche, degli spessori di tali elementi di tamponatura nelle parti eccedenti i 30 cm., fino ad un massimo di 25 cm..
Con riferimento a quanto precisato, ritiene il Collegio, condividendo la giurisprudenza amministrativa formatasi sul punto (cfr: TAR Marche, sez. I, 30.03.2007 n. 448), che, al contrario di quanto sostenuto dal Comune intimato, tale scorporo delle cubature cui si è fatto cenno, può trovare immediata applicazione anche prima dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali, in quanto la tassatività dei limiti di spessore delle strutture verticali degli edifici non computabili ai fini volumetrici, definiti in sede ministeriale, non consente deroghe in difetto o in eccesso da parte degli strumenti urbanistici comunali, per cui l’operatività delle suddette norme tecniche non può essere subordinata a tale accennato previsto adeguamento del piano regolatore, visto che lo stesso non potrà fare altro che recepirle (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 17.03.2010 n. 314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATA: E’ chiesto parere in merito all’applicabilità della L.R. n. 20/2009, in sanatoria, nel caso di interventi di ampliamento di edifici esistenti eseguiti in assenza di titolo edilizio.
Il Comune richiedente, in particolare, segnala che, presso i propri uffici, è stata presentata istanza di permesso di costruire in sanatoria per “la realizzazione di un ampliamento relativo alla chiusura di un terrazzo trasformato in camera, utilizzando la L.R. 20/2009”.
Il Comune chiede, dunque, di sapere se “è possibile utilizzare tale normativa regionale per la sanatoria di abusi edilizi considerando che, se da una parte, l’art. 5 prevede una serie di limitazioni, dall’altra parte se il proprietario provvedesse a demolire l’abuso edilizio potrebbe poi richiedere, proprio ai sensi della L.R. 20/2009 la costruzione di quanto demolito ottenendone (nel rispetto degli altri adempimenti di legge) il benestare. Pare, dunque, di essere in una situazione simile alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale”.
Pur in assenza di specificazioni sul punto, si evince, dal tenore del quesito formulato –in particolare nel riferimento all’istituto della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”- come l’intervento abusivo realizzato nel caso concreto non risulti verosimilmente conforme agli strumenti urbanistici vigenti al momento della sua realizzazione e neppure agli strumenti urbanistici vigenti alla data attuale, stante la richiesta di applicazione della L.R. n. 20/2009 (in sanatoria): è infatti la L.R. 20/2009 che consente interventi “in deroga” al P.R.G.; se l’ampliamento fosse ammesso dal piano, ovviamente non si porrebbe neppure il problema descritto dal Comune (Regione Piemonte, parere n. 156/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità sanatoria giurisprudenziale o impropria.
L’art. 36 T.U. edilizia in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto con il suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con il piano regolatore vigente al momento in cui sia definita la istanza di sanatoria.
Pertanto, la sanabilità postula la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2009 n. 6784 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria e requisito della doppia conformità.
Secondo il dato testuale di cui all’art. 36, primo comma, del DPR n. 380/2001, ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, é necessario che l’opera eseguita abusivamente risponda al requisito della cosiddetta doppia conformità e, cioè, che la stessa sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della sua realizzazione che a quello della emissione del provvedimento.
In mancanza di tale duplice requisito deve escludersi che il provvedimento di sanatoria possa esplicare l’effetto estintivo del reato previsto dall’art. 45, comma terzo, del DPR n. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2009 n. 36350 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAComune di Anagni - Parere in merito all'applicabilità dell'accertamento di conformità agli interventi di demolizione e ricostruzione (art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e art. 22 L.R. n. 15/2008) (Regione Lazio, parere 27.08.2009 n. 118162 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: G. Zamburlin, Critica alla c.d. sanatoria giurisprudenziale (note critiche sulla c.d. "sanatoria giurisprudenziale", rilanciata da una recente decisione del Consiglio di Stato, che consente la sanatoria degli abusi anche se l'opera sia in contrasto con la disciplina urbanistica comunale vigente al momento dell'abuso) (link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria giurisprudenziale.
Il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi in merito alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale affermando il principio (per vero non condiviso dalla maggior parte dei Tribunali amministrativi regionali) secondo cui può essere rilasciata la concessione in sanatoria per quelle opere che “realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria”.
In sostanza, secondo il giudice amministrativo la sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito della conformità “sopraggiunta” di un intervento che in un primo tempo (cioè al momento della sua realizzazione) non era assentibile.
Il principio normativo della “doppia conformità” –si legge nella sentenza– “è riferibile all’ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso delle parole utilizzate dall’art. 13 della Legge n. 47 del 1985, ovvero dal vigente art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozioni di strumenti che riducano o escludano, appunto lo ius aedificandi quale sussistente al momento di presentazione dell’istanza”.
A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che "gli artt. 13 e 15 della L. 28.02.1985, n. 47, richiedenti per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l’inerzia dell’Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda".
Viceversa “la norma” –continua la sentenza– “non può ritenersi diretta a disciplinare l’ipotesi inversa dello ius superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell’istanza”.
Secondo il giudice amministrativo sarebbe dunque ammissibile anche la sanatoria di opere conformi alla normativa vigente al momento in cui il Comune provvede sulla domanda pur se contrastanti con quella vigente al momento della presentazione dell’istanza.
In effetti” – osserva il Consiglio di Stato – “imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente <conforme>, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell’impatto territoriale ed ambientale” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.05.2009 n. 2835 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito di conformità “sopraggiunta” dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito.
La sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito di conformità “sopraggiunta” dell’intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell’interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all’originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; pare pertanto palesemente irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l’orientamento di questo Consiglio in tema di rilevanza su tale ordine dell’istanza di sanatoria (VI, 12.11.2008, n. 5646, ex multis).
Il principio normativo della “doppia conformità”, infatti, è riferibile all’ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso obiettivo delle parole utilizzate dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ovvero dal vigente art. 36 del DPR 06.06.2001, n. 380, ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi quale sussistente al momento dell’istanza. Quindi, la tipicità del provvedimento di accertamento in sanatoria, quale espressione di disposizione avente carattere di specialità, va rigorosamente intesa come riferimento al diritto “vigente”, (V 29.05.2006, n. 3267), e commisurata alla finalità di “favor” obiettivamente tutelata dalla previsione, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell’interesse pubblico e privato.
La norma, infatti, non può ritenersi diretta a disciplinare l’ipotesi inversa dello jus superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell’istanza. In effetti, imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente “conforme”, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza, contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell’impatto territoriale ed ambientale, (altrimenti considerato in termini più ridotti alla luce della “ratio” della norma in tema di accertamento di conformità).
A conforto di quanto ora detto, questo Consiglio ha affermato, che “gli artt. 13 e 15 della l. 28.02.1985, n. 47, richiedenti per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l’inerzia dell’Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria” (V, 21.10.2003, n. 6498) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.05.2009 n. 2835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussistono, nella fattispecie, elementi idonei ad affermare che l’abuso edilizio posto in essere dal ricorrente possa essere sanato con denunzia di inizio attività in sanatoria.
In primo luogo osta alla praticabilità di tale procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato consumato in zona sismica.
Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L. 64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e 94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa sismicità– di darne avviso, tramite lo sportello unico, al competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2). Qualora entro il suddetto termine il responsabile dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia provveduto in senso negativo, è data all’interessato la possibilità di ricorrere al presidente della giunta regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni “decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R. 380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere, o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può prescindere e che non è suscettibile di formarsi per silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo di cui sopra, non competendo alla autorità comunale, determina la necessità, qualora esso non sia già allegato alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20, comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008, notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una pensillina in legno poste in assenza del permesso di costruzione;
...
Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la comunicazione relativa all’avvio del procedimento sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008, richiesta di accertamento di conformità, impugnava il provvedimento indicato in epigrafe con il quale la Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1. I ricorsi sono infondati: non sussistono, ad avviso del Collegio, elementi idonei ad affermare che l’abuso edilizio posto in essere dal ricorrente possa essere sanato con denunzia di inizio attività in sanatoria.
1.1. In primo luogo osta alla praticabilità di tale procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato consumato in zona sismica, come risulta chiaramente dalla ordinanza di demolizione gravata con il ricorso principale.
1.1.1. Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L. 64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e 94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa sismicità – di darne avviso, tramite lo sportello unico, al competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2). Qualora entro il suddetto termine il responsabile dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia provveduto in senso negativo, è data all’interessato la possibilità di ricorrere al presidente della giunta regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni “decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R. 380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere, o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può prescindere e che non è suscettibile di formarsi per silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo di cui sopra, non competendo alla autorità comunale, determina la necessità, qualora esso non sia già allegato alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20, comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001 (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edili integranti un abuso commesso in zona sismica –nella fattispecie non “a bassa sismicità”– non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso di costruire né con d.i.a. in sanatoria.
