dossier ATTI AMMINISTRATIVI
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per il dossier ATTI AMMINISTRATIVI sino al 2019
cliccare qui
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per il dossier ATTI AMMINISTRATIVI sino al 2012
cliccare qui |
per approfondimenti vedi anche:
F.O.I.A. - Freedom Of Information Act (a cura del
Dipartimento Funzione Pubblica)
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi
(presso la Presidenza Consiglio dei Ministri)
* * *
Legge 07.08.1990 n. 241 <--->
D.P.R. 12.04.2006 n. 184 <--->
D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 |
novembre 2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Spallino,
Risarcimento del danno da provvedimento legittimo e illegittimo - Repertorio
di giurisprudenza
(10.11.2023 - link a www.dirittopa.it).
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1 - Accertamento della lesione a fronte di domanda di risarcimento del
danno: interessi oppositivi e interessi pretensivi
2 - Annullamento giurisdizionale
3 - Annullamento giurisdizionale per vizio procedimentale
4 - Annullamento in autotutela
5 - Danno da lesione dell’affidamento del privato nella (mancata) emanazione
del provvedimento
6 - Danno da atto legittimo: rilevanza della buona fede del privato.
7 - Danno da ^illecito costituzionale^: non risarcibilità
8 - Danno da illecito provvedimentale
9 - Danno da omessa adozione di provvedimenti contro l'inquinamento:
competenza
10 - Danno da ritardo: presupposti
11 - Danno da ritardo: individuazione del regime di responsabilità
“provvedimentale” della pubblica amministrazione
12 - Danno da ritardo, responsabilità aquiliana
13 - Danno da ritardo: responsabilità contrattuale da contatto sociale
14 - Danno da perdita di chance
15 - Danno ingiusto: nozione.
16 - Danno non patrimoniale
17 - Domanda autonoma di risarcimento del danno: computo del dies a quo
18 - Domanda di risarcimento del danno e dichiarata infondatezza della
domanda di annullamento
19 - Domanda di accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini
risarcitori ex art. 34, comma 3, c.p.a.
20 - Domanda di risarcimento del danno a seguito di annullamento
giurisdizionale del provvedimento amministrativo
21 - Domanda di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento:
competenza G.A.
22 - Domanda di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento:
competenza G.O.
23 - Domanda di risarcimento del danno in via autonoma: dedotto e deducibile
24 - Domanda di risarcimento del danno: onere della prova
25 - Domanda di risarcimento del danno: presupposti
26 - Responsabilità precontrattuale: presupposti
27 - Responsabilità precontrattuale: competenza
28 - Riconoscimento del danno: presupposti
29 - Riparto di giurisdizione
30 - Risarcimento del danno: presupposto dell'ingiustizia
31 - Silenzio su istanza a provvedere e domanda di risarcimento del danno |
agosto 2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla illegittimità (per difetto di motivazione e per
violazione del principio di proporzionalità) di una
ordinanza sindacale che
vieta l’ingresso nelle spiagge destinate alla libera
balneazione, negli orari compresi tra le 08:00 e le 20:00,
durante la stagione balneare 2023 (1° giugno-31 ottobre) a
qualsiasi tipo di animale, anche se munito di museruola o
guinzaglio, ivi compresi quelli utilizzati dai fotografi o
cineoperatori, fatta eccezione per i cani da salvataggio al
guinzaglio e per i cani guida per i non vedenti.
L’obbligo motivazionale contenuto nell’art. 3 della legge n.
241 del 1990 sancisce un principio di portata generale, al
quale sono poste limitatissime eccezioni, espressamente rese
esplicite dal legislatore ovvero individuate in sede
giurisprudenziale.
Al di fuori di tali eccezioni, si applica il principio
generale per cui il provvedimento lesivo deve rendere note
le ragioni poste a sua base, nonché l’iter logico seguito
dall’Amministrazione, e ciò per evidenti ragioni di
trasparenza dell’esercizio del pubblico potere.
---------------
L’ordinanza sindacale impugnata -nella
parte in cui vieta ai conduttori di animali, anche se muniti
di museruola e guinzaglio, di poter accedere alle spiagge
libere di tutto il litorale comunale dalle ore 8.00 alle ore
20.00- è riconducibile alla categoria
degli atti a contenuto generale in quanto indirizzata ad una
pluralità indeterminata di destinatari.
Il
provvedimento de quo impugnato è, innanzitutto, illegittimo
per difetto di motivazione.
Tale natura giuridica non comporta, tuttavia, di per sé una
eccezione all’obbligo di motivazione, perché –in ordine
all’ambito di applicazione dell’art. 3 della legge n. 241
del 1990– la giurisprudenza ha più volte chiarito che si
applica in materia il principio di esigibilità, per cui
comunque occorre una motivazione, quando ciò sia compatibile
con le caratteristiche del provvedimento in questione: ad
esempio, mentre per le varianti generali agli strumenti
urbanistici non occorre una specifica motivazione sulle
singole determinazioni incidenti sui vari interessati, non
v’è dubbio che una motivazione occorra quando si tratti di
varianti urbanistiche aventi un ambito limitato di
applicazione, ovvero di atti generali emanati da Autorità
indipendenti, incidenti su posizioni di una pluralità
indeterminata di destinatari.
Lo stesso principio si applica quando autorità locali
intendano limitare l’utilizzazione di auto o di altri
veicoli a motore, limitare gli orari di apertura di esercizi
pubblici o aperti al pubblico: anche l’ordinanza che regola
le condotte consentite e quelle vietate –circa l’uso del
demanio marittimo– deve essere motivata, evidenziando quali
specifiche esigenze vadano soddisfatte, in correlazione alle
limitazioni delle libertà, che ne conseguono.
In sostanza, negli atti che rientrano nella categoria in
esame la disciplina dell’obbligo di motivazione attiene alla
dimostrabilità della ragionevolezza delle scelte operate
dalla PA, che, nella odierna fattispecie non è ravvisabile.
---------------
Il provvedimento impugnato è, altresì, illegittimo
sotto il connesso profilo della violazione del principio di
proporzionalità.
Il principio di proporzionalità di matrice comunitaria,
immanente nel nostro ordinamento in virtù del richiamo
operato dall’art. 1 della legge n. 241/1990, impone alla
pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte
ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse,
per quella meno gravosa per i destinatari incisi dal
provvedimento, onde evitare agli stessi ‘inutili’
sacrifici.
Nel caso in esame, la mancata esternazione nel provvedimento
gravato anche di quale sia l’interesse pubblico
concretamente perseguito attraverso l’imposizione del
divieto contestato non impedisce la formulazione di un
giudizio di sproporzione tra l’atto adottato ed il fine con
esso perseguito.
In altri termini, la scelta di vietare negli orari diurni
l'ingresso agli animali -e, conseguentemente, ai loro
padroni o detentori- sulle spiagge destinate alla libera
balneazione, risulta irragionevole ed illogica, oltre che
irrazionale e sproporzionata, nel senso che
l'amministrazione avrebbe dovuto valutare se sia possibile
perseguire le finalità pubbliche del decoro, dell'igiene e
della sicurezza, ovvero dell’incolumità pubblica mediante
regole alternative al divieto di frequentazione delle
spiagge (quali, solo a titolo esemplificativo, a tutela
dell’igiene pubblica l’obbligo di portare con se, unitamente
all'animale, anche paletta e sacchetto per raccolta
deiezioni, l’immediata rimozione delle deiezioni, la pulizia
delle aree interessate dalle deiezioni, ovvero, a tutela
dell’incolumità pubblica, l’obbligo di indossare la
museruola o guinzaglio e il divieto di lasciare liberi gli
animali, viepiù per quelli di taglia non piccola, a tutela
della pubblica incolumità), idonee allo scopo ma, nel
contempo, non in assoluto preclusive delle prerogative dei
cittadini..
---------------
... per l'annullamento dell’art. 5 dell'ordinanza n. 12
emessa dal Sindaco del Comune di Bianco (Rc) in data
23.05.2023, nella parte in cui vieta ai conduttori di
animali, anche se muniti di museruola e guinzaglio, di poter
accedere alle spiagge libere di tutto il litorale comunale
dalle ore 8.00 alle ore 20.00.
...
1. Con ricorso ritualmente proposto l’associazione
ricorrente ha impugnato l’ordinanza in epigrafe nella parte
in cui vieta l’ingresso nelle spiagge destinate alla libera
balneazione, negli orari compresi tra le 08:00 e le 20:00,
durante la stagione balneare 2023 (1° giugno-31 ottobre) a
qualsiasi tipo di animale, anche se munito di museruola o
guinzaglio, ivi compresi quelli utilizzati dai fotografi o
cineoperatori, fatta eccezione per i cani da salvataggio al
guinzaglio e per i cani guida per i non vedenti.
1.1. Osserva parte ricorrente che il divieto di accesso
degli animali alle spiagge libere del territorio comunale si
pone in contrasto con il principio di proporzionalità
sancito dall’art. 1 della legge n. 241/1990 nonché con le
disposizioni di cui alla L.R. n. 41/1990 che, all’art. 2,
comma 1, lett. c), prevede che i Comuni provvedano a
realizzare sul territorio un corretto rapporto
uomo–ambiente–animale.
Il Comune avrebbe imposto, invero, un divieto generalizzato
riferito a tutti gli animali a prescindere dal fatto che si
tratti di animali regolarmente iscritti all’anagrafe
canina/felina o dal fatto che siano muniti di guinzaglio e
museruola e che i loro padroni provvedano a rimuovere le
loro deiezioni.
1.2. Non sarebbe, poi, possibile desumere dal tenore del
provvedimento se il divieto sia imposto per ragioni di
igiene o per ragioni di sicurezza, risultando, pertanto,
evidente la carenza di adeguata motivazione.
1.3. Parte ricorrente rappresenta di aver richiesto al
Comune, con PEC del 02.06.2023, “la modifica
dell'ordinanza balneare nel punto in cui pone il divieto
assoluto di accesso ai cani al litorale”, sollecitando
l’individuazione di almeno “un punto di accesso come
disposto dai vicini comuni di Siderno e Locri”. Tale
richiesta è rimasta, tuttavia, priva di riscontro.
...
4.1. Il provvedimento impugnato è, innanzitutto, illegittimo
per difetto di motivazione.
L’obbligo motivazionale contenuto nell’art. 3 della legge n.
241 del 1990 sancisce un principio di portata generale, al
quale sono poste limitatissime eccezioni, espressamente rese
esplicite dal legislatore ovvero individuate in sede
giurisprudenziale.
Al di fuori di tali eccezioni, si applica il principio
generale per cui il provvedimento lesivo deve rendere note
le ragioni poste a sua base, nonché l’iter logico seguito
dall’Amministrazione, e ciò per evidenti ragioni di
trasparenza dell’esercizio del pubblico potere.
Nel caso di specie, l’ordinanza ‘balneare’ impugnata
è riconducibile alla categoria degli atti a contenuto
generale (non avendo rilievo in questa sede se abbia o meno
natura regolamentare), in quanto indirizzata ad una
pluralità indeterminata di destinatari.
Tale natura giuridica non comporta tuttavia di per sé una
eccezione all’obbligo di motivazione, perché –in ordine
all’ambito di applicazione dell’art. 3 della legge n. 241
del 1990– la giurisprudenza ha più volte chiarito che si
applica in materia il principio di esigibilità, per cui
comunque occorre una motivazione, quando ciò sia compatibile
con le caratteristiche del provvedimento in questione: ad
esempio, mentre per le varianti generali agli strumenti
urbanistici non occorre una specifica motivazione sulle
singole determinazioni incidenti sui vari interessati, non
v’è dubbio che una motivazione occorra quando si tratti di
varianti urbanistiche aventi un ambito limitato di
applicazione, ovvero di atti generali emanati da Autorità
indipendenti, incidenti su posizioni di una pluralità
indeterminata di destinatari.
Lo stesso principio si applica quando autorità locali
intendano limitare l’utilizzazione di auto o di altri
veicoli a motore, limitare gli orari di apertura di esercizi
pubblici o aperti al pubblico: anche l’ordinanza che regola
le condotte consentite e quelle vietate –circa l’uso del
demanio marittimo– deve essere motivata, evidenziando quali
specifiche esigenze vadano soddisfatte, in correlazione alle
limitazioni delle libertà, che ne conseguono.
In sostanza, negli atti che rientrano nella categoria in
esame la disciplina dell’obbligo di motivazione attiene alla
dimostrabilità della ragionevolezza delle scelte operate
dalla PA, che, nella odierna fattispecie non è ravvisabile.
4.2. Il provvedimento impugnato è, altresì, illegittimo
sotto il connesso profilo della violazione del principio di
proporzionalità.
Il principio di proporzionalità di matrice comunitaria,
immanente nel nostro ordinamento in virtù del richiamo
operato dall’art. 1 della legge n. 241/1990, impone alla
pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte
ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse,
per quella meno gravosa per i destinatari incisi dal
provvedimento, onde evitare agli stessi ‘inutili’
sacrifici.
Nel caso in esame, la mancata esternazione nel provvedimento
gravato anche di quale sia l’interesse pubblico
concretamente perseguito attraverso l’imposizione del
divieto contestato non impedisce la formulazione di un
giudizio di sproporzione tra l’atto adottato ed il fine con
esso perseguito.
In altri termini, la scelta di vietare negli orari diurni
l'ingresso agli animali -e, conseguentemente, ai loro
padroni o detentori- sulle spiagge destinate alla libera
balneazione, risulta irragionevole ed illogica, oltre che
irrazionale e sproporzionata, nel senso che
l'amministrazione avrebbe dovuto valutare se sia possibile
perseguire le finalità pubbliche del decoro, dell'igiene e
della sicurezza, ovvero dell’incolumità pubblica mediante
regole alternative al divieto di frequentazione delle
spiagge (quali, solo a titolo esemplificativo, a tutela
dell’igiene pubblica l’obbligo di portare con se, unitamente
all'animale, anche paletta e sacchetto per raccolta
deiezioni, l’immediata rimozione delle deiezioni, la pulizia
delle aree interessate dalle deiezioni, ovvero, a tutela
dell’incolumità pubblica, l’obbligo di indossare la
museruola o guinzaglio e il divieto di lasciare liberi gli
animali, viepiù per quelli di taglia non piccola, a tutela
della pubblica incolumità), idonee allo scopo ma, nel
contempo, non in assoluto preclusive delle prerogative dei
cittadini (cfr., TAR Catanzaro, sez. II, sentenza n. 885 del
26.04.2021 e n. 1430 dell’01.08.2022).
5. Per le ragioni si qui esposte, il ricorso è fondato e va
accolto con il conseguente annullamento dell’ordinanza in
esame nei limiti oggetto dell’impugnazione, sussistendo
giusti motivi per dichiarare non ripetibili le spese di lite (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 01.08.2023 n. 651 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Le
notifiche p.a. arrivano on-line. Al via l’Indice nazionale
dei domicili digitali. Serve la Pec. Multe, cartelle,
accertamenti, detrazioni, rimborsi direttamente sulla posta
elettronica.
Da ieri 6 luglio, il sistema di comunicazione con la
p.a. diventa a tutti gli effetti digitalizzato, in quanto si
avvia l'Inad (Indice azionale dei domicili digitali) che
consente di eleggere il proprio domicilio digitale tramite
l'indicazione di un indirizzo posta elettronica certificata.
Ne consegue che tutti i cittadini saranno invitati a dotarsi
della Pec che consente la ricezione di atti con un sistema
equiparato alla raccomandata, consentendo l'opponibilità a
terzi dell'avvenuta consegna.
Con la creazione dell'Inad, ogni indirizzo Pec viene
registrato nell'indice nazionale, consentendo la più rapida
ricezione di multe, cartelle di pagamento, accertamenti,
detrazioni e rimborsi fiscali. Già da tempo la Pec è
obbligatoria per aziende, professionisti e pubbliche
amministrazioni.
La previsione trova la sua ratio nella necessità di
rendere il rapporto tra cittadino e p.a. più efficiente e
celere, in conformità alle ultime riforme attuate con il dl
Semplificazioni, che è intervenuto anche in materia di
accesso e trasparenza garantendo il rispetto del principio
di buon andamento ed efficienza dell'amministrazione (art.
97 Cost.).
Si ricorda che già con la legge 15/2005 è stato inserito
l'art. 3-bis nella legge 241/1990, statuendo che “per
conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le
amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della
telematica, nei rapporti interni, tra le diverse
amministrazioni e tra queste e i privati”.
Attraverso l'utilizzo della Pec, oltre a garantire
l'efficienza del sistema, la riforma ha volutamente posto in
luce la necessità di garantire la certezza del diritto e del
dialogo con la p.a., posto che lo strumento in questione è
volto a conservare l'autenticità delle comunicazioni, dato
il valore legale della Pec assimilabile a una raccomandata
con ricevuta di ritorno.
Entro il 6 luglio la p.a. è tenuta a verificare la presenza
dei cittadini nel sistema digitalizzato: qualora non
risultino iscritti nel registro Inad, potranno ricevere le
comunicazioni tramite il vecchio sistema cartaceo fino al
30/11/2023. I cittadini che ne siano in possesso sono
pertanto tenuti
(1) a registrare la
propria Pec su
https://domiciliodigitale.gov.it, con l'obbligo di
verificare la propria identità tramite Spid, Cie o Cns.
Non è ancora chiaro cosa accadrà dopo il 30 novembre per
quei cittadini che non siano dotati di alcun sistema
digitale. Nel decreto p.a. si legge che “al fine di
garantire la piena inclusione dei soggetti in divario
digitale, fino al 30.11.2023, il gestore della piattaforma
per la notificazione digitale degli atti della pubblica
amministrazione invia al destinatario sprovvisto di
domicilio digitale che non abbia già perfezionato la
notifica tramite accesso alla piattaforma l'avviso di
avvenuta ricezione in formato cartaceo”.
Pertanto al momento si desume che l'acquisizione di una Pec
non è obbligatoria per tutti i cittadini, quanto piuttosto
consigliata, essendo posta a garanzia dell'efficienza del
sistema amministrativo.
Il sistema Pec, infatti, è in linea anche con l'economicità
del sistema della p.a. (art. 1 L. 291/1990). Già dal
06/06/2023, in attuazione dell'art. 6-quater, c. 2 del Cad,
tutte le Pec dei professionisti presenti in
Ini-Pec (l'Indice nazionale degli Indirizzi Pec di
società, imprese individuali e professionisti iscritti a un
Ordine professionale) sono stati importati automaticamente
anche su Inad, in qualità di domicili digitali di persone
fisiche. I professionisti hanno facoltà di modificare il
domicilio su Inad, indicando un'altra Pec diversa da quella
presente in Ini-Pec.
Dal 6 luglio, pertanto, sarà possibile la consultazione di
tutti i domicili eletti o modificati pubblicati in Inad,
inserendo il codice fiscale della persona di cui si vuole
conoscere il domicilio digitale.
La novità non riguarda solo avvisi di accertamento o
richieste impositive, ma ogni tipo di comunicazione con la
p.a.. Ne deriva un chiaro vantaggio per il cittadino che
sarà destinatario di comunicazioni notificate in tempi più
ristretti e in modo automatico, con notevoli risparmi legati
al minore utilizzo della carta e all'azzeramento dei costi
di postalizzazione. In merito alla disciplina inerente alla
notifica di atti, enunciata nell'art. 60 del dpr 600/1973,
si desume che il contribuente ha la “facoltà” di
eleggere domicilio per la notifica degli atti che lo
riguardano.
Nel silenzio dell'odierna riforma, stante l'incertezza
legislativa e il mancato intervento circa le conseguenze
dell'inottemperanza alle nuove modalità di notifica
digitale, non sembrano venire in rilievo profili di nullità
dell'eventuale notifica attuata tramite le modalità
ordinarie in forma cartacea.
Pertanto, si ritiene che in difetto di notifica a mezzo Pec
nei confronti di un cittadino regolarmente iscritto nell'Inad,
potrebbe venir in rilievo una mera irregolarità se si
considera che le forme di nullità devono essere previste
ex lege.
In tal senso, potrebbe riscontrarsi una forma di
responsabilità della p.a. per violazione delle regole di
correttezza e buona fede, previste dall'art. 1, co. 2-bis,
legge 241/1990. Diversamente, qualora si facesse leva sul
carattere imperativo che rivestono le norme di diritto
amministrativo, il mancato rispetto delle nuove normative
potrebbe dar seguito a una forma di “nullità virtuale per
violazione di norme imperative”.
Appare preferibile, tuttavia, la conclusione secondo cui, in
attesa di un riscontro legislativo più chiaro, la notifica
attuata tramite raccomandata -nonostante l'avvenuta
iscrizione del cittadino nel registro Inad– è in ogni caso
valida, dal momento che la novità del decreto p.a. prevede
una mera facoltà di iscrizione della Pec e non un obbligo,
almeno fino al 30/11/2023, data in cui si auspica una
precisazione da parte del legislatore.
Si ricorda, da ultimo, che il dm Economia e Finanze del
14/04/2023 ha disposto all'art. 2, tra l'altro, che il costo
della notifica “è fissato nella misura unitaria di euro
7,83 per le notifiche effettuate mediante invio di
raccomandata con avviso di ricevimento, di euro 6,51 per le
raccomandate semplici, di euro 2 per le notifiche effettuate
mediante l'invio a mezzo posta elettronica certificata (…)".
Pertanto, è evidente come il costo della Pec sia
maggiormente conveniente rispetto alle notifiche attuate
tramite raccomandata.
Quanto detto è in linea con la riforma in esame, che
consente di ottemperare a esigenze di efficienza e celerità
-anche in termini di costi– che verrebbero soddisfatte
dall'attuazione di notifiche a mezzo Pec anche nei confronti
dei singoli cittadini, oltre che degli enti come già
previsto (articolo ItaliaOggi del 07.07.2023).
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(1)
Parrebbe che, al contrario, ad oggi non sussista l'obbligo
normativo di registrarsi all'INAD: in merito
si legga qui |
ATTI AMMINISTRATIVI: Domicili
digitali persone fisiche, da domani via all'Indice (Inad). A segnalarlo è il
Consiglio nazionale forense.
Da domani via libera all'Inad, l'indice nazionale dei domicili digitali
delle persone fisiche, dei professionisti non ordinisti e degli enti di
diritto privato non tenuti all'iscrizione nell'Ini-Pec: saranno consultabili
gli indirizzi Pec eletti (o modificati) dove ricevere tutte le comunicazioni
ufficiali della pubblica amministrazione come rimborsi fiscali, accertamenti
e verbali di sanzioni.
A segnalarlo è il Consiglio nazionale forense con la
nota 28.06.2023 agli Ordini territoriali: i domicili digitali
eletti nell'Inad, infatti, sono validi per effettuare notifiche e
comunicazioni. E per gli avvocati l'indirizzo Pec presente in Ini-Pec è
inserito di default nell'Inad.
Elezione volontaria.
I domicili digitali presenti nell'Inad (https://domiciliodigitale.gov.it),
ricorda il Cnf, valgono ai fini delle notificazioni e delle comunicazioni
degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e
stragiudiziale. Idem vale per le notifiche eseguite in proprio degli
avvocati tramite posta elettronica certificata.
La riforma Cartabia del processo civile ha reso obbligatoria per l'avvocato
la modalità telematica quando i destinatari sono avvocati, altri
professionisti iscritti in albi o elenchi, imprese individuali e collettive,
pubbliche amministrazioni, gestori di servizi pubblici, società a controllo
pubblico oppure soggetti che, pur non essendo obbligati, hanno eletto
domicilio digitale proprio iscrivendosi all'Inad.
Gestione e modifica.
Per gli avvocati il domicilio digitale personale predefinito nell'Inad è
l'indirizzo Pec presente nel registro Ini-Pec (www.inipec.gov.it/cerca-pec)
che risulta importato in automatico: il professionista può tuttavia
eleggerne uno differente come domicilio digitale delle persone fisiche.
Anche i cittadini possono modificare e gestire il proprio domicilio
elettronico personale, grazie alle funzioni del portale Inad e in seguito
anche tramite il portale dell'Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione
residente, indicando un account di Pec diverso da quello presente in
Ini-Pec.
E possono scegliere di cessare dal domicilio digitale senza doverne indicare
uno nuovo, facoltà che invece non è riconosciuta ai professionisti iscritti
all'Inad.
Magnifici sette.
Con l'avvento di quest'ultimo diventano sette gli elenchi pubblici in
cui si possono reperire indirizzi Pec per le comunicazioni elettroniche a
valore legale in base al codice dell'amministrazione digitale. Gli altri
sono:
-
Ini-Pec, l'indice nazionale della posta elettronica certificata gestito
dal ministero dello Sviluppo economico;
-
Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione residente;
- registro Pa, formato dal ministero della Giustizia e
consultabile solo da uffici giudiziari, uffici notifiche, esecuzione e
protesti oltre che dagli avvocati;
-
registro imprese delle Camere di commercio;
-
Reginde, gestito anch'esso da via Arenula, con le Pec di avvocati,
notai, avvocati dello Stato e degli enti e ausiliari del giudice;
-
Ipa, l'indice dei domicili digitali della p.a. e dei gestori di pubblici
servizi, gestito dall'Agid, Agenzia per l'Italia digitale (articolo ItaliaOggi del 05.07.2023). |
maggio 2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Motivazione confusa, atto nullo. Anche l'avviso di accertamento
deve essere ragionevole. Un'ordinanza della Corte di cassazione accoglie la
tesi prospettata dal contribuente.
La motivazione dell'avviso di accertamento, come quella di ogni
provvedimento amministrativo, è improntata alla salvaguardia dei principi di
rango costituzionale di ragionevolezza, imparzialità e proporzionalità che
governano l'agire amministrativo, commisurata alle esigenze di razionalità
operativa e non arbitrarietà del potere discrezionale. Peraltro, nell'ottica
del destinatario dell'atto la motivazione è finalizzata alla cognizione del
processo decisionale dell'autorità al fine dell'eventuale opposizione in
aderenza ai dettami costituzionali.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. V civile -
ordinanza 17.05.2023 n. 13620, che ha accolto
la tesi del contribuente che lamentava la motivazione contraddittoria degli
avvisi emessi, disponendo che l'apparato motivazionale assume un aspetto
rilevante anche per l'organo giurisdizionale poiché costituisce il
principale, se non il solo elemento utilizzabile per il relativo vaglio.
Se è verosimile che l'atto rechi motivazioni concorrenti per delimitare la
condotta del contribuente nella fase preliminare del procedimento di
formazione della pretesa, il ricorso a molteplici profili motivazionali non
deve comprimere l'esigenza del rispetto del vincolo funzionale a cui
l'obbligo motivazionale è destinato. Gli ermellini richiamano altri
precedenti conformi (Cass. 18767/2020, 6104/2020 e 22003/2014) che
evidenziano come l'atto non possa recare un impianto motivazionale
contraddittorio, poiché è precluso al contribuente di avere certezza degli
elementi costituenti le ragioni della pretesa.
Siffatto vizio è configurabile anche quando sono esposte motivazioni
concorrenti ma assolutamente discordanti tra di loro e, perciò, inidonee a
rappresentare il fulcro della pretesa. Il fisco non può manifestare una
motivazione incoerente con funzione di riserva, perché l'alternatività delle
ragioni della pretesa, lasciando la parte pubblica arbitro di scegliere nel
corso del contenzioso quella che più le convenga secondo le circostanze,
espone la controparte ad una difesa difficile o talvolta impossibile.
I principi sopra affermati sono stati disattesi da giudici di merito avendo
ritenuto gli atti opposti immuni dai censurati vizi, sebbene caratterizzati
da scarsa rigorosità motivazionale. Orbene, il fatto che i rilievi erariali
si fondavano su plurime ragioni, anche in apparenza contrastanti fra loro,
non comportava la nullità degli atti, sia perché nessuna norma fa discendere
la loro nullità da un vizio di contraddittoria motivazione, sia perché si
trattava di scarsa rigorosità motivazionale più che di contraddittorietà
della motivazione medesima.
Secondo la Corte, posto la scelta del fisco di affidare l'atto a plurime
ragioni tra di loro eterogenee, i giudici di appello avrebbero dovuto
verificare concretamente, se la comprensione dei fattori fondanti la pretesa
era oggettivamente incerta con riguardo alla possibilità del contribuente di
esercitare il diritto di difesa nella sua pienezza
(articolo ItaliaOggi del 11.07.2023). |
agosto 2022 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Un
termine amministrativo (di efficacia) scaduto non è passibile di istanza di
proroga.
Un provvedimento che si fondi su ragioni diverse,
autonome una dalle altre, può rimanere in vita allorché anche una sola di
esse sia in grado di reggere alle censure che sono rivolte all’atto.
Invero, «… nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto da
più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e
non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure
indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso,
idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la
potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo…».
---------------
Come noto, costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello
secondo il quale la proroga dei termini di efficacia di un atto
amministrativo presuppone necessariamente che il termine da prorogare non
sia ancora scaduto.
Il principio è applicabile in relazione ad ogni provvedimento amministrativo
che sia sottoposto ad un termine finale di efficacia atteso che, un conto è
disporre la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un originario
provvedimento, altra cosa è consentire nuovamente lo svolgimento di una
attività in precedenza preclusa per sopravvenuta inefficacia dell'atto
abilitativo, occorrendo, in questo secondo caso, una nuova e più
approfondita valutazione che tenga conto della situazione di fatto e delle
regole giuridiche sopravvenute.
---------------
Ai fini del decidere giova precisare, in punto di fatto, che:
- con decreto del Dipartimento delle Attività produttive della
Regione Siciliana n. 3026/U.O.S8.4 del giorno 11.07.2011, è stato concesso
alla odierna ricorrente di realizzare e gestire un impianto di distribuzione
carburanti, con obbligo di ultimazione di tale impianto entro ventiquattro
mesi dalla data del decreto (quindi 11.07.2013);
- l’impresa ricorrente ha presentato, sul presupposto che il Comune
competente non avesse ancora concesso il necessario permesso di costruire,
proroghe in data 05.07.2013, 12.06.2014, 29.06.2015, 23.06.2016 e
01.02.2019;
- le prime tre istanze di proroga risultano essere state assentite
con provvedimenti n. 2309/U.O.B.8S.3 del 25.10.2013, n. 1655 U.O.B.8S.3 del
18.07.2014, e n. 1604 U.O.B.8S.3 del 28.07.2015;
- nessun provvedimento espresso di proroga risulta invece essere
stato adottato in ordine alla penultima istanza di proroga (quella
presentata in data 23.06.2016), in ordine alla quale l’Amministrazione
risulta aver richiesto, con nota prot. 49645 del 04.10.2016 (depositata
dall’Amministrazione in data 04.09.2019 sub 6), una «…autocertificazione
che attesti in maniera esaustiva lo stato dell'arte della pratica relativo
anche all'effettivo stato di avanzamento dei lavori di realizzazione…»;
tale nota non sarebbe pervenuta alla impresa ricorrente;
- l’ultima istanza (quella presentata in data 01.02.2019) ha infine
dato origine al diniego di cui si tratta;
- con il provvedimento n. 1604 U.O.B. del 28.07.2015 (depositato
dall’Amministrazione in data 04.09.2019 sub 4), è stata concessa proroga
fino al giorno 11.07.2016;
- la motivazione del rigetto si fonda su plurime ragioni; nel
provvedimento impugnato si legge infatti: «…Richiamata la propria nota
prot. n. 16559/R 7SR0467IDSA del 07/03/2019 di avviso di rigetto istanza,
notificata a mezzo PEC in data 08/03/2019, con la quale si comunicava alla
Ditta:
- del mancato riscontro alla richiesta
documentale avanzata dallo scrivente ufficio con nota del 04/10/2016 prot.
n. 49645 che non ha consentito a questa Amministrazione di procedere al
rilascio del decreto di proroga termini e che, inoltre, per dare continuità
alla validità del Decreto, la Ditta avrebbe dovuto presentare, entro i
termini di scadenza delle successive proroghe (11/07/2017 e 11/07/2018) le
relative istanze di proroga termini per la realizzazione dell'impianto.
- che la nuova istanza di proroga dei termini
viene presentata dalla Ditta dopo oltre due anni dalla scadenza del termine
accordato per la realizzazione dell'impianto (11/07/2016) …».
Tanto premesso, il ricorso deve essere rigettato, richiamata la
condivisibile giurisprudenza secondo cui un provvedimento che si fondi su
ragioni diverse, autonome una dalle altre, può rimanere in vita allorché
anche una sola di esse sia in grado di reggere alle censure che sono rivolte
all’atto: «… nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto
da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e
non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure
indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso,
idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la
potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo…» (Cons.
Stato, Sez. IV, 08.06.2007, n. 3020; analogamente, ex plurimis, anche
per richiami di giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2123).
Nel caso di specie assume portata dirimente la circostanza che l’ultima
istanza di proroga è stata presentata in data 01.02.2019, dopo oltre due
anni dalla scadenza del termine da ultimo accordato per la realizzazione
dell’impianto (11.07.2016).
Sul punto, è sufficiente rinviare alla condivisibile e stabile
giurisprudenza del Giudice amministrativo secondo cui «…come noto,
costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale
la proroga dei termini di efficacia di un atto amministrativo presuppone
necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto. Il
principio è applicabile in relazione ad ogni provvedimento amministrativo
che sia sottoposto ad un termine finale di efficacia atteso che, un conto è
disporre la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un originario
provvedimento, altra cosa è consentire nuovamente lo svolgimento di una
attività in precedenza preclusa per sopravvenuta inefficacia dell'atto
abilitativo, occorrendo, in questo secondo caso, una nuova e più
approfondita valutazione che tenga conto della situazione di fatto e delle
regole giuridiche sopravvenute (cfr. Consiglio di Stato, V, 27.08.2014, n.
4384; IV, 22.05.2006, n. 3025; 22.12.2003, n. 8462; 25.03.2003, n. 1545; VI,
10.10.2002, n. 5443)…» (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 03.12.2018, n.
2717).
Il diniego impugnato, sotto tale profilo, resiste quindi alle censure di
parte ricorrente.
Né a diversa decisione può indurre la circostanza che l’Amministrazione non
abbia emesso un provvedimento di proroga a seguito della presentazione della
istanza del 23.06.2016, poiché un’eventuale proroga sarebbe comunque scaduta
in data 11.07.2017, e nessuna ulteriore richiesta risulta essere stata
presentata prima di tale ultima data; d’altro lato, un’eventuale inerzia
dell’Amministrazione avrebbe dovuto essere censurata nei modi e termini di
cui agli artt. 31 e 117 cpa (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 22.08.2022 n. 2299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Risarcimento
danni da provvedimenti illegittimi, nessuna responsabilità se la norma è
opaca e la giurisprudenza oscilla.
Il paradigma cui è improntato il sistema della
responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio
dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa,
devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da
fatto illecito.
Nel descritto quadro l’esercizio della funzione pubblica, manifestatosi
tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole,
può quindi essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale
neminem laedere.
Il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà
essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo
abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto
titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi
oppositivi e pretensivi.
Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità
contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto
giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l’incontro delle loro
volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il
rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del
potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e
in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la
responsabilità aquiliana dell’amministrazione.
Riconoscendo la natura aquiliana della
responsabilità amministrativa per lesione di interessi legittimi, gli
elementi dell’illecito sono:
a) l’evento danno;
b) l’ingiustizia del danno;
c) il nesso causale tra la condotta e l’evento;
d) l’imputabilità del danno al danneggiante secondo il criterio del
dolo o della colpa.
Ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta
dell’Amministrazione e l’evento dannoso, la giurisprudenza di questo
Consiglio ritiene che: “ai fini del riscontro del nesso di causalità
nell'ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall'applicazione dei principi
penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è
da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni,
il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della
condicio sine qua non); il rigore del principio dell'equivalenza delle
cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un
evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio
di causalità efficiente, desumibile dall'art. 41, co. 2, c.p., in base al
quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore
della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere
irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali
linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è
sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così
determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si
produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si
presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità
causale; in quest'ottica, all'interno della serie causale, occorre dar
rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -ad una valutazione ex ante-
del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime
probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due
processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia
civile (ed amministrativa), vige la regola della preponderanza dell'evidenza
o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola
della prova "oltre il ragionevole dubbio".
---------------
Ai fini del riconoscimento della spettanza del risarcimento dei danni,
l’illegittimità del provvedimento amministrativo di per sé non può fare
riscontrare la colpevolezza–rimproverabilità dell’Amministrazione, rilevando
invece altri elementi, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato
della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio di
discrezionalità dell’amministrazione.
Con specifico riferimento all’elemento psicologico, la colpa della pubblica
amministrazione viene individuata non nella mera violazione dei canoni di
imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma quando vi siano state
inescusabili gravi negligenze od omissioni, oppure gravi errori
interpretativi di norme, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto
di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione; pertanto, la
responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al
riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti
giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto.
Ancora di recente questo Consiglio ha ribadito che l’illegittimità del
provvedimento amministrativo, anche laddove acclarata con l’annullamento
giurisdizionale, costituisce solo uno degli indici presuntivi di
colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di
chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di
fatto, il carattere più o meno vincolato (quindi, l’ambito più o meno ampio
della discrezionalità) della statuizione amministrativa. Invece, l’elemento
psicologico della colpa della P.A. va individuato nella violazione dei
canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in
negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti
non scusabili in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto
qualificato con la P.A. stessa.
In proposito, ai fini del giudizio risarcitorio a carico della pubblica
amministrazione il necessario requisito della colpa deve essere individuato
nella accertata violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione, ovvero nella negligenza, nelle omissioni o negli errori
interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse
giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con
l’amministrazione; viceversa, la responsabilità deve essere negata quando
l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo
di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
---------------
10. I motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di
connessione logica, vanno respinti.
Gli appellanti hanno incardinato davanti al giudice amministrativo una
domanda proposta ai sensi dell’art. 30 c.p.a., per sentire condannare le
Amministrazioni resistenti al risarcimento dei danni derivanti dalla
demolizione dell’immobile di loro proprietà.
10.1. Va premesso che, secondo la recente Adunanza Plenaria di questo
Consiglio di Stato n. 7 del 2021: “Il paradigma cui è improntato il
sistema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo
esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella
doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della
responsabilità da fatto illecito. […] Nel descritto quadro l’esercizio della
funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi
quanto con un’inerzia colpevole, può quindi essere fonte di responsabilità
sulla base del principio generale neminem laedere. Il requisito
dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere
riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso
un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per
mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e
pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della
responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal
rapporto giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l’incontro
delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico,
il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del
potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e
in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la
responsabilità aquiliana dell’amministrazione.”
10.2. Riconoscendo la natura aquiliana della responsabilità amministrativa
per lesione di interessi legittimi, gli elementi dell’illecito sono: a)
l’evento danno; b) l’ingiustizia del danno; c) il nesso causale tra la
condotta e l’evento; d) l’imputabilità del danno al danneggiante secondo il
criterio del dolo o della colpa.
Ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta
dell’Amministrazione e l’evento dannoso, la giurisprudenza di questo
Consiglio, con indirizzo condiviso ritiene che: “ai fini del riscontro
del nesso di causalità nell'ambito della responsabilità extra contrattuale
da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere
dall'applicazione dei principi penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p.,
in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme
restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza
del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del
principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al
quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od
omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il
suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall'art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa
condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,
ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale
già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per
determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno
delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che,
nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto
inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile,
secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della
c.d. regolarità causale; in quest'ottica, all'interno della serie causale,
occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -ad una
valutazione ex ante- del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la
diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti
valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso
causale in materia civile (ed amministrativa), vige la regola della
preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel
processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio"
(Cons. Stato n. 6450 del 2014).