Al riguardo, invero, si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37 del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo il parere della Autorità preposta essere rilasciato in sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi volumi.
Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008, notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una pensillina in legno poste in assenza del permesso di costruzione;
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Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la comunicazione relativa all’avvio del procedimento sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008, richiesta di accertamento di conformità, impugnava il provvedimento indicato in epigrafe con il quale la Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1.1.2. Tanto sopra premesso occorre ora verificare come si atteggia la situazione nel caso in cui opere edili siano state realizzate in zona sismica non solo in assenza di titolo edilizio, ma anche della autorizzazione regionale prevista dagli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001: si deve cioè verificare la possibilità o meno che le stesse possano essere assentite in via di sanatoria.
Al riguardo si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37 del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo il parere della Autorità preposta essere rilasciato in sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi volumi.
1.1.3. Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”. In senso conforme, del resto, si veda anche TAR Campania-Napoli, VI, sentenza 09.10.2006 n. 8518.
1.1.4. Per le dianze esposte ragioni si deve ritenere che le opere edili sottoposte alla attenzione del Collegio, integrando un abuso commesso in zona sismica –la quale, si ribadisce, non consta essere una zona “a bassa sismicità”– non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso di costruire né con d.i.a. in sanatoria: pertanto il Comune non avrebbe potuto assumere una diversa determinazione, da cui l’impossibilità -ex art. 21-octies- di annullare il silenzio-rigetto impugnato con il ricorso per motivi aggiunti (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'accertamento di conformità previsto dall'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), è diretto a sanare -a regime- le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria.
Parte della giurisprudenza si è sforzata di mitigare gli effetti della rigorosa applicazione della normativa in questione (art. 13 L. 47/1985 per come reintrodotto dall’art. 36 DPR 380/2001), costruendo la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, la quale ammette la sanabilità di un'opera, anche se abusivamente realizzata, qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo (e addirittura anche solamente a quelle applicabili al momento della presentazione dell'istanza: C.d.S., Sez. V, 19.04.2005, n. 1796), rinvenendo tale orientamento la sua ratio nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente (cfr.: TAR Abruzzo-Pescara, 11.05.2007, n. 534); così opinando, sostanzialmente si supera e si svuota di significato la previsione della doppia conformità delle opere che si intende sanare agli strumenti urbanistici vigenti all’epoca della realizzazione ed al’epoca della domanda di sanatoria. Tuttavia, il collegio ritiene preferibile l’orientamento che –criticando l’impostazione della sanatoria giurisprudenziale– riafferma le molte buone ragioni che militano in favore della necessità della doppia conformità.
Premesso che l'accertamento di conformità previsto dall'art. 13, l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), è diretto a sanare -a regime- le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza concessione o autorizzazione, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (cfr.: TAR Campania-Napoli, sez. IV, 21.03.2008 , n. 1460; TAR Emilia Romagna Parma, 13.12.2007 , n. 620), si osserva che le pur apparentemente forti ragioni invocate a sostegno della tesi contraria a quella qui seguita sono in realtà tutte superabili.
Denominatore comune delle argomentazioni solitamente addotte in favore della c.d. sanatoria giurisprudenziale è costituito dalla pretesa esigenza di ispirare l’esercizio del potere di controllo sull’attività edificatoria dei privati al buon andamento della p.a., canone costituzionale (art. 97 della Carta) che imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 13 della l. n. 47/1985 (ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica attualmente vigente, ancorché non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben guardare, invece, quella sorta di antinomia che si vorrebbe creare con l'affermazione della cd. sanatoria giurisprudenziale -e quindi con il sostanziale ripudio dell'esigenza della doppia conformità, ad onta della sua esplicita previsione negli artt. 13 e 36 citati- tra i principi di legalità e di buon andamento della P.A., con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica "efficientista", risulta artificiosa (cfr.: TAR Lombardia-Milano, sez. II, 09.06.2006 , n. 1352).
Va innanzitutto osservato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa (cfr. l’appena citata decisione del Tar Milano, ed ivi ulteriore ragguaglio giurisprudenziale) e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall’esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della p.a., ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella specifica materia in questione, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell’attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio).
La vera insanabile contraddizione starebbe, da un lato nell’imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono -sul piano urbanistico- quelle conseguenti ad opere per cui non esista la cd. doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. la già richiamata sentenza del Tar Milano n. 1352/2006).
Ciò in quanto sarebbe davvero contrario al buon andamento ammettere che l'amministrazione, una volta posta la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa sia indotta -anziché a provvedere a sanzionarli- a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe così per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, contando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore.
Va inoltre tenuto nel debito conto che la sanabilità degli abusi sostanziali è ottenibile non attraverso lo strumento dell'accertamento di conformità ex artt. 13 e 36 cit., ma tramite il diverso istituto giuridico del condono (TAR Puglia, Lecce, n. 1007 del 1990; TAR Milano, n. 1352/2006, cit..) e nei limiti, in specie temporali, in cui quest'ultimo è applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Infine, la sanatoria giurisprudenziale non ha trovato conferma –come spesso accade con gli istituti di creazione pretoria– nella recente legislazione, ché, anzi, la doppia conformità continua ad essere esplicitamente richiesta dall'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001. In ordine a questo rilevante aspetto della questione è stato osservato che il mancato recepimento nell’art. 36 t.u. dell'edilizia (nonostante l'auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato - dell'orientamento affermatosi nel vigore dell'art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 e che viene denominato “sanatoria giurisprudenziale”) impedisce che l’applicazione delle disposizioni che consentono la sanatoria degli abusi, prevedendo un provvedimento tipico oggetto di una disciplina puntuale ed esaustiva nell'art. 36 t.u. dell'edilizia, subisca ampliamenti in via interpretativa, e che in particolare si superi la c.d. doppia conformità (cfr.: Consiglio Stato , sez. IV, 26.06.2006 , n. 2306) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.01.2009 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATASanatoria intervento accertamento edilizio.
Viene chiesto chiarimento in ordine all’applicazione dell’articolo 36, comma 2, del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001) per quanto attiene alla determinazione dell’oblazione di cui alla norma predetta (Regione Piemonte, parere n. 134/2008 - tratto da www.regione.piemonte.it).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria ex art. 13 l. 47/1985 (ora art. 36 dpr 380/2001) richiede la necessaria doppia conformità.
L’art. 13 della legge n. 47 del 1985 riguarda esclusivamente le opere edilizie abusive in senso formale ma nella sostanza compatibili con la disciplina urbanistica della zona, sì da richiedere la c.d. «doppia conformità», ossia che la verifica della conformità sia fatta con riferimento tanto alla disciplina vigente al momento dell’abuso, quanto a quella vigente al momento della presentazione della domanda di sanatoria (v., ex multis, TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 25.09.2001 n. 698) (TAR Parma, sentenza 13.12.2007 n. 620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (trasfuso nell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001) consente l’accoglimento di domande di accertamento di conformità solo in presenza della cd. duplice conformità: le opere abusive possono essere oggetto di accoglimento dell’istanza solo quando esse risultino non solo conformi allo strumento urbanistico vigente alla data di emanazione dell’atto che esamina l’istanza, ma anche conformi allo strumento urbanistico vigente alla data in cui sono commessi gli abusi.
Ritiene la Sezione che l’art. 13 della legge n. 47 del 1985 consente l’accoglimento di domande di accertamento di conformità solo in presenza della cd. duplice conformità: le opere abusive possono essere oggetto di accoglimento dell’istanza solo quando esse risultino non solo conformi allo strumento urbanistico vigente alla data di emanazione dell’atto che esamina l’istanza, ma anche conformi allo strumento urbanistico vigente alla data in cui sono commessi gli abusi (cfr. Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
L’art. 13 –in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie– non è suscettibile di applicazione analogica, né di una interpretazione riduttiva, secondo cui – in contrasto col suo tenore letterale – basterebbe la conformità delle opere col piano regolatore vigente al momento in cui sia definita l’istanza di sanatoria.
Contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, la regola sancita dall’art. 13 (trasfuso nell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001) non risulta in contrasto con i principi costituzionali del buon andamento e sulla pianificazione urbanistica.
Infatti, in attuazione del principio di legalità e per evitare che i consigli comunali possano subire condizionamenti e pressioni da parte di chi abbia realizzato opere abusive, il legislatore ha radicalmente precluso che il costruttore di opere abusive possa avvalersi delle sopravvenute modifiche dello strumento urbanistico, anche se le opere realizzate sine titulo di per sé risultino conformi allo strumento sopravvenuto.
Vanno dunque respinte le censure secondo cui l’accertamento di conformità potrebbe essere disposto in presenza della conformità al solo strumento urbanistico vigente (pur se in contrasto con quello vigente al momento della realizzazione dell’abuso), così come vanno dichiarate manifestamente infondate le relative censure di incostituzionalità dell’art. 13
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2007 n. 4838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha ammesso la c.d. sanatoria giurisprudenziale, ritenuta non in contrasto con l’art. 13 l. 47/1985 quando l’opera abusiva risulti comunque conforme alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio dell’atto di sanatoria, risiedendo la ratio di siffatto orientamento nell’esigenza di evitare che sia demolita una costruzione per la quale può essere rilasciato successivamente il titolo abilitativo.
Vero è che l’art. 13 della L. 47/1985 esige la doppia conformità dell’opera abusiva, alla disciplina cioè vigente al momento della realizzazione dell’abuso e a quella vigente al momento della sanatoria, ma è altresì vero che la giurisprudenza ha ammesso la c.d. sanatoria giurisprudenziale, ritenuta non in contrasto con l’art. 13 citato, quando l’opera abusiva risulti comunque conforme alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio dell’atto di sanatoria, risiedendo la ratio di siffatto orientamento nell’esigenza di evitare che sia demolita una costruzione per la quale può essere rilasciato successivamente il titolo abilitativo (C.S., sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 13.02.1995, n. 238) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 30.05.2007 n. 583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2006

EDILIZIA PRIVATA: Con l’istituto del cd. accertamento di conformità, nella disciplina sia dell’art. 13 della l. n. 47/1985, sia dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, il Legislatore ha inteso consentire la sanatoria dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all’epoca della loro realizzazione.
F
acendo applicazione dei principi che hanno portato all’elaborazione della cd. sanatoria giurisprudenziale, il ricorrente afferma l’irrilevanza dell’eventuale non conformità urbanistica dell’opera al momento della sua ultimazione ai fini del rilascio della sanatoria, in quanto la sanabilità della predetta opera dipenderebbe solo dalla conformità della stessa alla normativa vigente e quindi, alle norme applicabili al momento in cui l’Amministrazione provvede sull’istanza di sanatoria (od anche solamente a quelle applicabili al momento della presentazione dell’istanza: C.d.S., Sez. V, 19.04.2005, n. 1796). Ciò, al fine di evitare il paradosso che si addivenga alla demolizione di un’opera, in quanto abusiva, salvo riconoscere contestualmente la nuova realizzabilità della medesima opera, perché conforme alla disciplina urbanistica attualmente vigente.
In questo senso, quindi, la regola della sanabilità di tutte le opere conformi alle prescrizioni urbanistiche in vigore alla data di adozione del provvedimento sanante, con la possibilità, in base a tale regola, di sanare alla predetta condizione non solo abusi formali, ma anche abusi sostanziali, troverebbe conferma nel canone ermeneutico della non contraddittorietà, per il quale la P.A. non può denegare diritti e facoltà che essa stessa ha riconosciuto attraverso gli strumenti di pianificazione vigenti al momento della pronuncia di diniego.
La succitata regola sarebbe, altresì, rispettosa del principio di efficienza e buon andamento dell’Amministrazione (art. 97 Cost.), che imporrebbe di evitare la rimozione di opere nella sostanza legittime e per le quali si potrebbe subito dopo consentire l’edificazione.
Infine la cd. sanatoria giurisprudenziale si giustificherebbe perché, ad opinare diversamente, si dovrebbe configurare un dovere dell’Amministrazione di negare la sanatoria ai manufatti od alle varianti in corso d’opera, pur se sostanzialmente legittimi, ove edificati in vigenza di previsioni ostative.
Queste essendo le argomentazioni esposte dal ricorrente a sostegno della tesi della sanabilità delle opere per le quali la conformità urbanistica sussista solo al tempo del provvedimento sull’istanza di sanatoria (o alla data di proposizione dell’istanza), osserva il Collegio come siffatte argomentazioni, ancorché ben sviluppate e non prive di un certo rilievo, non possano essere condivise.
Sul punto il Collegio è ben consapevole dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale, che, sebbene minoritario, ha trovato sporadico accoglimento pure nel Consiglio di Stato, nonché nell’ordinanza cautelare emessa nel presente giudizio, favorevole all’affermazione della cd. sanatoria giurisprudenziale.
Ciò, in nome essenzialmente di una pretesa esigenza di conformità al buon andamento della P.A., canone costituzionale che imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 13 della l. n. 47/1985 (ed ora art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), di accogliere l’istanza di sanatoria per dei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica attualmente vigente, ancorché non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell’Amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell’opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell’Amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
In contrario, ritiene tuttavia il Collegio che quella sorta di antinomia che si vorrebbe creare con l’affermazione della cd. sanatoria giurisprudenziale –e, quindi, con il sostanziale ripudio dell’esigenza della doppia conformità, ad onta della sua esplicita previsione negli artt. 13 e 36 citati– tra i principi di legalità e di buon andamento della P.A., con assegnazione della prevalenza a quest’ultimo, in nome di una presunta logica “efficientista”, sia artificiosa e per niente affatto condivisibile.
Ciò, in quanto, a ben vedere, costituisce affermazione consolidata quella per cui l’agire della Pubblica Amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l’attività amministrativa (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 23.03.2004, n. 1553) e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Se ne deduce che pretendere di instaurare, come fa il ricorrente, un’antinomia tra l’esigenza di legalità e quella di buon andamento, con recessività della prima, è profondamente erroneo perché trascura che la lettura del buon andamento conforme al dettato costituzionale è quella che coniuga al tempo stesso buon andamento e legalità, e che perciò legge il primo alla luce della seconda, con il corollario che non può esservi rispetto del buon andamento della P.A., ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Facendo applicazione delle ora viste conclusioni al caso di specie, si deve, pertanto, ritenere che con l’istituto del cd. accertamento di conformità, nella disciplina sia dell’art. 13 della l. n. 47/1985, sia dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, il Legislatore abbia inteso consentire la sanatoria dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all’epoca della loro realizzazione (cfr., ex plurimis, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 09.09.2004, n. 11896; TAR Liguria, Sez. I, 17.05.2005, n. 670).