Il giudice di prima istanza ha fatto corretta applicazione dei principi
espressi, rilevando nella specie l’assenza del nesso di causalità, in quanto
la demolizione del manufatto è avvenimento direttamente riferibile all’esito
del procedimento penale.
Il Collegio ha condivisibilmente affermato che: “prima ancora
dell’elemento della colpevolezza, difetto quello del rapporto di causalità e
con esso della stessa imputabilità, a carico dell’amministrazione comunale,
della condotta e delle decisioni assunte, le quali si risolvono in un
adempimento necessitato in esecuzione di un preciso provvedimento, divenuto
per giunta definitivo, del giudice d’appello penale”.
E’ la stessa sentenza n. 6016 del 2013 del TAR con cui è stato disposto
l’annullamento del parere della Soprintendenza di cui si discute, ad
evidenziare questo collegamento.
Tale relazione è stata valorizzata dal giudice di prima istanza, che ha
affermato “che sussista una relazione inscindibile tra l’esito del
procedimento penale e la demolizione è d’altronde chiarito anche dalla
sentenza n. 6016/2013 di questa Sezione”.
Ne consegue che le critiche proposte con il primo mezzo non possono essere
condivise, tenuto conto che il provvedimento comunale di demolizione è
intervenuto dopo la pronuncia del giudice penale che, nel respingere
l’incidente di esecuzione finalizzato alla revoca dell’ingiunzione di
demolizione, a causa dell’esistenza di provvedimenti di condono, ha ritenuto
questi ultimi illegittimi, in quanto emanati senza acquisire preventivamente
il parere della Soprintendenza.
La decisività dell’assunto sopra esposto a sostegno della motivazione della
sentenza impugnata rende superflua qualsiasi obiezione alle argomentazioni
illustrate dal giudice di prima istanza, dovendosi anche rilevare che nessun
giudizio di prognosi favorevole può essere proposto in ordine all’eventuale
parere che la Soprintendenza avrebbe espresso, atteso che la nota prot. n.
8733 del 2013, non fornisce “alcun elemento in ordine al quale sarebbe
stato il contenuto del successivo parere che la Soprintendenza avrebbe reso,
laddove le pratiche di condono avessero avuto una prosecuzione qualora le
unità immobiliari, costruite originariamente sine titulo, non fossero state
demolite” (v. pag. 8 sentenza).
10.3. Quanto al requisito della colpevolezza dell’agere della
Soprintendenza, va respinta la doglianza illustrata con il secondo mezzo,
atteso che il TAR ha chiaramente escluso l’elemento di colpevolezza e
l’imputabilità a carico dell’amministrazione comunale, affermando “sicchè,
nel caso di specie, prima ancora dell’elemento della colpevolezza, difetta
quello del rapporto di causalità e con esso della stessa imputabilità, a
carico dell’amministrazione comunale, della condotta e delle decisioni
assunte, le quali si risolvono in una adempimento necessitato in esecuzione
di un preciso provvedimento, divenuto per giunta definitivo, del giudice di
appello”.
Il Collegio condivide tale approdo ermeneutico, anche in considerazioni dei
rilievi che seguono.
Ai fini del riconoscimento della spettanza del risarcimento dei danni,
l’illegittimità del provvedimento amministrativo di per sé non può fare
riscontrare la colpevolezza–rimproverabilità dell’Amministrazione, rilevando
invece altri elementi, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato
della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio di
discrezionalità dell’amministrazione; con specifico riferimento all’elemento
psicologico, la colpa della pubblica amministrazione viene individuata non
nella mera violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione, ma quando vi siano state inescusabili gravi negligenze od
omissioni, oppure gravi errori interpretativi di norme, in ragione
dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con
l’amministrazione; pertanto, la responsabilità deve essere negata quando
l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo
di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr. Cons. di
Stato n. 1500 del 2019).
Ancora di recente questo Consiglio ha ribadito che l’illegittimità del
provvedimento amministrativo, anche laddove acclarata con l’annullamento
giurisdizionale (come nella specie, a seguito della sentenza del TAR n. 6016
del 2013), costituisce solo uno degli indici presuntivi di colpevolezza, da
considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere più o meno
vincolato (quindi, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità) della
statuizione amministrativa. Invece, l’elemento psicologico della colpa della
P.A. va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza
e buona amministrazione, ossia in negligenze, omissioni d’attività o errori
interpretativi di norme, ritenuti non scusabili in ragione dell’interesse
protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa (Cons.
Stato n. 5409 del 2020; Cons. Stato n. 909 del 2020).
In proposito, ai fini del giudizio risarcitorio a carico della pubblica
amministrazione il necessario requisito della colpa deve essere individuato
nella accertata violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione, ovvero nella negligenza, nelle omissioni o negli errori
interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse
giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con
l’amministrazione; viceversa, la responsabilità deve essere negata quando
l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo
di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (Cons. Stato
n. 601 del 2020).
Nella specie, la complessità della vicenda risultante dalla documentazione
in atti che si è sviluppata in vari procedimenti anche penali, così come
ricostruita nella parte in fatto, induce a ritenere l’assenza della colpa
della Soprintendenza nel dichiarare l’improcedibilità sulla richiesta di
parere. Sul punto, la critica esposta dagli appellanti, che desumono
automaticamente la responsabilità dell’ente dalle conclusioni rassegnate
nella sentenza del TAR n. 6016 del 2013 non convince, dovendosi rilevare la
scusabilità dell’omissione di pronuncia, con evidente insussistenza del
presupposto della colpevolezza (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.08.2022 n. 6742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Improcedibilità
del ricorso, interesse a fini risarcitori e accertamento di illegittimità
dell’atto: i chiarimenti dell’Adunanza plenaria.
Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato –alla
quale la IV Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza, 09.02.2022, n.
945 (oggetto della News US n. 44 in data 16.05.2022) aveva deferito alcune
questioni interpretative– con articolata motivazione ha:
a) individuato i requisiti della dichiarazione della parte circa
l’esistenza di un interesse risarcitorio ai fini dell’accertamento di
illegittimità dell’atto impugnato (su cui si è determinata una sopravvenuta
carenza di interesse al relativo formale annullamento);
b) chiarito quali sono gli effetti processuali di siffatta
dichiarazione e come sono, conseguentemente, modulati i poteri del giudice.
L’Adunanza plenaria ricompone il contrasto di giurisprudenza
sull’applicazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a., nel caso di improcedibilità
della domanda di annullamento e richiesta di accertamento dell’illegittimità
degli atti impugnati (la quale può non essere corredata dall’esposizione
degli elementi costitutivi dell’azione per equivalente) in presenza di un
dichiarato interesse risarcitorio.
---------------
Giustizia amministrativa – Improcedibilità della domanda di annullamento
– Dichiarazione della parte interessata di avervi interesse a fini
risarcitori – Conseguenze processuali.
L’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di
diritto:
a) per procedersi all’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai
sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., è sufficiente dichiarare di avervi
interesse a fini risarcitori; non è pertanto necessario specificare i
presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né tanto meno averla
proposta nello stesso giudizio di impugnazione; la dichiarazione deve essere
resa nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a.;
b) una volta manifestato l’interesse risarcitorio, il giudice deve
limitarsi ad accertare se l’atto impugnato sia o meno legittimo, come
avrebbe fatto in caso di permanente procedibilità dell’azione di
annullamento, mentre gli è precluso pronunciarsi su una questione in ipotesi
assorbente della fattispecie risarcitoria, oggetto di eventuale successiva
domanda (1).
---------------
(1). I. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato – alla quale la quarta sezione del Consiglio di Stato,
con
ordinanza 09.02.2022, n. 945 (oggetto della News US n. 44 in data
16.05.2022) aveva deferito alcune questioni interpretative – con articolata
motivazione ha:
a) individuato i requisiti della dichiarazione
della parte circa l’esistenza di un interesse risarcitorio ai fini
dell’accertamento di illegittimità dell’atto impugnato (su cui si è
determinata una sopravvenuta carenza di interesse al relativo formale
annullamento);
b) chiarito quali sono gli effetti processuali di
siffatta dichiarazione e come sono, conseguentemente, modulati i poteri del
giudice.
II. – La vicenda sottesa alla pronuncia in esame muove da domande di
annullamento proposte in primo grado, in tre distinti giudizi, nei confronti
degli atti di pianificazione che hanno interessato, nel tempo, la proprietà
dei ricorrenti, giudizi nell’ambito dei quali costoro hanno depositato una
memoria con la quale hanno allegato la permanenza dell’“…interesse ad
ottenere la declaratoria di illegittimità di tutti gli atti impugnati ai
fini risarcitori, come da stima già prodotta dei danni patiti a causa della
mancata conformazione edificatoria dei terreni”.
La seconda sezione del Tar per il Veneto, con sentenze 27.08.2020,
n.
768,
n. 769 e
n. 770 ha dichiarato improcedibili i ricorsi per sopravvenuta
carenza d’interesse, in ragione delle modifiche della disciplina urbanistica
dell’area, rilevando che le allegazioni di parte non sarebbero state
sufficienti “per giungere all’accertamento incidentale della fondatezza
della pretesa sostanziale azionata dalla stessa parte ricorrente in
considerazione che essa non ha dato conto, neppure genericamente, della
sussistenza o meno di tutti gli altri elementi costitutivi dell’illecito”.
Avverso le predette sentenze gli originari ricorrenti in primo grado hanno
interposto appello: nell’ambito di detto giudizio di secondo grado si è
innestato il deferimento alla Plenaria e la conseguente pronuncia in
rassegna.
III. – Il Collegio ha così articolato il proprio iter
argomentativo:
c) le questioni sull’interpretazione e
l’applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. richiedono di stabilire:
c1) se l’interesse risarcitorio
sulla cui base si debba accertare l’illegittimità dell’atto impugnato,
malgrado la sopravvenuta inutilità del suo annullamento, vada manifestato
dal ricorrente con semplice dichiarazione, come affermato dalla più
risalente giurisprudenza;
c2) se invece la dichiarazione
debba essere corredata dall’esposizione degli elementi costitutivi
dell’azione risarcitoria, secondo quanto in seguito precisato dalla stessa
giurisprudenza; o se sia necessario che la domanda risarcitoria sia
effettivamente proposta;
d) va reputato condivisibile il primo
orientamento e che pertanto sia sufficiente la dichiarazione del ricorrente
di avere interesse a che sia accertata l’illegittimità dell’atto impugnato
in vista della futura azione risarcitoria;
e) la soluzione ora affermata va fatta discendere
dalle seguenti disposizioni del codice del processo amministrativo:
e1) art. 30, comma 5, secondo
cui nel giudizio di annullamento “la domanda risarcitoria può essere
formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal
passaggio in giudicato della relativa sentenza”;
e2) art. 35, comma 1, lett. c),
che prevede l’improcedibilità del ricorso “quando nel corso del giudizio
sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione”, soggetta
non solo all’eccezione di parte ma anche al rilievo ufficioso del giudice;
e3) art. 104, comma 1, che
nell’enunciare il c.d. divieto dei nova in appello, secondo cui “non possono
essere proposte nuove domande”, precisa che resta “fermo quanto previsto
dall’articolo 34, comma 3”;
f) l’improcedibilità del ricorso si verifica quando
viene meno l’interesse ad una decisione nel merito della domanda azionata:
f1) in questa situazione il
processo non ha assolto alla sua funzione di affermare, in modo
incontrovertibile, il diritto o l’interesse giuridicamente protetto la cui
lesione ha portato il titolare ad agire in giudizio con una pronuncia che,
ai sensi dell’art. 2909 c.c., fissi la regola applicabile al rapporto
controverso e che le parti sono tenute ad osservare;
f2) del carattere di giudicato
sostanziale delle pronunce giurisdizionali sancito dalla disposizione da
ultimo richiamata sono invece prive le sentenze c.d. in rito,
contraddistinte dal fatto di non pronunciarsi sulla situazione giuridica
azionata in giudizio: tra queste ultime vi è appunto quella di
improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse prevista dall’art. 35,
comma 1, lett. c), c.p.a. in precedenza menzionato;
f3) il parimenti citato art.
30, comma 5, c.p.a. è parte della complessiva disciplina di carattere
processuale relativa ai rapporti tra azione di annullamento e azione di
risarcimento per lesione di interessi legittimi proponibile in sede
giurisdizionale amministrativa;
g) in coerenza con il principio fondamentale di
pienezza ed effettività della tutela (di cui all’art. 1 c.p.a.), la
disciplina in questione è improntata nel suo complesso all’autonomia
dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, in vista
del superamento del precedente assetto di origine giurisprudenziale
incentrato invece sulla c.d. pregiudiziale amministrativa:
I) nel codice,
l’autonomia tra le due azioni si è tra l’altro manifestata con la
possibilità prevista dall’art. 30, comma 5, di posporre il risarcimento
all’annullamento e dunque di domandare in successione i due rimedi;
I)
nondimeno, in deroga ai termini di prescrizione valevoli in generale per i
rapporti tra privati, a tutela dell’interesse pubblico alla “certezza del
rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria”,
tale possibilità è stata assoggettata al termine di decadenza previsto dalla
disposizione in esame (così:
Corte cost.
04.05.2017, n. 94, in Foro it.,
2017, I, 2952, con nota di TRAVI; Guida al dir., 2017, 22, 98, con nota di
MASARACCHIA; Resp. civ. e prev., 2017, 1578, con nota di FOÀ; Giornale dir.
amm. 2017, 662 (m), con nota di CORTESE; Giur. cost., 2017, 967, con nota di
SCOCA; Dir. proc. amm., 2018, 1069, con nota di MARRA; resa con riguardo al
termine di decadenza previsto dal comma 3 dell’art. 30, relativamente
all’azione di risarcimento proposta in via autonoma, non preceduta da quella
di annullamento, sulla base di principi pertanto estensibili al comma 5);
h) in epoca antecedente al codice del processo
amministrativo, e dunque prima che fossero disciplinati i rapporti tra
l’azione di annullamento e quella risarcitoria a tutela di interessi
legittimi, si era affermata presso la giurisprudenza la tendenza a
restringere le ipotesi di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione
sulla domanda di annullamento, quando non dichiarata dal ricorrente: si era
giunti in questa prospettiva a considerare procedibile il ricorso anche in
assenza di utilità materiali ricavabili dalla sentenza, quando fosse
comunque ravvisabile un interesse morale dello stesso a vedersi riconoscere
le proprie ragioni;
i) ancora di recente, giurisdizione di tipo
soggettivo (così:
Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4, in Foro it.,
2015, III, 265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 917, con
nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it., 2015, 1693, con nota di
COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro
amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con
nota di SCOCA; Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI), si afferma
che al di fuori dei casi in cui la sopravvenuta carenza di interesse è
dichiarata dallo stesso ricorrente, l’inutilità per lo stesso di una
decisione di merito è ipotesi che va accertata con particolare rigore ed è
ravvisabile solo in presenza di un radicale mutamento della situazione di
fatto o di diritto esistente al momento della proposizione del ricorso (da
ultimo in questo senso: Cons. Stato, sez. V,
17.05.2022, n. 3908; VI,
06.04.2022, n. 2552; VII,
16.02.2022, n. 1155; II,
02.02.2022,
n. 711; V,
29.12.2021, n. 8702, in Ambiente, 2021, 126; VI,
30.08.2021, n. 6101;
31.05.2021, n. 4169, in Guida al dir., 2021, 26, 88 (m),
con nota di GIZZI; II,
06.04.2021, n. 2752; IV,
30.03.2021, n. 2669; III,
16.11.2020, n. 7082, in Contratti Stato e enti pubbl., 20211, 33,
con nota di BORTOLATO; Sanità pubbl. e privata, 2021, 2, 36, con nota di
SANTUARI; IV,
21.05.2019, n. 3234; in termini maggiormente restrittivi,
peraltro: Cons. Stato, III,
15.04.2021, n. 3086, in Urbanistica e
appalti, 2021, 325, con nota di DAPAS, VIOLA);
j) l’istituto previsto dall’art. 34, comma 3,
c.p.a. si colloca nella descritta tendenza;
k) in un sistema evoluto di tutela
giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, in cui alla
tradizionale azione di annullamento si è affiancata con pari dignità
rispetto ad essa l’azione risarcitoria, l’accertamento di illegittimità ai
fini risarcitori previsto dalla disposizione processuale in esame risponde
alla medesima esigenza sulla cui base era stato ristretto l’ambito di
applicazione dell’improcedibilità del ricorso.
Essa consiste nel conservare
un’utilità alla decisione di merito sulla domanda di annullamento, pur a
fronte di un mutamento della situazione di fatto e di diritto rispetto
all’epoca in cui la stessa è stata azionata;
l) nondimeno, gli approdi sopra richiamati della
giurisprudenza con riguardo all’azione di annullamento non possono essere
estesi per intero con riguardo all’interesse risarcitorio:
l1) quest’ultimo deve infatti
essere manifestato in giudizio dalla parte interessata, e cioè dal
ricorrente;
l2) rispetto all’onere di parte
non può invece supplire il rilievo ufficioso del giudice sulla persistenza
delle condizioni dell’azione di annullamento fino alla decisione.
m) l’esigenza che l’interesse sia dichiarato
dalla parte si correla al fatto che nell’ambito della sopra richiamata
natura di giurisdizione di diritto soggettivo della giurisdizione
amministrativa, come in precedenza accennato, è allo stesso ricorrente che è
per legge rimessa l’iniziativa a tutela del suo interesse risarcitorio: la
manifestazione dell’interesse risarcitorio una volta venuto meno quello
all’annullamento dell’atto impugnato è dunque il presupposto indispensabile
affinché il giudice possa pronunciarsi sulla legittimità dello stesso atto
con
pronuncia di mero accertamento. In questi termini va inteso l’inciso finale
dell’art. 34, comma 3, c.p.a. “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”,
posto a condizione della pronuncia di accertamento;
n) la dichiarazione è condizione necessaria
ma nello stesso tempo sufficiente perché sorga l’obbligo per il giudice di
accertare l’eventuale illegittimità dell’atto impugnato:
n1) non occorre a questo scopo
né che siano esposti i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né
tanto meno che questa sia in concreto proposta;
n2) l’accertamento di cui
all’art. 34, comma 3, c.p.a. va infatti coordinato con la disciplina
processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo
amministrativo, ed in particolare con il sopra richiamato art. 30, comma 5,
che consente di proporre la domanda risarcitoria “nel corso del giudizio o,
comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa
sentenza”;
o) come accennato in precedenza, l’interesse
risarcitorio ai fini di una pronuncia di accertamento di illegittimità
dell’atto impugnato si correla al termine ultimo previsto dalla disposizione
ora menzionata, in forza della quale è possibile promuovere giudizi in
successione per ottenere la “tutela piena ed effettiva secondo i principi
della Costituzione e del diritto europeo” enunciata dall’art. 1 c.p.a. quale
principio fondamentale della giurisdizione amministrativa;
p) nella cornice così definita, contraddistinta
da un’ampia possibilità di scelta per il privato di modulare la propria
strategia processuale a tutela dei suoi diritti ed interessi, la
manifestazione dell’interesse risarcitorio ai fini della eventuale
proposizione dell’azione di risarcimento dei danni promananti dall’atto
originariamente impugnato (ma per il cui annullamento è venuto meno
l’interesse nel corso del giudizio), consente al medesimo privato di
ricavare dal giudizio di impugnazione un’utilità residua, impeditiva della
pronuncia in rito ex art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., nella futura
prospettiva di una tutela per equivalente monetario che il codice consente
di fare valere in separato giudizio;
q) nello stesso tempo, è possibile individuare
nell’accertamento ex art. 34, comma 3, c.p.a. una funzione deflattiva,
rispondente:
q1) alle esigenze del
ricorrente, di conoscere anticipatamente se è fondato il presupposto
principale dell’eventuale domanda di risarcimento dei danni;
q2) alle esigenze
dell’amministrazione autrice dell’atto impugnato, di conoscere
anticipatamente se questo sia o meno illegittimo e se vi sono pertanto
rischi di esborsi economici, e dunque di assumere le opportune iniziativa
attraverso il proprio potere di autotutela; l’effetto di deflazione si
ricava dal fatto che se l’accertamento richiesto dal ricorrente dovesse
essere negativo, e dunque l’atto impugnato risultasse legittimo, l’azione
risarcitoria sarebbe preclusa;
r) per ottenere l’accertamento preventivo si
palesa dunque sufficiente una semplice dichiarazione -da rendersi nelle
forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a. a garanzia del
contraddittorio nei confronti delle altre parti- con la quale, a modifica
della domanda di annullamento originariamente proposta, il ricorrente
manifesta il proprio interesse affinché sia comunque accertata
l’illegittimità dell’atto impugnato:
r1) dal punto di vista
processuale il fenomeno è inquadrabile nella c.d. emendatio della domanda,
in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante pertanto un
mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come
evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al c.d. divieto dei nova in
appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a., sopra richiamato;
r2) a sua volta, la
dichiarazione di interesse risarcitorio in funzione dell’accertamento
dell’illegittimità dell’atto impugnato mira a provocare una pronuncia che
seppur non modificativa della realtà giuridica, come invece quella
demolitoria di annullamento, verte comunque su un’antecedente
logico-giuridico dell’azione risarcitoria, per la quale è conseguentemente
predicabile l’attitudine a divenire cosa giudicata in senso sostanziale ai
sensi dell’art. 2909 del codice civile;
s) sulla base di quanto ora esposto si trae
l’ulteriore corollario per cui l’accertamento richiesto è esattamente quello
che il giudice avrebbe dovuto svolgere nell’esaminare nel merito la domanda
di annullamento, donde (per rispondere alle ulteriori questioni poste
dall’ordinanza di rimessione) la necessità di svolgere un’istruttoria
laddove necessario, con la sola differenza che in caso positivo tale
accertamento non va a costituire il presupposto per la pronuncia costitutiva
di annullamento dell’atto impugnato, ma esaurisce il contenuto della
pronuncia (di accertamento mero) con cui il giudizio è definito;
t) in forza delle considerazioni finora svolte
diviene evidentemente superfluo, oltre che privo di base normativa, onerare
il ricorrente di promuovere nello stesso giudizio la domanda risarcitoria,
quando il termine ultimo si colloca oltre la definizione del giudizio di
annullamento: la pur suggestiva tesi prospettata dall’ordinanza di
rimessione incorre peraltro in un’aporia sul rilievo che essa richiede che
la domanda risarcitoria sia già proposta affinché il giudice possa
pronunciarsi sulla legittimità dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 34,
comma 3, c.p.a., quando invece un simile accertamento costituisce già uno
degli antecedenti logico-giuridici dell’azione di “risarcimento del danno
per lesione di interessi legittimi” devoluta ai sensi dell’art. 7, comma 4, c.p.a. alla giurisdizione amministrativa;
u) da quanto ora esposto si evince che
l’accertamento di legittimità dell’atto impugnato in funzione dell’interesse
risarcitorio si pone in termini di contraddizione logica con la domanda di
risarcimento del danno:
u1) esso presuppone non già una
domanda risarcitoria in atto, ma la sola proponibilità della stessa, che
come più volte precisato è consentita entro il termine di decadenza previsto
dall’art. 30, comma 5, c.p.a. decorrente dalla sentenza che definisce il
giudizio di annullamento;
u2) se la domanda è stata
invece proposta, l’accertamento si palesa inutile ed è assorbito da quello
che deve svolgersi in sede di esame della domanda risarcitoria;
v) sono poi superabili le preoccupazioni sul
rischio che l’accertamento intervenga a fronte di un interesse solo
potenziale e non attuale, carente pertanto dei requisiti che secondo l’art.
100 c.p.c. condizionano la pronuncia giurisdizionale nel merito dell’azione
proposta: va al riguardo richiamato quanto espresso in precedenza, e cioè
che la pronuncia ex art. 34, comma 3, origina da una modifica in senso
riduttivo di una domanda già proposta, quella di annullamento, divenuta
tuttavia priva di interesse per il ricorrente in pendenza di giudizio, ed in
relazione al quale lo stesso ricorrente ritenga nondimeno che residui
un’utilità ai fini di un ristoro per equivalente dei danni eventualmente
subiti a causa dei provvedimenti amministrativi impugnati;
w) considerazioni analoghe possono essere svolte
con riguardo alla tesi che può essere definita intermedia, per la quale ai
fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque
necessario che il ricorrente indichi i presupposti della futura eventuale
azione risarcitoria. Anche questa posizione non trova fondamento normativo:
w1) essa tende inoltre a
produrre una sovrapposizione tra le due domande, di annullamento e
risarcitoria, che il codice del processo ed in particolare l’art. 30 nel suo
complesso considera distinte e non avvinte da pregiudizialità della prima
rispetto alla seconda come invece si era affermato in epoca antecedente,
salvo il solo temperamento dato dal comma 3 della disposizione ora
richiamata. In presenza di una domanda risarcitoria non ancora formulata,
l’accertamento sui relativi presupposti non avrebbe peraltro attitudine al
giudicato;
w2) in conseguenza di quest’ultimo
rilievo deve pertanto escludersi che il giudice “possa comunque
pronunciarsi su una questione ‘assorbente’ e dunque su ogni profilo
costitutivo della fattispecie risarcitoria”, come ipotizza l’ordinanza
di rimessione;
y) sulla base delle considerazioni finora svolte
deve dunque essere condiviso l’orientamento giurisprudenziale originario,
peraltro ancora di recente riaffermato, in particolare dalla sentenza
Cons.
Stato, sez. V, 29.01.2020, n. 727, secondo cui:
y1) “l’art. 34, comma 3 (…)
va interpretato nel senso che l’obbligo di pronunciare sui motivi di ricorso
(ovvero di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato) sussista in caso
di istanza, o, comunque, espressa dichiarazione di interesse della parte
ricorrente, non potendo il giudice, alla declaratoria di improcedibilità del
ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, far seguire la verifica
d’ufficio della permanenza dell’interesse del ricorrente ad una pronuncia
sulla fondatezza dei motivi di ricorso per fini risarcitori”;
y2) e che a questo scopo è
sufficiente “la dichiarazione di interesse della parte ricorrente” e non già
“un’istanza circostanziata che alleghi il danno concretamente subito”;
y3) ed ancora, con riguardo ai
rapporti con la domanda risarcitoria: “se fosse stata proposta domanda di
risarcimento in cumulo con la domanda di annullamento, il giudice, pur
avendo accertato l’improcedibilità della domanda di annullamento, per il
carattere autonomo della domanda risarcitoria, sarebbe comunque tenuto a
pronunciarsi sulla stessa per il principio della corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.a., incorrendo, altrimenti, nel
vizio di omessa pronuncia. In tale ricostruzione, pertanto, la disposizione
contenuta nell’art. 34, comma 3, […] sarebbe del tutto superflua; essa,
invece, si rende necessaria proprio per l’assenza di rituale domanda
risarcitoria che la parte ben potrebbe proporre successivamente in autonomo
giudizio, una volta ottenuto dal giudice l’accertamento dell’illegittimità
dell’azione amministrativa”;
IV. – Per completezza, si consideri quanto segue:
z) sull’interesse a pronuncia di accertamento:
z1) in relazione al
collegamento fra principio dispositivo e necessaria manifestazione
dell’interesse alla pronuncia sulla illegittimità dell’esercizio della
funzione pubblica anche in caso di improcedibilità della domanda di
annullamento ex art. 34 c.p.a.:
27.04.2015 n. 5, § 7 (in Foro it., 2015, III,
265, con nota di TRAVI; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di
VAIANO; Riv.neldiritto, 2015, 2084, con note di COLASCILLA NARDUCCI; Riv.
dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 (m), con
nota di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA);
13.04.2015, n. 4, cit.;
z2) sull’interesse ad agire in
giudizio (e, in particolare, sulla situazione giuridica attiva e sul
vantaggio ricavabile dalla pronuncia di annullamento; sull’esame delle
condizioni dell’azione nel processo amministrativo; sugli elementi
costitutivi dell’interesse; sul rapporto tra c.d. interesse strumentale nel
processo amministrativo e giusto processo ex art. 111 Cost.; sul rapporto
tra giudicato implicito e condizione dell’azione),
News US in data
13.03.2020 a Cons. Stato, Ad. plen.,
20.02.2020, n. 6 (in Foro it., 2020,
III, 289);
z3) sull’accertamento della
nullità del provvedimento amministrativo:
Cons. giust. amm. sic., sez. giur.,
27.07.2012, n. 721 (in Guida al dir., 2012, 39, 90, con nota di GIUNTA);
z4) sull’accertamento
incidentale su questioni pregiudiziali relative a diritti soggettivi:
Cons.
Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2484, in Urbanistica e appalti, 2014, 8-9,
985, con nota di PATRITO e PROTTO;
z5) sull’accertamento
giurisdizionale dell’illegittimità del silenzio della p.a.:
Corte cost.,
17.07.2002, n. 355, in Cons. Stato, 2002, II, 1108;
z6) sul collegamento fra
domanda e interesse ai fini risarcitori ex art. 34, comma 3 c.p.a., v. in
dottrina G. CORSO, in Il processo amministrativo, a cura di QUARANTA–LOPILATO, Milano, 2011, 341; R. DE NICTOLIS, Codice del processo
amministrativo, Milano, 2017, 757; S. VILLAMENA, in Diritto processuale
amministrativo, a cura di CIRILLO–PERONGINI, Torino, 2020, 167 (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 13.07.2022 n. 8 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2022 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
silenzio-assenso ex art. 17-bis l. 241/1990 si forma soltanto se la
richiesta della P.A. procedente è accompagnata dallo schema di provvedimento
e dalla relativa documentazione.
Invero, l’art 17-bis l. 241 1990 impone che alla richiesta di manifestazione
del nulla osta sia allegato lo schema di provvedimento e la relativa
documentazione.
Risulta evidente che, nel sistema delineato dall’art. 17-bis della legge n.
241/1990, un “tacito assenso” può formarsi solo alla tassativa condizione che
l’Amministrazione coinvolta abbia piena e completa cognizione del tipo di
provvedimento che si intende assumere (da qui la necessità di fornire lo
schema di provvedimento e la relativa documentazione).
---------------
Il Comune di Angolo Terme confina con il Comune di Castione della
Presolana.
Il territorio di Castione della Presolana è interessato dal passaggio della
strada denominata Via Monte Pora, una parte della quale insiste in località
Colle Vareno, che si trova sul territorio di Angolo Terme, rappresentandone,
tra l’altro, l’unico accesso.
Con comunicazione del 19.08.2020 il Comune di Castione della Presolana
ha chiesto al Comune di Angolo Terme il rilascio di nulla osta per
l’istituzione di una zona a traffico limitato (ZTL) sulla Via Monte Pora;
alla comunicazione non era allegato uno schema di provvedimento.
Il Comune di Angolo Terme non ha dato seguito alla richiesta di nulla osta.
Ciononostante, la Giunta comunale di Castione della Presolana, con la
deliberazione n. 93 del 20.11.2020, ha istituito la menzionata ZTL
dando atto che il nulla osta del Comune di Angolo Terme deve intendersi
acquisito, alla luce della nuovo formulazione dell’art. 17-bis della L.
241/1990, come modificato dal D.L. 76/2020.
Tale provvedimento è stato impugnato dal Comune di Angolo Terme il quale
lamenta:
1) la “Violazione artt. 6 e 7 Codice della strada D.Lgs. n. 285/1992”, che,
secondo il ricorrente, non consentirebbero l’istituzione di una ZTL al di
fuori del centro abitato;
2) la “Violazione art. 7 Codice della strada D.Lgs. n. 285/1992; eccesso di
potere per violazione delle Linee Guida sulla regolamentazione della
circolazione stradale nelle zone a traffico limitato; illogicità manifesta,
difetto di presupposti, falsità e carenza di motivazione. Sviamento”, con
cui, sintetizzando, il ricorrente fa valere lo sviamento di potere in cui
sarebbe incorso il Comune e derivante dal fatto che quest’ultimo avrebbe
agito, non per garantire la sicurezza della circolazione, la salute,
l’ordine pubblico, il patrimonio ambientale e culturale, ma per scoraggiare
l’accesso dei turisti;
3) la “Violazione art. 7 Codice della strada D.Lgs. n. 285/1992; violazione
art. 17-bis legge n. 241/1990; eccesso di potere per violazione delle Linee
Guida sulla regolamentazione della circolazione stradale nelle zone a
traffico limitato; difetto di presupposti e falsità della motivazione”, con
cui in estrema sintesi sottolinea la mancanza dei presupposti per la
formazione del silenzio assenso sull’istanza di nulla osta avanzata dal
Comune resistente.
...
Il ricorso è fondato sotto l’assorbente profilo indicato al terzo motivo del
ricorso.
Invero, l’art 17-bis l. 241 1990 impone che alla richiesta di manifestazione
del nulla osta sia allegato lo schema di provvedimento e la relativa
documentazione.
Risulta evidente che, nel sistema delineato dall’art. 17-bis della legge n.
241/1990, un “tacito assenso” può formarsi solo alla tassativa condizione che
l’Amministrazione coinvolta abbia piena e completa cognizione del tipo di
provvedimento che si intende assumere (da qui la necessità di fornire lo
schema di provvedimento e la relativa documentazione).
Per le esposte considerazioni, in accoglimento del terzo motivo di ricorso e
con assorbimento dei restanti motivi di gravame, il ricorso va accolto, con
consegue l’annullamento dell’atto impugnato (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.06.2022 n. 635 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Errore
scusabile dovuto a incertezza normativa e a contrasti giudiziari, esclusa la
responsabilità della PA.
Il risarcimento del danno non è conseguenza automatica dell'annullamento
dell'atto amministrativo illegittimo in sede giurisdizionale, ma presuppone
l'accertamento della colpa dell'ente pubblico nell'ipotesi in cui il potere
sia stato esercitato in spregio delle regole di correttezza e di
proporzionalità.
Ne deriva che non c'è responsabilità della Pa quando
l'indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la presenza
di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di
riferimento o per l'oggettiva complessità della situazione di fatto.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
14.06.2022 n. 4830.
La pronuncia è meritevole di interesse, perché Palazzo Spada, in riforma
della sentenza impugnata, ha escluso la responsabilità di un Comune verso i
terzi per non aver dato corso al varo di un piano di lottizzazione adottato
dalla giunta, ma in seguito non approvato dal consiglio comunale.
Il caso
Nello specifico, il Comune ha impugnato la sentenza con la quale il Tar
Veneto, accogliendo i ricorsi proposti da alcune società titolari di
immobili, aveva condannato l'ente al risarcimento del danno a causa di una
condotta illegittima, nonché contraria ai principi di imparzialità e di buon
andamento.
A seguito della mancata approvazione del piano di lottizzazione,
perché le delibere a più riprese adottate dal consiglio comunale erano state
annullate in sede giudiziale, il Comune aveva approvato un nuovo strumento
urbanistico generale con cui veniva stralciata la volumetria residenziale in
precedenza prevista per il piano predisposto dalle società ricorrenti.
La sentenza di primo grado aveva accolto il ricorso di queste ultime, dacché
il Tar Veneto aveva ritenuto che la mancata approvazione del piano non fosse
dovuta a ragioni di carattere urbanistico, ma alla sopravvenuta contrarietà
da parte del Comune rispetto alle precedenti scelte di pianificazione e,
dunque, a un mutamento degli orientamenti politici al riguardo.
L'errore scusabile
Di contro, il Consiglio di Stato ha addebitato al Comune un errore
scusabile, dovuto sia alla complessità della vicenda, sia al fatto che
l'ente, pur avendo tentato di approvare il piano urbanistico in Consiglio
comunale, non ha potuto concludere l'iter prescritto a causa di pronunce
giudiziali contrastanti, che alla fine hanno annullato le delibere
consiliari.
Palazzo Spada ha osservato che l'errore scusabile della Pa viene
in rilievo a fronte dell'esercizio di un potere discrezionale –nel caso di
specie riferito a complessi elementi di pianificazione urbanistica attuativa
e ai rapporti di questa con la pianificazione generale– e in presenza di
pronunce giurisdizionali contrastanti sulla legittimità o meno dell'atto
amministrativo, posto che la sussistenza di orientamenti interpretativi
discordi esclude la colpa grave in capo all'amministrazione.
Per quanto riguarda, infine, l'adozione di un nuovo strumento urbanistico
generale con cui veniva stralciata la volumetria residenziale in precedenza
prevista per il piano di lottizzazione non approvato, la Sezione ha asserito
che il Comune è libero di procedere, sotto il profilo urbanistico, a una
nuova pianificazione del territorio, anche mutando destinazioni già
impresse, purché ciò avvenga nel rispetto delle regole procedimentali e
sulla base di motivazioni ispirate a ragioni di pubblico interesse
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 30.06.2022).
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SENTENZA
5. L’appello del Comune di Asiago è fondato e deve essere, pertanto,
accolto.
5.1. Nel presente giudizio è stata proposta una domanda di risarcimento dei
danni derivanti da provvedimento amministrativo illegittimo, ai sensi
dell’art. 30, comma 5, c.p.a., conseguente al passaggio in giudicato della
sentenza che ha annullato il provvedimento.
La domanda deve essere, dunque, ricondotta alla responsabilità
extracontrattuale ed ai principi enunciati dalla giurisprudenza
dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (cfr. la sentenza n. 7 del 2021),
con la conseguenza che devono risultare sussistenti tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità, non costituendo il risarcimento una
conseguenza automatica dell'annullamento in sede giurisdizionale dell'atto
amministrativo illegittimo.
Nel caso di domande risarcitorie, non soccorre, infatti, il metodo
acquisitivo, essendo la disciplina dell’onere della prova integralmente
soggetta all’art. 2697 c.c. (Consiglio di Stato, Sez. V, 24.05.2017, n.
2446; Sez. III, 09.04.2021, n. 2899 Sez. IV, 27.04.2021, n. 3398; Sez. II,
01.09.2021, n. 6169) quanto agli elementi posti a base della pretesa (nesso
di causalità, entità del danno), mentre –con specifico riferimento alla
sussistenza in sé dell’elemento soggettivo della colpa, cioè della
rimproverabilità- ai fini della configurazione dell’illecito aquiliano non
si può ravvisare alcun automatismo per il fatto che vi è stato
l’annullamento dell’atto.
Orbene, ai fini dell'accertamento della responsabilità, il Collegio
condivide il costante orientamento giurisprudenziale (da ultimo, Cons.
Stato, sez. IV, 04.02.2020 n. 909, sez. IV, 07.11.2019, n. 7602; id.,
17.05.2019, n. 3191; sez. III, 08.05.2018, n. 2724), dal quale non ravvisa
motivo per discostarsi, secondo il quale la responsabilità risarcitoria non
può prescindere dalla ravvisabilità (in disparte la verifica di sussistenza
degli altri elementi) della colpa in capo all'Amministrazione.
Invero, ai fini del riconoscimento della spettanza del risarcimento dei
danni, l'illegittimità del provvedimento amministrativo –che pure
costituisce indice della (possibile) colpa dell’amministrazione- di per sé
non costituisce riscontro della colpevolezza - rimproverabilità
dell’Amministrazione, dovendo accordarsi rilievo anche ad altri elementi,
quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli
elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa,
l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione; con
specifico riferimento all'elemento psicologico la colpa della pubblica
amministrazione viene individuata non nella mera violazione dei canoni di
imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma quando vi siano state
inescusabili gravi negligenze od omissioni, oppure gravi errori
interpretativi di norme, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto
di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione.
Pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al
riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti
giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la
complessità della situazione di fatto (ex multis, Cons. Stato, sez.
III, 06.09.2018, n. 5228).
Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, in altri termini,
occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se il
canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o,
comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un
elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle
ipotesi in cui il potere sia stato esercitato in palese spregio delle regole
di correttezza e di proporzionalità.
E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé,
un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità
dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione
amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i
criteri della dell'imparzialità e del buon andamento, restando ogni altra
violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile (cfr. Cons. Stato
Sez. III, 24.05.2018, n. 3131; id. 16.05.2018, n. 2921).
5.2. Il Collegio ritiene che il caso oggetto del presente giudizio rientri
tra quelli nei quali non è dato ravvisare la sussistenza dell’elemento
soggettivo della colpa, proprio in ragione del fatto che è rinvenibile
l’errore scusabile dell’amministrazione, dovuto sia alla complessità della
vicenda, sia ai diversi avvisi espressi in sede giurisdizionale.
Come ha osservato la stessa sentenza impugnata, questo Consiglio di Stato,
con la sentenza n. 4368/2008 (di conferma della sentenza di annullamento
della prima delibera del Consiglio comunale n. 59/2007, di rigetto del PdL),
aveva rilevato che “in linea di principio, vanno invece ritenute
condivisibili le deduzioni del Comune appellante circa la sussistenza del
potere del consiglio comunale di valutare la sufficienza della viabilità
nell’area oggetto del progetto, in rapporto all’area più vasta in cui la sua
realizzazione si va ad inserire”.
Successivamente (in occasione della riforma della sentenza del TAR Veneto
30.09.2009, n. 2686, di rigetto del ricorso proposto avverso la delibera del
consiglio comunale n. 44/2008, di secondo rigetto dell’istanza di
approvazione del P.d.L.), il Consiglio di Stato, giudicando della
legittimità della medesima riferita (anche), ai fini di giustificare il
rigetto del piano, ad aspetti di insufficienza della viabilità, ha
affermato: “Ritiene la Sezione che la propria precedente decisione n.
4368 del 16.09.2008 abbia già sufficientemente individuato i limiti
decisionali che regolamentano l’approvazione dei piani di lottizzazione,
quando ha affermato che “la giunta ed il consiglio comunale non possono
effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il
piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata
all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano
attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada
considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e
paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a
quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità
sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato
il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano
urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme
allo strumento primario”...
Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che il compito
spettante alla giunta ed al consiglio comunale siano limitati
all’accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello
strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone
ordinario di correttezza dell’azione amministrativa, che le relative
determinazioni in merito all’eventuale non conformità del progetto al piano
regolatore si basino su una puntuale motivazione, tale da permettere
l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la
conseguente tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa.
In questo senso, nessun elemento ulteriore può provenire dalla decisione n.
4368 del 2008, evocata a vario titolo da tutte le parti, atteso che nella
detta sentenza non sono stati valutati gli aspetti della viabilità, in
quanto introdotti successivamente al provvedimento allora gravato e quindi
integranti una motivazione postuma dello stesso. Le affermazioni ivi
contenute hanno quindi natura di obiter dictum, sebbene
incidentalmente, non si possa non notare come la Sezione abbia suffragato “la
sussistenza del potere del consiglio comunale di valutare la sufficienza
della viabilità nell’area oggetto del progetto, in rapporto all’area più
vasta in cui la sua realizzazione si va ad inserire”, ossia limitando il
sindacato alla viabilità interna al piano da realizzare”.
Orbene, nel pieno rispetto della sentenza n. 4395/2011 ora (parzialmente)
riportata e delle ragioni che hanno sorretto l’annullamento della delibera
del Consiglio comunale n. 44/2008, risulta tuttavia evidente, sotto il
diverso profilo della individuazione della sussistenza (o meno)
dell’elemento soggettivo della colpa, che vi sono proprio le condizioni alle
quali la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato allega l’errore
scusabile dell’amministrazione, e precisamente:
- la sussistenza dell’esercizio di un potere discrezionale, nel
caso di specie riferito a complessi elementi di pianificazione urbanistica
attuativa ed ai rapporti di questa con la pianificazione generale;
- la presenza di pronunce giurisdizionali di segno contrastante
sulla legittimità (o meno) del medesimo atto amministrativo, giudicato
legittimo dal giudice di primo grado ed invece annullato in sede di appello
dal Consiglio di Stato, il che rende di per sé evidente la sussistenza di
orientamenti interpretativi non univoci, senza che ciò ridondi in termini di
colpa in capo all’amministrazione (non potendo essere qualificato come
elemento di per sé comportante la rimproverabilità la sussistenza di un
profilo di eccesso di potere);
- la presenza in sentenza (la n. 4368/2008 del Consiglio di Stato)
di una affermazione che, pur senza costituire validazione ex ante
dell’esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione comunale (in
quanto mero obiter, come successivamente definito), ha potuto
tuttavia ingenerare nella stessa la convinzione di poter legittimamente
valutare, in sede di esame dello strumento urbanistico attuativo, gli
aspetti connessi alla viabilità (come affermato dalla sentenza n. 4368/2008:
“valutare la sufficienza della viabilità nell’area oggetto del progetto
in rapporto all’area più vasta in cui la sua realizzazione si va ad inserire”,
e ciò ritenendo condivisibili “le deduzioni del comune appellante”).
Alla luce di quanto esposto, risulta condivisibile quanto affermato
dall’appellante Amministrazione, laddove sottolinea (pag. 17 app.), in
ordine alla contraddittorietà della sentenza di primo grado, che questa per
un verso presume “che l’amministrazione comunale si trovasse ad assumere
le proprie scelte in una situazione in cui il quadro fattuale e giuridico
“appare, obiettivamente, chiaro”, mentre, per altro verso, “è la stessa
sentenza impugnata che fa derivare la chiarezza del quadro di riferimento
dalle successive sentenze del Consiglio di Stato nel 2011”.
D’altra parte, come ancora l’appellante sottolinea, l’aspetto della
viabilità -quale elemento ostativo all’approvazione del P.d.L.- era stato
positivamente valutato dallo stesso giudice di primo grado; e ciò a
riscontro del quadro di obiettiva complessità della materia e di incertezza
in ordine alle determinazioni da assumere con l’esercizio del potere
discrezionale.
In tale contesto, non assumono rilievo le considerazioni delle società
ricorrenti in primo grado circa la sussistenza dell’elemento soggettivo
della colpa in quanto “confermata dalle successive scelte urbanistiche di
pianificazione generale per l’ambito territoriale all’interno del quale si
collocava il PUA Colonie” (v. pagg. 23–25 memoria del 30.10. 2021).
Ciò in quanto risulta del tutto evidente –impregiudicata ogni valutazione in
ordine alla legittimità del nuovo strumento urbanistico generale del Comune
di Asiago, tematica estranea al presente giudizio- come l’amministrazione
comunale ben possa procedere, in sede di adozione di un nuovo strumento
urbanistico generale ovvero di varianti al PRG vigente, ad una nuova
pianificazione del territorio, anche mutando destinazioni già impresse,
purché ciò avvenga nel rispetto delle regole procedimentali e sulla base di
congrua motivazione.
6. Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello dell’Amministrazione deve
essere accolto in relazione al primo motivo proposto (sub lett. a)
dell’esposizione in fatto), il che, determinando il rigetto integrale del
ricorso di primo grado in riforma della sentenza impugnata, rende superfluo
l’esame del secondo motivo di impugnazione.
Pertanto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettata la
domanda di risarcimento del danno proposta dalle società indicate in
epigrafe con il ricorso instaurativo del giudizio di primo grado, attesa
l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo al Comune di
Asiago.
L’accoglimento dell’appello del Comune di Asiago rende improcedibile
l’appello proposto dalle società indicate in epigrafe, posto che con i
motivi con lo stesso proposti si contestano aspetti relativi alla
determinazione del quantum del risarcimento, in questa sede negato nell’an
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
14.06.2022 n. 4830 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
provvedimento illegittimo genera la presunzione di colpa della PA, salvo
prova contraria.
L'illegittimità del provvedimento non coincide automaticamente con la colpa
della Pubblica amministrazione, ma rappresenta un indice presuntivo, ovvero
un indizio grave, preciso e concordante con gli altri elementi, idoneo a
fondare una presunzione semplice di colpa, di modo che in assenza di prova
contraria deve escludersi l'errore scusabile e la colpa della Pa deve
ritenersi provata.
---------------
Tali censure risultano solo in parte meritevoli di accoglimento e devono
condurre ad una parziale riforma della sentenza appellata nei seguenti
termini.
Occorre, in verità, riconoscere che correttamente il TAR ha ritenuto fondata
la domanda di risarcimento del danno patrimoniale avanzata dalla originaria
ricorrente odierna appellata, assimilando l’ipotesi in questione al caso,
per molti versi analogo, della omessa o ritardata assunzione per
comportamento dell'amministrazione riconosciuto come illegittimo.
La suddetta domanda è configurata come domanda risarcitoria e trova sostegno
nella verifica della ricorrenza nel caso de quo dei relativi presupposti e
condizioni necessari all'accoglimento.
La vicenda già descritta, caratterizzata, come detto, dall’illegittima
esclusione dell’interessata dalla procedura di abilitazione per insegnanti
di scuola materna e dalla successiva graduatoria dalla quale
l’Amministrazione ha attinto nel corso degli anni sia per i contratti a
tempo determinato, sia per le immissioni in ruolo e dalla successiva
reiscrizione dell’appellata nell’elenco, solo, però, dopo oltre 12 anni, ha
determinato, infatti, sicuramente l'insorgenza di un danno ingiusto.
Deve ritenersi, altresì, integrato il presupposto soggettivo della
responsabilità dell’Amministrazione, tenuto conto che l'illegittimità del
provvedimento, pur non coincidendo con la colpa, rappresenta, tuttavia, un
indice presuntivo, ovvero un indizio grave, preciso e concordante con gli
altri elementi, idoneo a fondare una presunzione semplice di colpa,
cosicché, in assenza di prova contraria da parte del Ministero appellante,
che aveva l'onere di allegare circostanze da cui desumere la scusabilità
dell'errore, la colpa dell'amministrazione deve, pertanto, ritenersi provata
(ex multis, Cons. St., sez. VI, 16.07.2015, n. 3551).
Pienamente sussistente, al contrario di quanto affermato dal Ministero
appellante nel suo gravame, è, poi, anche il nesso causale, posto che solo a
causa dell'illegittima esclusione dall’elenco è stato impedito per anni
all’appellata di essere chiamata per incarichi di insegnamento a tempo
determinato, di percepire la relativa remunerazione e di essere immessa
addirittura in ruolo, come avvenuto per i colleghi che la seguivano nella
graduatoria
Passando alla liquidazione del danno, deve precisarsi, come del resto
riconosciuto anche dai giudici di prime cure, che l'obbligo di retribuzione
della prestazione lavorativa sorge solo con il perfezionamento degli atti
costitutivi del rapporto di impiego ed in presenza dell'effettivo
svolgimento della prestazione. In assenza del provvedimento costitutivo del
rapporto di lavoro e dei conseguenti adempimenti contabili per il pagamento
degli assegni con carattere di fissità, nessuna pretesa può essere
validamente avanzata per la remunerazione di prestazioni non rese. Infatti,
la "restitutio in integrum" agli effetti economici spetta al pubblico
dipendente soltanto nei casi in cui vi sia stata una sentenza che accerti
l'illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già in atto e non anche
nell'ipotesi in cui il giudicato accerti l'illegittimità del diniego di
costituzione di tale rapporto (cfr., ex multis, Cons. St., sez.VI,
20.05.2021 n. 3907).
Pertanto, il danno non può mai essere pari all'integrale ammontare del
trattamento economico e previdenziale non goduto nel periodo intercorrente
tra la data in cui la ricorrente avrebbe dovuto essere chiamata a prestare
servizio e quella di effettiva costituzione del rapporto, per effetto di una
virtuale ricostruzione della posizione economica.
Come già affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 30.06.2011,
n. 3934), in sede di quantificazione per equivalente del pregiudizio patito
dal ricorrente in ipotesi di omessa o ritardata assunzione per illegittima
esclusione da un pubblico concorso, il danno non si identifica in astratto
nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione (elementi
che possono rilevare soltanto sotto il profilo della responsabilità
contrattuale), occorrendo, invece, caso per caso, individuare l'entità dei
pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale che trovino causa nella
condotta illecita dell'amministrazione alla stregua dell'art. 1223 cod. civ..
Quanto ai pregiudizi patrimoniali, residua certamente un danno da mancato
guadagno, che ha solo come base di calcolo l'ammontare del trattamento
economico netto non goduto (ossia con esclusione di ogni voce retributiva
diversa e ulteriore allo stipendio tabellare, in quanto tali voci sono
comunque correlate, direttamente o almeno indirettamente, allo svolgimento
di quell'attività lavorativa che di fatto non c'è stata), decorrente dalla
data in cui l'appellante avrebbe dovuto essere immessa in servizio, e che,
non identificandosi con esso, deve essere sottoposto ad una percentuale di
abbattimento in considerazione del fatto che la danneggiata ha comunque
potuto dirottare le sue energie lavorative in altre occasioni, anche solo
potenziali, di guadagno e ha potuto risparmiare, nel contempo, le energie
fisico-psichiche che il lavoro, che le è stato illegittimamente negato
dall'amministrazione resistente, avrebbe comunque implicato. Tale
percentuale di abbattimento non può che essere quantificata equitativamente
ai sensi dell'art. 1226, cod. civ. (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 08.06.2022 n. 4674) - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti: che accade se sono irreperibili?
In caso di irreperibilità dei documenti oggetto di
istanza, la PA deve eseguire accurate ricerche ed eventualmente documentare
le ragioni dell’impossibilità.
L’art. 22 Legge 07.08.1990, n. 241 riconosce il diritto degli interessati di
prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi, in ossequio
al principio di trasparenza della Pubblica Amministrazione. Quest’ultima,
infatti, dovrebbe essere per il privato –come celebre dottrina ha
sottolineato– una “casa di vetro”.
Ma che accade se l’Amministrazione non riesce a reperire la documentazione
richiesta?
Il Tar Calabria, di recente, ha affrontato proprio questo tema, ribadendo
ancora una volta i principi consolidati nella giurisprudenza amministrativa
sul punto.
Il caso di specie, in particolare, riguardava la vicenda di una signora, la
quale aveva appreso tramite il sito INPS di risultare residente in un Comune
diverso da quello della sua reale residenza, presso una abitazione che non
le era nemmeno noto a chi appartenesse. La signora, premettendo di avere un
interesse giuridicamente rilevante collegato alla tutela del suo diritto di
residenza, aveva dunque chiesto all’Amministrazione di prendere visione ed
estrarre copia delle richieste di cambio di residenza presentate in passato
nonché degli altri documenti amministrativi rilevanti.
Il Comune, tuttavia, aveva risposto via p.e.c. all’istanza inoltrando alcuni
documenti dai quali nulla si evinceva in relazione alla situazione della
Signora interessata.
Quest’ultima, dunque, si era rivolta al TAR per il riconoscimento del
diritto di visione ed estrazione di copia della richiesta documentazione,
lamentando –per quanto qui di interesse- la violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 1, 3, 22 ss. Legge 07.08.1990, n. 241 in quanto
l’impugnato provvedimento aveva di fatto negato alla ricorrente l’esercizio
del diritto di accesso.
Ritenendo tale ricorso infondato, il TAR ha comunque operato alcune
importanti precisazioni in tema di accesso agli atti.
Con
sentenza 16.05.2022 n. 822, infatti, il TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I, ha richiamato
alcuni precedenti secondo i quali:
• alla stregua del principio ad impossibilia nemo tenetur,
anche nei procedimenti di accesso ai documenti amministrativi l'esercizio
del relativo diritto non può che riguardare, per evidenti motivi di buon
senso e ragionevolezza, i documenti esistenti e non anche quelli distrutti o
comunque irreperibili (cfr., ex multis, TAR Lombardia n. 1468/2020);
• non è tuttavia sufficiente, per dimostrare l'oggettiva
impossibilità di consentire il diritto di accesso e quindi di sottrarsi agli
obblighi tipicamente incombenti sull'amministrazione, la mera e indimostrata
affermazione della PA in ordine all'indisponibilità degli atti;
• spetta all'Amministrazione destinataria dell'istanza di accesso
l'indicazione, sotto la propria responsabilità, degli atti inesistenti o
indisponibili che non è in grado di esibire, con “l'obbligo di dare
dettagliato conto delle ragioni concrete di tale impossibilità” (v.
Cons. Stato, n. 892/2013).
Per tali ragioni, nella citata sentenza si legge che in tema di dichiarata
irreperibilità dei documenti oggetto di istanza di accesso,
l'Amministrazione è tenuta:
1. ad eseguire con la massima accuratezza e
diligenza sollecite ricerche per rinvenire i documenti chiesti in visione;
2. nel caso in cui la documentazione non venisse comunque reperita, ad
estendere le indagini, anche con le opportune segnalazioni e denunce
all'Autorità giudiziaria, presso altre Amministrazioni che fossero in
possesso di copia della documentazione richiesta;
3. in caso di ulteriore esito negativo delle ricerche, a “dare conto al
privato delle ragioni dell'impossibilità di ricostruire gli atti mancanti,
delle eventuali responsabilità connesse a tale mancanza (smarrimento,
sottrazione, ecc.) e dell'adozione degli atti di natura archivistica che
accertino lo smarrimento/irreperibilità in via definitiva dei documenti
medesimi” (commento tratto da www.brocardi.it).
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SENTENZA
7- Il ricorso è infondato.
8- Si osserva anzitutto che per costante giurisprudenza, anche di questa
Sezione (sentenza n. 2048 del 18.-OMISSIS-.2021; v. anche ex plurimis,
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 30.07.2020, n. 1468), alla stregua del
principio ad impossibilia nemo tenetur, anche nei procedimenti di
accesso ai documenti amministrativi l'esercizio del relativo diritto non può
che riguardare, per evidenti motivi di buon senso e ragionevolezza, i
documenti esistenti e non anche quelli distrutti o comunque irreperibili (v.
tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 03.07.2018 n. 44 -OMISSIS-), non
essendo tuttavia sufficiente -al fine di dimostrare l'oggettiva
impossibilità di consentire il diritto di accesso e quindi di sottrarsi agli
obblighi tipicamente incombenti sull'amministrazione in base alla normativa
primaria in tema di accesso- la mera e indimostrata affermazione in ordine
all'indisponibilità degli atti quale mera conseguenza del tempo trascorso e
delle modifiche organizzative medio tempore succedutesi, in quanto
spetta all'Amministrazione destinataria dell'istanza di accesso
l'indicazione, sotto la propria responsabilità, degli atti inesistenti o
indisponibili che non è in grado di esibire, con l'obbligo di dare
dettagliato conto delle ragioni concrete di tale impossibilità (v. Cons.
Stato, Sez. VI, 13.02.2013 n. 892).
In altri termini, in tema di dichiarata irreperibilità dei documenti oggetto
di istanza di accesso, l'Amministrazione è tenuta ad eseguire con la massima
accuratezza e diligenza sollecite ricerche per rinvenire i documenti chiesti
in visione -destinando all'uopo idonee risorse in termini di personale e
tempo-, e qualora, ciò nonostante, la documentazione non venisse reperita,
deve estendere le relative indagini, anche con le opportune segnalazioni e
denunce all'Autorità giudiziaria, presso altre Amministrazioni che fossero
in possesso di copia della documentazione richiesta, per poi -in caso di
ulteriore esito negativo delle ricerche- dare conto al privato delle ragioni
dell'impossibilità di ricostruire gli atti mancanti, delle eventuali
responsabilità connesse a tale mancanza (smarrimento, sottrazione, ecc.) e
dell'adozione degli atti di natura archivistica che accertino lo
smarrimento/irreperibilità in via definitiva dei documenti medesimi (v. TAR
Lombardia, Milano, sentenze n. 2587 del 15.-OMISSIS-.2018, n. 1255 del
31.05.2019, n. 343 del 20.02.2020 e n. 1245 del 29.06.2020).
9- La suddetta attività, peraltro, nella quale –si ribadisce–
l’Amministrazione deve dar conto delle ricerche effettuate ed attestarne
l’esito, sotto la propria responsabilità, deve essere compiuta in sede
amministrativa e non è surrogabile da dichiarazioni rese nell’ambito delle
difese processuali dell’Amministrazione.
10- Dalla documentazione versata in atti emerge che il Responsabile del
procedimento dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Spilinga, a riscontro
dell’istanza di accesso, con pec che, seppur non sottoscritta, risulta
comunque riconducibile all’indirizzo istituzionale del suddetto Ente e
riferibile all’Ufficio che la ha predisposta, ha trasmesso la documentazione
agli atti d’ufficio soggiungendo che nulla si evince per la -OMISSIS-
-OMISSIS-, odierna ricorrente.
-OMISSIS-- Da quanto sopra è dato evincere che l’Amministrazione comunale,
compulsata dall’odierna ricorrente, ha svolto le ricerche d’ufficio,
trasmesso la documentazione in suo possesso e dichiarato ciò che, invece,
non risulta agli atti d’ufficio
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 16.05.2022 n. 822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il dovere di cooperazione tra amministrazioni postula il
corollario del principio generale, operante a livello di organizzazione
degli uffici pubblici, secondo cui l'ufficio incompetente, che riceve
un'istanza di qualsivoglia tenore, è tenuto a trasmetterla a quello
competente, ma ciò postula sempre che si tratti di ufficio appartenente allo
stesso plesso amministrativo.
---------------
12- Né, per completezza, sono utilmente spendibili le ulteriori
argomentazioni di parte ricorrente, contenute nella memoria del 15.02.2022
in ordine all’asserito onere, in capo al Comune di Spilinga, di
eventualmente investire il competente Tribunale della questione in ordine ai
documenti non reperiti agli atti d’ufficio.
Giova osservare, infatti, che il dovere di cooperazione tra amministrazioni
richiamato dalla ricorrente postula il corollario del principio generale,
operante a livello di organizzazione degli uffici pubblici, secondo cui
l'ufficio incompetente, che riceve un'istanza di qualsivoglia tenore, è
tenuto a trasmetterla a quello competente, ma ciò postula sempre che si
tratti di ufficio appartenente allo stesso plesso amministrativo (in
argomento, Cons. Stato, IV, 19.04.2017, n. 1832; TAR Emilia -OMISSIS-,
Parma, -OMISSIS-.03.2017, n. 95; TAR Toscana, Sez. I, 27.06.2017, n. 890),
ipotesi che, all’evidenza, non ricorre nel caso di specie
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 16.05.2022 n. 822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In linea di principio, non può pretendersi
che l'istante in sede di accesso agli atti specifichi dati (quali il numero
di protocollo e la data di formazione di un atto) non in suo possesso;
tuttavia è necessario che siano fornite all'Amministrazione -specie, a
fronte di un'attività provvedimentale assai risalente nel tempo- indicazioni
precise e circostanziate che consentano di individuare, con certezza, gli
atti richiesti, a prescindere dal compimento di defaticanti attività di
ricerca ed elaborazione degli stessi.
Ciò proprio allo scopo di coniugare il
diritto alla trasparenza con l'esigenza di non pregiudicare, attraverso un
improprio esercizio del diritto di accesso, il buon andamento
dell'Amministrazione, riversando sulla stessa l'onere di reperire
documentazione inerente a un determinato segmento di attività.
Richieste
generiche sottoporrebbero l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con
la funzionalità dei plessi sia con l'economicità e la tempestività
dell'azione amministrativa. In altri termini, a prescindere dalla specifica
indicazione della data e del numero di protocollo attribuito agli atti
richiesti, non vi è dubbio come l'accesso possa costringere
l'Amministrazione ad attività di ricerca e di elaborazione dati, di guisa
che la relativa istanza non può essere generica, eccessivamente estesa o
riferita ad atti non specificamente individuati.
Inoltre, “L'istanza,
quindi, non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti
non specificamente individuati, anche in una ottica di buona fede e di
correttezza, oltre che di leale collaborazione, nei rapporti tra
l'Amministrazione e consociati, in ossequio al principio di proporzionalità
e di ragionevolezza”.
Ancora, “L'istanza di accesso a documenti amministrativi deve riferirsi a
ben specifici documenti e non può comportare la necessità di un'attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta; la
richiesta di ostensione degli atti non può costituire uno strumento di
controllo generalizzato sull'operato della Pubblica Amministrazione nei cui
confronti l'accesso viene esercitato e l'onere della prova anche
dell'esistenza dei documenti, rispetto ai quali si esercita il diritto di
accesso, incombe sulla parte che agisce in giudizio, non potendo imporsi
all'Amministrazione la prova del fatto negativo della non detenzione dei
documenti”.
---------------
13- Quanto, poi, ai documenti richiesti ai punti 6 e 7 della richiesta di
accesso, a quanto finora esposto è da soggiungersi un’ulteriore ragione di
rigetto del ricorso.
Osserva la giurisprudenza che “In linea di principio, non può pretendersi
che l'istante in sede di accesso agli atti specifichi dati (quali il numero
di protocollo e la data di formazione di un atto) non in suo possesso;
tuttavia è necessario che siano fornite all'Amministrazione -specie, a
fronte di un'attività provvedimentale assai risalente nel tempo- indicazioni
precise e circostanziate che consentano di individuare, con certezza, gli
atti richiesti, a prescindere dal compimento di defaticanti attività di
ricerca ed elaborazione degli stessi. Ciò proprio allo scopo di coniugare il
diritto alla trasparenza con l'esigenza di non pregiudicare, attraverso un
improprio esercizio del diritto di accesso, il buon andamento
dell'Amministrazione, riversando sulla stessa l'onere di reperire
documentazione inerente a un determinato segmento di attività. Richieste
generiche sottoporrebbero l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con
la funzionalità dei plessi sia con l'economicità e la tempestività
dell'azione amministrativa. In altri termini, a prescindere dalla specifica
indicazione della data e del numero di protocollo attribuito agli atti
richiesti, non vi è dubbio come l'accesso possa costringere
l'Amministrazione ad attività di ricerca e di elaborazione dati, di guisa
che la relativa istanza non può essere generica, eccessivamente estesa o
riferita ad atti non specificamente individuati” (TAR Lazio, -OMISSIS-,
Sez. II, 09.12.2020, n. 13188; v. anche Cons. St., Sez. IV, 12.01.2016 n.
68; TAR Lazio, -OMISSIS-, sez. II, 10.03.2020 n. 3100; in termini conformi,
TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 08.04.2021, n. 2318, che soggiunge che “L'istanza,
quindi, non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti
non specificamente individuati, anche in una ottica di buona fede e di
correttezza, oltre che di leale collaborazione, nei rapporti tra
l'Amministrazione e consociati, in ossequio al principio di proporzionalità
e di ragionevolezza”).
Ancora, “L'istanza di accesso a documenti amministrativi deve riferirsi a
ben specifici documenti e non può comportare la necessità di un'attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta; la
richiesta di ostensione degli atti non può costituire uno strumento di
controllo generalizzato sull'operato della Pubblica Amministrazione nei cui
confronti l'accesso viene esercitato e l'onere della prova anche
dell'esistenza dei documenti, rispetto ai quali si esercita il diritto di
accesso, incombe sulla parte che agisce in giudizio, non potendo imporsi
all'Amministrazione la prova del fatto negativo della non detenzione dei
documenti” (Consiglio di Stato, Sez. III, -OMISSIS-.10.2021, n. 6822).
Tanto chiarito, relativamente ai documenti rubricati ai nn. 6 e 7
dell’istanza del 10.12.2021 la richiesta della ricorrente, attenendo
genericamente ad ogni altro e/o documento comunque denominato relativo al
suo diritto di elettorato attivo nel periodo 1977-1990, ivi compresi quelli
dai quali risulta l’effettivo esercizio di tale diritto mediante votazione e
ad ogni altro atto e/o documento comunque denominato e formato da codesti
Comuni per iscrivere e/o cancellare la residenza della medesima ricorrente
nel periodo 1977-1990, laddove esorbitante dai documenti compresi nei
precedenti punti 1-5 e per i quali ci si è pronunciati nei termini sopra
esposti per un verso, presenta evidenti connotati di genericità,
indeterminatezza, sia dal punto di vista contenutistico che dal punto di
vista temporale, e, nel contempo, carattere di esploratività, tale da
condurre al rigetto dell’istanza in parte qua.
14- In conclusione, il ricorso va rigettato
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 16.05.2022 n. 822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sui presupposti per l'adozione di una ordinanza sindacale contingibile ed
urgente.
Per pacifica giurisprudenza, la possibilità di ricorrere
allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente ex artt. 50 e 54
T.U.E.L. è condizionata dalla sussistenza di un pericolo concreto, che
imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per
fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con gli
strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
In particolare, il legittimo esercizio del potere sindacale di emanare
ordinanze di necessità, finalizzate alla salvaguardia di rilevanti interessi
pubblici legati alla sicurezza della collettività, ai sensi dell’art. 54 del
TUEL, è subordinato ai seguenti presupposti:
a) straordinarietà (intesa come impossibilità di far luogo ad atti
tipici e nominati preordinati alla gestione degli interessi coinvolti, come
nella specie quelli disciplinati dal Codice della strada);
b) urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza pericolo
di compromissione di quegli interessi, l'azione amministrativa, con il
ricorso alle tempistiche ordinarie);
c) imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
d) contingibilità (intesa come emergenza provvisoria ed improvvisa)
sicché l'esercizio del potere presuppone l'esistenza, oltre che la sua
puntuale indicazione nel provvedimento impugnato, di una situazione di
pericolo, da intendersi quale ragionevole probabilità che accada un evento
dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente.
Tale potere di ordinanza «presuppone necessariamente situazioni non
tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di
tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli
atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente,
stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia
provvedimentale».
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 217 del 27.08.2021 avente ad
oggetto “Molestie olfattive Fo. di As. S.p.A.” adottata dal Sindaco
del Comune di Assisi;
...
7. I primi due motivi di ricorso possono essere esaminati
congiuntamente in quanto costituiscono sviluppo di una medesima censura
relativa al difetto dei presupposti di cui agli artt. 50, comma 5, e 54
d.lgs. 267 del 2000 per l’adozione di un provvedimento contingibile e
urgente da parte del Sindaco di Assisi.
7.1. Giova rammentare che, per pacifica giurisprudenza, la possibilità di
ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente ex artt. 50 e
54 T.U.E.L. è condizionata dalla sussistenza di un pericolo concreto, che
imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem,
per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con gli
strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento (cfr., ex plurimis,
TAR Liguria, Sez. I, 08.07.2019, n. 603; TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I,
05.11.2018, n. 339; TAR Piemonte, Sez. II, 26.07.2018, n. 903).
In particolare, il legittimo esercizio del potere sindacale di emanare
ordinanze di necessità, finalizzate alla salvaguardia di rilevanti interessi
pubblici legati alla sicurezza della collettività, ai sensi dell’art. 54 del
TUEL, è subordinato ai seguenti presupposti:
a) straordinarietà (intesa come impossibilità di far luogo ad atti
tipici e nominati preordinati alla gestione degli interessi coinvolti, come
nella specie quelli disciplinati dal Codice della strada);
b) urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza pericolo
di compromissione di quegli interessi, l'azione amministrativa, con il
ricorso alle tempistiche ordinarie);
c) imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
d) contingibilità (intesa come emergenza provvisoria ed improvvisa)
sicché l'esercizio del potere presuppone l'esistenza, oltre che la sua
puntuale indicazione nel provvedimento impugnato, di una situazione di
pericolo, da intendersi quale ragionevole probabilità che accada un evento
dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga prontamente (cfr.
ex multis C.d.S., sez. V, 22.03.2016, n. 1189; Id., III, 29.05.2015,
n. 2697; Id., V, 23.09.2015, n. 4466, Id., 02.03.2015, n. 988).
Tale potere di ordinanza «presuppone necessariamente situazioni non
tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di
tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli
atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente,
stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia
provvedimentale» (cfr. C.d.S., sez. V, 21.02.2017, n. 774; Id.,
22.03.2016, n. 1189; Id., 05.09.2015, n. 4499).
7.2. Occorre, altresì, premettere che per le emissioni odorigene in base
alla normativa nazionale vigente non è prevista la fissazione di limiti di
emissione né di metodi o di parametri idonei a misurarne la portata.
Il Codice dell’Ambiente, a seguito delle modifiche introdotte con d.lgs. n.
183 del 2017, prevede in questo ambito la possibilità di un intervento delle
singole Regioni o delle Autorità competenti in sede di autorizzazione.
Difatti, ai sensi del primo comma dell’art. 272-bis del d.lgs. n. 152 2006,
«[l]a normativa regionale o le autorizzazioni possono prevedere misure
per la prevenzione e la limitazione delle emissioni odorigene degli
stabilimenti di cui al presente titolo».
In tale ambito possono essere stabiliti valori limite relativi alle sostanze
odorigene, prescrizioni impiantistiche e gestionali e criteri localizzativi
per impianti e per attività aventi un potenziale impatto odorigeno -incluso
l'obbligo di attuazione di piani di contenimento-, specifiche portate
massime o concentrazioni massime di emissioni odorigene.
La Regione Umbria non ha legiferato in materia; non sono pertanto
rinvenibili a livello regionale né valori limite relativi alle sostanze
odorigene, né specifiche portate massime o concentrazioni massime di
emissione odorigena espresse in unità odorimetriche per le fonti di
emissioni odorigene dello stabilimento.
E’ inoltre pacifico tra le parti che l’Autorizzazione integrata ambientale
adottata con D.D. 27.02.2015 n. 599 della Provincia di Perugia, riferita
all’impianto della Società ricorrente, e i successivi aggiornamenti, non
prescrivano l’adozione di misure finalizzate al contenimento delle emissioni
odorigene.
7.3. Ciò posto, nel caso in esame dal provvedimento sindacale gravato e
dagli atti nello stesso richiamati non risulta emergere alcuna situazione di
emergenza sanitaria o pericolo attuale e imminente per la salute e
l’incolumità pubblica.
Nel report di ARPA Umbria “Rilevamento Qualità dell’Aria in
località Santa Maria degli Angeli – Assisi, Settembre 2020-Maggio 2021”
la stessa Agenzia evidenzia «valori di buona qualità dell’aria per i
parametri ossidi di zolfo, ossidi di azoto, monossido di carbonio, ozono e
benzene i cui indici sono al di sotto delle soglie di valutazione inferiori»
e «per quanto riguarda il parametro Particolato PM10 le medie da
settembre 2020 a maggio 2021 sono comprese tra la soglia di valutazione
superiore e la soglia di valutazione inferiore, con 22 superamenti per il
PM10 del limite delle medie giornaliere» (stesso risultato per PM2.5).
Nello stesso report viene rilevato «per quanto riguarda i
microinquinanti non si evidenziano criticità nel periodo settembre-dicembre
2020 nelle concentrazioni di metalli pesanti, con valori confrontabili con
altre realtà regionali non influenzati da attività industriali, e con
variabilità tra i tre punti molto contenute», mentre «per quanto
riguarda le Diossine e PCB si registra nel periodo un valore di
concentrazione di PCDD/Fs leggermente superiore ai valori che si rilevano
nel resto della regione, con valori più bassi nel periodo gen-mar 2021
rispetto al periodo set-dic 2020, dove sono quasi sempre al di sotto del
limite di rilevabilità strumentale», e infine «esaminando i risultati
dei microinquinanti nelle deposizioni non si rilevano criticità per i
metalli, per i quali si mostra il confronto con due postazioni della rete
regionale (Perugia Cortonese e Terni Borgorivo che non hanno ricadute
significative di origine industriale)» e «anche per gli IPA non si
evidenziano situazioni di criticità».
Con particolare riferimento alla rilevazione di aldeidi, alla pag. 32 del
report si riporta: «[d]al 15 al 30 settembre sono stati esposti in
due intervalli di circa una settimana campionatori passivi del tipo radiello
per la determinazione di Aldeidi nelle tre postazioni. I valori medi
riscontrati in tutti i periodi non hanno evidenziato valori significativi,
per lo più prossimi o inferiori ai limiti di rilevabilità. … A partire da
aprile 2021 è stato attivato anche un campionamento su chiamata a distanza
per la rilevazione delle aldeidi in corrispondenza di fenomeni odorigeni,
segnalati dalla popolazione, installato in Via Protomartiri Francescani n.
70».
Di seguito, in commento alla Tabella 22 espressamente richiamata nel
provvedimento sindacale si legge: «Le concentrazioni rilevate di
Acroleina e Acetaldeide sono al di sopra della soglia olfattiva
(rispettivamente 3.6 ppb e 1.5 ppb) ma molto al di sotto delle
concentrazioni considerate tossiche (TLV di 100 ppb per l’acroleina e 10 ppm
per l’aldeide acetica)». Tali valori risultano confermati anche nei
successivi campionamenti (cfr. allegato 5 della produzione ARPA Umbria).
In definitiva, le rilevazioni effettuate da ARPA, pur evidenziando la
percepibilità delle richiamate sostanze, non evidenziano alcuna situazione
di pericolo per l’ambiente, la salute o la pubblica incolumità tale da
giustificare l’intervento sindacale (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. II,
15.03.2021, n. 807). Tale rischio non emerge con la necessaria evidenza
neanche alla luce dagli atti della AUSL Umbria 1 richiamati nel
provvedimento sindacale in ordine ai fenomeni di malessere verificatisi
nella popolazione residente, in quanto riferiti a segnalazioni dei cittadini
residenti e non supportati da dati certi in ordine alla ricorrenza e
diffusione di detti fenomeni.
7.4. Né può diversamente opinarsi alla luce delle argomentazioni delle
difese resistenti circa la necessità di ricorrere allo strumento extra
ordinem in assenza di una normativa regionale in materia di emissioni
odorigene.
Come già rilevato in sede cautelare, sebbene l’assenza di un riferimento
tanto normativo quanto di autorizzazione circa i valori e le concentrazioni
limite relativi alle sostanze odorigene non precluda l’intervento delle
Amministrazioni competenti a tutela della salute e dell’incolumità pubblica,
in siffatte circostanze si impone in capo alla P.A. un più stringente onere
istruttorio e motivazionale basato su dati univoci circa la sussistenza di
un pericolo attuale per la salute dell’uomo e per l’ambiente derivante dalle
emissioni di aldeidi nelle concentrazioni rilevate. Tale onere non può dirsi
assolto nel caso in esame con il mero richiamo a “soglie olfattive”,
ancorché individuate nella letteratura scientifica.
7.5. L’accoglimento delle censure esaminate risulta assorbente rispetto agli
ulteriori motivi in diritto, formulati peraltro in via gradata, e comporta
l’annullamento della gravata ordinanza del Sindaco del Comune di Assisi.
8. Per quanto esposto, il ricorso deve essere accolto, con conseguente
annullamento della gravata ordinanza del Sindaco del Comune di Assisi del
27.08.2021 n. 217 (TAR Umbria,
sentenza 04.05.2022 n. 262 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Riedizione
del potere dopo un giudicato di annullamento.
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Processo amministrativo - Giudicato – Giudicato di annullamento –
Riedizione del potere - Principio del c.d. one shot temperato.
In applicazione del principio del c.d. one shot
temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un
numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale, è
dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta
l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con
definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta)
di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio
costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la
garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata
cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi (1).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che nella specie il giudicato per la
sua latitudine ed ampiezza permetteva di fare applicazione del principio del
c.d. one shot temperato, formatosi in sede giurisprudenziale per
evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di
volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale; tanto comporta che è
dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta
l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con
definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta)
di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio
costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la
garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata
cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi.
Al riguardo, va ricordato che tale principio è già emerso come consolidato
nella giurisprudenza di questo Consiglio, come principio del c.d. one
shot temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per
un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale.
Si ritiene quindi dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare
una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le
questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in
sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il
privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte
esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione
attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti
conformativi (Cons. Stato, sez. V,
08.01.2019, n. 144, sez. VI,
25.02.2019, n. 1321 e sez. III,
14.02.2017, n. 660).
Va rilevato poi che nell’applicazione di tale principio non si deve di
regola tener conto del riesame amministrativo avvenuto in ottemperanza di
provvedimenti cautelari volti a consentire temporaneamente l’esercizio di
attività in precedenza autorizzate, riesame che, nella specie, comportava un
nuovo diniego impugnato con motivi aggiunti nello stesso processo esitato
poi nell’annullamento dei due originari dinieghi oggetto del medesimo
processo ma si deve invece tener conto solo dei dinieghi successivi ad un
giudicato di annullamento di talché il presente processo ha in definitiva ad
oggetto il secondo riesame questo sì avente effetto (potenzialmente)
preclusivo ove fosse nuovamente oggetto di annullamento (al fine di
consentire l’approssimazione al bene della vita).
Ciò perché l’amministrazione incorre in preclusioni (nell’assetto
disciplinare rilevante in questo contenzioso per la sua cadenza temporale)
solo dopo un secondo riesame completo della fattispecie, conseguente ad un
primo giudicato di annullamento.
Il ricorso poi parla del provvedimento impugnato in questa sede come terzo
diniego (non casualmente e proprio al fine di richiamare a proprio favore la
teorica del c.d. one shot temperato) mentre il presunto secondo
diniego (in realtà solo una specificazione del primo) era stato sollecitato
da un ordine cautelare volto solo a consentire le attività precedentemente
autorizzate ed era il frutto di una (allora) per altri versi intatta facoltà
di amministrazione attiva, conformatasi per la prima volta solamente alla
formazione del giudicato
CdS VI n. 8017 del 2019 sicché il provvedimento impugnato in questo
processo è, ai fini della teorica richiamata relativa alle modalità di
ottemperanza, il secondo riesame e non il terzo (con conseguente sua
astratta maggiore latitudine).
V. anche la sentenza resa nel giudizio di ottemperanza
26.04.2022, n. 3154, nella quale ha affermato la Sezione che la scelta
di Banca d’Italia di operare una duplice valutazione ora per allora e ora
per ora, da un lato non confligge con il giudicato di cui si chiede
l’esecuzione, dall’altro, risulta maggiormente garantista della posizione
dell’odierna ricorrente. Infatti, l’amministrazione, pur rieditando il
potere sulla scorta degli elementi forniti dall’istante in passato alla luce
dei parametri indicati dalla sentenza ottemperanza, ha tenuto in
considerazione, altresì, gli elementi positivi sopravvenuti attualizzando la
valutazione all’oggi (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 03.05.2022 n. 3480 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3.2 In generale, lo sviamento di potere ricorre allorché il pubblico potere
venga ad essere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal
legislatore con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l’atto
posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello
pubblico; la censura deve essere supportata da precisi e concordanti
elementi di prova, idonei a dare conto delle divergenze dell'atto dalla sua
tipica funzione istituzionale, non bastando allegazioni che non raggiungono
neppure il livello di supposizione od indizio.
Nel caso di specie gli elementi evocati –relativi ad atti defensionali di
primo grado- non assurgono alla qualifica di allegazioni necessarie,
scontrandosi piuttosto con la pluralità di autonomi ed oggettivi elementi
ostativi posti a fondamento della nuova determinazione.
3.3 Sempre in via generale, laddove, dopo una sentenza di annullamento,
l’amministrazione, pur integrando il rilevato vizio istruttorio o
motivazionale, adotti un provvedimento ugualmente non satisfattivo della
pretesa, si avrà violazione o elusione del giudicato se l’attività
asseritamente esecutiva dell’amministrazione risulti contrassegnata da uno
sviamento manifesto, diretto ad aggirare le prescrizioni, puntuali,
stabilite con il giudicato. Ma al riguardo è sufficiente rinviare a quanto
evidenziato dal Collegio avverso i vizi di violazione del giudicato, sia in
sede di ottemperanza che nel punto 2 della presente motivazione.
4. In relazione ai profili dedotti con il terzo motivo, se per un verso
assumono rilievo dirimente ed assorbente le considerazioni sopra svolte in
merito all’insussistenza dei profili di elusione e mancata esecuzione della
sentenza del 2019, per un altro verso vanno parimenti ribaditi i richiami
alla corretta interpretazione dell’art. 10-bis, sopra svolti, ed alla condivisibilità dell’opzione istruttoria e di esame seguita dalla Banca
d’Italia, in termini di ora per ora e di ora per allora.
4.1 Nel caso di specie l’affermazione del Tar criticata da parte appellante
(“il nuovo provvedimento –a ciò pienamente legittimato dal giudicato, …–
ha rimesso all’Autorità una completa valutazione degli elementi di fatto
essenziali ai fini dell’assetto di interessi e dunque quelli oggetto di
censura nel ricorso … sono realmente dettagli di questioni già sollevate, la
Banca d’Italia”) appare giustificata e va letta alla luce dell’effetto conformativo del giudicato (che prevale sullo stesso 10-bis della legge n.
241 del 1990 le quante volte non risultino vincoli precisi al riesame
complessivo della materia).
Se è vero in particolare che tale norma, nel suo attuale tenore, recita che
“in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato,
nell'esercitare nuovamente il suo potere l'amministrazione non può addurre
per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall'istruttoria del
provvedimento annullato” (disposizione introdotta dall'art. 12, comma 1,
lett. e) del D.L. 16.07.2020, n. 76 comunque in data successiva
all’adozione del provvedimento impugnato) ossia prescrive che l’Ammnistrazione
non può e non deve aprire del tutto nuovi defatigatori “capitoli” ostativi
alla pretesa del ricorrente di vedere riesaminato solo il punto fatto
oggetto di esame nella sentenza, è altresì vero che quando lo stesso
giudicato devolve per intero il riesame della fattispecie
all’amministrazione solo affermando dei principi guida, essa può apprezzare
anche il materiale già versato in istruttoria (che è quanto è avvenuto
nella specie) ed anche quello emerso successivamente (ciò andando peraltro
in senso –astrattamente- favorevole all’istante).
Orbene, nella specie, fermi i rilievi guidati dalla pronuncia della Sezione
sul punto dell’esame dell’adeguatezza patrimoniale, da condursi in concreto,
senza deroghe alla disciplina di settore (non potendosi argomentare in tal
senso dal fugace riferimento al patrimonio netto contenuto nella sentenza CdS VI n. 8017 del 2019, nozione civilistica volta solo ad orientare la
tipologia di esame da effettuare –non sulla base del mero capitale versato- ma certamente secondo le regole della vigilanza di settore) ha
integralmente rimesso alla Banca d’Italia il nuovo intero apprezzamento
della fattispecie imponendo solo che venisse fatto a partire da una concreta
analisi dell’adeguatezza patrimoniale dell’intermediario come base di
partenza dell’attività di riesame; dall’analisi degli atti emerge come la
Banca d’Italia abbia svolto un approfondimento proprio nell’ottica del
vaglio completo di tutti gli elementi in suo possesso e di quelli
sopravvenuti, così come imposta dall’esecuzione della sentenza e dai
principi già espressi da questo Consiglio relativi all’attuazione del
giudicato.
4.2 In proposito, il giudicato per la sua latitudine ed ampiezza permetteva
di fare applicazione del principio del c.d. one shot temperato, formatosi in
sede giurisprudenziale per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere
per un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede
giurisdizionale; tanto comporta che è dovere della stessa pubblica
amministrazione riesaminare una seconda volta l'affare nella sua interezza,
sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per
l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere
sfavorevolmente per il privato; tale principio costituisce il punto di
equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del
potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di
annullamento con i suoi effetti conformativi.
Al riguardo, va ricordato che tale principio è già emerso come consolidato
nella giurisprudenza di questo Consiglio, come principio del c.d. one shot
temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un
numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale.
Si ritiene quindi dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare
una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le
questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in
sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il
privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte
esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione
attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti
conformativi (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 08.01.2019,
n. 144, sez. VI, 25.02.2019, n. 1321 e sez. III, 14.02.2017, n.
660).
Va rilevato poi che nell’applicazione di tale principio non si deve di
regola tener conto del riesame amministrativo avvenuto in ottemperanza di
provvedimenti cautelari volti a consentire temporaneamente l’esercizio di
attività in precedenza autorizzate, riesame che, nella specie, comportava un
nuovo diniego impugnato con motivi aggiunti nello stesso processo esitato
poi nell’annullamento dei due originari dinieghi oggetto del medesimo
processo ma si deve invece tener conto solo dei dinieghi successivi ad un
giudicato di annullamento di talché il presente processo ha in definitiva ad
oggetto il secondo riesame questo sì avente effetto (potenzialmente)
preclusivo ove fosse nuovamente oggetto di annullamento (al fine di
consentire l’approssimazione al bene della vita).
Ciò perché l’amministrazione incorre in preclusioni (nell’assetto
disciplinare rilevante in questo contenzioso per la sua cadenza temporale)
solo dopo un secondo riesame completo della fattispecie, conseguente ad un
primo giudicato di annullamento.
Il ricorso poi parla del provvedimento impugnato in questa sede come terzo
diniego (non casualmente e proprio al fine di richiamare a proprio favore
la teorica del c.d. one shot temperato) mentre il presunto secondo diniego
(in realtà solo una specificazione del primo) era stato sollecitato da un
ordine cautelare volto solo a consentire le attività precedentemente
autorizzate ed era il frutto di una (allora) per altri versi intatta
facoltà di amministrazione attiva, conformatasi per la prima volta solamente
alla formazione del giudicato CdS VI n. 8017 del 2019 sicché il provvedimento
impugnato in questo processo è, ai fini della teorica richiamata relativa
alle modalità di ottemperanza, il secondo riesame e non il terzo (con
conseguente sua astratta maggiore latitudine) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.05.2022 n. 3480 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla inammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso
una mera "diffida" per originaria carenza d’interesse poiché
proposto contro un atto privo di immediata efficacia lesiva.
L’interesse azionato dai ricorrenti
difetta dei requisiti di attualità e concretezza, essendo
stato impugnato un atto di mera diffida, a carattere
interlocutorio, che non arreca una lesione definitiva e
irreversibile alla sfera giuridica dei ricorrenti ed è,
dunque, privo di autonoma e immediata efficacia lesiva.
Gli atti di diffida hanno lo scopo di mettere a conoscenza
il loro destinatario dei profili di carenza/illegittimità
riscontrati nella sua condotta e di assegnare un termine per
provvedere a colmare le carenze o eliminare le
illegittimità.
La giurisprudenza amministrativa ha, in particolare,
chiarito che le diffide in senso stretto consistono nel
formale avvertimento -indirizzato ad un soggetto (pubblico
o privato), tenuto all'osservanza di un obbligo in base ad
un preesistente titolo (legge, sentenza, atto
amministrativo, contratto)- di ottemperare all'obbligo
stesso.
Esse, dunque, non hanno carattere novativo di tale obbligo e
usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un
termine dilatorio per l'adozione di provvedimenti
sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari, i quali,
nonostante l'intimazione, siano rimasti inosservanti del
proprio obbligo.
Ne consegue che, proprio per il loro carattere ricognitivo
di obblighi che l'amministrazione assume come preesistenti e
per la loro natura interlocutoria, le diffide in senso
stretto non sono immediatamente lesive della sfera giuridica
del destinatario, a differenza dei successivi provvedimenti
sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute atti
immediatamente impugnabili.
Che la diffida impugnata non abbia natura immediatamente
lesiva è, altresì, desumibile dal fatto che essa contiene
una comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi degli
artt. 7 e 8 della n. 241 del 1990, con cui i ricorrenti
vengono notiziati della facoltà di prendere visione degli
atti e di presentare memorie scritte e documenti entro 30
giorni dalla notifica della diffida, ai sensi dell’art. 10,
l. 241/1990.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza comunale 21.05.2010 n.
59/010 di diffida all'utilizzazione di un immobile adibito
ad attività di riunione ed incontri di persone, nonché a
presunta attività di esercizio collettivo di culto in
assenza dei prescritti requisiti igienico-sanitari;
...
Si controverte sulla legittimità dell’atto in epigrafe
indicato con cui il Comune resistente ha diffidato i
ricorrenti all'utilizzazione di un immobile dagli stessi
adibito ad attività di riunione ed incontri di persone,
nonché a presunta attività di esercizio collettivo di culto,
in assenza dei prescritti requisiti igienico-sanitari.
Il ricorso è inammissibile per originaria carenza
d’interesse.
Com’è noto, per poter agire in giudizio occorre avervi
interesse (art. 100 c.p.c.).
L’interesse a ricorrere deve essere personale, attuale e
concreto.
Nel caso di specie, l’interesse azionato dai ricorrenti
difetta dei requisiti di attualità e concretezza, essendo
stato impugnato un atto di mera diffida, a carattere
interlocutorio, che non arreca una lesione definitiva e
irreversibile alla sfera giuridica dei ricorrenti ed è,
dunque, privo di autonoma e immediata efficacia lesiva.
Gli atti di diffida hanno lo scopo di mettere a conoscenza
il loro destinatario dei profili di carenza/illegittimità
riscontrati nella sua condotta e di assegnare un termine per
provvedere a colmare le carenze o eliminare le illegittimità
(CdS, sez. III, 05.05.2017 n. 2073).
La giurisprudenza amministrativa ha, in particolare,
chiarito che le diffide in senso stretto consistono nel
formale avvertimento -indirizzato ad un soggetto (pubblico
o privato), tenuto all'osservanza di un obbligo in base ad
un preesistente titolo (legge, sentenza, atto
amministrativo, contratto)- di ottemperare all'obbligo
stesso.
Esse, dunque, non hanno carattere novativo di tale obbligo e
usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un
termine dilatorio per l'adozione di provvedimenti
sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari, i quali,
nonostante l'intimazione, siano rimasti inosservanti del
proprio obbligo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.01.2018, n. 62).
Ne consegue che, proprio per il loro carattere ricognitivo
di obblighi che l'amministrazione assume come preesistenti e
per la loro natura interlocutoria, le diffide in senso
stretto non sono immediatamente lesive della sfera giuridica
del destinatario, a differenza dei successivi provvedimenti
sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute atti
immediatamente impugnabili (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2015 n. 2215; Cons. Stato, sez. IV,
09.11.2005 n.
6257).
Che la diffida impugnata non abbia natura immediatamente
lesiva è, altresì, desumibile dal fatto che essa contiene
una comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi degli
artt. 7 e 8 della n. 241 del 1990, con cui i ricorrenti
vengono notiziati della facoltà di prendere visione degli
atti e di presentare memorie scritte e documenti entro 30
giorni dalla notifica della diffida, ai sensi dell’art. 10,
l. 241/1990.
Alla luce delle su esposte considerazioni, il ricorso deve
essere dichiarato inammissibile per originaria carenza
d’interesse poiché proposto contro un atto privo di
immediata efficacia lesiva, come dimostra per tabulas il
fatto che nei successivi dodici anni i ricorrenti hanno
continuato a utilizzare l’immobile oggetto di diffida senza
che il Comune adottasse alcun provvedimento sanzionatorio (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 31.03.2022 n. 518 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto
d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di
conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione
si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni
di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra,
incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti
amministrativi.
Con la
sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha
declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme
operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo
tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia
assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare
nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione"
del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il
funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più
presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile
del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,
le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi
in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è
espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale
impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della
regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto
con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il
dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o
attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del
coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave
inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle
incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del
2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in
materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della
richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del
funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una
illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto
finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga
scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del
funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento
deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).
---------------
SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita
incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è
destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di
Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in
materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del
Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si
astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il
secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali
abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave
inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti
od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero
di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità
nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il
d.lgs. n. 39 del 2013, in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento
dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato,
una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli
elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può
definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di
una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia
affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi
personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi
necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse
funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire
nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del
dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità
procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non
venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la
situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo
influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine
di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice
di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale
finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale
dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019,
prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di
contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente
consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce
pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti
non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che
la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere
sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di
Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava
invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di
Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e
contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede
penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con
provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione
avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto
negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è
rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro. |
febbraio 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’azione
esperita dai ricorrenti è sussumibile nella fattispecie di
responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo e va, pertanto,
ricondotta al paradigma della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.., con tutto ciò che ne consegue in ordine alla
ripartizione degli oneri di allegazione e prova.
La dimensione "sostanzialista" del concetto di "interesse legittimo" da
tutelare, quale interesse correlato ad un "bene della vita" coinvolto
nell'esercizio della funzione pubblica, implica che il requisito
dell'ingiustizia del danno sussista e, conseguentemente, il risarcimento
possa essere riconosciuto, in primo luogo, qualora l'esercizio illegittimo
del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la
dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi.
Ciò significa che l'illegittimità dell'attività provvedimentale deve essere
tale da incidere sul contenuto dell'atto, nel senso che sia dimostrabile che
senza i vizi da cui è affetto, il provvedimento sarebbe stato satisfattivo e
che all'esito del procedimento il privato avrebbe conseguito l'utilità
sperata.
L'esistenza del danno ingiusto lamentato in giudizio deve formare oggetto di
un puntuale onere di allegazione e prova in capo al soggetto che ne richieda
il risarcimento, non costituendo una conseguenza automatica
dell'annullamento giurisdizionale dell'atto amministrativo illegittimo.
Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, invero, il principio
generale dell'onere della prova previsto dall'art. 2697 c.c., si applica
anche all'azione di risarcimento del danno proposta dinanzi al Giudice
amministrativo.
Incombe, pertanto, sul danneggiato ricorrente l’onere di allegare in modo
puntuale, specifico e compiuto già in sede di ricorso, e successivamente
dimostrare, la sussistenza di tutti i presupposti dell’illecito: in
particolare, oltre alla illegittimità del provvedimento amministrativo
asseritamente causativo del danno, la colpa dell’amministrazione –quest’ultima
sia pure in via presuntiva, secondo l’orientamento giurisprudenziale
prevalente-, l’effettiva lesione del bene della vita nell'accezione della
sicura spettanza del risultato precluso attraverso l'atto annullato -nella
duplice alternativa dell’interesse oppositivo o pretensivo–, il nesso di
causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali
conseguenti all’evento lesivo e il correlato nesso di causalità giuridica.
La domanda di risarcimento, ove manchi della prova, e, ancor prima, della
necessaria allegazione precisa e tempestiva di tutti gli elementi
costitutivi, non può che essere respinta: <<ciò anche perché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo dell'art. 2697, comma 1,
cod. civ., opera con pienezza, senza il temperamento del metodo acquisitivo
caratteristico dell'azione giurisdizionale di annullamento>>.
L’allegazione e la prova della sicura spettanza del bene della vita perduto
a causa del provvedimento illegittimo (nel caso di specie consistente nel
rilascio della concessione edilizia richiesta), d’altronde, vengono ad
essere declinate in modo differente a seconda che, da un lato, il potere
esercitato dalla P.a. sia discrezionale o vincolato; dall’altro lato, che il
vizio che rende illegittimo il provvedimento amministrativo abbia natura
sostanziale ovvero meramente formale, categoria, quest’ultima, nella quale
rientra il difetto di motivazione.
Va richiamato l’insegnamento secondo il quale <<l'annullamento fondato su
profili formali non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del
bene della vita. Né tale accertamento spetta al giudice, anche solo in via
di prognosi, se vi è ancora uno spazio di intervento dell'Amministrazione.
L'annullamento per difetto di motivazione non elimina né riduce il potere di
provvedere in ordine allo stesso oggetto dell'atto annullato e lascia ampio
potere in merito all'Amministrazione, con il solo limite negativo di riesercizio
nelle stesse caratterizzazioni di cui si è accertata l'illegittimità, sicché
non può ritenersi condizionata o determinata in positivo la decisione
finale>>.
Si aggiunga, poi, che l’eventuale assenza o genericità deduttiva e assertiva
dell’articolazione delle allegazioni difensive in sede di ricorso, non può
essere recuperata successivamente nell’ambito delle memorie difensive ex
art. 73 c.p.a., le stesse avendo solo la funzione di meglio precisare le
argomentazioni in fatto e diritto già sufficientemente enucleate in sede di
atto introduttivo.
---------------
... per la condanna
del Comune di Mezzane al risarcimento dei danni ingiusti causati ai
ricorrenti dal provvedimento 28.09.1992 n. 3558 prot. con il quale
l’Ente ha sospeso la richiesta di concessione edilizia presentata in data
30.05.1992 dai ricorrenti;
...
I ricorrenti, proprietari di alcuni terreni siti in località Castagnè, nel
Comune di Mezzane di Sotto (VR), verso la fine degli anni 80, hanno
presentato agli Uffici competenti, un progetto finalizzato alla
realizzazione di un edificio di civile abitazione da costruirsi sui terreni
predetti.
Ottenuto sia il parere positivo della Commissione edilizia comunale, che
l'approvazione dell'ufficio beni ambientali della provincia di Verona,
entrambi recanti alcune prescrizioni integrative/modificative, il Sindaco
del Comune di Mezzane, con provvedimento 28.09.1992, prot. n. 3558,
ha disposto di <<sospendere, in attesa di presentazione di nuova soluzione,
la richiesta di concessione edilizia di cui sopra per il seguente motivo: la
soluzione presentata non si inserisce correttamente nell'ambiente
tipicamente collinare>>.
Avverso tale provvedimento gli odierni ricorrenti hanno esperito azione di
annullamento avanti all’intestato TAR, che, con sentenza 28.07.2004, n.
2502, passata in giudicato, ha accolto il ricorso e annullato il
provvedimento citato per difetto di motivazione.
Con successivo ricorso depositato in data 21.04.2008, parte ricorrente
ha introdotto il presente giudizio chiedendo la condanna del Comune
resistente al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti
a causa dell’adozione del provvedimento annullato, in particolare
lamentando:
1. il comportamento negligente ed illegittimo tenuto dal Comune, per avere
ingiustificatamente e immotivatamente disposto la sospensione della
procedura di rilascio della concessione edilizia, in quanto già
positivamente valutata dagli uffici competenti (commissione edilizia
comunale e ufficio beni ambientali della provincia di Verona), così come
accertato dalla sentenza del TAR del Veneto;
2. la lesione dell’interesse legittimo vantato, fattispecie integrante
illecito aquiliano ex art. 2043 c.c.;
3. di non aver potuto procedere all'utilizzo ai fini edificatori programmati
dell'area di loro proprietà in dipendenza diretta ed esclusiva
dell'illegittima azione della P.A.;
4. un danno costituito dalle conseguenze patrimoniali ricollegate al mancato
sfruttamento economico delle aree di proprietà dei ricorrenti, divenuto
irreversibile in conseguenza della modifica, intervenuta nelle more, del PRG
(approvato dalla regione Veneto, con Delibera di Giunta del 18.05.98, n.
1768) che ha notevolmente modificato le possibilità edificatorie nelle zone
di interesse dei ricorrenti (Zona C2 nella frazione di Castagnè),
segnatamente riducendo l'indice volumetrico realizzabile (1,1 nel 1992,
quando fu presentato il progetto, 0,65 oggi), e subordinando la
realizzazione di quanto progettato, alla predisposizione di un piano di
lottizzazione dell'area interessata laddove all'epoca di presentazione della
domanda illegittimamente sospesa era possibile l'intervento diretto;
5. conseguenze patrimoniali consistite: a) nel non aver potuto edificare a
suo tempo sui terreni di loro proprietà; b) nell’aver dovuto sostenere costi
per la presentazione di progetti divenuti inattuabili (quantificati in euro
15.000,00); c) nell’aver dovuto sostenere costi, non rifusi in sede
giudiziale, per tutelare l'originario jus edificandi.
I ricorrenti, quindi, hanno richiesto, in via istruttoria, che venga
disposta CTU al fine di determinare i danni risarcibili, in particolare
valutando, al netto dei costi di edificazione e fermo l'indice volumetrico
assentito nel 1992, il valore degli immobili che sarebbero stati realizzati
secondo progetto.
...
1. L’azione esperita dai ricorrenti è sussumibile nella fattispecie di
responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo e va, pertanto,
ricondotta al paradigma della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.. (Cons.
Stato, A.P., n. 7 del 2021), con tutto ciò che ne consegue in ordine alla
ripartizione degli oneri di allegazione e prova.
La dimensione "sostanzialista" del concetto di "interesse legittimo" da
tutelare, quale interesse correlato ad un "bene della vita" coinvolto
nell'esercizio della funzione pubblica, implica che il requisito
dell'ingiustizia del danno sussista e, conseguentemente, il risarcimento
possa essere riconosciuto, in primo luogo, qualora l'esercizio illegittimo
del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la
dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi (in questo senso, tra
le altre, Cons. Stato, sez. II, 01.09.2021, n. 6163).
Ciò significa che l'illegittimità dell'attività provvedimentale deve essere
tale da incidere sul contenuto dell'atto, nel senso che sia dimostrabile che
senza i vizi da cui è affetto, il provvedimento sarebbe stato satisfattivo e
che all'esito del procedimento il privato avrebbe conseguito l'utilità
sperata.
L'esistenza del danno ingiusto lamentato in giudizio deve formare oggetto di
un puntuale onere di allegazione e prova in capo al soggetto che ne richieda
il risarcimento, non costituendo una conseguenza automatica
dell'annullamento giurisdizionale dell'atto amministrativo illegittimo.
Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, invero, il principio
generale dell'onere della prova previsto dall'art. 2697 c.c., si applica
anche all'azione di risarcimento del danno proposta dinanzi al Giudice
amministrativo.
Incombe, pertanto, sul danneggiato ricorrente l’onere di allegare in modo
puntuale, specifico e compiuto già in sede di ricorso, e successivamente
dimostrare, la sussistenza di tutti i presupposti dell’illecito: in
particolare, oltre alla illegittimità del provvedimento amministrativo
asseritamente causativo del danno, la colpa dell’amministrazione –quest’ultima
sia pure in via presuntiva, secondo l’orientamento giurisprudenziale
prevalente-, l’effettiva lesione del bene della vita nell'accezione della
sicura spettanza del risultato precluso attraverso l'atto annullato -nella
duplice alternativa dell’interesse oppositivo o pretensivo–, il nesso di
causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali
conseguenti all’evento lesivo e il correlato nesso di causalità giuridica.
La domanda di risarcimento, ove manchi della prova, e, ancor prima, della
necessaria allegazione precisa e tempestiva di tutti gli elementi
costitutivi, non può che essere respinta: <<ciò anche perché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo dell'art. 2697, comma 1,
cod. civ., opera con pienezza, senza il temperamento del metodo acquisitivo
caratteristico dell'azione giurisdizionale di annullamento>> (v.
ex multis
C.G.A.R.S., 07.04.2021, n. 295; Cons. Stato, sez. V, 09.03.2020, n.
1674; sez. III, 23.05.2019, n. 3362; sez. VI, 19.11.2018, n.
6506).
L’allegazione e la prova della sicura spettanza del bene della vita perduto
a causa del provvedimento illegittimo (nel caso di specie consistente nel
rilascio della concessione edilizia richiesta), d’altronde, vengono ad
essere declinate in modo differente a seconda che, da un lato, il potere
esercitato dalla P.a. sia discrezionale o vincolato; dall’altro lato, che il
vizio che rende illegittimo il provvedimento amministrativo abbia natura
sostanziale ovvero meramente formale, categoria, quest’ultima, nella quale
rientra il difetto di motivazione.
Va richiamato l’insegnamento secondo il quale <<l'annullamento fondato su
profili formali non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del
bene della vita. Né tale accertamento spetta al giudice, anche solo in via
di prognosi, se vi è ancora uno spazio di intervento dell'Amministrazione.
L'annullamento per difetto di motivazione non elimina né riduce il potere di
provvedere in ordine allo stesso oggetto dell'atto annullato e lascia ampio
potere in merito all'Amministrazione, con il solo limite negativo di riesercizio nelle stesse caratterizzazioni di cui si è accertata
l'illegittimità, sicché non può ritenersi condizionata o determinata in
positivo la decisione finale (Cons. St., sez. V, 21.04.2020, n. 2534; id.,
22.11.2019, n. 7977; id., sez. III, 17.06.2019, n. 4097; V, 14.12.2018, n. 7054)>> (Cons. Stato, sez. IV, 20.08.2021, n. 5965).
Si aggiunga, poi, che l’eventuale assenza o genericità deduttiva e assertiva
dell’articolazione delle allegazioni difensive in sede di ricorso, non può
essere recuperata successivamente nell’ambito delle memorie difensive ex
art. 73 c.p.a., le stesse avendo solo la funzione di meglio precisare le
argomentazioni in fatto e diritto già sufficientemente enucleate in sede di
atto introduttivo.
2. Applicando le coordinate emeneutiche sopra esposte, va, in primo luogo,
sottolineato che l’intestato TAR, con la sentenza n. 2502/2004 citata, ha
annullato il provvedimento lesivo emesso dal Comune resistente per un motivo
eminentemente formale e non sostanziale.
Si legge, infatti, nella sentenza: <<invero, come dedotto col primo mezzo di
gravame, il Sindaco del Comune di Mezzane, nel disporre la sospensione di
ogni pronuncia sulla domanda di concessione edilizia 30.05.1992 prot. n.
2158, ha omesso di dar conto del parere positivo con prescrizioni, reso
dall'Amministrazione Provinciale di Verona con l'atto presidenziale 13.05.1992 n. 961/92 e, in particolare, non ha motivato sul perché non
abbia valorizzato tale parere positivo con riferimento al progetto sul quale
si è espressa l'Amministrazione Provinciale, raffrontato col progetto, se lo
stesso o diverso, relativamente al quale è stato emanato il provvedimento di
sospensione qui impugnato nonché eventualmente con riferimento alle
prescrizioni ed osservazioni nel parere stesso contenute e all'osservanza o
inosservanza delle stesse>>.
In tal senso, quindi, il provvedimento comunale è stato censurato e
annullato per un mero difetto di istruttoria e motivazione, non avendo il
TAR argomentato in ordine all’effettiva spettanza del bene della vita in
favore di parte ricorrente.
In secondo luogo, occorre rilevare che il ricorso introduttivo, oltre ad
essere estremamente succinto, contiene allegazioni generiche e incomplete
poiché si sofferma solo sulla condotta antigiuridica della P.A. e sulle
tipologie di danni asseritamente risarcibili, senza nulla dire in ordine
alla sussistenza degli ulteriori elementi costitutivi della responsabilità
della P.A. da provvedimento illegittimo
In particolare il ricorso introduttivo (le cui lacune non possono essere
colmate con la memoria conclusiva, che ha una funzione esplicativa di
deduzioni già svolte e non può costituire il veicolo per integrare i fatti
costitutivi della domanda e ampliare il “thema decidendum”) non contiene una
sufficientemente specifica allegazione in ordine all’effettività e certezza
della spettanza del bene vita anelato dalla parte ricorrente: non risulta
infatti, adeguatamente allegata e dedotta l’assoluta certezza che, in caso
di riedizione del potere da parte del Comune, sia pure emendato dal vizio
censurato dalla ricordata sentenza del TAR, l’Ente resistente avrebbe, di
sicuro, rilasciato la concessione edilizia.
Parimenti, né dall’atto introduttivo e dai documenti ad esso allegati, né
dalle memorie difensive e dai documenti successivamente depositati, può
dirsi effettivamente emersa la prova certa della spettanza del bene della
vita nel senso sopra inteso.
La carenza di allegazioni è riscontrabile anche con riguardo al nesso di
causalità materiale e al nesso di causalità giudica, essendo anch’essi, come
detto, elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria che parte
ricorrente avrebbe dovuto adeguatamente dedurre in giudizio sin dal ricorso
introduttivo, onere non assolto nel caso di specie.
3. Alla luce di quanto esposto, considerato che la domanda risarcitoria non
è sostenuta da sufficienti allegazioni e prove in ordine a tutti gli
elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità della P.A. da
lesione di interessi legittimi pretensivi (mancano in particolare adeguate
allegazioni in ordine alla sussistenza del nesso causale e alla spettanza
del bene della vita), il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 23.02.2022 n. 353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis
inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al
responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di
interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla
giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui
all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n.
8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al
preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché,
per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”,
rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento
solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la
presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa
pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
---------------
8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante
interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di
interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali
avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la
censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro
ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal
28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel
caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di
interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro,
Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di
incompatibilità di cui all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in
capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”:
sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave
inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ.,
Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III,
02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti
personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di
conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n.
1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez.
III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a
creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della
giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
vigenza, nel sistema giuridico, di un principio generale di divieto di abuso
del diritto, inteso come categoria diffusa nella quale rientra ogni ipotesi
in cui un diritto cessa di ricevere tutela poiché esercitato al di fuori dei
limiti stabiliti dalla legge.
Il
permesso di costruire conseguito dalla ricorrente si appalesa ultroneo
rispetto alla natura minimale dell’intervento, atteso che “l'apposizione di
un cancello, funzionale alla delimitazione della proprietà, si inquadra tra
gli interventi di finitura di spazi esterni, per cui rientra fra le ipotesi
di edilizia libera, con la conseguenza che non risulta suscettibile di
incidere su valori paesaggistici protetti, salva l'esistenza di specifiche
prescrizioni particolarmente restrittive, nella specie non evocata”.
---------------
Il dovere di buona fede e correttezza, di cui agli artt.
1175,
1337,
1366 e
1375 c.c., alla luce
del parametro di solidarietà,
sancito dall'art. 2
della Costituzione e dalla Carta di Nizza, si pone non più solo come
criterio per valutare la condotta delle parti nell'ambito dei rapporti
obbligatori, ma anche come canone per individuare un limite alle richieste e
ai poteri dei titolari di diritti, sia da un punto di vista sostanziale che
anche sul piano della loro tutela processuale.
---------------
2.5. Non fondato è anche il mezzo formulato con l’atto recante motivi
aggiunti, e relativo alla pretesa illegittimità del titolo giusta la carenza
della autorizzazione sismica contemplata all’art. 94 del DPR 380/2001.
2.5.1. All’uopo, è sufficiente quivi il rilevare che:
- l’art. 94-bis, comma 1, lett. c), DPR 380/2001, definisce nei
termini di “privi di rilevanza” nei riguardi della pubblica
incolumità, le opere che “per loro caratteristiche intrinseche e per
destinazione d'uso, non costituiscono pericolo per la pubblica incolumità”;
- al comma 4 della ridetta norma, di poi, è testualmente dato
leggere che “fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo
all'intervento edilizio, e in deroga a quanto previsto all'articolo 94,
comma 1, le disposizioni di cui al comma 3 non si applicano per lavori
relativi ad interventi di "minore rilevanza" o "privi di rilevanza" di cui
al comma 1, lettera b) o lettera c)”.
2.5.2. In claris non fit interpretatio.
Le caratteristiche per vero minimali degli interventi che ne occupano
–cancello e cancelletto pedonale, posa in opera di recinzione in ferro su
muretti esistenti- sono agevolmente sussumibili nel paradigma normativo di
cui all’art. 94-bis, comma 1, lett. c), in quanto tali non costituenti
pericolo per la pubblica incolumità e, indi, non necessitanti della
autorizzazione sismica generalmente prescritta.
2.5.3. D’altra, sia detto per incidens, lo stesso permesso di
costruire conseguito dalla ricorrente si appalesa ultroneo rispetto alla
natura minimale dell’intervento, atteso che “l'apposizione di un
cancello, funzionale alla delimitazione della proprietà, si inquadra tra gli
interventi di finitura di spazi esterni, per cui rientra fra le ipotesi di
edilizia libera (Cons. Stato Sez. VI Sent., 02/01/2020, n. 34), con la
conseguenza che non risulta suscettibile di incidere su valori paesaggistici
protetti, salva l'esistenza di specifiche prescrizioni particolarmente
restrittive, nella specie non evocata (Cons. Stato, Sez.VI, 20/11/2013, n.
5513)” (CdS, VI, 13.05.2020, n. 3036).