La sanabilità dell’intervento, in altri termini, presuppone necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio–repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss. del d.P.R. n. 380/2001.

Anzi, proprio la doverosità dell’esercizio di siffatta potestà, costantemente affermata dalla giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, Latina, 27.06.2005, n. 568; C.d.S., Sez. V, 06.05.1995, n. 721), rafforza quanto appena detto circa la sanabilità, attraverso gli artt. 13 e 36 ss., delle sole violazioni formali.

Non può ammettersi, infatti, a pena di introdurre una contraddizione all’interno dello stesso corpus legislativo, che il Legislatore da un lato imponga all’Amministrazione di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall’altro che acconsenta a violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle conseguenti ad opere per cui non esista la cd. doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell’opera per valutare la sussistenza dell’abuso.

Tutto ciò, senza considerare che non si riesce a capire quale nozione del buon andamento sia quella, alla stregua della quale l’Amministrazione, una volta posta la disciplina sull’uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, anziché provvedere a sanzionarli, sia indotta a modificare la disciplina stessa. È evidente che un tale comportamento finirebbe per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, contando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. Con il che, se ne desume, verrebbe frustrata in toto la potestà sanzionatorio–repressiva degli abusi edilizi, in contrasto con la doverosità della stessa poc’anzi ricordata, nella sua valenza strumentale al fine di coadiuvare, dal lato, appunto, sanzionatorio, l’ordinato sviluppo del territorio, perseguito dall’Amministrazione comunale attraverso gli strumenti di pianificazione.

Né in contrario può ribattersi argomentando dall’incongruenza della demolizione di opere di cui dovrebbe poi essere ammessa la ricostruzione, giacché un tal rilievo non tiene conto che la potestà sanzionatoria degli abusi edilizi dà luogo a procedimenti amministrativi autonomi, pur se strettamente connessi a quello del rilascio del permesso in sanatoria.

Su questa base, ritiene pertanto il Collegio di aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale, per il quale la sanatoria di un’opera difforme dallo strumento urbanistico vigente al momento della sua esecuzione rappresenterebbe una forzatura inaccettabile della disciplina in materia di accertamento di conformità (nonché dei principi dell’ordinamento in tema di sanatoria di attività illecite in generale), senza che questo pregiudichi le autonome determinazioni che l’Amministrazione decida poi di adottare nell’esplicazione dell’attività sanzionatoria riferita all’abuso (TAR Piemonte, Sez. I, 20.04.2005. n. 1094).
A favore della tesi della cd. doppia conformità militano anche ulteriori argomenti, di natura sia sostanziale che formale.

Ed infatti, considerata l’opera difforme dalla normativa urbanistica in vigore al tempo della sua realizzazione come abuso edilizio sostanziale (TAR Puglia, Lecce, 26.11.1990, n. 1007), se ne deduce che la sanabilità della stessa è ottenibile non attraverso lo strumento dell’accertamento di conformità ex artt. 13 e 36 cit., ma tramite il diverso istituto giuridico del condono (TAR Puglia, Lecce, n. 1007 del 1990 cit.) e nei limiti, in specie temporali, in cui quest’ultimo è applicabile alla fattispecie concreta considerata.

Ciò, tenendo altresì conto del fatto che, ai fini penali, lo speciale meccanismo di estinzione del reato previsto per l’accertamento di conformità (art. 22, ult. comma della l. n. 47/1985) opera diversamente da quanto stabilito per la procedura di condono, giacché non si fonda sul pagamento di una somma di denaro a titolo di oblazione, ma sull’effettivo rilascio della concessione sanante (Cass. pen., Sez. III, 29.01.1998, n. 3209).

Né può trascurarsi che l’assoggettamento al medesimo trattamento, anche sanzionatorio, dei casi di abuso edilizio cd. formale e di quelli di abuso cd. sostanziale, ingenererebbe dubbi di legittimità costituzionale: si pensi alle perplessità sollevate sul punto, nel vigore del regime introdotto dalla l. n. 10/1977, dalla giurisprudenza di merito (cfr. Pret. Rivarolo Canavese, 03.05.1978 e Pret. Piombino, 16.12.1982).

Tali dubbi resterebbero fermi anche qualora la suddetta parificazione fosse espressamente prevista dalla legge. A fortiori si deve dunque respingere l’idea della parificazione, e quindi la tesi della cd. sanatoria giurisprudenziale, che la sottende, in presenza di una disciplina che continua a pretendere esplicitamente, nell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, come già nel testo dell’art. 13 della l. n. 47/1985, ai fini della sanabilità del manufatto, la conformità di esso anche alla normativa vigente alla data della sua realizzazione, oltre che a quella in vigore al tempo della proposizione dell’istanza, mostrando di recepire la cd. doppia conformità.

Dunque, la tesi della cd. doppia conformità risulta quella corretta anche sotto il mero aspetto letterale (TAR Piemonte, n. 1094 del 2005 cit.).

Anzi, da questo punto di vista, appare condivisibile l’osservazione della difesa del Comune, secondo la quale il Legislatore delegato, nell’elaborare il testo dell’art. 36 cit., non ha potuto in alcun modo recepire la cd. sanatoria giurisprudenziale, in ragione dei limiti derivantigli dalla delega legislativa (art. 7 della l. n. 50/1999), che non consentivano modifiche della normativa esistente se non nelle ipotesi di univoci indirizzi giurisprudenziali assurti a vero e proprio “diritto vivente” (così la previsione di un mero “coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti”, ex art. 7, comma 2, lett. d), della l. n. 50 cit., come interpretata dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato). Anche per tal via, quindi, la cd. sanatoria giurisprudenziale si deve considerare tuttora al di fuori del diritto positivo.