2.6. Ne discende la infondatezza del ricorso e dei motivi aggiunti che, in
ogni caso, non sarebbero sfuggiti ad un giudizio di inammissibilità, sotto
un duplice profilo, id est:
- per carenza di interesse, giusta l’insegnamento reso dalla
Adunanza Plenaria (sentenza n. 22/2021) e da ultimo diffusamente rimarcato
da questo TAR (sentenza 10.01.2022, n. 151), atteso che dal complesso delle
allegazioni contenute negli scritti di parte ricorrente non è dato rinvenire
l’asserito nocumento inferto dalle opere de quibus alla sfera
giuridica di esse ricorrenti, che peraltro hanno ben chiesto ed ottenuto in
sede civile “possessoria” la declaratoria di cessazione della materia
del contendere –all’esito della eliminazione del cancelletto pedonale- in
tal guisa espressamente confirmando la natura pienamente satisfattiva, delle
proprie esigenze e ragioni, dello status quo, con la esistenza del cancello
automatizzato che quivi, di contro ed in guisa contraddittoria, si contesta;
trattasi, invero, di allegazioni e censure collidenti con lo stesso contegno
serbato in sede civile e smentite dal provvedimento giudiziale in quella
sede già intervenuto; talché, adoprando ed applicando alla fattispecie in
esame le categorie concettuali forgiate nella pronunzia n. 22/2021 della
Adunanza Plenaria sopra citata, e riprese dalla decisione n. 151/2022 di
questo TAR, a fronte di specifiche contestazioni circa la effettiva
concretezza ed attualità del lamentato pregiudizio derivante dagli
interventi edilizi de quibus:
i) non solo la ricorrente non ha adeguatamente
assolto all’onus probandi posto a suo carico;
ii) ma, di più e in via risolutiva, sono le
chiare emergenze documentali –ed i plurimi provvedimenti giudiziali già
intervenuti ex professo sulla vicenda- a smentire l’assunto di essa
parte ricorrente; in carenza di un concreto ed attuale nocumento, non è dato
rinvenire quale ragionevole utilitas possano ritrarre le ricorrenti
dalla invocata caducazione del titolo abilitativo, con la consequenziale
demolizione del cancello; ciò che vale a deprivare l’actio de qua agitur
di interesse, ovvero di legitimatio ad processum, id est
dell’altra condizione dell’azione, per la quale non basta in questo caso il
requisito della cd. vicinitas;
- perché concretante una actio emulativa, non essendo dato
rinvenire un concreto e meritevole interesse ad opporsi ad interventi
edilizi:
i) di lieve entità, inidonei ad alterare
sostanzialmente la conformazione strutturale dell’immobile;
ii) non mai incidenti sulla servitù di passaggio
vantata de iure, e pacificamente esercitata de facto dalle ricorrenti;
iii) di più, tali da preservare la sicurezza di
tutte le persone dimoranti nei fabbricati viciniori e, indi, financo di
arricchire la sfera giuridica di esse ricorrenti; né un effettivo interesse
“contrario” è stato puntualmente circostanziato e lumeggiato dalle
ricorrenti, al fine di poterne concretamente apprezzare la meritevolezza e
la ragionevolezza; gli obblighi di buona fede e correttezza che devono
sempre e comunque informare la condotta dei soggetti avvinti da un rapporto
giuridico si dispiegano con continuità anche nella (eventuale) successiva
fase giurisdizionale, costituente il segmento finale del rapporto e del
contatto inter partes; di talché, le iniziative processuali, la
meritevolezza e l’ammissibilità dell’interesse che le sostiene, vanno
disvelate e poste in rilievo anche in forza dell’apprezzamento degli
antecedenti comportamenti e/o manifestazioni di volontà posti in essere
dalle parti, in sede procedimentale ovvero in altre e diverse sedi
giurisdizionali; la giurisprudenza (CdS, V, 27/03/2015, n. 1605; CdS, V,
27.04.2015, n. 2064; Cass., 07.05.2013, n. 10568; TAR Campania, VI,
22.12.2020, n. 6353; TAR Lazio, I, 09.09.2019, n. 10797; TAR Lombardia, I,
14.06.2019, n. 1376; TAR Lombardia, I, 19.11.2018, n. 2603) da tempo
riconosce la vigenza, nel sistema giuridico, di un principio generale di
divieto di abuso del diritto, inteso come categoria diffusa nella quale
rientra ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela, poiché
esercitato al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge; il dovere di buona
fede e correttezza, di cui agli artt. 1175, 1337, 1366 e 1375 del c.c., alla
luce del parametro di solidarietà, sancito dall'art. 2 della Costituzione e
dalla Carta di Nizza, si pone non più solo come criterio per valutare la
condotta delle parti nell’ambito dei rapporti obbligatori, ma anche come
canone per individuare un limite alle richieste e ai poteri dei titolari di
diritti, sia da un punto di vista sostanziale che anche sul piano della loro
tutela processuale; di qui la non meritevolezza:
i) del dissenso manifestato
dalle ricorrenti in sede “sostanziale e procedimentale”;
ii) della conseguente
iniziativa processuale quivi intentata, che continua ad inverare anche in
sede giurisdizionale l’abusivo esercizio di un potere, come che privo di
oggettive ragioni giustificative, non essendo dato rinvenire la sostanziale
utilitas che alle ricorrenti sarebbe rivenuta dalla mancata
esecuzione in allora, ovvero che riverrebbe dalla demolizione ex post,
di un cancello che non lede il loro diritto di passaggio, né altera
sostanzialmente lo stato dei luoghi, e che anzi è preordinato a preservare e
tutelare le prerogative dominicali vantate sugli immobili insistenti
nell’area, ivi compresi quelli di titolarità di esse ricorrenti (cfr., sul
punto, anche le argomentazioni contenute in TAR Campania, VI, 22.12.2020, n.
6353, cit.) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 28.01.2022 n. 620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Sull’elemento della “rimproverabilità” costitutivo della responsabilità risarcitoria
amministrativa del danno ex art. 2043 cc.
La "rimproverabilità" dell’evento all’Amministrazione
costituisce un presupposto indefettibile per poter ravvisare una sua
responsabilità risarcitoria.
La giurisprudenza consolidata ha posto in rilievo che la responsabilità risarcitoria
dell’Amministrazione deve essere negata laddove il pregiudizio sia stato
cagionato da un’attività amministrativa ascrivibile ad errore scusabile per
la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro
normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
---------------
... per l’accertamento e la dichiarazione del diritto:
-
dei ricorrenti al risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla
riconosciuta illegittimità ex tunc, con sentenza esecutiva inter partes del
Consiglio di Stato, Sezione Seconda, 29.07.2019, n. 5298, notificata in
data 07.08.2019, degli atti comunali e regionali di adozione ed
approvazione definitiva del vigente P.R.G. del Comune di Martano, in
relazione alla immotivata reiterazione delle previsioni vincolistiche sul
terreno di proprietà dei ricorrenti, ricompreso tra le strade provinciali
per Caprarica e per Calimera, contraddistinto in Catasto al Foglio n. 11,
particella n. 137, dell’estensione complessiva di circa 7.200 mq.;
-
con conseguente condanna del Comune di Martano, in persona del legale
rappresentante pro tempore, al pagamento delle somme per l’effetto dovute,
per le causali e secondo i criteri di cui infra ovvero indicandi, nonché
nella misura che verrà accertata in corso di giudizio, con rivalutazione ed
interessi dal dì dell’insorgenza dell’obbligo e sino all’effettivo soddisfo.
...
Ora, i ricorrenti chiedono:
- l’accertamento e la dichiarazione del diritto al risarcimento del danno
patrimoniale conseguente alla riconosciuta illegittimità ex tunc, con
sentenza esecutiva inter partes del Consiglio di Stato, Sezione Seconda, 29.07.2019, n. 5298, notificata in data
07.08.2019, degli atti comunali
e regionali di adozione ed approvazione definitiva del vigente P.R.G. del
Comune di Martano in relazione alla immotivata reiterazione delle previsioni
vincolistiche sul terreno di proprietà;
- la conseguente condanna del Comune di Martano “al pagamento delle somme
per l’effetto dovute, per le causali e secondo i criteri di cui infra ovvero
indicandi, nonché nella misura che verrà accertata in corso di giudizio, con
rivalutazione ed interessi dal dì dell’insorgenza dell’obbligo e sino
all’effettivo soddisfo”.
...
2. - Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
3. - I ricorrenti deducono, essenzialmente, che ricorrerebbero nella specie
tutti i presupposti di fatto e di diritto per la configurabilità in capo
all’Amministrazione intimata della responsabilità ex art. 2043 del Codice
Civile, segnatamente: l’evento dannoso lesivo -così come la concreta
lesione- della posizione giuridica soggettiva; l’ingiustizia del danno; il
nesso di causalità; la riferibilità del danno ad una condotta colposa
dell’Amministrazione intimata.
In particolare, a loro dire:
- l’illegittimità della reiterazione del vincolo è stata accertata e
dichiarata dal Giudice Amministrativo con la sentenza del Consiglio di Stato
n. 5298/2019, esecutiva inter partes, con conseguente annullamento ex tunc
dei corrispondenti atti (comunali e regionali) impugnati;
- sussisterebbe il danno “puntuale e specifico”, in quanto “sovviene, nel
caso, la vulnerazione del programma costruttivo per la realizzazione di un
complesso commerciale ai sensi dell’art. 4, u.c., lett. c), L. n. 10/1977
richiamato in premessa, ratione temporis assistito da misura cautelare” di
questo TAR “in relazione al diniego di concessione edilizia prot. n. 3062
del 08.06.1995 impugnato dalla Za. s.r.l. con il menzionato ricorso
iscritto al n. 2738/1995”; diniego “motivato dal competente Ufficio comunale
sul testuale rilievo che <<...sul suolo, ricadente nell’abitato, già
vincolato a “verde pubblico” (vincolo decaduto ex lege n. 1187/1968) sono
consentiti solo opere di conservazione e recupero di fabbricati
eventualmente esistenti e non anche nuove costruzioni come nel caso di
specie … la C.E.C. ha ritenuto di precisare che in mancanza di
perimetrazione del centro abitato di cui all’art. 17 della legge ponte per
l’urbanistica n. 765/1967 è valida e applicabile la delimitazione del centro
abitato approvato dalla Giunta Comunale con deliberazione n. 55 del 04.02.1993
in applicazione dell’art. 4 del nuovo Codice della Strada approvato con D.Lgs. 30.4.1992 n. 285>>”; evidenziano, poi, che l’ordinanza di questo TAR
n. 799/1995 accoglieva l’istanza cautelare dando atto che, “decaduto il
vincolo di P.R.G., e in assenza di perimetrazione del centro abitato ai
sensi dell’art. 17 L. n. 765/1967, non (fosse) preclusa l’edificazione che rispett(asse) l’indice fissato dall’art. 4, lett. c), della L. n. 10/1977” e
che <<La successiva adozione del P.R.G. comunale di Martano con
deliberazione consiliare 41 del 01.06.1997, recante la (illegittima)
reiterazione in parte qua del vincolo urbanistico a “Parco Urbano” ex art.
75 NTA con le correlate “misure di salvaguardia”, ha comportato l’ineseguibilità
della suddetta (utile) misura cautelare per il connesso (illegittimo)
azzeramento delle potenzialità edificatorie ratione temporis proprie ex lege
delle aree interessate>>;
- sussisterebbe, altresì, il “danno permanente”, “non avendo i ricorrenti
ricevuto alcun indennizzo nonostante il protrarsi sull’area di loro
proprietà (sin dal 1963) di un vincolo di sostanziale natura espropriativa (cfr.
TAR Lombardia Milano, 31.07.2013, n. 2049), comportante corrispondente
indisponibilità patrimoniale e reddituale dell’area interessata”;
- nel caso, poi, “l’accertata illegittimità degli atti lesivi, legata da
nesso di causalità con l’evento dannoso, reca in sé anche l’indice (grave,
preciso e concordante) della colpa (grave) dell’Amministrazione titolare del
potere di pianificazione urbanistica generale, essendo stato pronunciato
l’annullamento degli atti impugnati per macroscopica violazione di
fondamentali regole sul versante istruttorio e motivazionale dell’azione
amministrativa nell’esercizio del suddetto potere, disvelatrice di condotta
gravemente negligente”.
3.1 - In relazione alla quantificazione dei danni, lamentano il “gravissimo
pregiudizio patrimoniale realizzato ingiustamente”, consistente:
“a) nell’azzeramento immediato delle suddette potenzialità edificatorie ratione temporis proprie ex lege dell’area interessata - conducenti alla
realizzabilità di un edificio della superficie coperta di 720 mq. (7.200 mq.
: 10 = 720 mq.) senza limiti di altezza e di volumetria - con corrispondente
perdita del relativo valore di mercato….;
b) nella permanente ablazione/diminuzione del valore d’uso e di scambio del
terreno, riconducibile alla cosiddetta espropriazione di valore”, con
l’invocata applicazione per quest’ultima del criterio degli “interessi
legali sul valore del bene determinato ai fini dell’indennità di
espropriazione”.
Sostengono, quanto alla determinazione del valore di mercato dell’area
interessata, l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 19, comma 2, della
legge regionale pugliese n. 3/2005 e <<comunque del criterio di stima
sintetico-comparativo alla stregua della concreta potenzialità edificatoria
espressa ratione temporis quale “zona bianca”>>.
In definitiva, i ricorrenti affermano che la somma loro spettante sarebbe
pari:
<<- per il “danno specifico”, al valore della capacità edificatoria del
lotto inibita dalla illegittima reiterazione del vincolo;
- per il “danno permanente”, agli interessi legali sul valore venale
dell’area interessata, a partire dalla data di reiterazione del vincolo con
delibera consiliare n. 41 del 01.06.1997, di adozione del nuovo P.R.G.,
e fino alla pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato inter partes
n. 5298 in data 29.07.2019 comportante l’annullamento ex tunc delle
corrispondenti prescrizioni urbanistiche in parte qua>>; oltre rivalutazione
e interessi.
4. - Gli illustrati rilievi vanno disattesi.
5. - Ed invero, “La rimproverabilità dell’evento all’Amministrazione
costituisce un presupposto indefettibile per poter ravvisare una sua
responsabilità risarcitoria.
La giurisprudenza consolidata, dalla quale questo Collegio non ha ragione
per discostarsi, di conseguenza, ha posto in rilievo che la responsabilità
risarcitoria dell’Amministrazione deve essere negata laddove il pregiudizio
sia stato cagionato da un’attività amministrativa ascrivibile ad errore
scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del
quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di
fatto (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 07.01.2013, n. 23; Sez.
V, 31.07.2012, n. 4337, richiamati da Cons. Stato, Sez. III, 11.09.2019, n. 6138” (Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 18.10.2019, n. 7082; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Terza,
06.09.2018, n. 5228).
6. - L’errore scusabile, quindi, è ravvisabile in presenza, come nella
fattispecie concreta de qua, di contrasti giudiziari.
Nel caso specifico, infatti, vi è stato un evidente contrasto interpretativo
tra i giudici di primo e di secondo grado in ordine alla natura giuridica (conformativa
ovvero espropriativa) del vincolo a “Parco Urbano” imposto sui suoli dei
ricorrenti dal nuovo P.R.G. del Comune di Martano, di cui all’art. 75 delle
relative N.T.A..
Infatti:
- la sentenza n. 58/2008 della Prima Sezione del TAR Puglia-Lecce ha
respinto il ricorso proposto avverso le inerenti sopravvenute norme del
P.R.G. del Comune di Martano, sulla scorta della natura conformativa del
vincolo, escludendo che l’art. 75 delle N.T.A. abbia <<un carattere pre-espropriativo, atteso che le pertinenti previsioni delle N.T.A.
attestano, al contrario, che le iniziative edilizie realizzabili in loco
possono certamente essere demandate ai proprietari delle rispettive aree
(ovvero, in generale, a soggetti privati). Ci si riferisce, in particolare,
alla previsione di cui all’art. 75, cit. (rubricato ‘Zone F71 - Parco
urbano’), il cui secondo comma stabilisce che “l’Amministrazione comunale
provvederà all’acquisizione delle aree secondo le procedure previste dalle
leggi vigenti”, salvo precisare al successivo quarto comma che “la
realizzazione delle attrezzature ammissibili è attuata dalla Pubblica
Amministrazione e può essere affidata ad Enti, Cooperative o soggetti
privati, che garantiscano la gestione ed il rispetto delle destinazioni”>>;
detta pronuncia ha poi ritenuto l’assenza di un integrale svuotamento del
diritto di proprietà, riferendosi, <<in particolare, alle previsioni di cui
al terzo comma del richiamato art. 75 delle N.T.A. (rubricato ‘Zone F71 -
Parco urbano’), il quale prevede che nelle aree in parola “gli edifici
esistenti potranno essere ristrutturati ed adibiti alle attrezzature per il
tempo libero o a servizio della manutenzione del parco”. Le Norme Tecniche
di Attuazione soggiungono al riguardo che, nel caso in cui gli edifici
esistenti non fossero sufficienti alle finalità perseguite, “sono consentite
nuove costruzioni nel rispetto dei seguenti indici massimi e
prescrizioni:…>>; ha ritenuto, infine, la non assoggettabilità della
previsione urbanistica in esame a termini di decadenza e alla motivazione di
“carattere aggravato”;
- al contrario, la sentenza n. 5298/2019 della Seconda Sezione del Consiglio
di Stato ha accolto il ricorso di primo grado, per l’effetto annullando i
provvedimenti con lo stesso impugnati, sulla base del carattere
espropriativo del vincolo (reiterativo del precedente vincolo preordinato
all’esproprio), ritenendo -invece- che, “affinché l’Amministrazione
realizzi le strutture sulle aree comprese in tali zone, essa dovrà aver
previamente proceduto ad acquisirle. Rientrerà nella facoltà
dell’Amministrazione la scelta delle modalità di gestione delle stesse
strutture, eventualmente ricorrendo all’affidamento a terzi, con modalità
non espressamente indicate, ma che, certo, non potranno prescindere dal
rispetto di esigenze di trasparenza e di par condicio. Dunque, la capacità
edificatoria del privato è contenuta nei limiti indicati e vincolata alla
destinazione ad attrezzature o manutenzione del parco. Alla luce di tale
disciplina, il Collegio ritiene che il vincolo che ne discende sulle aree
comprese nelle zone F71 non abbia natura meramente conformativa, ma
ablatoria”, costituendo quindi una reiterazione del vincolo (espropriativo)
già imposto sulle aree in questione dal precedente P.R.G. comunale, con la
conseguente “necessità di un’idonea istruttoria e di un’adeguata motivazione
del pubblico interesse perseguito (cfr. Cons. Stato, Ad. pl. 24.05.2007,
n. 7), che, nella fattispecie, non emerge dagli atti impugnati”.
In definitiva, l’illustrato contrasto giudiziario comporta l’insussistenza
dell’elemento della “rimproverabilità”, costitutivo della responsabilità
risarcitoria amministrativa.
7. - Per le ragioni innanzi esposte, il ricorso deve essere respinto (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 20.01.2022 n. 103 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI:
In
generale, ai sensi dell’art. 107 T.U.E.L. il dirigente, prima di
adottare un qualsiasi provvedimento idoneo ad impegnare all’esterno la
volontà dell’ente che egli in quel momento rappresenta, ha il potere (e
anche il dovere, quantomeno per tutelarsi in sede penale, civile,
disciplinare e contabile) di sottoporre a revisione l’istruttoria svolta
fino a quel momento e ha l’obbligo di non adottare il provvedimento se si
avvede dell’esistenza di vizi di legittimità rilevanti ai sensi dell’art.
21-octies L. n. 241/1990.
---------------
8.5.
Passando invece alle questioni inerenti l’approvazione, la verifica e la validazione del progetto posto a base di gara, il Collegio osserva quanto
segue.
8.5.1. In generale, ai sensi dell’art. 107 T.U.E.L. il dirigente, prima di
adottare un qualsiasi provvedimento idoneo ad impegnare all’esterno la
volontà dell’ente che egli in quel momento rappresenta, ha il potere (e
anche il dovere, quantomeno per tutelarsi in sede penale, civile,
disciplinare e contabile) di sottoporre a revisione l’istruttoria svolta
fino a quel momento e ha l’obbligo di non adottare il provvedimento se si
avvede dell’esistenza di vizi di legittimità rilevanti ai sensi dell’art.
21-octies L. n. 241/1990.
Ora, il dirigente che ha adottato il provvedimento odiernamente impugnato è
lo stesso che aveva adottato la determinazione n. 1145/2020, recante
l’aggiudicazione definitiva della gara, il che priva di qualsiasi rilevanza
l’argomento difensivo del Comune teso ad evidenziare che il funzionario in
carica nel mese di agosto 2021 non era lo stesso che, tra la fine del 2019 e
il gennaio 2020, aveva approvato il progetto esecutivo e indetto la gara (il
che è oggettivamente vero, visto che la gara era stata indetta con determina
adottata dall’ing. Ca., in seguito collocato in quiescenza e sostituito
dall’arch. Fa.).
Premesso che tale argomento non sarebbe stato comunque dirimente al fine di
escludere l’imputazione degli atti in parola al Comune, è del tutto evidente
che prima di adottare il provvedimento di aggiudicazione definitiva il
dirigente in carica in quel momento avrebbe dovuto verificare la legittimità
del procedimento di approvazione del progetto e della procedura di gara, e
non rimandare tale controllo ad un momento successivo.
8.5.2. Come emerge in maniera abbastanza chiara dalla documentazione versata
in atti dal Comune in esecuzione dell’ordine istruttorio del Tribunale (si
veda la produzione del 25.10.2021 ed in particolare la corrispondenza
fra il dirigente del Settore e il R.U.P.), l’avvicendamento del dirigente
del Settore ha determinato l’insorgere di un palese conflitto con il R.U.P.,
il che ha causato anzitutto una ingiustificata stasi procedimentale.
Ad ogni buon conto, e rimanendo ai profili giuridici, dalla nota prot. n.
13573 del 20.04.2021 (depositata nell’ambito dell’allegato n. 2 alla
produzione del 25.10.2021) emerge che la necessità della preventiva
acquisizione dell’autorizzazione sismica non discende da una norma di legge
(fatto salvo quanto si dirà infra circa la portata della novella di cui al
D.L. n. 76/2020), bensì da un’opinione personale del dirigente pro
tempore del Settore Assetto del Territorio (a pag. 6 il funzionario
afferma infatti testualmente che “….una verifica/validazione a posteriori
dell’affidamento definitivo sembra allo scrivente non coerente con la
procedura prevista dal Codice…”). Ma se così è, ne consegue che il ricorso
all’autotutela non era consentito, visto che ai fini del legittimo esercizio
del ius poenitendi è necessario dimostrare che il provvedimento che si
intende annullare sia affetto da uno o più dei tre classici vizi indicati
dall’art. 21-octies della L. n. 241/1990 (TAR
Marche,
sentenza 29.12.2021 n. 897 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
della sentenza che dichiara l'illegittimità
costituzionale di una norma regionale.
L'efficacia retroattiva della sentenza che dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma non si
estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti
che, sorti precedentemente alla pronuncia della
Corte costituzionale, abbiano dato luogo a
situazioni giuridiche ormai consolidate e
intangibili in virtù del passaggio in giudicato di
decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili,
del completo esaurimento degli effetti di atti
negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza, ovvero del compimento di altri atti o
fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
---------------
Ha ricordato la Sezione che l’art. 136 Cost.
dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma di legge
o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Inoltre, l’art.
30, l. 11.03.1953, n. 87, prevede che “la
sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale
di una legge o di un atto avente forza di legge
dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal
suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di
ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al
Presidente della Giunta regionale affinché si
proceda immediatamente e, comunque, non oltre il
decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo
della decisione nelle medesime forme stabilite per
la pubblicazione dell'atto dichiarato
costituzionalmente illegittimo. La sentenza, entro
due giorni dalla data del deposito viene, altresì,
comunicata alle Camere e ai Consigli regionali
interessati, affinché, ove lo ritengano necessario
adottino i provvedimenti di loro competenza. Le
norme dichiarate incostituzionali non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Quando in
applicazione della norma dichiarata incostituzionale
è stata pronunciata sentenza irrevocabile di
condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli
effetti penali”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata
per contrasto con norme gerarchicamente superiori
non produce effetto ipso iure, ma va
affermata con una sentenza di natura costitutiva,
vincolante erga omnes, che riguarda tutti i
soggetti dell’ordinamento e tutti i rapporti non
ancora definiti.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale, anche solo parziale, della
disposizione impugnata che, come visto, cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione (ex
art. 136 Cost.). È stato
correttamente osservato dalla dottrina che
un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost.
lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di
accoglimento come una sorta di abrogazione, dal
momento che la norma perde efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della sentenza,
riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non
quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto
circuito” con il meccanismo dell’instaurazione
del giudizio di costituzionalità in via incidentale,
poiché, da un lato, il giudice rimettente può
sollevare la questione di incostituzionalità, sul
presupposto della sua rilevanza nel giudizio a
quo, e, dall’altro, la decisione di
incostituzionalità non dovrebbe poter produrre
effetti proprio sul giudizio a quo in quanto
la sua efficacia riguarderebbe solo i rapporti
futuri. La migliore dottrina sul punto ha rilevato
che in un ordinamento a Costituzione rigida sarebbe
contraddittorio che leggi dichiarate
costituzionalmente illegittime continuino a spiegare
effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia”
valesse solo per l’avvenire, nessuna parte
solleverebbe la questione di legittimità
costituzionale “per il semplice motivo che non ne
avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole
dottrina definita “assurda”– è stata superata
con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera
del citato
art. 30, l.
11.03.1953, n. 87, articolo quest’ultimo che
ha chiarito che le norme dichiarate incostituzionali
“non possono avere applicazione” dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione.
Pertanto, la “perdita di efficacia” dell’art.
136 Cost. diventa “perdita di ulteriore
applicabilità” delle norme dichiarate
incostituzionali, con riferimento a tutti i
rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso
l’effetto delle sentenze di accoglimento è
qualificato in termini di “annullamento”
della legge dichiarata incostituzionale che viene
espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto
abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte
salve eventuali previsioni di retroattività delle
norme successive) continuano ad applicarsi ai
rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.
Il limite all’efficacia delle sentenze di
accoglimento è invece rappresentato dai rapporti
ormai esauriti per effetto di prescrizione,
decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza,
prevalendo in questi casi il principio di certezza
del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva
della dichiarazione di illegittimità costituzionale
è giustificata dalla stessa eliminazione della norma
che non può più regolare alcun rapporto giuridico,
salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge
–dal momento che la norma anteriore è pienamente
valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita– la nuova legge non può che regolare i
rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i
quali vale il principio che la disciplina
applicabile è quella vigente al momento in cui si è
realizzata la situazione giuridica o il fatto
generatore del diritto. Unica eccezione alla regola
appena descritta si realizza in materia penale, come
chiaramente disposto dall’art.
30, comma 4, l. 11.03.1953, n. 87. Si tratta
in questo caso di un’applicazione del principio già
stabilito dall’articolo 2, comma 2, c.p., nonché “dalla
particolare tutela della libertà personale voluta
dalla nostra Costituzione”.
Nel diritto amministrativo, a differenza che nel diritto penale,
l'efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale si arresta, invece,
dinanzi ai rapporti esauriti. Il ruolo affidato alla
Corte come custode della Costituzione nella sua
integralità impone di evitare che la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una disposizione
di legge determini, paradossalmente, «effetti
ancor più incompatibili con la Costituzione»
(sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno
indotto a censurare la disciplina legislativa.
Per evitare che ciò accada, è compito della Corte
modulare le proprie decisioni, anche sotto il
profilo temporale, in modo da scongiurare che
l'affermazione di un principio costituzionale
determini il sacrificio di un altro. Per la Corte è
pacifico che l'efficacia delle sentenze di
accoglimento non retroagisce fino al punto di
travolgere le «situazioni giuridiche comunque
divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti
esauriti». Diversamente, ne risulterebbe
compromessa la certezza dei rapporti giuridici
(sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del
1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale
[...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con
conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali
rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida»
(sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla
sentenza n. 1 del 2014). In questi casi,
l'individuazione in concreto del limite alla
retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina
di settore -relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti
amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o
rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito
dell'ordinaria attività interpretativa di competenza
del giudice comune (principio affermato, ex
plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n.
49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del
2010,
sentenza 11.02.2015 n. 10 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una norma di
legge non può travolgere i provvedimenti
amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata
impugnazione o per formazione del giudicato sulla
relativa controversia (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
PARERE
6. La sentenza che dichiara l’illegittimità
costituzionale.
Occorre ricordare innanzi tutto che l’art. 136 Cost.
dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma di legge
o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione.
Inoltre, l’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, prevede che
“la sentenza che dichiara l'illegittimità
costituzionale di una legge o di un atto avente
forza di legge dello Stato o di una Regione, entro
due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è
trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e
giustizia od al Presidente della Giunta regionale
affinché si proceda immediatamente e, comunque, non
oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del
dispositivo della decisione nelle medesime forme
stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato
costituzionalmente illegittimo.
La sentenza, entro due giorni dalla data del
deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai
Consigli regionali interessati, affinché, ove lo
ritengano necessario adottino i provvedimenti di
loro competenza.
Le norme dichiarate incostituzionali non possono
avere applicazione dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione.
Quando in applicazione della norma dichiarata
incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e
tutti gli effetti penali”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata
per contrasto con norme gerarchicamente superiori
non produce effetto ipso iure, ma va affermata con
una sentenza di natura costitutiva, vincolante
erga omnes, che riguarda tutti i soggetti
dell’ordinamento e tutti i rapporti non ancora
definiti.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara
l’illegittimità costituzionale, anche solo parziale,
della disposizione impugnata che, come visto, cessa
di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione (ex art. 136 Cost.).
È stato correttamente osservato dalla dottrina che
un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost.
lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di
accoglimento come una sorta di abrogazione, dal
momento che la norma perde efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della sentenza,
riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non
quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto
circuito” con il meccanismo dell’instaurazione
del giudizio di costituzionalità in via incidentale,
poiché, da un lato, il giudice rimettente può
sollevare la questione di incostituzionalità, sul
presupposto della sua rilevanza nel giudizio a
quo, e, dall’altro, la decisione di
incostituzionalità non dovrebbe poter produrre
effetti proprio sul giudizio a quo in quanto la sua
efficacia riguarderebbe solo i rapporti futuri.
La migliore dottrina sul punto ha rilevato che in un
ordinamento a Costituzione rigida sarebbe
contraddittorio che leggi dichiarate
costituzionalmente illegittime continuino a spiegare
effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia”
valesse solo per l’avvenire, nessuna parte
solleverebbe la questione di legittimità
costituzionale “per il semplice motivo che non ne
avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole
dottrina definita “assurda”– è stata superata
con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera
del citato art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, articolo
quest’ultimo che ha chiarito che le norme dichiarate
incostituzionali “non possono avere applicazione”
dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. Pertanto, la “perdita di efficacia”
dell’art. 136 Cost. diventa “perdita di ulteriore
applicabilità” delle norme dichiarate
incostituzionali, con riferimento a tutti i
rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso
l’effetto delle sentenze di accoglimento è
qualificato in termini di “annullamento”
della legge dichiarata incostituzionale che viene
espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto
abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte
salve eventuali previsioni di retroattività delle
norme successive) continuano ad applicarsi ai
rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.
Il limite all’efficacia delle sentenze di
accoglimento è invece rappresentato dai rapporti
ormai esauriti per effetto di prescrizione,
decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza,
prevalendo in questi casi il principio di certezza
del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva
della dichiarazione di illegittimità costituzionale
è giustificata dalla stessa eliminazione della norma
che non può più regolare alcun rapporto giuridico,
salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge
–dal momento che la norma anteriore è pienamente
valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita– la nuova legge non può che regolare i
rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i
quali vale il principio che la disciplina
applicabile è quella vigente al momento in cui si è
realizzata la situazione giuridica o il fatto
generatore del diritto.
Unica eccezione alla regola appena descritta si
realizza in materia penale, come chiaramente
disposto dall’art. 30, comma 4, l. 11.03.1953, n.
87. Si tratta in questo caso di un’applicazione del
principio già stabilito dall’articolo 2, comma 2,
c.p., nonché “dalla particolare tutela della
libertà personale voluta dalla nostra Costituzione”.
7. Gli effetti della sentenza che dichiara
l’illegittimità costituzionale nel diritto
amministrativo.
Come ora spiegato, dunque, nel nostro sistema di
giustizia costituzionale è jus receptum
l’affermazione secondo la quale le pronunce della
Consulta producono effetti tanto per il passato
quanto per il futuro. Per la giurisprudenza, la
pronuncia di illegittimità costituzionale di una
norma di legge determina la cessazione della sua
efficacia erga omnes e la norma di diritto
c.d. sostanziale (ma anche la norma processuale)
-dichiarata incostituzionale- cessa di operare dal
giorno successivo alla pubblicazione della sentenza
della Corte costituzionale nella gazzetta ufficiale,
ai sensi dell'art. 30, l. 11.03.1953, n. 87;
inoltre, avendo l'illegittimità costituzionale per
presupposto l'invalidità originaria della legge, sia
essa di natura sostanziale, procedimentale o
processuale, per contrasto con un precetto
costituzionale, le pronunce di accoglimento del
giudice delle leggi -dichiarative di illegittimità
costituzionale- eliminano la norma con effetto ex
tunc, con la conseguenza che essa non è più
applicabile, indipendentemente dalla circostanza che
la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla
pubblicazione della decisione.
Resta fermo naturalmente il principio che gli
effetti dell'incostituzionalità non si estendono ai
diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo
definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o
per essersi verificato altro evento cui
l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto
medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni
processuali o decadenze e prescrizioni non
direttamente investite, nei loro presupposti
normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (ex
multis, Consiglio di Stato, sez. III,
12.07.2018, n. 4264). La Corte costituzionale –con
principio poi che è stato esteso anche alle sentenze
e ai pareri del Consiglio di Stato (si veda Cons.
Stato, parere 30.06.2020, n. 1233)– poi può
modularne gli effetti attraverso specifiche
indicazioni che, come affermato dalla dottrina,
hanno lo “scopo di evitare che alcune pronunce,
se operative su tutti i rapporti non ancora
esauriti, produc(essero)ano danni così rilevanti, da
mettere in ombra i benefici della dichiarazione di
incostituzionalità”.
Per una disamina esaustiva degli effetti della
sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale
occorre allora verificarne le conseguenze nel
giudizio a quo, nei rapporti pendenti e, infine, con
riferimento ai rapporti esauriti.
7.1. Nel giudizio a quo.
La sentenza della Corte costituzionale è vincolante
per il giudice a quo che, nel continuare il
giudizio dopo la restituzione degli atti da parte
della Corte, si trova di fronte all’avvenuto
accertamento di illegittimità della legge,
accertamento di illegittimità che la rende
inapplicabile e che non può non vincolare il giudice
a quo.
Del resto, per costante giurisprudenza
costituzionale (ex multis, Corte Cost. n.
303/2007), ai fini dell’ingresso della questione di
costituzionalità sollevata nel corso di un giudizio
dinanzi ad un’autorità giurisdizionale, è requisito
necessario, unitamente al vaglio della non manifesta
infondatezza, che essa sia rilevante, ovvero che
investa una disposizione avente forza di legge di
cui il giudice rimettente è tenuto a fare
applicazione, quale passaggio obbligato ai fini
della risoluzione della controversia oggetto del
processo principale.
La rilevanza della questione di costituzionalità
comporta, dunque, che, primo fra tutti, il giudice
rimettente dovrà fare applicazione concreta della
decisione della Consulta nella soluzione della
controversia a lui sottoposta.
Ciò è quanto accaduto, come sopra visto, nel caso
qui in esame: il Tar per la Sicilia, sez. I,
15.02.2021, n. 579 ha dichiarato infatti che “i
ricorrenti hanno diritto alla retrodatazione
dell’attribuzione della qualifica di Vice
Sovrintendenti della Polizia di Stato”.
7.2. Nei rapporti esauriti.
7.2.1. L'efficacia retroattiva della sentenza (ossia
l’annullamento ex tunc della norma censurata
oggetto della declaratoria di incostituzionalità)
che dichiara l'illegittimità costituzionale di una
norma non si estende ai rapporti esauriti, ossia a
quei rapporti che, sorti precedentemente alla
pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato
luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e
intangibili in virtù del passaggio in giudicato di
decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili,
del completo esaurimento degli effetti di atti
negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza, ovvero del compimento di altri atti o
fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
Per la Corte Costituzionale, “a differenza dello
ius superveniens, che attiene alla «vigenza
normativa», la dichiarazione di illegittimità
costituzionale rimuove la norma censurata
dall'ordinamento in quanto affetta da una invalidità
«genetica», legata al sistema di gerarchia delle
fonti: invalidità che impone di considerarla tamquam
non esset, con il solo limite -non del giudicato-
ma di quegli effetti «già compiuti e del tutto
consumati», per loro natura insuscettibili di
neutralizzazione” (Corte cost.. 16.04.2021, n.
68).
Più nello specifico, con sentenza 08.10.2021, n.
191, la Corte Costituzionale ricorda che “per
costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la
cosiddetta efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale incontra il limite dei
rapporti esauriti, tra i quali rientrano quelli che
non possano più dare materia a un giudizio in
ragione della disciplina dei termini di
inoppugnabilità degli atti amministrativi (sentenza
n. 10 del 2015, ordinanza n. 135 del 2010)”.
7.2.2. Occorre ora qui, affrontare più in dettaglio,
quanto già esposto al § 7 in relazione alla materia
penale (atteso il chiaro tenore dell’ultimo comma
dell’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87), non perché
rilevante per la risposta ai quesiti formulati ma
per l’individuazione di una regola vigente nella
materia penale che è certamente diversa da quella
esistente nel diritto amministrativo, come più
ampiamente si esporrà al § 7.2.3.
Come prima anticipato, la ragione per cui in materia
penale la dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle norme travolge il giudicato
risiede nella considerazione della gravità con cui
le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri
interessi fondamentali della persona. La Corte
Costituzionale ha chiaramente affermato che “il
principio della retroattività degli effetti delle
pronunce di illegittimità costituzionale di cui al
terzo comma del medesimo articolo -che, come questa
Corte ha più volte ribadito, «è (e non può non
essere) principio generale valevole nei giudizi
davanti a questa Corte» (da ultimo, sentenza n. 10
del 2015)- si estende oltre il limite dei rapporti
esauriti nel solo ambito penale, in considerazione
della gravità con cui le sanzioni penali incidono
sulla libertà o su altri interessi fondamentali
della persona” (Corte cost., 24.02.2017, n. 43).
In termini ancora più chiari, si è stabilito che
esiste un principio “in base al quale le sentenze
di accoglimento producono i loro effetti anche sui
rapporti sorti precedentemente, purché, però, non
definitivamente "chiusi" sul piano giuridico;
dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti»
(sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del
1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza
n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti
sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235
del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966).
Soluzione, questa, coerente con l'esigenza di tutela
della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze
n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell'art. 30 della legge n. 87 del
1953, … pone, tuttavia, una regola specifica e
distinta con riguardo alla materia penale,
stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma
dichiarata incostituzionale è stata pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la
esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari,
si tratta di regola suggerita dalle peculiarità
della materia considerata e dalla gravità con cui le
sanzioni penali incidono sulla libertà personale o
su altri interessi fondamentali dell'individuo”
(Corte cost. 16.04.2021, n. 68).
7.2.3 Nel diritto amministrativo, a differenza che
nel diritto penale (si veda il precedente § 7.2.2),
l'efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale si arresta, invece,
dinanzi ai rapporti esauriti.
Il ruolo affidato alla Corte come custode della
Costituzione nella sua integralità impone di evitare
che la dichiarazione di illegittimità costituzionale
di una disposizione di legge determini,
paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili
con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004)
di quelli che hanno indotto a censurare la
disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada,
è compito della Corte modulare le proprie decisioni,
anche sotto il profilo temporale, in modo da
scongiurare che l'affermazione di un principio
costituzionale determini il sacrificio di un altro.
Per la Corte è pacifico che l'efficacia delle
sentenze di accoglimento non retroagisce fino al
punto di travolgere le «situazioni giuridiche
comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti
esauriti». Diversamente, ne risulterebbe
compromessa la certezza dei rapporti giuridici
(sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del
1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale
[...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con
conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali
rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida»
(sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla
sentenza n. 1 del 2014). In questi casi,
l'individuazione in concreto del limite alla
retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina
di settore -relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti
amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o
rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito
dell'ordinaria attività interpretativa di competenza
del giudice comune (principio affermato, ex
plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n.
49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del
2010, sentenza 10 del 2015 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una norma di
legge non può travolgere i provvedimenti
amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata
impugnazione o per formazione del giudicato sulla
relativa controversia.
Tra i provvedimenti amministrativi soggetti alla
disciplina ora esposta vi rientra certamente anche
il ruolo di anzianità del personale di una pubblica
amministrazione –soprattutto se in regime di diritto
pubblico– relativamente alle specifiche posizioni
ricoperte da ciascun dipendente. Conseguentemente le
posizioni in ruolo non tempestivamente contestate
dai singoli interessati, con riferimento al posto in
cui sono collocati, nell’ordinario termine di
decadenza previsto per impugnare innanzi al giudice
amministrativo (sessanta giorni decorrenti, ai sensi
del combinato disposto degli articoli 29 e 41 c.p.a.,
“dalla notificazione, comunicazione o piena
conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia
richiesta la notificazione individuale, dal giorno
in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se
questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”)
si consolidano, resistendo dunque anche alle
pronunce di illegittimità costituzionale. Tale
regola, oltre che scaturire dai principi prima
esposti, ha un fondamento logico perché evita che,
come nel caso sottoposto all’attenzione di questo
Consiglio da parte del Ministero, si rimettano in
discussione assetti amministrativi consolidati
risalenti anche a venti anni or sono e riferibili
pure a soggetti che non hanno mai preso parte a
giudizi.
Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
nel tempo affermato che le pronunce di accoglimento
della Corte Costituzionale hanno effetto
retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità
e la efficacia della norma dichiarata contraria alla
Costituzione, salvo il limite delle situazioni
giuridiche "consolidate" per effetto di
eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei
a produrre tale effetto, quali le sentenze passate
in giudicato, l'atto amministrativo non più
impugnabile, la prescrizione e la decadenza (Cass.,
sez. III, 28.07.1997, n. 7057; nello stesso senso
sez. I, 14.05.1999, n. 4766; sez. I 07.06.2000, n.
7704; sez. I 25.06.2001, n. 10115; in relazione ai
rapporti di lavoro, sez. lavoro, 25.08.2003, n.
12454).
7.3. Nei giudizi ancora pendenti innanzi al
giudice amministrativo.
7.3.1. L’efficacia retroattiva delle sentenze che
dichiarano l’illegittimità costituzionale non è
dunque illimitata ma al contrario presuppone che i
rapporti su cui la decisione può produrre effetti
siano ancora “non esauriti” o perché relativi
al giudizio a quo o perché incardinati in
altri giudizi ancora pendenti in cui non è stata
sollevata questione di legittimità costituzionale.
L’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio
di costituzionalità, ossia del seguito nei giudizi
amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a
quo, della dichiarazione di incostituzionalità di
una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere
amministrativo, si traduce in un’indagine sulla
sorte del provvedimento amministrativo adottato
sulla base della disposizione incostituzionale, se
cioè questo debba essere considerato inesistente,
nullo o annullabile.
Nella fase discendente, osserva la dottrina, si
ripropone una tensione tra dimensione soggettiva dei
vincoli imposti dai motivi di ricorso e dimensione
oggettiva dell’interesse al controllo di
costituzionalità che sembrerebbe attribuire al
giudice un potere eccezionale, cioè al di là delle
regole processuali del giudizio amministrativo di
annullamento di un atto anche per un motivo diverso
da quello fatto valere dal ricorrente. Tale tensione
non emerge tanto nel giudizio amministrativo in cui
la questione di costituzionalità è stata sollevata
(giudizio a quo), quanto nei giudizi
amministrativi pendenti, in cui sia stato impugnato
un provvedimento adottato sulla base della norma
oggetto del giudizio di costituzionalità.
In definitiva, dovrà verificarsi se in questi casi
il potere di annullamento (d’ufficio) dell’atto
impugnato, al di fuori dei vizi dedotti dal
ricorrente, trovi o meno significativo ostacolo nel
principio della domanda, costituendo una peculiare
limitazione agli effetti erga omnes del
sindacato di costituzionalità.
7.3.2. In una prima fase (dal 1956 al 1963), le
decisioni del Consiglio di Stato sono state
oscillanti e hanno considerato l’atto amministrativo
emesso sulla base di norma dichiarata
incostituzionale inesistente, a volte con
conseguente improcedibilità del ricorso proposto
contro di esso, a volte con la necessità di una
dichiarazione di difetto di giurisdizione a
conoscere del ricorso proposto. Altre decisioni,
invece, hanno affermato la sopravvivenza dell’atto
amministrativo considerandolo annullabile.
7.3.3. Sul tema decisiva è la pronuncia
dell’Adunanza Plenaria 8/1963 che fa discendere
dall’efficacia della pronuncia d’incostituzionalità
della legge l’annullabilità dell’atto amministrativo
ed afferma, inoltre, che il vizio dell’atto
amministrativo fondato su norme incostituzionali non
incontra i limiti derivanti dal non essere stato
denunciato nel relativo giudizio, né quello del
diverso apprezzamento espresso precedentemente dal
giudice sullo stesso vizio.
“Quando, con la dichiarazione di
incostituzionalità, la legge perde l’efficacia, la
conseguenza che bisogna trarre” relativamente
agli atti amministrativi “è solo che vi è stata
una illegittima attribuzione di potestà
discrezionale”, quindi “l’esercizio di un
potere viziato per riflesso del vizio di
costituzionalità che inficia la norma attributiva”.
La pronuncia smentisce definitivamente la teoria,
sino allora sostenuta, della inesistenza degli atti
amministrativi emanati in base ad una norma
dichiarata incostituzionale; ciò che rileva infatti,
secondo l’Adunanza Plenaria, per l’esistenza
dell’atto è che l’amministrazione abbia agito
nell’esercizio di funzioni attribuite dalla legge
vigente al momento in cui l’atto è stato emanato.
Così l’Adunanza Plenaria: “la dichiarazione di
illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc,
salvo il limite degli effetti irrevocabilmente
prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e
rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi
di termini di prescrizione o di decadenza, o perché
definiti con giudicato, etc.) ed opera erga omnes,
cioè anche fuori dell’ambito del rapporto
processuale in cui è stato sollevato l’incidente di
incostituzionalità, distinguendosi dalla abrogazione
della legge, perché si estende ai fatti anteriori.
La norma dichiarata incostituzionale non può
dichiararsi inesistente (con conseguente inesistenza
dell’organo creato in base ad essa e degli atti
emessi da tale organo). Fra legge ed atto
amministrativo non sussiste un rapporto di
consequenzialità analogo a quello ravvisabile tra
atto preparatorio e atto finale del procedimento
amministrativo. L’atto amministrativo, quale
manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha
una sua vita ed una sua individualità propria e non
resta direttamente travolto dalla cessazione di
efficacia della legge. … L’invalidità dell’atto
derivata dalla incostituzionalità della norma non ha
sempre pieno effetto satisfattorio,
indipendentemente dalla rimozione reale dell’atto
stesso. Il giudice amministrativo, pertanto,
richiesto della pronunzia di annullamento dell’atto
per tale causa non può limitarsi a dichiarare la
cessazione della materia del contendere, privando il
ricorrente della possibilità di rendere coercibile
l’esecuzione del giudicato relativo ad un dovere
giuridico della P.A. solo incidentalmente affermato
nella motivazione.
La dichiarazione di incostituzionalità di una norma
che attribuisce alla P.A. un potere discrezionale,
non trasforma ex tunc le originarie posizioni di
interesse legittimo in diritti soggettivi, privando
di giurisdizione l’adito Consiglio di Stato. Infatti
nel momento della emanazione dell’atto il potere
discrezionale non poteva dirsi mancante ma veniva
esercitato in base ad una legge viziata di
incostituzionalità (…) i ricorsi impostati sulla
intervenuta dichiarazione di illegittimità
costituzionale vanno decisi dal giudice
amministrativo tenendo presente che l’atto
amministrativo continua ad avere vita autonoma
finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò
idonei e che persiste l’interesse di chi ne ha
chiesto l’annullamento ad ottenerlo. Tale
annullamento va pronunziato sia se la questione
incidentale è stata sollevata nel corso del giudizio
risolvendosi in un motivo di impugnazione dell’atto,
sia se pur essendo stata sollevata non sia stata
ancora delibata dal giudice amministrativo al
momento della intervenuta pronunzia della Corte
Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza
che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia
stata accertata nel corso del medesimo giudizio o
nel corso di altro giudizio”.
7.3.4. Questo orientamento che, in definitiva, vuole
l’atto amministrativo emanato sulla base di una
legge successivamente dichiarata incostituzionale,
anche se invalido, produttivo dei suoi effetti sino
alla sua formale rimozione a mezzo dell’annullamento
(purché non sia già divenuto definitivo e/o non sia
“sceso” il giudicato sulla relativa
controversia), è stato confermato in seguito dalla
giurisprudenza e dalla dottrina.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti
utilizzato la categoria dell’invalidità “sopravvenuta”
(o “derivata”), alludendo ad un atto
amministrativo conforme al proprio modello legale
nel momento della emanazione e, quindi, nel momento
di esercizio del potere sotteso, ma divenuto viziato
a seguito della dichiarazione di incostituzionalità
della stessa norma, attributiva o regolativa.
7.3.5. Posta l’utilizzabilità della categoria della
invalidità derivata e del regime della
annullabilità, si pone il problema del rilievo ex
officio, degli spazi di esercizio del potere di
annullamento e se tale potere sia vincolato ad un
motivo del ricorso.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che “legittimamente
il giudice adito annulla l'atto impugnato fondato su
una norma dichiarata incostituzionale, anche nel
caso in cui la relativa questione non abbia formato
oggetto di uno specifico motivo di ricorso,
considerato che detto giudice è chiamato, sia pur in
modo indiretto o implicito, a far applicazione della
norma nella quale trova legittimazione l'atto
impugnato” (Consiglio di Stato, sez. V,
06.02.1999, n. 138).
Sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente
al momento della pubblicazione della sentenza della
Corte costituzionale, dunque, la mancata deduzione
del vizio derivabile dalla pronuncia di
incostituzionalità in seno al ricorso introduttivo
non comporta, quindi, né la preclusione della
deduzione, né la necessità di deduzione integrativa
(con motivi aggiunti). In questo modo, è stato
osservato dalla dottrina, la disciplina del processo
amministrativo è stata sottoposta ad una
interpretazione di adeguamento alle dinamiche del
controllo di costituzionalità in via incidentale.
Unico limite rimane tuttavia la pendenza della
controversia e la rilevanza della questione ai fini
della decisione del giudice amministrativo. La
giurisprudenza afferma infatti che il giudice non
può applicare d’ufficio l’intervenuta pronuncia di
illegittimità costituzionale della norma in ipotesi
in cui, ex ante, non avrebbe potuto
sollevare, di ufficio o su istanza di parte, la
questione di legittimità costituzionale della norma
predetta per difetto di rilevanza. È stato
correttamente osservato in dottrina che l’interesse
generale che norme dichiarate incostituzionali non
trovino più applicazione legittima sì il potere di
annullamento ex officio, ma questo elemento di
novità e di tensione nel processo amministrativo
deve rimanere pur sempre ancorato ai motivi del
ricorso, essendo l’esame della norma utile ai fini
della decisione, e all’attuale pendenza della
controversia.
7.3.6. La giurisprudenza ha inoltre distinto tra le
norme sul quomodo di esercizio del potere e
quelle sulla genesi del potere, aggiungendo che il
rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della
norma non incontra il limite dei motivi del ricorso
quando la Corte costituzionale dichiari illegittima
una norma sulla “genesi” del potere. In
questo caso, sempre che il relativo giudizio sia
ancora pendente al momento della pubblicazione della
sentenza della Corte costituzionale, il giudice
amministrativo può esercitare un potere di
annullamento d’ufficio, anche quando il ricorrente
abbia assunto come violate tutt’altre norme (così
Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.1986, n. 855: “la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma nella quale trova esclusivo fondamento il
potere esercitato dalla p.a. con il provvedimento
impugnato, svolge i suoi effetti ex tunc nei giudizi
in corso, comportando l’illegittimità del
provvedimento stesso, del quale va dichiarato
l’annullamento con sentenza del giudice
amministrativo”).
L’orientamento giurisprudenziale appena riferito è
stato confermato dal Consiglio di Stato,
riaffermando la tesi dell’annullabilità dell’atto
amministrativo e distinguendo tra norme
incostituzionali che incidono sull’an o sul
quomodo del potere amministrativo solo ai
fini del potere di rilievo officioso che non può
essere esercitato quando la norma sul quomodo del
potere dichiarata incostituzionale non sia stata
richiamata dal ricorrente nei motivi di ricorso o si
sia altrimenti esaurito il potere.
8. Estensione del giudicato amministrativo e
suoi limiti.
L’articolo 2909 c.c. dispone che l'accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato fa
stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o
aventi causa (c.d. efficacia soggettiva del
giudicato).
Nel diritto amministrativo, è jus receptum
che la decisione di annullamento di un provvedimento
-che per i limiti soggettivi del giudicato esplica
in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa-
acquista efficacia erga omnes esclusivamente
nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di
atti a contenuto normativo (regolamenti) o
amministrativi generali, rivolti a destinatari
indeterminati ed indeterminabili a priori, in
relazione ai quali gli effetti dell'annullamento non
sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi
in presenza di un atto a contenuto generale
sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale
non può esistere per taluni e non esistere per altri
(cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV,
04.04.2018, n. 2097).
Per insegnamento costante, e risalente nel tempo,
invece, l’annullamento giurisdizionale dell'atto
plurimo e scindibile (sulla nozione si veda, Cons.
Stato, sez. VI, 13.02.2009, n. 765), qual è il ruolo
di anzianità di una pubblica amministrazione, non
può avere efficacia erga omnes ma solo
effetti inter partes. Ed invero, sarebbe
errato ammettere l’applicazione dello stesso
principio di efficacia generalizzata ultra partes
della sentenza di annullamento degli atti
inscindibili perché significherebbe sottrarre i
singoli destinatari dell’atto plurimo –che sono
portatori di uno specifico interesse personale e
differenziato in relazione ad una volontà
amministrativa rivolta distintamente a più
destinatari occasionalmente raggruppati in un unico
provvedimento– dai principi del processo
impugnatorio e dei relativi termini decadenziali (Cons.
Stato, sez. V, 15.12.2005, n. 7144). In tal caso la
diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a
beneficio di coloro che non hanno fatto valere
tempestivamente il loro diritto di difesa.
Con specifico riferimento al pubblico impiego
occorre inoltre considerare che l’art. 1, comma 132,
l. 30.12.2004, n. 311 dispone che “per il
triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le
amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1,
comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, di
adottare provvedimenti per l'estensione di decisioni
giurisdizionali aventi forza di giudicato, o
comunque divenute esecutive, in materia di personale
delle amministrazioni pubbliche” e che il
successivo art. 41, comma 6, l. 207/2008 prevede che
“il divieto di cui all'articolo 1, comma 132,
della legge 30.12.2004, n. 311, è prorogato anche
per gli anni successivi al 2008”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha di recente
ricordato che: “in tema di divieto di estensione
di decisioni giurisdizionali aventi forza di
giudicato nel pubblico impiego, la posizione
giuridica di coloro che abbiano presentato un
tempestivo ricorso avverso un atto di
macro-organizzazione si differenzia sotto il profilo
soggettivo da quella degli altri dipendenti che
avevano prestato acquiescenza nei confronti del
suddetto atto rimanendo inattivi. Il giudicato
amministrativo, in assenza di norme ad hoc nel
c.p.a., è sottoposto alle disposizioni generali sul
processo civile, per cui il giudicato opera solo
inter partes, secondo quanto prevede per il
giudicato civile l'art. 2909 c.c. e, quindi, sono
eccezionali i casi di giudicato amministrativo con
effetti ultra partes, i quali si giustificano solo
grazie all'inscindibilità degli effetti dell'atto o
dell'inscindibilità del vizio dedotto (nel caso in
esame il provvedimento impugnato aveva ad oggetto
una vicenda amministrativa specifica e temporalmente
circoscritta, ossia la mobilità connessa alla c.d.
«riforma della Buona Scuola»” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 26.01.2021, n. 799).
Anche l’Adunanza Plenaria, sempre di recente, ha
ribadito che: “Il giudicato amministrativo ha di
regola effetti limitati alle parti del giudizio e
non produce effetti a favore dei cointeressati che
non abbiamo tempestivamente impugnato; i casi di
giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali
e si giustificano in ragione dell'inscindibilità
degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del
vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità
degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza
di un legame altrettanto inscindibile fra le
posizione dei destinatari, in modo da rendere
inconcepibile, logicamente, ancor prima che
giuridicamente, che l'atto annullato possa
continuare ad esistere per quei destinatari che non
lo hanno impugnato; per tali ragioni deve escludersi
che l'indivisibilità possa operare con riferimento a
effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e,
quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori,
additivi o di accertamento della fondatezza della
pretesa azionata, che operano solo nei confronti
delle parti del giudizio” (Consiglio di Stato,
ad. plen., 27.02.2019, nn. 4 e 5).
Alla luce del quadro normativo e delle pronunce
della giurisprudenza amministrativa riferiti è
chiaro che nella materia oggetto di esame viga il
divieto di estensione del giudicato.
9. Legalità costituzionale e autotutela
amministrativa.
L'esercizio del potere di autotutela, che trova
fondamento nei principi di legalità, imparzialità,
buon andamento cui deve essere improntata l'attività
della P.A., è facoltà ampiamente discrezionale
(soprattutto nell'an) dell'Amministrazione,
che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla;
detto potere si esercita discrezionalmente
d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia
valutazione di merito dell'Amministrazione e non su
istanza di parte. Ne consegue che, fatte salve
ipotesi eccezionali, essa non ha alcun obbligo di
provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio
e che alla richiesta del privato di autotutela deve
essere riconosciuta una funzione meramente
sollecitatoria, in quanto, in caso contrario, si
verificherebbe l'elusione del termine decadenziale
di impugnazione il cui rispetto è funzionale
all'esigenza di tutela della certezza delle
situazioni giuridiche di diritto pubblico.
Giova ricordare che l’esercizio del potere di
autotutela è legato altresì al rispetto dell’art.
21-nonies l. 241/1990, ai sensi del quale: “1. Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a dodici mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i
casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi
dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto
dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità
connesse all'adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo”.
Resta ferma infine la necessità poi di valutare la
successiva azione amministrativa con l’articolo 1,
comma 132, l. 30.12.2004, n. 311, prima illustrato
al § 8 (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
«poteri d'ordine» dell'Anac non hanno natura sanzionatoria ma di moral
suasion.
Il fatto che l'Anac non sia stata investita dal legislatore di un potere
sostitutivo quanto all'adozione degli atti necessari alla corretta
attuazione dei piani anticorruzione, delle regole sulla trasparenza, della
rimozione degli atti e comportamenti contrastanti con i citati piani e
regole, suggerisce che il "potere d'ordine" dell'Autorità nazionale
anticorruzione in effetti non abbia alcuna natura vincolante. Ed è soltanto
funzionale a "sollecitare" gli organi istituzionalmente deputati
all'adozione di questi provvedimenti.
Sulla base della considerazione che, nei fatti, non sono riconosciuti all'Anac
poteri d'ordine vincolanti neppure in materia di inconferibilità e
incompatibilità degli incarichi, il Consiglio di Stato - Sez. VI, con la
sentenza
14.12.2021 n. 8336, ha escluso che i poteri
in parola possano tradursi in pareri, valutazioni o veri e propri comandi
coercitivi per le Pa.
Il potere d'ordine attribuito all'Anac è quindi stato concepito dal
legislatore quale forma di "moral suasion"; che non priva le singole Pa
della competenza a decidere autonomamente, se, ed in che limiti, sia
necessario adottare nuovi atti o rimuoverne di precedenti; al fine di
adeguare l'ordinamento interno alle indicazioni dei piani anticorruzione e
delle norme sulla trasparenza. E la pubblicità che l'Anac riserva ai propri
provvedimenti d'ordine costituisce una "sanzione reputazionale" che serve a
stimolare il controllo sociale dei cittadini.
Il sistema disegnato nella legge anticorruzione si fonda innanzitutto sulla
individuazione nelle Pa dei settori di attività esposte al rischio di
corruzione e sulla individuazione delle relative misure di contrasto e di
prevenzione. A cura dell'Anac viene predisposto il Piano nazionale
anticorruzione che costituisce "atto di indirizzo" per ogni Pa.
Specularmente ogni Pa approva il piano di prevenzione della corruzione nel
quale fornisce una valutazione del livello di esposizione dei propri uffici
al rischio di corruzione; indicando gli interventi organizzativi di
contrasto al rischio. L'Anac esercita quindi vigilanza e controllo
sull'effettiva applicazione e sull'efficacia delle misure adottate dalle Pa;
potendo mettere in campo anche facoltà ispettive: chiedendo notizie,
informazioni, atti; ammonendo l'adozione di provvedimenti adeguati alle
vigenti disposizioni o la rimozione dei comportamenti inappropriati.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, l'Anac non ha alcun potere di
annullare gli atti adottati dall'ente in violazione delle misure di
contrasto alla corruzione. Dopo aver raccolto le informazioni del caso, l'authority
può esclusivamente "ordinare" l'adozione dei provvedimenti che essa
ritenga necessari per la corretta attuazione dei piani anticorruzione e per
la trasparenza; oppure la rimozione degli atti e dei comportamenti
contrastanti con i predetti indirizzi. E ciò nell'esercizio di un potere che
non può che essere diretto verso gli organi cui spetta, ordinariamente, la
competenza ad adottare gli atti oggetto del "richiamo" in argomento
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 28.12.2021). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 13.12.2021 n. 295 "Approvazione della determinazione
n. 611/2021, avente ad oggetto l’adozione del «Regolamento
recante le procedure di contestazione, accertamento,
segnalazione delle violazioni in materia di transizione
digitale e di esercizio del potere sanzionatorio ai sensi
dell’articolo 18-bis, del decreto legislativo 07.03.2005, n.
82 e successive modifiche»" (AGID,
determinazione 29.11.2021 n. 611). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 13.12.2021 n. 295 "Approvazione della determinazione
n. 610/2021, avente ad oggetto l’adozione del «Regolamento
recante le procedure finalizzate allo svolgimento dei
compiti previsti dall’articolo 17, comma 1-quater, del CAD»"
(AGID,
determinazione 29.11.2021 n. 610). |
novembre 2021 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: L'autografia
della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza o di
validità del provvedimento amministrativo quando i dati espressi nel
contesto documentativo dell'atto permettono di accertarne la
sicura attribuibilità a chi deve esserne l'autore; in questi casi, infatti,
secondo le disposizioni di cui al d.lgs. 12.02.1993, n. 39 e da ultimo del
d.lgs. 07.03.2005, n. 82 -Codice dell'amministrazione digitale-, nel caso di
emanazione di atti amministrativi mediante sistemi informatici e telematici,
la firma autografa è sostituita dall'indicazione a stampa (firma digitale),
sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del
soggetto responsabile che ne attesta con certezza l'integrità e
l'autenticità della firma.
---------------
La mancata indicazione dei termini di proposizione del ricorso
costituisce mera irregolarità formale, insuscettibile di inficiare la
validità del provvedimento: “l'omessa indicazione, in calce al
provvedimento amministrativo, del termine e dell'autorità cui ricorrere,
rappresenta una mera irregolarità, la quale può eventualmente costituire
presupposto per il riconoscimento dell'errore scusabile, solo previo
accertamento, caso per caso, dei rigorosi presupposti e, quindi, in presenza
di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi
impedimenti di fatto”.
---------------
Il Comune di Campo nell’Elba, con ordinanza n. 59 del 21.11.2016, ha
ordinato alle ricorrenti la demolizione di un edificio in muratura composto
da camera da letto, corridoio, cucina e perimetrato da due parapetti e da
tettoia, nonché di un vano contiguo in corso di rifinitura, situati in area
a pericolosità idraulica molto elevata.
Avverso tale provvedimento le ricorrenti sono insorte deducendo:
1) Violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990.
L’atto impugnato è nullo per omessa indicazione dei termini di ricorso e per
essere privo della firma digitale del dirigente dell’area tecnica Sa.Fa..
2) Violazione dell’art. 34 del d.p.r. n. 380/2001; eccesso di
potere.
Il Comune non ha verificato se l’opera abusiva in questione potesse essere
demolita senza pregiudizio della parte per la quale è stata presentata
domanda di condono.
...
1. Il ricorso è infondato.
L’ordinanza di demolizione è stata notificata in formato cartaceo con
l’indicazione del nome del sottoscrittore e la postilla “sottoscritto
digitalmente ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 82/2005”.
Orbene, l'autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito
di esistenza o di validità del provvedimento amministrativo quando i dati
espressi nel contesto documentativo dell'atto permettono di accertarne la
sicura attribuibilità a chi deve esserne l'autore; in questi casi, infatti,
secondo le disposizioni di cui al d.lgs. 12.02.1993, n. 39 e da ultimo del
d.lgs. 07.03.2005, n. 82 -Codice dell'amministrazione digitale-, nel caso di
emanazione di atti amministrativi mediante sistemi informatici e telematici,
la firma autografa è sostituita dall'indicazione a stampa (firma digitale),
sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del
soggetto responsabile che ne attesta con certezza l'integrità e
l'autenticità della firma (TAR Lazio, Roma, II, 11.05.2015, n. 6771).
2. La mancata indicazione dei termini di proposizione del ricorso
costituisce mera irregolarità formale, insuscettibile di inficiare la
validità del provvedimento: “l'omessa indicazione, in calce al
provvedimento amministrativo, del termine e dell'autorità cui ricorrere,
rappresenta una mera irregolarità, la quale può eventualmente costituire
presupposto per il riconoscimento dell'errore scusabile, solo previo
accertamento, caso per caso, dei rigorosi presupposti e, quindi, in presenza
di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi
impedimenti di fatto” (TAR Sicilia, Catania, IV, 29/09/2016, n. 2345)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 29.11.2021 n. 1596 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Il
provvedimento favorevole annullato tra legittimo affidamento, buona fede,
correttezza, illegittimità evidente e responsabilità: la pronuncia della
Plenaria.
L’Adunanza plenaria tratteggia perimetro, presupposti e limiti della
responsabilità della p.a. discendente dal ragionevole affidamento del
privato in ordine al legittimo esercizio del potere pubblico e all’operato
della pubblica amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona
fede, anche nell’ipotesi di provvedimento favorevole successivamente
annullato.
---------------
Pubblica amministrazione – Violazione dei canoni generali di correttezza
e buona fede – Responsabilità civile – Presupposti e limiti
L’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di
diritto:
a) “Nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico
potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio
di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di
correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo
per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica, ma anche per il
caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi”.
b) “La responsabilità dell’amministrazione per lesione
dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento
favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua
legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in
caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia
conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”.
c) “Nel settore delle procedure di affidamento di contratti
pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante
dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e
buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole
affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado
di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta
inficiato da colpa” (1).
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato -alla quale la
seconda sezione del Consiglio di Stato con
ordinanza 06.04.2021, n. 2753
(oggetto della
News US in data 04.05.2021) aveva deferito alcune questioni
interpretative- con
articolata motivazione ha perimetrato la configurabilità dell’affidamento
del privato
sull’operato della p.a. e la connessa responsabilità di quest’ultima anche
in relazione alle
procedure riguardanti i contratti pubblici e in ipotesi di annullamento di
provvedimento
favorevole.
II. – La vicenda contenziosa che ha condotto al giudizio dinanzi al
giudice d’appello si è
articolata nelle fasi di seguito descritte:
a) all’esito dell’aggiudicazione di una gara
disposta dal Comune di Carinola, taluni
soggetti partecipanti alla medesima gara hanno proposto domanda di
annullamento, la quale è stata rigettata con sentenza del Tar per la
Campania,
sez. VIII, 20.07.2007, n. 6857;
b) tale sentenza è stata riformata dal Consiglio
di Stato (sez. V, 09.12.2008, n.
6058), con conseguente accoglimento del ricorso di primo grado ed
annullamento
dell’aggiudicazione;
c) il Comune ha, quindi, preso atto della
pronuncia di annullamento ed ha, a sua
volta, formalmente revocato l’aggiudicazione definitiva della gara;
d) con successivo ricorso, l’originaria aggiudicataria ha chiesto
condannarsi
l’amministrazione al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale,
limitato al solo interesse negativo: in accoglimento della stessa domanda,
con
sentenza del Tar per la Campania, sez. VIII, 03.10.2012, n. 4017, il
Comune di
Carinola ‒in considerazione che l’affidamento asseritamente ingenerato si
sostanzierebbe nella buona fede dell’impresa interessata all’effettivo
conseguimento dell’utilitas rappresentata dall’aggiudicazione e che siffatto
affidamento sarebbe derivato da un comportamento colpevole dell’ente
pubblico‒ è stato condannato al risarcimento del danno, con quantificazione della
somma
dovuta ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.;
e) la parte pubblica ha, quindi, proposto appello avverso detta sentenza
censurandone la statuizione di condanna per equivalente e, nel relativo
giudizio,
si è innestato il deferimento all’Adunanza plenaria di cui trattasi.
III. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria giunge alla
elaborazione delle
massime riportate sulla base del seguente percorso argomentativo:
f) sulla possibilità che il provvedimento
amministrativo possa essere per il soggetto
beneficiario fonte di un “legittimo e qualificato affidamento”, la cui
lesione per effetto
del successivo annullamento in sede giurisdizionale lo legittimi a domandare
il
risarcimento del danno nei confronti dell’amministrazione:
f1) l’affidamento nella legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione e
più in generale sulla correttezza del suo operato è riconosciuto dalla
risalente giurisprudenza dell’Adunanza plenaria come situazione giuridica
soggettiva tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno;
f2) l’affermazione di principio può essere fatta risalire alla sentenza del
05.09.2005, n. 6 (in Foro it., 2009, III, 124; Cons. Stato, 2005, I,
1440, con
nota di RUBULOTTA): nell’applicare le norme sull’evidenza pubblica la p.a. è
soggetta alle “norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal
diritto comune”;
f3) malgrado la legittimità dell’intervento in autotutela, l’Adunanza
plenaria
ha riconosciuto il risarcimento per la lesione dell’affidamento maturato
dall’aggiudicataria sulla conclusione del contratto, una volta che la sua
offerta era stata selezionata in gara come la migliore ed era stato emesso a
suo favore il provvedimento definitivo;
f4) negli stessi termini l’Adunanza plenaria si è più di recente espressa
con la
sentenza 04.05.2018, n. 5 (in Foro it., 2018, III, 453, con nota di
MIRRA; Giur. it., 2018, 1983, con nota di COMPORTI; Corriere giur., 2018,
1547, con nota di TRIMARCHI BANFI; Urbanistica e appalti, 2018, 639, con
nota di GIAGNONI; Appalti & Contratti, 2018, 5, 67 (m), con nota di
USAI; Guida al dir., 2018, 23, 88, con nota di CLARICH, FONDERICO; Resp.
civ. e prev., 2018, 1594, con nota di FOÀ, RICCIARDO CALDERARO; Rass.
avv. Stato, 2019, 1, 160, con nota di IZZI; Riv. trim. appalti, 2019, 1071,
con
nota di BEVIVINO, nonché oggetto della
News US 09.05.2018);
f5) secondo i principi formulati nei precedenti ora richiamati, le regole di
legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani
distinti:
I) uno relativo alla validità degli atti amministrativi;
II) l’altro
concernente
invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di
protezione in favore della controparte;
f6) oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in
rapporto di
pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti
impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità
per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi:
l’”ordinaria
possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista
nonostante
la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il
procedimento” è
stata in particolare affermata dalla citata pronuncia Cons. Stato, Ad. plen.
04.05.2018, n. 5, cit., in cui si è anche precisato che la responsabilità
precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure di affidamento di
contratti pubblici è una responsabilità “da comportamento illecito, che
spesso
non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone
la
legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”;
f7) più di recente è stato affermato, su un piano generale, che
l’affidamento “è
un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di
una
attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario
l’aspettativa
al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale
attività”
(Cons. Stato, sez. VI, 13.08.2020, n. 5011): pur sorto nei rapporti di
diritto
civile, con lo scopo di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta
sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella
reale, da altri creata (e di cui sono applicazioni concrete, tra le altre,
la
“regola possesso vale titolo” ex art. 1153 cod. civ., l’acquisto dall’erede
apparente di cui all’art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente
ex
art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare
apparente ex
artt. 1415 e 1416 cod. civ.), l’affidamento è ormai considerato canone
ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di
diritto amministrativo, ossia quelli che si instaurano nell’esercizio del
potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo
che sia stato emanato il provvedimento conclusivo;
f8) a conferma della descritta evoluzione si pone l’art. 1, comma 2-bis,
della l.
n. 241 del 1990, il quale dispone che: “(i) rapporti tra il cittadino e la
pubblica
amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della
buona
fede” (comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, lettera 0a), legge 11.09.2020, n. 120; di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione
digitali”);
f9) la disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere
generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento
nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma
2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il
procedimento amministrativo è il luogo di composizione del conflitto tra
l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati,
coinvolti
nell’esercizio del primo:
I) per il migliore esercizio della discrezionalità
amministrativa il procedimento necessita pertanto dell’apporto dei soggetti
a vario titolo interessati, nelle forme previste l. n. 241 del 1990;
II) concepito
in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo
buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una
relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata;
III) in
ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario
titolo intervengono nel procedimento;
IV) a fronte del dovere di
collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto
sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità
derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere
per l’amministrazione fonte di responsabilità;
V) inoltre la lesione
dell’aspettativa può configurarsi non solo in caso di atto legittimo, ma
anche nel caso di atto illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale;
VI) anche in questa seconda ipotesi può infatti darsi il caso che il
soggetto
beneficiario dell’atto per sé favorevole abbia maturato un’aspettativa
ragionevole alla sua stabilità, che dunque può essere ingiustamente lesa per
effetto dell’annullamento in sede giurisdizionale;
g) sui limiti entro cui può essere riconosciuto
il risarcimento per lesione
dell’affidamento, con particolare riguardo all’ipotesi di aggiudicazione di
appalto,
successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale:
g1) si tratta del settore dell’attività della pubblica amministrazione in
cui
tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di
quest’ultima: le ragioni alla base dell’orientamento di giurisprudenza
favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla
base
del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali
dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello
stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative pre-negoziali, da
cui
deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di “comportarsi secondo
buona fede” enunciato dall’art. 1337 del codice civile (come chiarito
dall’Adunanza plenaria nelle sopra citate pronunce del 05.09.2005, n.
6, e del 04.05.2018, n. 5, citt.);
g2) per comune acquisizione di diritto civile, la tutela risarcitoria per
responsabilità precontrattuale è posta a presidio dell’interesse a non
essere
coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di
ordine
economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività
preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale: la
reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione
all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto
dall’esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da
inadempimento, ma dell’interesse negativo, con il quale sono ristorate le
spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni
contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno
emergente–lucro cessante;
g3) applicata all’evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale
sottopone
l’amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e
agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali
costituiscono, come in precedenza esposto, profili tra loro autonomi, e da
cui può rispettivamente derivare l’annullamento degli atti adottati nella
procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione (da ultimo in
questo senso: Cons. Stato, sez. V, 12.07.2021, n. 5274; 12.04.2021,
n.
2938; 02.02.2018, n. 680);
g4) nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo
occorre
tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative
tale
per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli
elementi
essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto
al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti
invece
ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al
dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ. (ex multis: Cass. civ., sez. II,
15.04.2016, n. 7545; sez. III, 29.03.2007, n. 7768);
g5) analogamente, per diffusa opinione nella giurisprudenza amministrativa
(da ultimo: Cons. Stato, sez. II, 20.11.2020, n. 7237), l’affidamento
è
legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non
abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia
avvenuto
nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante;
g6) ne discende che:
I) l’aggiudicazione è considerata il punto di emersione
dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della
responsabilità precontrattuale;
II) il recesso ingiustificato assume i
connotati provvedimentali tipici della revoca o dell’annullamento d’ufficio
della gara, che interviene a vanificare l’aspettativa dell’aggiudicatario
alla
stipula del contratto e che, pur legittimo, non vale quindi ad esonerare
l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una
procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto
maturare il convincimento della sua positiva conclusione con la stipula del
contratto d’appalto;
g7) in senso parzialmente diverso si è espressa la sentenza Cass. civ., sez.
I, 03.07.2014, n. 15260 (in Foro it., 2015, I, 643, con nota di GALLI), la
quale ha
affermato che:
I) l’affidamento del concorrente ad una procedura di
affidamento di un contratto pubblico è tutelabile “indipendentemente da un
affidamento specifico alla conclusione del contratto”;
II) la stazione
appaltante è
quindi responsabile sul piano precontrattuale “a prescindere dalla prova
dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante”;
g8) l’apparente contrasto rispetto agli approdi della giurisprudenza
amministrativa deve tuttavia essere ridimensionato: la stessa
giurisprudenza amministrativa ha negato rilievo dirimente all’intervenuta
aggiudicazione definitiva, laddove ha in particolare affermato che la
verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della
procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto che “il grado
di
sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca,
riflettendosi
sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una
sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello
scrutinio di fondatezza
della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale” (Cons.
Stato,
sez. V, 15.07. 2013, n. 3831, in Contratti, 2014, 146, con nota di
PASSARELLA; Rass. avv. Stato, 2014, 1, 173, con nota di ROMEO);
g9) nella medesima prospettiva di un accertamento in concreto degli elementi
costitutivi della responsabilità precontrattuale si è del resto espressa la
Plenaria con sentenza 04.05.2018, n. 5, cit., secondo cui la
responsabilità
precontrattuale può insorgere “anche prima dell’aggiudicazionee possa
derivare
non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi
comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da
condurre
necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e
buona
fede”;
g10) più in generale, l’Adunanza plenaria ha precisato che la tutela
civilistica
della responsabilità precontrattuale, pur nel quadro del principio generale
dell’autonomia negoziale delle parti, ivi compresa l’amministrazione, opera
nel senso di assicurare la serietà delle trattative finalizzate alla
conclusione
del contratto, per cui essa costituisce il punto di equilibrio tra:
I) la
libertà
contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio
delle
sue prerogative pubblicistiche da una parte;
II) rispetto del limite della
correttezza e della buona fede, dall’altro;
g11) individuato un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua
ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il
secondo
consiste nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione, nel
senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve essere
imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in
materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. (in
questo
senso va ancora richiamato Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2018, n. 5, cit.);
g12) l’affidamento del concorrente, a sua volta, non deve essere inficiato
da
colpa: sul punto va richiamato l’art. 1338 cod. civ., il quale assoggetta a
responsabilità precontrattuale la “parte che, conoscendo o dovendo conoscere
l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia
all’altra
parte”, ed in base al quale viene escluso il risarcimento se la conoscenza
di
una causa invalidante il contratto è comune ad entrambe le parti che
conducono le trattative, poiché nessuna legittima aspettativa di positiva
conclusione delle trattative può mai dirsi sorta (in questo senso, di
recente:
Cass. civ, sez. lav., ordinanza 31.01.2020, n. 2316;
III, sentenza 18.05.2016, n. 10156; sentenza 05.02.2016, n. 2327);
g13) il profilo in esame ha rilievo rispetto al potere di annullamento
d’ufficio
della procedura di gara, ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del
1990,
che opera in modo distinto rispetto alla revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies della medesima legge sul procedimento amministrativo, perché
interviene non già come rivalutazione dell’interesse pubblico sotteso
all’affidamento del contratto, secondo l’ampia definizione del potere di
revoca data dalla disposizione da ultimo richiamata, ma per rimuovere un
vizio di legittimità degli atti della procedura di gara: se pertanto il
motivo
di illegittimità che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in
autotutela la gara è conoscibile dal concorrente, la responsabilità della
prima deve escludersi (in questo senso: Cons. Stato, V, 23.08.2016, n.