Da ultimo, nessun rilievo può assumere l’argumentum a contrario utilizzato dal ricorrente, per cui la cd. doppia conformità porterebbe ad affermare il dovere dell’Amministrazione di negare la sanatoria alle varianti in corso d’opera, qualora realizzate in vigenza di previsioni ostative.

A parte che, proprio perché eseguiti in difformità dalle norme vigenti, per tali interventi non si potrebbe mai parlare, come fa il ricorrente, di “sostanziale legittimità”, resta il fatto che le varianti in corso d’opera trovano applicazione, ex art. 15 della l. n. 47/1985 (v. ora l’art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001), solamente in caso di conformità delle opere difformi agli strumenti urbanistici vigenti e purché le modificazioni introdotte rispetto alla concessione originaria siano di consistenza limitata (TAR Liguria, Sez. I, 03.06.2005, n. 851), dunque con riguardo a fattispecie diverse da quella in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.06.2006 n. 1352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito all’invocata “sanatoria giurisprudenziale”, è ben noto l’orientamento che fonda sui principi afferenti il buon andamento e l’economia dell’azione amministrativa l’obbligo di rilasciare l’assenso edilizio in sanatoria allorquando sia regolarmente richiesto in relazione ad opere già realizzate abusivamente ma conformi alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio.
L’istituto della sanatoria per accertamento di conformità previsto dall’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47 è stato introdotto, nell’ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio in materia di abusi edilizi nel senso di una maggiore severità, con l’intento di consentire la sanatoria degli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il titolo rappresentativo dell’assenso dell’Amministrazione.
Il rilascio della concessione edilizia in esito ad accertamento di conformità, pertanto, attribuisce al “responsabile dell’abuso” una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella del titolare di un’ordinaria concessione edilizia, onde non può avere a presupposto se non il fatto che la fattispecie alla quale si riferisce sia risultata conforme, sotto ogni altro aspetto, soggettivo ed oggettivo, alla normativa urbanistica complessivamente vigente.
Per il suo rilascio, in altre parole, è necessario che sussistano tutti i requisiti, anche soggettivi, che avrebbero consentito al responsabile dell’abuso di ottenere la concessione, ove l’avesse tempestivamente richiesta.
Si comprende, allora, tenendo conto altresì che si tratta pur sempre di una deroga al principio fondamentale, sancito dall’art. 1 della L. 28.01.1977 n. 10, il quale subordina all’assenso dell’Amministrazione qualsiasi attività che comporti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, perché l’ambito di applicazione del beneficio è stato delimitato dalla norma con riferimento ai due momenti temporali in essa indicati e sopra più volte menzionati.
Si comprende, inoltre, perché i requisiti di legge che in entrambi i momenti suddetti devono sussistere sono anche quelli soggettivi, quando si consideri che ammettere al beneficio in questione un soggetto che “al momento della realizzazione dell’opera” non fosse legittimato a chiedere ed ottenere la concessione contrasterebbe con l’espressa previsione della norma, che solo al “responsabile dell’abuso” permette di richiedere la sanatoria.
L’interpretazione puramente letterale dell’espressione normativa che rapporta la doppia conformità prescritta “agli strumenti urbanistici” non appare, quindi, attendibile.
In realtà, la legge ha detto meno di quanto voleva dire, come si evince dalla dizione più comprensiva adoperata dalla disposizione che oggi sostituisce il citato art. 13 L. n. 47 del 1985, ovvero l’art. 36 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il quale assume come parametro dell’accertamento di conformità quello più generale della “disciplina urbanistica ed edilizia vigente”.
Quanto all’invocata “sanatoria giurisprudenziale”, è ben noto l’orientamento che fonda sui principi afferenti il buon andamento e l’economia dell’azione amministrativa l’obbligo di rilasciare l’assenso edilizio in sanatoria allorquando sia regolarmente richiesto in relazione ad opere già realizzate abusivamente ma conformi alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio.
Si tratta, tuttavia, del più generale istituto della concessione postuma -diverso dalla sanatoria per accertamento di conformità specificamente disciplinata dall’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47- al quale, ove, come nella specie, di esso il privato non si sia a suo tempo avvalso, non è consentito al giudice fare ricorso, sostanzialmente esercitando in tal modo un potere di cui l’Amministrazione ben può ancora far uso
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2006 n. 3267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di sanatoria in esito ad accertamento di conformità può essere rilasciato solo al ricorrere del duplice presupposto richiamato all’articolo 36 del T.U. n. 380 del 2001 in materia edilizia.
In aggiunta all’accertamento di doppia conformità -tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera quanto a quella vigente al momento della domanda– previsto a regime dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985, un indirizzo giurisprudenziale ha ammesso una più ampia possibilità di sanatoria per le opere difformi dalla normativa urbanistica vigente al momento dell’abuso ma conformi a quella successivamente intervenuta (cfr. V Sez. 13.02.1995 n. 238 nonché V sez. 21.10.2003, n. 6498).
In tal senso è stato osservato che la regola desumibile dalle disposizioni citate non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'Autorità comunale provvede sulla domanda di sanatoria, non essendovi nessuna ragione di ritenere che l'ordinamento imponga di demolire un'opera prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente (V Sez. n. 6498 del 2003 cit.).
Secondo un opposto orientamento, diffuso soprattutto in primo grado, con la legge n. 47 del 1985 è entrata in vigore una disciplina esaustiva e puntuale delle ipotesi di sanatoria, anche ai fini amministrativi, che non lascia alcun margine interpretativo.
Secondo tale impostazione, il principio di conservazione dei valori –che farebbe ritenere illogica la demolizione dell'opera, quando la stessa potrebbe essere autorizzata sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica- deve quindi retrocedere dinnanzi al principio costituzionale di legalità, che impone la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge (cfr. per tutte TAR Toscana, III Sez., 15.04.2002, n. 724, e TAR Veneto, II Sez., 20.02.2003, n. 1498).
Al riguardo il Collegio osserva che la concessione in sanatoria è un provvedimento tipico, che elimina l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il potere repressivo dell'Amministrazione, con la conseguenza che il suo ambito di applicazione non può che essere specificamente disciplinato dalla normativa, non risultando consentito l'esercizio, da parte dell'Amministrazione, di un potere di sanatoria che vada oltre i limiti imposti dal Legislatore.
A ciò deve aggiungersi, soprattutto, che il T.U. n. 380 del 2001, continuando a postulare (art. 36) l’accertamento di duplice conformità nei termini già divisati dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985, non ha recepito la possibilità di sanatoria di cui si discute, nonostante che la possibilità di riconoscere a livello normativo l’ammissibilità, entro certi limiti, di tale istituto giurisprudenziale fosse stata espressamente prospettata tra l’altro dall’Adunanza Generale di questo Consiglio di Stato nel parere all’uopo reso in data 29.03.2001.
Non avendo il Legislatore, per le ragioni indicate nella Relazione, ritenuto di poter valorizzare tale opzione, deve concludersi –per le esposte ragioni testuali e sistematiche- nel senso che il provvedimento di sanatoria in esito ad accertamento di conformità può essere rilasciato solo al ricorrere del duplice presupposto richiamato all’articolo 36 del T.U. n. 380 del 2001 in materia edilizia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.04.2006 n. 2306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2005

EDILIZIA PRIVATACiò che conta, ai fini del rilascio della concessione in sanatoria (ex art. 36 dpr 380/2001) è la conformità urbanistico-edilizia al momento del rilascio del titolo, in quanto non avrebbe senso demolire ciò che può essere assentito e quindi legittimamente ricostruito subito dopo.
Quanto alla c.d. doppia conformità, testualmente richiesta dall’art. 13 della legge 47/1985, questo Tribunale in alcune pronunce ha affermato che ciò che conta, ai fini del rilascio della concessione in sanatoria è la conformità urbanistico-edilizia al momento del rilascio del titolo, in quanto non avrebbe senso demolire ciò che può essere assentito e quindi legittimamente ricostruito subito dopo.
Tale orientamento (c.d. sanatoria giurisprudenziale, che non viene più seguito dalla prevalente giurisprudenza) deve essere applicato con grande cautela, soprattutto di fronte a significative trasformazioni del territorio ed in presenza di vincoli di tipo diverso e sopraordinato rispetto a quelli urbanistici.
Nel caso in esame può tuttavia essere confermato, stante l’assenza di vincoli paesaggistici o ambientali sull’area in questione (cfr. relazione tecnica, citata) e l’oggettiva ridotta dimensione delle opere (il che non esime dalla necessità del titolo autorizzatorio edilizio, né rende meno doverosa la previa verifica dell’impatto che da esse deriva alla luce dei valori tutelati dalle previsioni del P.R.G.) (TAR Umbria, sentenza 08.09.2005 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' inutile fa demolire un'opera abusiva che sia conforme alla normativa vigente all'atto di presentazione della istanza di sanatoria e non anche a quella vigente al momento di realizzazione dell'abuso.
Non vi è ragione di far demolire una costruzione realizzata abusivamente, ma conforme alla disciplina vigente, per poi dover consentire, non potendosi negare la concessione edilizia per opere conformi alla normativa urbanistica in vigore, la edificazione di una costruzione identica a quella di cui si è ordinata la demolizione.
L’art. 13 della legge n. 47 del 1985, che richiede la doppia conformità delle opere realizzate abusivamente e, cioè, che le stesse siano conformi sia agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro realizzazione sia a quelli in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria e che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici eventualmente adottati nei due momenti è stato interpretato dalla giurisprudenza della Sezione nel senso che la norma non ha voluto limitare il campo delle opere sanabili alla loro conformità agli strumenti urbanistici vigenti al momento del rilascio della concessione in sanatoria, ma nel senso che anche opere non più conformi alla normativa vigente sono ugualmente sanabili se erano conformi alla normativa in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
La norma è stata ritenuta come norma di salvaguardia contro l’inerzia dell’amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2005 n. 1796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2004

EDILIZIA PRIVATA: L. Romanucci, La c.d. "sanatoria giurisprudenziale" (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATASulla sanatoria giurisprudenziale dei manufatti abusivi (art. 13 l. n. 47/1985, ora art. 36 dpr. n. 380/2001).
In linea teorica, la sanatoria degli atti amministrativi illegittimi, promanante dal-la stessa Autorità emanante l’atto da emendare, avente efficacia ex tunc (salva l’ipotesi dell’incidenza sfavorevole dell’atto nel campo dei diritti soggettivi al-trui: cfr. ad es. Cons. St., V, 16.10.1965, n. 1019) e che la migliore dottrina tradizionalmente limita agli atti invalidi per mancanza di un presupposto di legittimità ovvero per il mancato compimento di un atto del procedimento, deve essere tenuta distinta dalla sanatoria di attività illecita, nell’ambito della quale rientra evidentemente la fattispecie edilizia, avente ad oggetto un’attività materiale posta in essere da un soggetto estraneo alla Pubblica Amministrazione, priva del necessario titolo abilitativo e con effetti ex nunc.
A differenza dell'ipotesi di sanatoria relativa agli atti amministrativi, riconosciu-ta pacificamente alla stregua di un istituto generale applicabile astratto, pur nei limiti individuati, ad alcune tipologie di atti (proposte, approvazioni, autorizza-zioni ed accertamenti tecnici), l’assenza di un analogo approfondimento teorico e la presenza di singole ipotesi oggetto di specifica ed espressa disciplina portano ad escludere lo stesso carattere di generalità per la sanatoria di attività illecita.
In termini generali, d’altra parte, ogni regola imposta legittimamente dall’ordinamento ed ogni conseguente sistema sanzionatorio mal si concilierebbero con la generalizzata previsione della sanabilità delle attività abusive, poste in essere in violazione delle regole dettate dall’ordinamento.
Ciò vale altresì alla luce degli interessi pubblici ed ai principi sottesi alla tutela del territorio ed al corretto utilizzo dello stesso, nonché al fine di evitare strumentalizzazioni in ordine al corretto esercizio del primario potere di pianificazione.
La norma dell’art. 13 L. n. 47/1985 costituisce proprio un’applicazione specifica ed eccezionale e, conseguentemente, non estendibile in via analogica al di fuori dei presupposti dalla stessa dettati di tale sanatoria di attività illecite.
Inoltre, si è avuto modo di ricordare come la medesima disposizione abbia costituito il meditato e consapevole punto di arrivo di un’evoluzione normativa e dottrinale che ha inteso limitare l’applicabilità dell'istituto in esame alle ipotesi inquadrabili nella c.d. doppia conformità; la discrezionalità del Legislatore si è manifestata, in conformità al principio di ragionevolezza trattandosi di attività abusiva, al fine di limitare l’operatività della sanatoria rispetto a quanto anteriormente opinato.
La specialità della norma in esame e l’assenza di un generale ed indistinto prin-cipio di sanabilità dell’attività illecita non può tuttavia far dimenticare quelle che sono le motivazioni sottese all’orientamento favorevole alla c.d. sanatoria giurisprudenziale: in particolare, l’incongruenza derivante dal disporre la demolizione di opere, di cui viene chiesta la concessione, per poi farle ricostruire conformemente alla domanda (Cons. St., V, 13.02.1995, n. 238).
Se è pur vero che potrebbe apparire prima facie illogico demolire qualcosa che si potrebbe successivamente costruire ex novo sulla scorta della nuova pianificazione, è altrettanto vero che la contestata demolizione riguarda l’esercizio della successiva e distinta attività sanzionatoria, non il procedimento di rilascio della concessione strettamente inteso.
Come ormai riconosciuto dalla prevalente opinione giurisprudenziale, si tratta di due procedimenti comunque distinti pur se connessi, tanto è vero che, ad esempio, la presentazione della domanda di sanatoria rende improcedibile il ricorso avverso la sanzione (TAR Sicilia-Palermo, II, 18.12.2001, n. 2102), dovendo il procedimento relativo a quest’ultima eventualmente riprendere successivamente al diniego di concessione (TAR Calabria-Catanzaro, II, 07.06.2001 n. 912).
Nella medesima direzione la giurisprudenza ha più volte ribadito la necessità di esplicare le ragioni sottese alla scelta della sanzione in rapporto alle caratteristiche specifiche dell’opera in contestazione ed al suo inserimento nell’esistente (TAR Liguria, I, 10.01.2002, n. 12).
Sulla base di quanto sopra, quindi, se da un lato non è possibile, né necessario, forzare una norma espressa o i principi dell’ordinamento in tema di sanatoria, dall’altro lato la Pubblica Amministrazione è comunque titolare di un potere autonomo e ampiamente discrezionale relativo alla conseguente e connessa, pur se distinta, attività sanzionatoria, nell’ambito della quale si inserisce la conseguenza, nel caso in esame denunciata come irrazionale, della demolizione.
Al riguardo, proprio l’autonomia del procedimento sanzionatorio e l’obbligo di motivazione connesso costituiscono il momento in cui l’ordinamento consente di valutare l’applicazione della sanzione conforme all’ordinamento, rimettendo pertanto la concreta individuazione della sanzione alla determinazione discrezionale della stessa Amministrazione
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 18.10.2004 n. 2506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" è incompatibile con la sopravvenuta disciplina della sanatoria introdotto dalla legge n. 47 del 1985 che, con il requisito di ammissibilità della sola doppia conformità al piano regolatore generale, ammettendo pertanto la sanatoria soltanto per le opere realizzate senza concessione ma conformi alla disciplina vigente sia al momento della realizzazione del manufatto sia al momento della richiesta del provvedimento di sanatoria, ha inteso impedire il rischio di eventuali pratiche di salvataggio in sede locale di forme di abusivismo edilizio mediante modifiche a posteriori dello strumento urbanistico.
Si richiama il cosiddetto istituto della "sanatoria giurisprudenziale" che si avrebbe quando l'opera è stata realizzata abusivamente ma, per effetto del mutamento di strumenti urbanistici, risulta regolare in relazione alla sopravvenuta disciplina vigente al momento della richiesta di sanatoria. In effetti, la tesi del ricorrente richiama l'orientamento giurisprudenziale minoritario il quale, tuttavia, non è condiviso da questo tribunale. Infatti la cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" è incompatibile con la sopravvenuta disciplina della sanatoria introdotto dalla legge n. 47 del 1985 che, con il requisito di ammissibilità della sola doppia conformità al piano regolatore generale, ammettendo pertanto la sanatoria soltanto per le opere realizzate senza concessione ma conformi alla disciplina vigente sia al momento della realizzazione del manufatto sia al momento della richiesta del provvedimento di sanatoria, ha inteso impedire il rischio di eventuali pratiche di salvataggio in sede locale di forme di abusivismo edilizio mediante modifiche a posteriori dello strumento urbanistico (vedi TAR Bologna, sez. II, n. 194 del 2002; n. 1833 del 2002; n. 1058 del 2003).
Infatti, tale figura di sanatoria "giurisprudenziale" sembrava configurabile nella normativa previgente che, al dodicesimo comma dell'articolo 15 della legge n. 10 del 1977 si limitava, secondo l'opinione dominante, a liberalizzare alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizia assentiti, senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa di interventi abusivi, la quale, pertanto, veniva ritenuta possibile, dalla giurisprudenza, in caso di conformità con gli strumenti urbanistici vigenti al momento della pronuncia sulla domanda di sanatoria e ciò al fine di evitare inutili distruzioni di ricchezza. Invece, al contrario, come sopra evidenziato, la legge n. 47 del 1985 ha predisposto una disciplina esaustiva e puntuale delle ipotesi sanatoria, anche ai fini amministrativi, non lasciando alcun margine interpretativo per consentire la sopravvivenza della sanatoria "cosiddetta giurisprudenziale". Infatti, la concessione in sanatoria è un provvedimento tipico, che elimina l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il reato ed il potere repressivo dell'amministrazione, per cui la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla normativa. Né appare possibile l'esercizio, da parte dell'amministrazione, di un potere di sanatoria che vada oltre i limiti imposti dal legislatore, anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della regolamentazione urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva addirittura fino all'esecuzione della definitiva sanzione della demolizione
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 15.01.2004 n. 16 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2003