3674, che ha affermato al riguardo che “al fine di escludere la risarcibilità del
pregiudizio patito dal privato a causa dell’inescusabilità dell’ignoranza
dell’invalidità dell’aggiudicazione, che il giudice deve verificare in
concreto se il
principio di diritto violato sia conosciuto o facilmente conoscibile da
qualunque
cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell’univocità
dell’interpretazione
della norma di azione e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze
di fatto cui
la legge ricollega l’invalidità”);
g14) peraltro, l’elemento della colpevolezza dell’affidamento si modula
diversamente nel caso in cui l’annullamento dell’aggiudicazione non sia
disposto d’ufficio dall’amministrazione ma in sede giurisdizionale: in
questo secondo caso emergono con tutta evidenza i caratteri di specialità
del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità
che
nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti
amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di
questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio (con
l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è quindi posto nelle
condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé
favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di
decadenza entro cui ai sensi dell’art. 29 c.p.a. l’azione deve essere
proposta,
e di difenderlo);
g15) la situazione che viene così a crearsi induce, per un verso, ad
escludere un
affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per
effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non
imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed
addirittura
da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro
verso
porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica
dell’atto introduttivo del giudizio.
IV. – Si segnala, per completezza, quanto segue:
h) sulla nozione di affidamento (legittimo):
Cons. Stato, sez. II,
ordinanza 09.03.2021, n. 2013 (oggetto della
News US in data 26.03.2021), secondo cui:
h1) “l’affidamento è un istituto giuridico che taglia trasversalmente
l’intero
ordinamento giuridico e senza dubbio assume rilievo nei rapporti tra i
privati e le
pubbliche amministrazioni, anche nelle fattispecie in cui vi è esercizio di
potere di
natura pubblicistica”;
h2) l’affidamento non è “un diritto soggettivo, come, invece, autorevolmente
sostenuto da parte della giurisprudenza, bensì una situazione giuridica
soggettiva
dai tratti peculiari propri, idonea a fondare una particolare
responsabilità, che si
colloca tra il contratto e il torto civile”;
h3) “ad ogni modo, per aversi un affidamento giuridicamente tutelabile in
capo al
privato, occorre, da un lato, una condotta della pubblica amministrazione
connotata
da mala fede o da colpa in grado di far sorgere nell’interessato, versante
in una
condizione di totale buona fede, un’aspettativa al conseguimento di un bene
della
vita e, dall’altro, che la fiducia riposta da quest’ultimo in un esito del
procedimento
amministrativo a lui favorevole sia ragionevole e non colposamente assunta
come
fondata”;
h4) ”in sostanza, ai fini della sussistenza dell’affidamento, il privato che
ha interloquito
con la pubblica amministrazione non soltanto non deve averla condotta
dolosamente o colposamente in errore, ma deve aver aspettativa qualificata,
ovverosia basata su una pretesa legittima alla luce del quadro ordinamentale
applicabile al caso di specie”;
h5) “va peraltro sottolineato che, ai fini dell’affidamento, l’ipotesi di
annullamento del
provvedimento favorevole in sede giurisdizionale va tenuta chiaramente
distinta da
quella di annullamento d’ufficio in autotutela e, ancor più, dalla revoca,
atteso che,
a fronte del medesimo petitum risarcitorio, le causae petendi sono
differenti. In
questi secondi casi, infatti, l’eventuale affidamento del privato (ammesso
che vi sia)
verrebbe pregiudicato da un condotta dell’amministrazione, la quale modifica
unilateralmente, melius re perpensa o alla luce di sopravvenienze, l’assetto
d’interessi precedentemente delineato nell’esercizio del suo potere
pubblicistico,
mentre nel primo caso il potenziale affidamento verrebbe leso da un
provvedimento
promanante dal potere giurisdizionale, nei cui confronti non può esserci in
radice,
per la natura terza del giudice, alcuna aspettativa qualificata ‒e dunque
tutelabile
mediante ristoro patrimoniale‒ all’accoglimento delle proprie ragioni. Ne
discende
che l’annullamento del provvedimento amministrativo in sede giurisdizionale
non
può mai ridondare in una lesione di un affidamento legittimo, idonea a
fondare una
domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione”;
i) sul diritto al risarcimento da lesione dell’affidamento verso un
provvedimento
amministrativo illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale:
i1) per l’indirizzo non favorevole:
I) Cons. Stato, sez. IV, sentenza 29.10.2014, n. 5346, in Urbanistica e appalti, 2015, 181, con nota di D'ANGELO,
secondo cui “Posto che anche nel diritto amministrativo sono applicabili i
principi
generali in virtù dei quali l'ignoranza della legge non scusa e non può
fondatamente
chiedere il risarcimento dei danni chi ne abbia con sua colpa cagionato la
sua
verificazione, non può dolersi di aver subìto un danno chi -per una
qualsiasi
evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio-assenso
o una s.c.i.a.- abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un
progetto
oggettivamente non assentibile: in tal caso, infatti, il richiedente sotto
il profilo
soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il
progetto
assentibile soltanto contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con
efficacia
determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno (in
applicazione del principio di diritto enunciato è stata rigettata la domanda
di
risarcimento del danno avanzata dal costruttore che si lamentava del ritardo
dell'amministrazione comunale nel pronunciarsi sulle istanze di condono
avanzate
conseguentemente all'annullamento in sede giurisdizionale delle concessioni
edilizie inizialmente assentite, ancorché presentate in contrasto con gli
strumenti
urbanistici)”;
II) Cons. Stato, sez. V, 17.01.2014, n. 183 (in
Giornale
dir. amm., 2014, 704, con nota di MAGRI; Guida al dir., 2014, 7, 66, con
nota
di CORRADO; Danno e resp., 2014, 939, con nota di MAZZOLA), secondo
cui “In tema di lesione dell'interesse legittimo imputato ad un
provvedimento
favorevole illegittimo che venga successivamente annullato in sede
giurisdizionale,
e in assenza di altra statuizione di legge, trovano applicazione i principi
relativi
all'illecito aquiliano”;
i2) per l’indirizzo favorevole:
I) Cons. Stato, sez. IV, 20.12.2017,
n.
5980, in Foro amm., 2017, 2384, secondo cui “Quando il risarcimento è
fondato
sulla lesione dell'affidamento in conseguenza dell'emanazione di un atto
illegittimo
perché annullato in autotutela o in via giurisdizionale, non ci si duole del
danno
derivante dall'illegittimo esercizio di un potere amministrativo in senso
sfavorevole
al privato, bensì di un comportamento conseguenza del precedente esercizio
del
potere amministrativo in favore del danneggiato; pertanto, il provvedimento
amministrativo -che aveva concesso il diritto ad edificare e che, perché
illegittimo,
legittimamente è stato posto nel nulla e quindi non rileva più come
provvedimento
che rimuove un ostacolo all'esercizio di un diritto- continua a rilevare
per i proprietario del fondo o il titolare di altro diritto, che lo abiliti
a costruire sul fondo,
esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno provveduto al
suo rilascio, integrando così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di un atto
illecito per
violazione del principio del neminem laedere, imputabile alla p.a. e in
virtù del
principio di immedesimazione organica, per avere tale atto con la sua
apparente
legittimità ingenerato nel suo destinatario l'incolpevole convincimento,
avendo
questo il diritto di fare affidamento sulla legittimità dell'atto
amministrativo e,
quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa) di poter
legittimamente
procedere alla edificazione del fondo”;
II) Tar per la Campania, sez.
VIII, 03.10.2012, n. 4017 (in Urbanistica e appalti, 2013, 93, con nota di
CAPUTO), secondo cui “La colpevole negligenza nella stesura del bando, causa
d'annullamento dell'aggiudicazione, integra gli estremi della responsabilità
precontrattuale della stazione appaltante”;
III) Cons. Stato, sez. VI, 05.09.2011, n. 5002 (in Urbanistica e appalti, 2012, 66, con nota
di QUADRI; Giornale dir. amm., 2012, 493 (m), con nota di VITALE),
secondo cui “Anche se la revoca della gara è legittima, sussiste tuttavia la
responsabilità precontrattuale della p.a. per la violazione dei doveri di
lealtà e di
buona fede di cui all'art. 1337 c.c., a causa degli affidamenti ingenerati
nei
concorrenti, che solo a procedura quasi ultimata hanno appreso delle
risalenti intese
tra i ministeri che hanno condotto all'esito contestato, perché, subito dopo
la
pubblicazione del bando di gara, era già emerso un orientamento
oggettivamente
contrastante con le scelte operate e sfociate nell'indizione della gara, più
volte
rinviata, fino alla revoca”;
i3) con specifico riferimento all’annullamento giurisdizionale di una
concessione edilizia per la realizzazione di un nuovo fabbricato in luogo di
quello precedente, su ricorso di alcuni titolari di immobili situati nelle
vicinanze, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 29.11.2021, n. 19, coeva alla
pronuncia in rassegna, resa all’esito di deferimento disposto con ordinanza
Cons. Stato, sez. II, 09.03.2021, n. 2013, cit.;
j) sul legittimo affidamento come elemento
fondamentale e indispensabile dello
Stato di diritto, cfr. in particolare:
j1) Corte cost., 09.05.2019, n. 108, in Giur. it., 2019, 2236, con nota
di
PAGANO; Giur. cost., 2019, 1341, con nota di MABELLINI;
j2) Corte cost., 27.06.2017, n. 149, in Giur. cost., 2017, 1837, con
nota di
TRIVELLIN;
j3) Corte cost., 12.04.2017, n. 73;
j4) Corte cost., 24.01.2017, n. 16, in Ambiente, 2017, 203, con nota di
SPINA;
j5) Corte cost., 21.07.2016, n. 203, in Rass. dir. farmaceutico, 2016,
789;
j6) Corte cost., 05.11.2015, n. 216, in Foro it., 2015, I, 3769;
j7) Corte cost., 31.05.2015, n. 56, in Foro it., 2015, I, 1903;
j8) Corte cost., 27.06.2012, n. 166, in Foro it., 2012, I, 2229;
j9) Corte cost., 22.10.2010, n. 302, in Foro it., 2011, I, 327;
j10) Corte cost., 24.07.2009, n. 236, in Foro it., 2009, I, 2921, con
nota di
ROMBOLI;
j11) Corte cost., 09.07.2009, n. 206, in Corriere giur., 2010, 323, con
nota di
RIZZO;
j12) Corte cost., 30.01.2009, n. 24, in Giur. cost., 2009, 165, con
nota di
SPUNTARELLI;
j13) Corte cost., 03.11.2005, n. 409, in Giur. cost., 2006, 2543, con
nota di
MATUCCI;
j14) Corte cost., 07.07.2005, n. 264, in Foro it., 2006, I, 2666;
j15) Corte cost., 12.11.2002, n. 446, in Giur. it., 2003, 841, con
nota di
MAURIELLO; Giur. cost., 2002, 3658, con nota di CARNEVALE;
j16) Corte cost., 04.11.1999, n. 416, in Foro it., 2000, I, 2456, con
nota di
PASSAGLIA; Mass. giur. lav., 2000, 130, con nota di CELOTTO; Riv. giur.
lav., 2000, II, 161, con nota di MAZZIOTTI; Giur. cost., 1999, 3625, con
nota
di CARNEVALE;
j17) Corte cost., 10.02.1993, n. 39, in Arch. civ., 1993, 685, con
nota di
ALIBRANDI; Dir. e pratica lav., 1993, 2429, con nota di ARGENTINO;
j18) Corte cost., 04.04.1990, n. 155, in Foro it., 1990, I, 3072, con
nota di
TARCHI; Corriere giur., 1990, 588, con nota di BERTI; Riv. dir. comm., 1990,
II, 211, con nota di BRANCADORO; Arch. civ., 1990, 771, con nota di
ALIBRANDI;
j19) Corte cost., 14.07.1988, n. 822, in Cons. Stato, 1988, II, 1378;
j20) Corte cost., 17.12.1985, n. 349, in Giust. civ., 1986, I, 659;
k) sul legittimo affidamento rispetto alla
retroattività legislativa:
k1) nella giurisprudenza costituzionale:
I) Corte cost., 20.05.2016, n.
108,
la quale richiama il principio del legittimo affidamento espressione di una
delle “molteplici declinazioni dell’art. 3 Cost.”;
II) Corte cost., 05.04.2012, n.
78 (in Foro it., 2012, I, 2585, con nota di PALMIERI A.; Contratti, 2012,
445,
con nota di D'AMICO; Guida al dir., 2012, 20, 30, con nota di
SACCHETTINI; Nuove leggi civ., 2012, 797 (m), con nota di DI
GIROLAMO; Banca, borsa ecc., 2012, II, 423, con nota di DOLMETTA,
SALANITRO, SEMERARO, TAVORMINA; Giur. it., 2012, 2283, con nota di
RIZZUTI; Nuova giur. civ., 2012, I, 1039, con nota di AIELLO; Giur. cost.,
2012, 1017, con nota di RESCIGNO; Rass. dir. civ., 2013, 194, con nota di
BELLO; Corriere giur., 2013, 19, con nota di PANDOLFINI; Giur. comm.,
2012, II, 1176, con nota di MANCINI; Giurisdiz. amm., 2012, IV, 347, con
nota
di PAGANO) secondo cui “La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte
affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo
di
regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata
retroattiva,
diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del
diritto e il
concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione ostano,
salvo che per
imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere
legislativo
nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito
giudiziario di una
controversia (ex plurimis: Corte eur. dir. uomo, sez. II, 07.06.2011, Agrati c. Italia, in Foro it., 2013, IV, 9, con nota di PALMIERI
A. […]). Pertanto, sussiste uno spazio, sia pur delimitato, per un
intervento del
legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25
Cost.), se
giustificato da «motivi imperativi d’interesse generale», che spetta
innanzitutto al
legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi,
diritti e
beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento
riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli ordinamenti
statali”;
III) Corte cost., 26.11.2009, n. 311 (in Riv. critica dir. lav., 2009,
901,
con nota di ZAMPIERI; Corriere giur., 2010, 619, con nota di CONTI; Giur.
cost., 2009, 4657, con nota di MASSA; Riv. it. dir. lav., 2010, II, 389, con
nota
di AVALLONE; Giur. it., 2010, 2011, con nota di DI SERI;
k2) nella giurisprudenza CEDU, tra le tante:
I) Corte eur. dir. uomo, sez.
II, 15.11.2012, Lombardi c. Italia;
II) 19.01.2010, Zuccalà c. Italia;
III)
grande camera, 29.03.2006, Scordino c. Italia (in Corriere giur., 2006,
929,
con nota di CONTI); grande camera, 06.10.2005, Draon c. Francia; sez. IV,
20.07.2004, Back c. Finlandia;
l) sul legittimo affidamento in relazione a norme
interne contrarie all’ordinamento
UE: Cons. Stato, Ad. plen.,
09.11.2021, n. 18, oggetto della
News US in
data
29.11.2021;
m) sul legittimo affidamento rispetto ai
mutamenti giurisprudenziali:
m1) Cons. Stato, Ad. plen.,
22.12.2017, n. 13, in Urbanistica e
appalti, 2018,
373, con nota di FOLLIERI; Riv. giur. urbanistica, 2018, 123, con nota di
ROSSA; Rass. avv. Stato, 2018, 1, 134, con nota di VITULLO, MUCCIO; Dir.
proc. amm., 2018, 1133, con nota di CASSATELLA; Riv. giur. edilizia, 2018,
I,
1022, con nota di APERIO BELLA; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 1022, n.
APERIO
BELLA, PAGLIAROLI; oggetto della
News US in data 08.01.2018;
m2) Cass. civ, sez. un., 11.07.2011, n. 15144, in Guida al dir., 2011,
32, 38, con
nota di SACCHETTINI; Corriere giur., 2011, 1392, con nota di CAVALLA,
CONSOLO, DE CRISTOFARO; Riv. dir. proc., 2012, 1072, con nota di
VANZ; Giusto processo civ., 2011, 1117, con nota di AULETTA; Rass. avv.
Stato, 2012, 2, 125, con nota di MELONCELLI; Giur. cost., 2012, 3153, con
nota di CONSOLO;
n) sulla tutela del legittimo affidamento nel diritto UE, in particolare:
n1) sul legittimo affidamento quale principio UE: Corte di giustizia CE, 03.05.1978, C-112/77, Topfer;
n2) sullo specifico rapporto tra certezza del diritto e difficoltà
interpretative del
dato normativo, Corte di giustizia CE, 17.07.1997, C-354/95, The Queen;
n3) con particolare riferimento alla certezza del diritto nella
trasposizione delle
direttive, Corte di giustizia CE, 25.07.1991, C-208/90, Emmott;
n4) sulla chiarezza e precisione della disciplina che impone obblighi a
carico del
contribuente, Corte di giustizia CE, 09.07.1981, C-169/80, Ammin. dogane
Francia, in Foro pad., 1981, IV, 25;
n5) sui caratteri della chiarezza e della prevedibilità delle norme UE per
gli
amministrati, Corte di giustizia CE, 12.11.1981, 212-217/80, in Foro
it., 1982, IV, 364, con nota di DANIELE;
n6) sulla certezza del diritto e legittimo affidamento nella modulazione
degli
effetti temporali della sentenza della Corte di giustizia: tra le più
significative, quantunque risalente, cfr. Corte di giustizia CE, 26.04.1988
C-97/86, C-193/86, C-199/86 e C-215/86, Asteris;
n7) sulla tutela dell’affidamento e ius poenitendi: Corte di giustizia CE,
12.07.1962, C-14/61, Hoogovens; 01.06.1961, C-15/60, Gabriel Simon; 12.07.1957, C-7/56, C-7/57, Algera;
n8) sulla tutela dell’affidamento quando un operatore economico sia in grado
di prevedere un provvedimento a sé sfavorevole: Corte di giustizia CE, sez.
I, 14.10.2010, C-67/09, Nuova Agricast Srl e Cofra Srl, in Foro it.,
2013, IV,
313, con nota di GRASSO;
n9) in materia di concorsi, cfr. Corte di giustizia UE grande sezione, 27.11.2012, C-566/10P, Repubblica italiana contro Commissione, in Foro it.,
2013, IV, 63, con nota di GRASSO (l’Autore ha evidenziato che in quel
caso “la decisione dispiegherà i suoi effetti soltanto come precedente
giacché, nel
caso concreto, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati
prescelti,
la Corte di giustizia ha ritenuto opportuno non rimettere in discussione i
risultati
dei concorsi espletati. In precedenza, la Corte di giustizia […] aveva
affermato che
qualora una prova di un concorso generale bandito per la costituzione di una
riserva
di assunzioni venga annullata, i diritti di un ricorrente che non ha
superato tale
prova sono adeguatamente tutelati se la commissione giudicatrice e
l’autorità che ha il potere di nomina riesaminano le loro decisioni e
cercano una soluzione equa
per il suo caso senza che sia necessario modificare i risultati del concorso
nel loro
complesso o annullare le nomine effettuate in esito allo stesso; si tratta
infatti di
conciliare gli interessi dei candidati svantaggiati da un’irregolarità
commessa in
occasione di un concorso e gli interessi degli altri candidati”);
n10) in materia di scommesse,
Corte di giustizia UE, sez. I, 20.12.2017, C-322/16, Global Starnet (in Foro it., 2018, IV, 424, con nota di
FORTUNATO,
nonché oggetto della
News US in data 11.01.2018), con la quale la
Corte –tra l’altro– ha individuato le condizioni in presenza delle quali
il
legislatore può intervenire a modificare la disciplina di rapporti
concessori
in atto aventi ad oggetto giochi leciti;
n11) in tema di regolarità della concessione degli aiuti di stato:
I) con
specifico
riferimento agli aiuti finanziari alle banche,
Corte di giustizia UE, 03.12.2019, C-414/18, Iccrea Banca, in Giur. comm., 2021, II, 223, con
nota
di PIERINI, oggetto della
News US in data 09.01.2020;
II) Corte
giustizia
UE, 08.12.2011, C-81/10 P (in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2011,
1545),
secondo cui: “L'obbligo di notifica costituisce uno degli elementi
fondamentali nel
sistema di controllo istituito dal trattato nel settore degli aiuti di
stato” ed ancora
che: “tenuto conto del carattere imperativo del controllo sugli aiuti di
stato svolto
dalla commissione, le imprese beneficiarie di un aiuto possono, in linea di
principio
fare legittimo affidamento sulla regolarità dell'aiuto solamente qualora
quest'ultimo sia stato concesso nel rispetto della procedura prevista
dall'art. 88 Ce
e un operatore economico diligente deve di norma essere in grado di
accertarsi che
tale procedura sia stata rispettata; in particolare, quando un aiuto è stato
versato
senza previa notifica alla commissione, ed è pertanto illegittimo in forza
dell'art. 88
n. 3, Ce, il beneficiario dell'aiuto non può riporre, a quel punto nessun
legittimo
affidamento sulla regolarità della concessione dello stesso”;
n12) in tema di prelievo supplementare-quote latte,
Corte di giustizia UE,
sez. II,
11.09.2019, C-46/18, Caseificio Sociale San Rocco Soc. coop. a r.l.,
in Riv.
corte conti, 2019, 5, 221 e oggetto della
News US in data 15.10.2019;
Corte di giustizia CE, 25.03.2004, n. 495/00;
n13) in tema di appalti pubblici:
Corte di giustizia UE, sez. IX, 02.05.2019, C 309/18, Lavorgna s.r.l. (in Riv. corte conti, 2019, 3, 213, con nota
di
MARZANO; Nuovo notiziario giur., 2019, 539, con nota di SARZOTTI; Riv.
trim. appalti, 2019, 1473, con nota di COZZIO; Riv. it. dir. lav., 2019, II,
678,
con nota di MACCHIONE, oggetto della
News US n. 56 del 13.05.2019) secondo cui “I principi della certezza del diritto, della parità di
trattamento
e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE […], devono
essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella
oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione
separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata
nell’ambito
di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta
l’esclusione
della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche
nell’ipotesi in
cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse
specificato nella
documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale
possibilità di
esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa
alle
procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta
documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli
offerenti di
indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di
trasparenza
e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non
ostano alla
possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di
ottemperare
agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine
stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice”;
o) sulla posizione giuridica di chi entri in
relazione con l’Amministrazione pubblica,
attraverso un rapporto procedimentalizzato: Cons. Stato, sez. IV,
ordinanza
11.05.2021, n. 3701, oggetto della
News US in data 28.05.2021, secondo
cui:
o1) “non può essere sottovalutata la natura tipicamente relazionale
dell’interesse
legittimo pretensivo, e cioè della posizione (che come l’interesse legittimo
oppositivo
o difensivo) correlativa all’esercizio pur illegittimo del pubblico potere”;
o2) “l’interesse legittimo pretensivo esprime, ad un tempo, sia l’interesse
sostanziale
rappresentato dalla pretesa ad ottenere un ‘bene della vita’, sia
l’interesse
procedimentale per cui il provvedimento finale sia emanato seguendo il
procedimento previsto dalla legge”;
o3) “Non si tratta di un mero interesse ‘occasionalmente protetto’
(adoperando una
espressione tipica degli albori della giustizia amministrativa), cioè
protetto per il
tramite della tutela primaria della legalità amministrativa, bensì di una
situazione
giuridica immediata, diretta, concreta e personale del privato”;
o4) “Può risultare dunque artificioso il sovrapporre a una tale posizione
giuridica
soggettiva –riferibile ad un rapporto di diritto pubblico tra il
richiedente e
l’Amministrazione- una diversa situazione sostanziale (da richiamare per
individuare una ‘diversa’ giurisdizione), basata sul principio del neminem
laedere (il cui ambito di efficacia prescinde dalla esistenza di un
preesistente
rapporto tra danneggiante e danneggiato) o anche su un ‘contatto sociale’”;
o5) “In quest’ottica prospettica, per considerazioni sistematiche la Sezione
ritiene che
l’interesse pretensivo risulta di per sé leso quando l’Amministrazione emana
il
diniego avente natura autoritativa, ovvero resta inerte (risultando illogico
e in contrasto con la legge n. 241 del 1990 il ritenere che nel corso del
procedimento
l’inerzia dell’attività amministrativa –disciplinata dalle leggi
amministrative
sostanziali e processuali– sia definibile come un comportamento sottoposto
al
diritto privato)”;
o6) l’interesse pretensivo:
I) costituisce il presupposto logico-giuridico
del
diritto che poi vanta il richiedente, qualora in accoglimento della istanza
vi
sia il rilascio di un permesso, di una concessione, di una licenza o di un
altro
atto abilitativo ‘comunque denominato’;
II) ridiventa configurabile,
allorquando l’Amministrazione in sede di autotutela o il giudice in sede
giurisdizionale abbia annullato l’atto abilitativo, estinguendo di
conseguenza quel diritto di per sé configurabile solo quando l’atto
abilitativo favorevole risulti ancora efficace;
o7) in altri termini:
I) “quando è annullato (in sede amministrativa o
giurisdizionale)
il provvedimento favorevole, il più delle volte l’istanza originaria del
richiedente
non può che risultare infondata e va respinta”;
II) “nella prassi, quando
l’Amministrazione dapprima accoglie una istanza e poi annulla il titolo
abilitativo
perché risultato illegittimo, il secondo provvedimento comporta –anche se
ciò non
è esplicitato expressis verbis– il rigetto della istanza medesima”;
III)
“lo stesso
avviene in sostanza quando sia rilasciato un atto abilitativo (ad esempio,
un
permesso di costruire) e questo sia annullato dal giudice amministrativo su
istanza
di chi vi abbia interesse”;
IV) “In tal caso, nella prassi l’annullamento
dell’espresso
titolo abilitativo da parte del giudice amministrativo, in accoglimento del
ricorso di
chi vi abbia interesse, non sempre è seguito da un formale ed espresso
ulteriore
provvedimento negativo, di rigetto della originaria istanza”;
V) “Infatti, a
seconda
dei casi, l’annullamento del titolo abilitativo da parte del giudice può
comportare
sia la rinnovazione del procedimento e il rilascio di un ulteriore titolo abilitativo (se
ne sussistono tutti i presupposti), oppure la sostanziale fine della
vicenda, perché
dalla sentenza del giudice amministrativo si desume che il vizio dell’atto
abilitativo
è di per sé è insanabile, pur se un formale diniego non è emanato dopo la
sentenza
di annullamento”;
VI) “Ciò che rileva, sul piano sostanziale, è il fatto che
–con
l’annullamento dell’atto abilitativo– non sussiste più il diritto in
precedenza sorto
e torna ad esservi un interesse pretensivo che però non può più essere
soddisfatto,
quando un tale esito sia desumibile dalla sentenza del giudice
amministrativo (di
cui può anche prendere atto un ulteriore provvedimento, questa volta
negativo,
conseguente all’annullamento dell’atto abilitativo precedente)”;
o8) “Allorquando sia stato annullato l’atto abilitativo e dunque non sia più
configurabile il diritto ad esso conseguente, l’originario richiedente torna
ad essere
titolare di un interesse legittimo”;
o9) “in fondo, si tratta del ripristino della dinamica delle posizioni
giuridiche […]: il
ricorrente ed il controinteressato, beneficiario in quanto tale dell’atto abilitativo
impugnato, sono titolari di contrapposti interessi legittimi nel corso del
procedimento, sicché –una volta che la sentenza amministrativa abbia
annullato il
titolo abilitativo– il controinteressato non risulta più titolare del
diritto che era
sorto con l’atto ormai annullato”;
o10) “in altri termini, il controinteressato soccombente va qualificato come
titolare di
una posizione soggettiva contrapposta e speculare a quella del ricorrente
vittorioso,
in un quadro nel quale tra di loro e nei confronti dell’Amministrazione non
vi sono
diritti soggettivi da fare valere”;
o11) “qualora il controinteressato soccombente nel giudizio di legittimità
intenda
formulare una domanda risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione
anch’essa
soccombente, la relativa causa petendi riguarda proprio il come è stato in
precedenza esercitato il potere amministrativo e si deve verificare se il
vizio dell’atto
–oltre ad aver comportato il suo annullamento– deve avere conseguenze sul
piano
risarcitorio”;
p) sulla condotta della p.a. e
l’autodeterminazione dei privati: Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2018, n. 5, cit., secondo cui “Posto che anche nello svolgimento
dell'attività
autoritativa l'amministrazione è tenuta a rispettare, oltre alle norme di
diritto pubblico, le
norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e
correttezza, la
loro violazione può configurare una responsabilità da comportamento
scorretto, che incide
sul diritto soggettivo dei privati di autodeterminarsi liberamente nei
rapporti negoziali”;
q) sulla responsabilità della pubblica
amministrazione e onere della prova:
q1) sulla pretesa risarcitoria dell’imprenditore fondata sulla lesione
dell’affidamento riposto nella condotta della p.a. che si assume difforme
dai
canoni di correttezza e buona fede: Cass. civ., 15.01.2021, n. 615,
in Giur. it., 2021, 1147, con nota di DE MARCO, secondo cui “la
responsabilità
della p.a. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della
violazione
dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione
amministrativa
sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato
che con
questa sia entrato in relazione), inquadrabile nella responsabilità di tipo
contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da
«contatto
sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex
art. 1173
c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e
dal successivo
annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui
nessun
provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia
riposto
il proprio affidamento in un mero comportamento dell'amministrazione”;
q2) Cons. Stato, Ad. plen.,
23.04.2021, n. 7, in Foro it., 2021, III,
394, con nota
di PALMIERI A., PARDOLESI R., oggetto della
News US in data 13.05.2021 la quale ha evidenziato che la responsabilità della pubblica
amministrazione per lesione di interessi legittimi ha natura di fatto
illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale.
La
Plenaria ha precisato che anche in caso di danno da ritardo è necessario che
sia provato “sia il danno-evento (la lesione della libertà di
autodeterminazione
negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle
scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di
causalità
rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione”.
La
sentenza,
inoltre, ha ribadito che il danno da ritardo nella conclusione del
procedimento amministrativo, costituendo una speciale ipotesi di
responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., richiede, ai sensi dell'art.
2697 c.c.,
la prova da parte del danneggiato di tutti gli elementi costitutivi della
relativa domanda, quali: la condotta della pubblica amministrazione,
l'elemento psicologico, il danno e il nesso causale tra detta condotta e il
danno;
q3) con particolare riferimento alla responsabilità risarcitoria nel
rapporto tra
norme di azione e norme di relazione: Cass. civ., sez. I, 05.02.2021,
n.
2738, in Foro it., 2021, I, 2452, con nota di MACARIO F.
La sentenza ha
evidenziato come una cosa sia la denuncia dell’illegittimità dell’azione
amministrativa, altra cosa la denuncia della lesione dell'affidamento del
privato nella legittimità di provvedimenti amministrativi ampliativi
successivamente annullati o nella mancata adozione di provvedimenti
anche ampliativi nei casi in cui il petitum sostanziale consista nella
violazione dei canoni della correttezza e buona fede da parte della pubblica
amministrazione. In queste ultime ipotesi, la tutela risarcitoria non è,
infatti,
proposta come rimedio della illegittimità (accertata o da accertare)
dell'azione amministrativa o come completamento di una inesistente tutela
demolitoria di provvedimenti amministrativi illegittimi sotto il profilo
della
violazione delle norme di azione.
“Il trade union di tale (condivisibile)
orientamento è dato dal fatto che in quei casi non è denunciata (o non è
chiesto di
dichiarare) la illegittimità di provvedimenti amministrativi, manifestandosi
una
acquiescenza del privato all'assetto di interessi dagli stessi provvedimenti
determinato (con il consolidamento del provvedimento diminutivo o del
provvedimento di annullamento o revoca di quello ampliativo di determinate
facoltà). Ad essere contestata è, piuttosto, la verifica della liceità del
comportamento
della pubblica amministrazione, evocata in giudizio dal privato su un piano
paritetico, dunque dinanzi al giudice ordinario, essendo controverso il
rispetto delle
norme di relazione (buona fede e correttezza, lesione ingiustificata
dell'affidamento,
proporzionalità, ecc.) che prescindono dal e soverchiano il rispetto formale
delle
norme di azione postulanti la tutela dell'interesse legittimo”;
q4) in tema di affidamento di contratti pubblici: Corte di giustizia UE, 30.09.2010, C-314/09, Graz Stadt (in Urbanistica e appalti, 2011, 398,
con
nota di GIOVAGNOLI; Giur. it., 2011, 664 (m), con nota di CIMINI; Riv.
amm. appalti, 2010, 188 (m), con nota di TOMASSI; Dir. e pratica amm., 2011,
1, 52 (m), con nota di CONTESSA; Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 3014 (m), con
nota di FELIZIANI);
q5) sulla responsabilità della p.a. discendente da attività provvedimentale
posta in essere sulla base di norma dichiarata incostituzionale: Tar per
la
Sicilia, sez. st. Catania, sez. I, 30.07.2021, n. 2582;
q6) sui comportamenti della pubblica amministrazione, anche successivi al
bando, lesivi dei principî di buona fede e correttezza, responsabilità
precontrattuale e teoria del contatto sociale qualificato: Cons. Stato, Ad.
plen., 04.05.2018, n. 5, cit.;
q7) sul rapporto fra invalidità dell’atto, colpa d’apparato e scusabilità
dell’errore della p.a.
I) Cons. Stato, Ad. plen., 29.11.2021, n. 19, cit.,
(in termini anche la sentenza 29.11.2021, n. 20, resa all’esito di
deferimento disposto con ordinanza Cons. Stato, sez. IV,
11.05.2021, n.
3701, cit.), secondo cui “il grado della colpa dell’amministrazione, e
dunque la
misura in cui l’operato di questa è rimproverabile, rileva sotto il profilo
della
riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il
provvedimento.
Al riguardo va ricordato che nel giudizio di annullamento la colpa
dell’amministrazione è elemento costitutivo della responsabilità
dell’amministrazione nei confronti delricorrente che agisce contro il
provvedimento
a sé sfavorevole, sebbene essa sia presuntivamente correlata
all’illegittimità del
provvedimento, per cui spetta all’amministrazione dare la prova contraria
dell’errore scusabile. Sulla base di questa presunzione, per il danno da
lesione
dell’affidamento da provvedimento favorevole, poi annullato, la colpa
dell’amministrazione è invece un elemento che ha rilievo nella misura in cui
rende
manifesta l’illegittimità del provvedimento favorevole al suo destinatario,
e
consenta di ritenere che egli ne potesse pertanto essere consapevole”;
II)
Cons.
Stato, sez. IV, 15.03.2021, n. 2193, secondo cui la “colpa
amministrativa”
è “da intendersi, per giurisprudenza consolidata […], come «colpa
d'apparato»,
ossia come frontale, macroscopica ed inescusabile violazione, da parte
dell'Autorità,
dei canoni di imparzialità, correttezza e buona fede che debbono sempre
conformarne l'azione”;
III) 17.04.2018, n. 2271, secondo cui ‒ “La
responsabilità civile della Pubblica Amministrazione derivante da un
provvedimento illegittimo è […] di natura extra contrattuale e non
oggettiva, e non
può prescindere dall'accertamento della colpevolezza”;
‒ “In presenza di atti illegittimi la colpa in astratto si potrebbe
presumere,
integrando l'accertamento dell'illegittimità, ai sensi degli artt. 2727 e
2729, comma
1, c.c., una forma di presunzione semplice in ordine alla sua sussistenza in
capo
all'Amministrazione […], tuttavia anch'essa superabile da prova contraria”;
IV)
con specifico riferimento all’ipotesi di eccessiva durata di un concorso, 02.10.2017, n. 4570, secondo cui “una procedura concorsuale concernente il
reclutamento di oltre mille dirigenti non può avere articolazione temporale
breve, e
non è affatto dimostrato che, nel caso specifico, l'Amministrazione abbia
travalicato
i tempi congrui a essa relativi, ossia quei limiti di ragionevolezza, da
rapportare alla
complessità della selezione anche in ragione del numero dei candidati che la
stessa
giurisprudenza della Suprema Corte invocata dagli appellanti […] richiama
quale
limite alla tutela risarcitoria, sotto il profilo dell'imputabilità
soggettiva del
danno”;
V) 18.07.2017, n. 3520, secondo cui “L'azione risarcitoria
innanzi
al giudice amministrativo non è […] retta dal principio dispositivo con
metodo
acquisitivo, tipica del processo impugnatorio, bensì dal generale principio
dell'onere
della prova ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., per cui sul ricorrente gravava
l'onere di
dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti della domanda al fine di
ottenere il
riconoscimento di una responsabilità dell'Amministrazione per danni
derivanti
dall'illegittimo svolgimento dell'attività amministrativa di stampo autoritativo, da
ricondurre al modello della responsabilità per fatto illecito delineata
dall'art. 2043
c.c., donde la necessità di verificare, con onere della prova a carico del
(presunto)
danneggiato, gli elementi costitutivi della fattispecie aquiliana, compreso
il nesso di
causalità tra il fatto illecito ed il danno subito”;
q8) sulla responsabilità precontrattuale della p.a., su un piano generale:
I) un
originario orientamento (Cass. civ., sez. un., 05.08.1993, n. 9892,
in Corriere giur., 1994, 208, con nota di BATÀ; Resp. civ., 1994, 437, con
nota
di SBURLATI), escludeva la configurabilità dell responsabilità
precontrattuale in capo alla p.a. sul rilievo che essa “non è configurabile
con
riguardo allo svolgimento del procedimento amministrativo strumentale alla
scelta
del contraente, nell'ambito del quale l'aspirante alla stipulazione del
contratto è
titolare esclusivamente di un interesse legittimo al corretto esercizio del
potere di
scelta, onde difettano le condizioni strutturali per la configurabilità di
«trattative»
fra due soggetti e quindi di un diritto soggettivo dell'uno verso l'altro
all'osservanza delle regole della buona fede, come stabilito dalla citata
norma”;
II)
tale impostazione è stata superata per effetto della “scissione del
procedimento
in una fase negoziale e in una fase amministrativa” (V. LOPILATO, Manuale di
diritto amministrativo, Torino, 2021, I, 1379), sicché diviene rilevante il
momento di rilevanza della buona fede: un primo orientamento stabilisce
che “Per configurare responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione aggiudicatrice occorre che la gara sia giunta ad uno stadio
tale da
avere ingenerato nel concorrente un affidamento consolidato in ordine alla
favorevole conclusione della procedura” (Cons. Stato, sez. V, 14.04.2015, n.
1864, in Foro it., 2015, III, 613, con nota di GALLI;
III) un secondo
orientamento ritiene che la buona fede operi con l’esternazione dell’invito
ad offrire (Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15260, in Foro it., 2015,
I, 643, n.
GALLI);
IV) al secondo orientamento ha aderito la Plenaria con sentenza n.
5 del 2018, cit.;
q9) quanto ai presupposti e sull’(in)efficacia delle clausole che escludono
la
responsabilità precontrattuale, Cons. Stato, sez. IV, 16.05.2018, n.
2907;
q10) quanto alla tutela della p.a. nei confronti del privato e perimetro
della
giurisdizione esclusiva in materia di accordi: Cons. Stato, sez. III, n.