EDILIZIA PRIVATA: Non v'è nessuna ragione di ritenere che l’ordinamento imponga di demolire un’opera prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente; sicché, un opera abusiva conforme allo strumento urbanistico all'atto di presentazione della relativa istanza può essere sanata.
Il Collegio non può che confermare i propri precedenti secondo cui gli articoli 13 e 15 della legge 28.02.1985 n. 47, i quali richiedono, per la sanatoria rispettivamente delle opere eseguite senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l’inerzia dell’amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda.
Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda di sanatoria; non essendovi nessuna ragione di ritenere che l’ordinamento imponga di demolire un’opera prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.10.2003 n. 6498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAV'è l'obbligo di negare la concessione in sanatoria, ex art. 13 L. 47/1985, se manca la conformità agli strumenti urbanistici sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda.
L'Amministrazione Comunale è vincolata a negare la concessione in sanatoria, ex art. 13 L. 47/1985 se manca la conformità agli strumenti urbanistici sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda, né può configurarsi alcuna ipotesi diversa di sanatoria (c.d. "giurisprudenziale") che ricorrerebbe ogni qualvolta vi sia conformità alla sola normativa vigente al momento del rilascio della concessione, ma è in contrasto insuperabile con le disposizioni di legge sopra citate (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.02.2003 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2002

EDILIZIA PRIVATANon sembra ammissibile l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, quale ipotesi generalizzata di sanatoria di opere realizzate abusivamente ma conformi alla disciplina urbanistica vigente, in quanto da un lato comporterebbe che ogni ipotesi di abuso edilizio potrebbe essere in ogni tempo sanato dal sopravvenire di una disciplina urbanistica con la quale esso non si trovi in contrasto e dall’altro l’istituto della concessione in sanatoria di cui all’art. 13 della legge n. 47/1985 –che contempla l’unica ipotesi di sanatoria ‘a regime’ prevista dall’ordinamento del settore– non contiene alcuna deroga che possa legittimare un caso di sanatoria al di fuori delle condizioni da esso prescritte.
L'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, pur affermato in qualche isolata pronuncia (Cons. St., V, 13.02.1995 n. 238), non è previsto da alcuna norma dell'ordinamento ed, anzi, dopo l'introduzione legislativa dell'istituto della sanatoria ordinaria, prevista dall'art. 13 della legge 28.2.1985 n. 47, non sembra ammissibile come ipotesi generalizzata di sanatoria di opere realizzate abusivamente.
Infatti, fuori delle condizioni prescritte dal citato art. 13, che l'opera sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della sua realizzazione sia al momento della presentazione della domanda e che sia non in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati a tali due epoche, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria.
L'istituto previsto dalla legge, in altri termini, vale solo nei casi di abuso formale, cioè a dire di opera realizzata senza titolo.
Nella fattispecie, si tratta invece di opere sostanzialmente abusive, tanto è vero che la precedente istanza di sanatoria avanzata ex art. 13 della legge n. 47/1985 è stata respinta dall'amministrazione proprio sul presupposto dell'insussistenza delle condizioni prescritte dalla legge (la c.d. doppia conformità urbanistica).
In altri termini, la circostanza che l'opera di che trattasi sia conforme alla disciplina urbanistica vigente non vale, di per sé, a far sorgere in capo all'amministrazione l'obbligo di pronunciarsi sull'istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria dopo che la stessa amministrazione si sia pronunciata sull'istanza di sanatoria formulata ex art. 13 L. n. 47/1985.
Diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che sussista l'obbligo dell'amministrazione di pronunciarsi su qualsivoglia domanda di sanatoria ogni qualvolta questa sia fondata sull'asserita conformità dell'opera allo strumento urbanistico vigente.
Il che varrebbe a ritenere che ogni ipotesi di abuso edilizio, cioè non preceduto da titolo legittimante, potrebbe essere in ogni tempo sanato dal sopravvenire di una disciplina urbanistica con la quale esso non si trovi in contrasto.
Tale conclusione comporterebbe, altresì, che l'istituto della concessione in sanatoria di cui all'art. 13 della legge n. 47/1985 troverebbe applicazione solo nei casi in cui l'opera fosse in contrasto con la disciplina urbanistica vigente al momento dell'adozione della concessione in sanatoria e, tuttavia, fosse stato conforme agli strumenti urbanistici vigenti, e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della sua realizzazione sia al momento della presentazione della relativa domanda di sanatoria.
Una tale conseguenza, tuttavia, non è autorizzata dalla costante interpretazione giurisprudenziale dell'art. 13 della legge n. 47/1985, che, da una parte, contempla l'unica ipotesi di sanatoria "a regime" prevista dall'ordinamento di settore e, dall'altra, non contiene alcuna deroga che possa legittimare un caso di sanatoria al di fuori delle condizioni da esso prescritte.
Né si rinviene alcun principio dell'ordinamento tale da legittimare una diversa conclusione.
La sanatoria è, di per sé, un istituto eccezionale, sicché l'interpretazione della norma che la prevede non può che essere rigorosa e la sua applicazione deve essere contenuta in limiti ristretti (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2002 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria c.d. giurisprudenziale – Inammissibilità - Interpretazione estensiva dell’art. 13 L. 47/1985 - Esclusione.
Non sembra ammissibile l’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, quale ipotesi generalizzata di sanatoria di opere realizzate abusivamente ma conformi alla disciplina urbanistica vigente, in quanto da un lato comporterebbe che ogni ipotesi di abuso edilizio potrebbe essere in ogni tempo sanato dal sopravvenire di una disciplina urbanistica con la quale esso non si trovi in contrasto e dall’altro l’istituto della concessione in sanatoria di cui all’art. 13 della legge n. 47/1985 –che contempla l’unica ipotesi di sanatoria ‘a regime’ prevista dall’ordinamento del settore– non contiene alcuna deroga che possa legittimare un caso di sanatoria al di fuori delle condizioni da esso prescritte (TAR toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2002 n. 1245 - link a www.giurisprudenzaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA Sanatoria c.d. giurisprudenziale – Inammissibilità - Interpretazione estensiva dell’art. 13 L. 47/1985 - Esclusione.
La legge n. 47/1985 ha predisposto una disciplina esaustiva e puntuale delle ipotesi di sanatoria, anche ai fini amministrativi, non lasciando alcun margine interpretativo per consentire la sopravvivenza della c.d. sanatoria giurisprudenziale (che sembrava configurabile nella normativa previgente in relazione al dodicesimo comma dell’art. 15 della legge n. 10/1977) in quanto la concessione in sanatoria è un provvedimento tipico che non permette all’amministrazione di esercitare il relativo potere oltre i limiti imposti dal legislatore, altrimenti risulterebbe un’interpretazione finalizzata alla protezione degli interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici (peraltro consentendo di usufruire delle modifiche della regolamentazione urbanistica, idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione).
Pertanto l'art. 13 legge 47/1985 non può che essere interpretata se non nel senso di delimitare il potere dovere dell'amministrazione di provvedere all'erogazione delle misure sanzionatorie negli stretti limiti temporali indicati dalla norma, posto che il principio di cui all'articolo 97 della Costituzione, che farebbe ritenere illogica la demolizione dell'opera, quando la stessa potrebbe essere autorizzata sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica, deve, comunque, retrocedere dinnanzi all'altro principio generale, di rango costituzionale, e cioè, il principio di legalità, che impone la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 15.04.2002 n. 724 - link a www.giurisprudenzaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa concessione in sanatoria, ai sensi dell'articolo 13 della legge n. 47/1985, costituisce atto dovuto quando l'opera "è conforme a gli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda".
La concessione in sanatoria, ai sensi dell'articolo 13 della legge n. 47/1985, costituisce atto dovuto quando l'opera "è conforme a gli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda". Pertanto, l'amministrazione è vincolata a negarla, se non ricorrono le predette ipotesi.
Non può, peraltro, condividersi la tesi secondo la quale, accanto alla fattispecie di sanatoria prevista dalla citata norma, che elimina anche gli effetti penali dell'abuso edilizio, sussisterebbe anche una seconda specie di sanatoria (c.d: sanatoria giurisprudenziale), che ricorrerebbe ogni qualvolta vi sia conformità dell'opera realizzata abusivamente, alla normativa urbanistica vigente al momento del rilascio della concessione.
Tale figura di sanatoria sembrava, infatti, configurabile nella normativa previgente che, al dodicesimo comma dell'articolo 15 della legge n. 10/1977, si limitava, secondo l'opinione dominante, a liberalizzare alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti, senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, la quale, pertanto, veniva ritenuta possibile, dalla giurisprudenza, in caso di conformità con gli strumenti urbanistici vigenti al momento della pronuncia sulla domanda di sanatoria, e ciò, al fine di evitare inutili distruzioni di ricchezza.
Al contrario, la legge n. 47/1985 ha predisposto una disciplina esaustiva e puntuale delle ipotesi di sanatoria, anche ai fini amministrativi, non lasciando alcun margine interpretativo per consentire la sopravvivenza della sanatoria c.d. giurisprudenziale, non potendo, certo, ritenersi che la norma possa interpretarsi soltanto come una norma di salvaguardia contro l'inerzia amministrativa, al fine di rendere "inopponibili, al richiedente, i mutamenti degli strumenti urbanistici" (come ritenuto da C.S., V, n. 238/1995).
Infatti, la concessione in sanatoria è un provvedimento tipico, che elimina l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il reato ed il potere repressivo dell'amministrazione per cui, la sua applicazione ed i suoi limiti non possono, che essere specificamente disciplinati dalla normativa, né appare possibile l'esercizio, da parte dell'amministrazione, di un potere di sanatoria che vada oltre i limiti imposti dal legislatore, anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della regolamentazione urbanistica idonee a legittimare l'edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione.
Pertanto, la norma in esame non può che essere interpretata se non nel senso di delimitare il potere dovere dell'amministrazione di provvedere all'erogazione delle misure sanzionatorie negli stretti limiti temporali indicati dalla norma, posto che, il principio di cui all'articolo 97 della Costituzione, che farebbe ritenere illogica la demolizione dell'opera, quando la stessa potrebbe essere autorizzata sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica, deve, comunque, retrocedere dinnanzi all'altro principio generale, di rango costituzionale, e cioè, il principio di legalità, che impone la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 15.04.2002 n. 724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).