3755
(in Guida al dir., 2016, 40, 84, con nota di MEZZACAPO; Dir. proc. amm.,
2017, 677, con nota di ROMANI); Corte cost., 15.07.2016, n. 179, in Foro
it., 2016, I, 3047, con nota di TRAVI;
q11) sulla responsabilità da mancata regolarizzazione contabile, a
posteriori, di
lavori disposti in via d’urgenza da un ente locale: Corte cost., ordinanza 06.02.2001, n. 26, in Finanza loc., 2001, 711, con nota di OLIVERI;
q12) sulla responsabilità precontrattuale da revoca della procedura di gara
per
difficoltà finanziarie: Cons. Stato, sez. V, 13.07.2020, n. 4514 la
quale ha,
tra l’altro, evidenziato che “Poiché il danno risarcibile per responsabilità
precontrattuale -nella prospettiva non sanzionatoria, ma soltanto
ripristinatoria,
che connota tutto il sistema vigente della responsabilità civile- è
commisurato al
pregiudizio (sub specie di lesione del c.d. interesse negativo)
effettivamente sofferto
dalla parte contraente, la sua liquidazione non cambia a seconda della
tipologia o
della gravità della condotta contraria a buona fede ascritta alla pubblica
amministrazione”;
q13) sulla responsabilità della p.a. in ipotesi di importo dell’appalto
calcolato in
violazione del prezziario di riferimento: Cons. Stato, sez. V, 05.07.2021, n.
5107, secondo cui “Ammesso pure che la stazione appaltante abbia indicato
negli
atti di gara un prezzo a base d'asta non remunerativo dell'attività
prestata, non è
certo incolpevole l'operatore economico che abbia partecipato alla gara con
un'offerta al ribasso di detto prezzo. Questi, infatti, è tenuto ad un
dovere di correttezza e serietà non meno di quanto sia tenuta
l'amministrazione e, dunque, a
formulare la sua offerta in maniera consapevole e meditata; e quindi, prima
di
dichiarare il ribasso offerto, ad esaminare se le condizioni imposte
dall'amministrazione consentano la effettiva remunerazione dell'attività
svolta”;
q14) sulla responsabilità della p.a. in caso di project financing: Cons.
Stato, sez. V,
11.01.2021, n. 368 (in Gazzetta forense, 2021, 149);
q15) sulla responsabilità della p.a. in caso di tardivo ritiro di un bando
in
autotutela quando l'amministrazione era già da tempo a conoscenza
dell'ineseguibilità dell'opera, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 23.11.2020, n. 1092; Cons. Stato, sez. II, 20.11.2020, n. 7237
(in Contratti Stato e enti pubbl., 2021, 1, 51, con nota di TREVISAN; Giur.
it.,
2021, 921 (m), con nota di BARBERA);
q16) sulla responsabilità discendente dall’indizione di una gara di un
progetto
esecutivo di ristrutturazione di un'opera pubblica, rivelatosi, al momento
dell'avvio del cantiere, ineseguibile: Cons. Stato, sez. V, 23.12.2019,
n. 8731;
q17) sulla responsabilità precontrattuale in conseguenza di un annullamento
in
autotutela di concorso: Cass. civ., sez. lav., 20.08.2019, n. 21528,
secondo
cui “l'eventuale responsabilità della P.A. per l'accaduto non ha natura
contrattuale, […] trattandosi semmai di una tipica fattispecie di
responsabilità
precontrattuale (e dunque extracontrattuale) ex art. 1338 c.c., per avere la
P.A.,
attraverso l'indizione di un concorso illegittimo e la successiva stipula in
base ad
esso di un contratto di lavoro nullo, leso l'affidamento altrui. Non ha
dunque alcun
fondamento la pretesa che dalla mancata esecuzione del contratto derivi di
per sé,
ex art, 1218 c.c., il diritto […] al risarcimento del danno in misura pari
alle
retribuzioni perdute, spettando viceversa al medesimo, secondo le regole
proprie
della responsabilità extracontrattuale di cui quella precontrattuale
costituisce
specie […] dimostrare l'esistenza di danni, non estesi al c.d. interesse
positivo
all'adempimento contrattuale […] causalmente riconducibili al comportamento
altrui”;
r) sul procedimento amministrativo quale luogo
elettivo di composizione degli
interessi:
Corte cost., 23.06.2020, n. 116 (in Foro it., 2020, I, 3715,
con nota di
D'AURIA G., DELLA VALLE, oggetto della
News US in data 23.07.2020),
secondo cui:
r1) “è nella sede procedimentale che può e deve avvenire la valutazione
sincronica degli
interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con
l'interesse del
soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con
ulteriori
interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano
nei principî
costituzionali la loro previsione e tutela”;
r2) “la struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili
l'emersione
di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e
la
trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei principî di cui
all'art. 1 l. 07.08.1990 n. 241: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza”;
r3) “viene in tal modo garantita, in primo luogo, l'imparzialità della
scelta, alla stregua
dell'art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed
efficace,
dell'interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento
dell'amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.”;
s) in dottrina:
s1) per un’ampia ricostruzione
della responsabilità precontrattuale della p.a. e
sua evoluzione nel tempo, tra gli scritti più recenti, cfr. V.
LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2021, I, 1372 ss;
s2) sulla responsabilità dello
Stato e della p.a. con particolare riferimento agli
elementi costitutivi dell’illecito, con una lettura critica sull’assetto
della
giurisprudenza nazionale, L. TORCHIA, Diritto amministrativo progredito,
Bologna, 2010, 201 ss., secondo cui “Il principio di responsabilità dello
Stato vale
per qualsiasi violazione e per qualunque dei poteri pubblici che lo ponga in
essere.
Le condizioni della responsabilità sono tre. La prima: per dare luogo a
responsabilità
e a risarcimento, la norma che viene violata deve attribuire diritti […]. La
seconda:
nel caso in cui lo Stato eserciti un potere discrezionale, questa violazione
deve essere
manifesta e grave […], nella diversa ipotesi in cui eserciti un potere
vincolato, il
contenuto dei diritti violati deve poter essere individuato sulla base di
disposizioni
della direttiva […]. La terza: vi deve essere un nesso causale tra la
violazione
dell’obbligo incombente sullo Stato e il danno subito da soggetti lesi. […]
La
giurisprudenza comunitaria […] mentre applica la prima e la terza delle
condizioni
menzionate a qualsiasi attività dello Stato, distingue quando si tratta di
dimostrare
la presenza della seconda condizione, chiedendo che vi sia una violazione
sufficientemente caratterizzata, se lo Stato esercita un potere
discrezionale, la sola
violazione del contenuto di una direttiva, nel caso di potere vincolato. In
un caso la
prova è resa più difficile e la responsabilità ristretta, nell’altro vi è
automatismo tra
illegittimità del provvedimento e responsabilità. Il giudice italiano, non
tenendo
conto di questa distinzione cardine attorno a cui ruota il sistema della
responsabilità
comunitaria, prende a prestito quegli stessi elementi che definiscono la
violazione
grave e manifesta, li inserisce nella nozione di colpa oggettiva e li
applica tout court
all’attività amministrativa, tanto discrezionale, quanto vincolata, senza
fare
distinguo, se non in punto di maggiore o minore scusabilità.
Ne consegue che
l’onere probatorio gravante sul privato è maggiore se confrontato con quello
richiesto dal sistema comunitario o, comunque, che l’amministrazione potrà
sempre
addurre a scusanti questi elementi. La corrispondente limitazione di
responsabilità
riflette una diversa concezione del rapporto amministrazione-privato, in cui
la
tutela della posizione del privato non è strumentale al perseguimento di
obiettivi di
sistema e, dunque, rappresenta per l’amministrazione ancora una limitazione
al
proprio potere, più che un vantaggio necessario. La seconda differenza,
forse più
nominale che sostanziale, riguarda la colpa. La Corte di giustizia ha
espunto
completamente dalle condizioni necessarie a configurare la responsabilità la
colpa
dello Stato membro.
Quando, però, si parla di colpa, si intende «un elemento
soggettivo, se si preferisce psichico o psicologico, che caratterizza –in
senso appunto
colposo o negligente o comunque nel senso che tradizionalmente si
attribuisce
all’espressione colpa– la condotta del soggetto cui viene imputata la
violazione e
con essa la responsabilità [CGUE, C-46/93 e C48/93, Conclusioni
dell’avvocato
generale, punto 85]».
Le ragioni per l’esclusione di tale elemento risiedono
nella
difficoltà di individuare un comportamento colposo dei pubblici poteri in
base a
criteri simili che si usano per il diritto civile o penale. Ciò, però, che
viene escluso è,
quindi, la colpa in senso soggettivo, e cioè proprio quello che ha fatto la
giurisprudenza italiana, passando da una nozione soggettiva ad una oggettiva
di
colpa. Rimane che l’ordinamento italiano inutilmente mantiene un concetto
che
come bene dimostra l’esperienza comunitaria, proprio perché completamente
soggettivizzato diventa parte della definizione della violazione e non dello
stato
soggettivo dell’organo amministrativo”
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria,
sentenza 29.11.2021 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La
Plenaria interviene sulla giurisdizione del g.a. in caso di risarcimento da
annullamento provvedimentale e sui limiti della tutela risarcitoria.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sussiste la giurisdizione
amministrativa sulla domanda risarcitoria proposta dal controinteressato
soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica
amministrazione sia in sede di giurisdizione generale di legittimità quanto
nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva di merito.
La Plenaria interviene inoltre sul tema della responsabilità
dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel
destinatario di un provvedimento favorevole poi annullato in sede
giurisdizionale, evidenziando che la relativa tutela è esclusa in caso di
illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza
dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento.
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Giustizia amministrativa – Giurisdizione – Risarcimento danni da
provvedimento amministrativo favorevole annullato – Giurisdizione del
giudice amministrativo
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Responsabilità civile della P.A. – Annullamento giurisdizionale di un
provvedimento favorevole – Lesione dell’affidamento del contraente – Tutela
risarcitoria – Condizioni e limiti
L’Adunanza
plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
1) sussiste la giurisdizione amministrativa sulla domanda
risarcitoria proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di
annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione tanto in sede
di giurisdizione generale di legittimità, quanto nelle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (nella specie si verteva
in materia di urbanistica e edilizia ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett.
f), del codice del processo amministrativo) (1);
2) la responsabilità dell’amministrazione per lesione
dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento
favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sia insorto
un ragionevole convincimento sulla legittimità dell’atto, il quale è escluso
in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia
conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento (2).
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(1-2) I. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato ha formulato i principi di diritto di cui in massima
relativi alla estensione della giurisdizione del giudice amministrativo in
caso di domanda di risarcimento dei danni da annullamento di provvedimento
favorevole, nonché in ordine alle condizioni e ai limiti entro i quali può
riconoscersi tutela risarcitoria in caso di lesione dell’affidamento
ingenerato nel destinatario di un provvedimento favorevole della stessa
amministrazione.
Le questioni sono state deferite all’Adunanza plenaria da Cons. Stato, sez. IV,
11.05.2021, n. 3701 (oggetto della
News US, n. 50
del 28.05.2021).
II. – Il Collegio, dopo aver descritto i fatti processuali e la
vicenda sottesa, ha osservato
quanto segue:
a) nel riconoscere la giurisdizione del giudice
amministrativo sulla domanda
risarcitoria proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di
annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione, sia in sede di
giurisdizione generale di legittimità, quanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva
del giudice amministrativo:
a1) la giurisdizione amministrativa ha fondamento costituzionale nella
dicotomia diritti soggettivi–interessi legittimi: al giudice ordinario è
devoluta la giurisdizione sui diritti soggettivi e al giudice amministrativo
sugli interessi legittimi salve le materie di giurisdizione esclusiva;
a2) la Corte costituzionale (06.07.2004, n. 204 in Foro it., 2004, I,
594, con note
di BENINI, TRAVI, FRACCHIA; Corriere giur., 2004, 1167; Nuove autonomie,
2004, 545, con nota di TERESI; Urbanistica e appalti, 2004, 1031, con nota
di
CONTI; Fisco 1, 2004, 6080; Giornale dir. amm., 2004, 969, con note di
CLARICH POLICE, MATTARELLA, PAJNO; Bollettino trib., 2004, 1606, con
nota di VOGLINO; Urbanistica e appalti, 2004, 1275, con nota di
LOTTI; Funzione pubbl., 2004, fasc. 2, 271; Riv. giur. edilizia, 2004, I,
1211, con
nota di SANDULLI; Dir. proc. amm., 2004, 799, con note di CERULLI IRELLI,
VILLATA; Cons. Stato, 2004, II, 1357; Guida al dir., 2004, fasc. 29, 88, con
nota
di FORLENZA; Resp. civ., 2004, 1003, con nota di ANGELETTI; Giust. civ.,
2004, I, 2207, con note di SANDULLI, DELLE DONNE; Mondo bancario,
2004, fasc. 4, 65, con nota di SICLARI; Dir. e giustizia, 2004, fasc. 29,
16, con
note di ROSSETTI, MEDICI; Giur. it., 2004, 2255) ha al riguardo affermato
che la Costituzione “ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità
di
giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica
amministrazione, delle
situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso)
l’art. 2 della
legge del 1865; così come di questa legge ha, con quello che sarebbe
diventato l’art.
113 Cost., recepito il principio -«e fu per questo ritenuta una conquista
liberale di
grande importanza»– «per il quale, quando un diritto civile o politico viene
leso da
un atto della pubblica amministrazione, questo diritto si può far valere di
fronte
all’Autorità giudiziaria ordinaria, in modo chela pubblica amministrazione
davanti
ai giudici ordinari viene a trovarsi, in questi casi, come un qualsiasi
litigante
privato soggetto alla giurisdizione … principio fondamentale che è stato
completato
poi con l’istituzione delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato
... dell’unicità della giurisdizione nei confronti della pubblica
amministrazione»
(Calamandrei, Assemblea, seduta pomeridiana del 27.11.1947)”;
a3) la stessa Corte –dapprima con la sentenza 11.05.2006, n. 191 (in
Foro
it., 2006, I, 1625, con nota di TRAVI, DE MARZO; Foro it., 2006, I, 2277,
con
nota di MARZANO; Corriere giur., 2006, 922, con nota di MAJO; Corriere
merito, 2006, 948, con nota di MADDALENA; Giurisdiz. amm., 2006, III,
292; Urbanistica e appalti, 2006, 805, con nota di CONTI; Danno e resp.,
2006,
965, con nota di FABBRIZZI; Giust. civ., 2006, I, 1107; Giornale dir. amm.,
2006, 1095, con nota di BASSI; Ammin. it., 2006, 1241; Giur. it., 2006,
1729; Riv. giur. edilizia, 2006, I, 465; Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 1359,
con
nota di FERRERO, RISSO; Nuova rass., 2006, 2549; Riv. giur. edilizia, 2006,
I,
779, con nota di IUDICA; Guida al dir., 2006, fasc. 21, 62, con nota di
FORLENZA; Dir. proc. amm., 2006, 1005, con nota di MALINCONICO,
ALLENA; Dir. e giustizia, 2006, fasc. 24, 97, con nota di PROIETTI; Dir. e
pratica amm., 2006, fasc. 2, 58, con nota di PROIETTI) e, quindi, con la
sentenza 27.04.2007, n. 140 (in Foro it., 2008, I, 435, con nota di
VERDE; Foro amm.-Cons. Stato, 2007, 1109; Ammin. it., 2007, 910; Giornale
dir.
amm., 2007, 1167, con nota di BATTAGLIA; Giust. civ., 2007, I, 1815, con
nota
di FINOCCHIARO; Guida al dir., 2007, fasc. 23, 14, con nota di
FINOCCHIARO; Giur. costit., 2007, 1277)– ha precisato che la giurisdizione
non è devoluta al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda
proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno,
dal momento che il risarcimento non è oggetto di un diritto soggettivo, ma è
uno dei rimedi a tutela delle posizioni giuridiche soggettive riconosciuto
al singolo.
Il giudizio amministrativo assicura la tutela di ogni diritto in coerenza
con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost. e consente di
concentrare davanti a un unico giudice l’intera protezione del cittadino
avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica;
a4) l’art. 7 c.p.a. è espressione a livello normativo primario del descritto
assetto
e devolve al giudice amministrativo la giurisdizione nelle controversie
nelle
quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari
materie
indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il
mancato
esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti,
accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di
tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni;
b) nella dicotomia diritti soggettivi–interessi
legittimi si colloca anche
l’affidamento:
b1) il quale non è una posizione giuridica autonoma distinta dalle due, ma
può
riferirsi alternativamente ad esse;
b2) è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che
risponde
all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta
sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella
reale, da altri creata;
b3) del quale costituiscono espressione le seguenti disposizioni: la regola
possesso vale titolo di cui all’art. 1153 c.c.; l’acquisto dell’erede
apparente
di cui all’art. 534 c.c.; il pagamento al creditore apparente di cui
all’art. 1189
c.c.; l’acquisto dei diritti dal titolare apparente ai sensi degli artt.
1415 e 1416
c.c. in tema di simulazione;
b4) oggi l’istituto ha assunto il ruolo di principio regolatore di ogni
rapporto
giuridico, anche di quelli di diritto amministrativo. Nella giurisprudenza
amministrativa si osserva che opera in presenza di una attività della
pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al
mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale
attività;
c) la giurisdizione amministrativa va affermata
quando l’affidamento abbia ad
oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di
un atto di
esercizio di un potere pubblico, specie quanto questo afferisca ad una
materia di
giurisdizione esclusiva:
c1) “La giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo perché la
“fiducia” su cui
riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente
lesa, si
riferisce non già ad un comportamento privato o materiale -a un “mero
comportamento”- ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale
l’amministrazione
è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al
quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la
consistenza di
interesse legittimo”;
c2) la giurisdizione è del giudice amministrativo perché anche quando il
comportamento non si è manifestato in atti amministrativi, nondimeno
l’operato dell’amministrazione costituisce comunque espressione dei poteri
ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico
devolute alla sua cura. Tale operato è riferibile all’amministrazione che
agisce in veste di autorità e si iscrive pertanto nella dinamica potere
autoritativo–interesse legittimo, il cui giudice naturale è, per
Costituzione,
il giudice amministrativo;
c3) tale conclusione vale sia “che si verta dell’interesse del soggetto leso
dal
provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il
risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade)
cumulativamente
all’annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo
all’interesse
del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest’ultimo,
infatti, vanta nei confronti dell’amministrazione un legittimo interesse
alla sua
conservazione, non solo rispetto all’azione giurisdizionale del ricorrente,
ma anche
rispetto al potere di autotutela dell’amministrazione stessa”;
c4) non sembra quindi condivisibile interporre nel rapporto amministrativo
costituito dal provvedimento un diritto soggettivo, avente ad oggetto
l’affidamento alla stabilità del provvedimento medesimo, quale
presupposto sostanziale della giurisdizione amministrativa, in quanto
“Attraverso la stabilità del provvedimento e del rapporto con esso
costituito il
privato beneficiario conserva l’utilità attribuitagli, che nella misura in
cui è
correlata ad un pubblico potere è e rimane oggetto di un interesse legittimo
(da
pretensivo a oppositivo, secondo la terminologia invalsa al riguardo)”;
c5) non può quindi essere seguita l’impostazione secondo cui quando il
potere
amministrativo non si è manifestato in un provvedimento tipico, ma è
rimasto a livello di comportamento la giurisdizione sarebbe devoluta al
giudice ordinario, che è invece ipotizzabile solo per comportamenti “meri”,
non riconducibili al pubblico potere;
c6) una conferma normativa di tali argomentazioni si può ricavare dall’art.
1,
comma 2-bis, della l. 07.08.1990, n. 241, ai sensi del quale i “rapporti
tra il
cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della
collaborazione e della buona fede” (comma aggiunto dall’art. 12, comma 1,
lettera 0a), legge 11.09.2020, n. 120; di conversione, con
modificazioni, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76);
c7) non è quindi possibile, nel definire il riparto di giurisdizione,
circoscrivere
la rilevanza dei doveri in esame al diritto comune, dal momento che gli
stessi sono invece comuni al diritto civile e al diritto amministrativo,
ossia
ai rapporti paritetici di diritto soggettivo così come a quelli originati
dall’esistenza e dall’esercizio in concreto del pubblico potere.
La mancata
osservanza del dovere di correttezza da parte dell’amministrazione in
violazione dei principi di affidamento può determinare una lesione della
situazione giuridica soggettiva del privato che afferisce pur sempre
all’esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento
tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell’esercizio di quel
potere e la cui natura resta qualificata dall’inerenza al pubblico potere.
“Si
tratta, quindi, di aspettative correlate ad «interessi legittimi (…)
concernenti
l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» ai sensi
dell’art. 7,
comma 1, cod. proc. amm. sopra citato, la cui lesione rimane devoluta al
giudice
amministrativo. Come infatti testualmente previsto dalla disposizione in
parola, la
giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo non solo nel caso in cui
il potere
sia stato esercitato, ma anche nel caso contrario di mancato esercizio. Non
è
conseguentemente possibile scindere sul piano del riparto giurisdizionale le
due
ipotesi, che peraltro possono in astratto dare luogo a profili diversi di
addebito sul
piano diacronico (per il fatto ad esempio di avere esercitato il potere
tardivamente e
di averlo poi esercitato illegittimamente), la cui cognizione va concentrata
presso
un unico giudice, ovvero quello amministrativo, quale giudice naturale della
funzione amministrativa”;
c8) tali principi trovano conferma nei precedenti della giurisprudenza
amministrativa in tema di responsabilità precontrattuale proposta
dall’aggiudicataria di una procedura di affidamento nei confronti
dell’amministrazione per revoca legittima della gara. In tali precedenti si
è
chiarito che le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza
operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti
amministrativi
e l’altro fonte di responsabilità per l’amministrazione. “Oltre che
distinti, i
profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità,
nella misura
in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che
l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti
dal
privato destinatario degli stessi, anche per violazione degli connessi
obblighi di
protezione inerenti al procedimento”;
c9) nell’autonomia dei due ordini di regole operanti con riguardo
all’esercizio
della funzione pubblica –validità degli atti e comportamento complessivo
dell’amministrazione– si colloca l’affidamento del privato, il quale si
proietta sulla positiva conclusione del procedimento e, dunque,
sull’attuazione dell’interesse legittimo di cui il medesimo privato è
portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se
l’amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una
ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento, a
prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto e anche se si
accertasse in positivo che non era dovuto;
c10) è devoluta quindi alla giurisdizione del giudice amministrativo la
cognizione sulle controversie in cui si faccia questione di danni da lesione
dell’affidamento sul provvedimento favorevole;
c11) il possibile contrasto del principio di diritto con l’orientamento
prevalente
della giurisprudenza di legittimità potrà essere vagliato in sede di
eventuale
impugnazione ai sensi dell’art. 111 Cost.;
d) con riferimento ai limiti entro i quali è
ravvisabile un affidamento incolpevole del
privato sulla legittimità del provvedimento favorevole poi annullato in sede
giurisdizionale:
d1) l’affidamento tutelabile deve essere ragionevole e, quindi, incolpevole;
d2) esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita
dall’amministrazione con il provvedimento o con il suo comportamento
correlato al pubblico potere e in cui il privato abbia senza colpa
confidato.
“La tutela risarcitoria non interviene quindi a compensare il bene della
vita perso a
causa dell’annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è
accertato
non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento
ragionevole che esso spettasse”;
d3) in tale prospettiva, il grado della colpa dell’amministrazione –da
intendersi
come la misura in cui l’operato di questa è rimproverabile– rileva sotto il
profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere
affetto il provvedimento; “per il danno da lesione dell’affidamento da
provvedimento favorevole, poi annullato, la colpa dell’amministrazione è
invece un
elemento che ha rilievo nella misura in cui rende manifesta l’illegittimità
del
provvedimento favorevole al suo destinatario, e consenta di ritenere che
egli ne
potesse pertanto essere consapevole”;
d4) la tutela dell’affidamento si fonda sui principi di correttezza e buona
fede
che regolano l’esercizio del pubblico potere, ma anche la posizione del
privato, con la conseguenza che tale tutela postula che l’aspettativa sul
risultato utile o sulla conservazione dell’utilità ottenuta sia sorretta da
circostanze che obiettivamente la giustifichino;
d5) un affidamento incolpevole non è predicabile innanzitutto nel caso
estremo
in cui sia il privato ad avere indotto dolosamente l’amministrazione ad
emanare il provvedimento o, ancora, nelle ipotesi in cui l’illegittimità del
provvedimento era evidente e avrebbe pertanto potuto essere facilmente
accertata dal suo beneficiario, in conformità a una regola di carattere
generale, espressamente richiamata in ambito civilistico dall’art. 1147,
comma 2, c.c., secondo cui la buona fede non giova se l’ignoranza dipende
da colpa grave;
d6) l’atteggiamento psicologico
del privato, pertanto, può essere considerato
come fattore escludente del risarcimento solo in tali ipotesi e non
ogniqualvolta vi sia un contributo del privato nell’emanazione dell’atto. In
sostanza non ogni apporto del privato all’emanazione dell’atto può
condurre a configurare, automaticamente, una colpa in grado di escludere
un affidamento tutelabile sulla sua legittimità; si giungerebbe altrimenti a
negare sempre la tutela risarcitoria, tenuto conto che i provvedimenti
amministrativi favorevoli, ampliativi della sfera giuridica del
destinatario,
sono sempre emessi a iniziativa di quest’ultimo;
d7) il privato, sebbene possa
attivare il procedimento amministrativo e fornire
ogni apporto utile alla sua conclusione in senso per sé favorevole, persegue
il proprio esclusivo interesse di realizzare il proprio utile; è, invece,
sempre
l’amministrazione che rimane titolare della cura dell’interesse pubblico e
che è dunque tenuta a darvi piena attuazione, se del caso sacrificando
l’interesse privato;
d8) “con riguardo a gradi della colpa inferiore a quello «grave», non
possono nemmeno
essere trascurati i caratteri di specialità del diritto amministrativo
rispetto al diritto
comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di
annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal
fatto che il
beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo
giudizio.
Con l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è quindi posto
nelle
condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé
favorevole,
per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza
entro cui,
ai sensi dell’art. 29 cod. proc. amm., l’azione deve essere proposta, e di
difenderlo.
La situazione che viene così a crearsi induce, per un verso, ad escludere un
affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per
effetto
dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui
il
destinatario non può non tenere conto ed addirittura da lui avversata
allorché deve
resistere all’altrui ricorso; per altro verso, porta ad ipotizzare un
affidamento
tutelabile solo prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio”;
d9) non ha carattere esimente il fatto che l’amministrazione abbia tutelato
la
posizione del beneficiario dell’atto nei confronti delle iniziative del
ricorrente vittorioso nel giudizio di annullamento. Ciò che ha rilievo per
configurare un affidamento incolpevole sulla legittimità dell’atto
favorevole, la cui frustrazione può essere fonte di responsabilità per
l’amministrazione nei confronti del destinatario, è la riconducibilità
dell’illegittimità a quest’ultimo;
d10) allo stesso modo non può ritenersi che dal principio di non
contraddizione
possa pervenirsi alla conseguenza per cui non vi potrebbe essere un
affidamento tutelabile del destinatario dell’atto, nella sua qualità di
controinteressato soccombente.
“L’assunto sovrappone i piani, che invece in
precedenza si è precisato essere distinti, della legittimità dell’atto e
delle regole di
validità ad esso relative, da un lato, e dall’altro lato della correttezza e
buona fede
del comportamento nell’esercizio del potere pubblico, con le connesse
responsabilità dell’amministrazione. Per converso, va escluso l’opposto
estremismo per cui ogni
atto illegittimo e annullato in sede giurisdizionale è per l’amministrazione
fonte di
responsabilità nei confronti sia del soggetto originariamente beneficiario,
sia del
ricorrente vittorioso nel giudizio di annullamento, con la conseguenza che
l’amministrazione si troverebbe in tal caso sempre e comunque esposta alle
azioni
di entrambi i soggetti coinvolti nell’esercizio del potere pubblico”;
d11) non costituisce elemento costitutivo dell’affidamento il fattore
temporale,
che in astratto è configurabile già al momento in cui è presentata l’istanza
per il rilascio del provvedimento favorevole. Il tempo trascorso può
costituire fattore che fonda l’interesse oppositivo all’esercizio del potere
di
annullamento d’ufficio e che con le modifiche apportate all’art. 21-nonies
della l. n. 241 del 1990, da originaria regola di comportamento
dell’amministrazione, espressa con carattere generale dal principio di
ragionevolezza del tempo in cui viene esercitato il potere di autotutela, è
stato incorporato nell’ambito delle regole di validità dell’atto, attraverso
la
previsione di un termine massimo;
e) nel caso di specie, la domanda risarcitoria
per lesione dell’affidamento sulla
legittimità del provvedimento è stata proposta non dal destinatario di
quest’ultimo, ma dalla sua avente causa, la quale non ha partecipato al
procedimento di adozione della variante urbanistica che ha reso edificabile
l’area
poi da essa acquistata e quindi, al momento dell’acquisto del terreno,
poteva
confidare sulla destinazione impressa da tale variante, salvo che in punto
di fatto
non risulti accertato che la stessa potesse essere a conoscenza dei profili
di
illegittimità della variante che hanno portato poi al suo annullamento.
Sembrerebbero dunque profilarsi tutti gli elementi idonei a ritenere che,
attraverso l’esercizio della potestà di pianificazione urbanistica da parte
del
Comune, possa essersi ingenerata nella ricorrente la ragionevole convinzione
sulla destinazione edificatoria dell’area e che perciò fosse equo il prezzo
di
acquisto come area edificabile anziché come terreno agricolo.
Della
differenza tra
i due valori l’amministrazione comunale può dunque essere ritenuta
responsabile,
al pari del venditore, secondo gli ordinari strumenti di tutela civilistica;
f) l’eventuale responsabilità
dell’amministrazione non può essere esclusa dalla
eventualmente concorrente responsabilità del venditore, in quanto diversi
sono i
titoli di responsabilità:
f1) la responsabilità dell’amministrazione si fonda sull’apparenza
ingenerata
al di fuori di ogni rapporto con l’acquirente, e dunque sul piano
extracontrattuale;
f2) la responsabilità del venditore per il difettoso risultato traslativo si
fonda su
un titolo contrattuale;
f3) la possibilità di ravvisare un concorso di diversi soggetti nel medesimo
fatto
illecito per diversi titoli di responsabilità è affermata da consolidata
giurisprudenza di legittimità;
f4) il concorso di cause è a sua volta fonte di responsabilità solidale ai
sensi
dell’art. 2055 c.c., fermo il diritto di regresso di ciascun condebitore
solidale
nei confronti dell’altro;
g) nel restituire gli atti alla sezione
rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., il
collegio osserva che, con riferimento alla posta risarcitoria relativa
all’inutile
attività edificatoria intrapresa dalla ricorrente e dagli oneri da questa
sostenuti per
la demolizione, costituisce profilo rilevante verificare quando la stessa
abbia avuto
conoscenza del contenzioso che ha poi portato all’annullamento della
variante
urbanistica e in via derivata dei titoli ad edificare rilasciati sulla base
di
quest’ultima.
III. – Per completezza, si osserva quanto segue:
h) le questioni sono state sottoposte
all’attenzione dell’Adunanza plenaria da Cons.
Stato, sez. IV,
11.05.2021, n. 3701 (oggetto della
News US, n. 50 del 28.05.2021).
Alla citata News si rinvia, oltre che per l’esame delle argomentazioni
sviluppate dal collegio: al § l), per precedenti sul tema della
giurisdizione del
giudice ordinario in materia di domanda di risarcimento del danno derivante
da
atto favorevole al destinatario successivamente annullato ovvero da inerzia
nella
repressione di abusi dovuti a omessa vigilanza ovvero a omessa esecuzione di
provvedimenti repressivi (sul tema si veda anche infra § j); al § m), sul
diritto al
risarcimento del danno da provvedimento favorevole poi annullato e da
inerzia
della pubblica amministrazione, come fattispecie lesive dell’affidamento
privato;
i) per i principi di ordine sostanziale elaborati
dalla Plenaria in rassegna –e, quindi,
per l’analisi di perimetro, presupposti e limiti della responsabilità della
p.a.
discendente dal ragionevole affidamento del privato in ordine al legittimo
esercizio del potere pubblico e all’operato della pubblica amministrazione
conforme ai principi di correttezza e buona fede, anche nell’ipotesi di
provvedimento favorevole successivamente annullato– si veda Cons. Stato,
Ad.
plen.,
29.11.2021, n. 21, (oggetto della
News US, n. 3 del 12.01.2022,
cui si rinvia per ulteriori approfondimenti), nonché nel senso che la parte
risultata
vittoriosa di fronte al Tribunale amministrativo regionale sul capo della
domanda
relativo alla giurisdizione non sia legittimata a contestare in appello la
giurisdizione del giudice amministrativo vedi Cons. Stato, Ad. plen.,
29.11.2021, n. 19 (oggetto della
News US, n. 2 del 12.01.2022, cui
si rinvia per
ulteriori approfondimenti).
j) nel senso della giurisdizione del giudice
ordinario sulla domanda di risarcimento
del danno proposta dal beneficiario del provvedimento favorevole poi
riconosciuto illegittimo si vedano:
j1) Cass. civ., sez. un., 25.05.2021, n. 14324, secondo cui “La
controversia
avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da un privato, che abbia
fatto
incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo
della
propria sfera giuridica, legittimamente annullato, rientra nella
giurisdizione del
giudice ordinario, in quanto non è relativa alla lesione di un interesse
legittimo
pretensivo, bensì di diritto soggettivo, rappresentato dalla conservazione
dell'integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando
sulla
originaria legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato”;
j2) Cass. civ., sez. un., 11.05.2021, n. 12428 (in Foro it., 2021, I,
2770
con nota di MACARIO), secondo cui “Affinché si perfezioni la fattispecie di
lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento
amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si
assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, e la relativa
controversia in
quanto concernente diritti soggettivi possa essere risolta mediante
arbitrato rituale
di diritto, è necessario che sia identificabile un comportamento della
pubblica
amministrazione, differenziabile dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di
atti
formali di cui si compone il procedimento amministrativo, che abbia
cagionato al
privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto
pubblico, ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti
previsti
per la tutela dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole
affidamento
riposto nell'emanazione del provvedimento non adottato (nella specie, la
controversia relativa alla mancata approvazione di una variante al programma
di
recupero urbano e di progetti per le opere di urbanizzazione è stata
ritenuta
devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto
concernente interessi legittimi e pertanto non assoggettabile ad arbitrato
rituale di
diritto)”.
La sentenza va in contrasto frontale con i principi espressi dalla
Plenaria in commento, allorquando afferma l’esistenza di un diritto
soggettivo all’affidamento capace di radicare una controversia di diritto
comune (che esclude in concreto nel caso di specie perché ritiene che la
controversia avendo ad oggetto interessi legittimi, rientri nella
giurisdizione del giudice amministrativo e quindi non sia compromettibile
in arbitri).
In particolare, a giudizio della Corte, il procedimento
amministrativo costituisce un'interlocuzione fra l'amministrazione ed il
privato retta da norme per l'esercizio della funzione amministrativa.
Rispetto a tale agere che si dispiega mediante atti formali e si colloca sul
piano del diritto pubblico, deve essere individuato quale sia lo spazio del
comportamento in violazione dei canoni di correttezza e buona fede perché
lesivo dell'affidamento riposto nell'adozione di un provvedimento
amministrativo.
La buona fede che qui rileva non è quella che l'art. 1 della
legge sul procedimento amministrativo menziona, quale forma del
rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente alla
collaborazione, e che corrisponde non alla regola di diritto civile, ma a un
principio generale dell'ordinamento che ha la funzione, al pari della
collaborazione, di modellare l'esercizio del potere fronteggiato
dall'interesse legittimo. La correttezza che emerge con la lesione
dell'affidamento è quella cui si correla una posizione di diritto
soggettivo.
La Corte richiama quindi i suoi precedenti secondo cui spetta al giudice
ordinario, per la ricorrenza di diritti soggettivi, la controversia relativa
ad
una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell'affidamento del privato
nell'emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una
condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni
di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della pubblica
amministrazione per il danno prodotto al privato quale conseguenza della
violazione dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza
dell'azione amministrativa è configurabile non solo nel caso in cui tale
danno derivi dall'emanazione e dal successivo annullamento di un atto
ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento
amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il
proprio
affidamento in un mero comportamento dell'amministrazione (Cass. civ.,
sez. un., 15.01.2021, n. 615, secondo cui “In materia di cassa
integrazione
guadagni, ordinaria e straordinaria, spetta alla giurisdizione del giudice
ordinario
la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell'imprenditore,
fondata sulla
lesione dell'affidamento riposto nella condotta della pubblica
amministrazione che
si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede; ciò in quanto la
responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza
della
violazione dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza
dell'azione
amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica
amministrazione ed
il privato che con questa sia entrato in relazione), inquadrabile nella
responsabilità
di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o
da
"contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre
obbligazioni ex
art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla
emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo,
ma anche nel caso in cui
nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato
abbia
riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell'amministrazione”);
j3) Cass. civ., sez. un., 17.12.2020, n. 28979, secondo cui “la
controversia
avente ad oggetto la domanda risarcitoria proposta dal privato
aggiudicatario di
una gara per l'assegnazione di un pubblico servizio, successivamente
annullata o
revocata, il quale deduca la lesione dell'affidamento riposto sull'apparente
legittimità del provvedimento amministrativo, è devoluta alla giurisdizione
ordinaria, invocandosi l'accertamento, non della legittimità
dell'aggiudicazione,
ma della responsabilità civile della P.A. (avente natura contrattuale,
secondo lo
schema della responsabilità da "contatto sociale", o eventualmente
ricondotta alla
responsabilità extracontrattuale) per i danni derivanti dalle spese
effettuate in
funzione della partecipazione alla gara poi revocata, dalla rinuncia ad un
utile di
impresa e dalla perdita di altre "chances" economico-commerciali nell'ambito
del
mercato imprenditoriale”;
j4) Cass. civ., sez. un., 08.07.2020, n. 14231, secondo cui “La "causa petendi"
della domanda con cui il beneficiario di un permesso di costruire,
successivamente
annullato in autotutela in quanto illegittimo, abbia invocato la risoluzione
del
contratto di compravendita del terreno, nonché la condanna della P.A. al
risarcimento dei danni conseguenti alla lesione dell'incolpevole affidamento
sulla
legittimità del predetto atto ampliativo, risiede, non già nella lesione di
un interesse
legittimo pretensivo (giacché non è in discussione la legittimità del
disposto
annullamento) ma nella lesione del diritto soggettivo all'integrità del
patrimonio;
pertanto la controversia è devoluta alla giurisdizione ordinaria, atteso
che, avuto
riguardo al detto "petitum sostanziale", il provvedimento amministrativo non
rileva in sé (quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria,
della cui
illegittimità il giudice è chiamato a conoscere "principaliter") ma come
fatto
(rilevabile "incidenter tantum") che ha dato causa all'evento dannoso subìto
dal
patrimonio del privato”;
j5) Cass. civ., sez. un., 28.04.2020, n. 8236 (in Giur. it., 2020, 2530,
con nota
di COMPORTI; Corriere giur., 2020, 1025, con nota di
SCOGNAMIGLIO; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 461; Resp. civ. e prev., 2020,
1181,
con nota di PATRITO; Nuova giur. civ., 2020, 1074, con note di ZACCARIA,
SCOGNAMIGLIO; Giornale dir. amm., 2020, 805, con nota di
BONTEMPI; Rass. dir. civ., 2020, 959, con nota di MANFREDONIA);
j6) Cass. civ., sez. un., 08.03.2019, n. 6885, secondo cui “Qualora il
privato
abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento amministrativo
ampliativo della propria sfera giuridica, successivamente annullato, in via
di
autotutela od "opeiudicis", senza che si discuta della legittimità
dell'annullamento,
la controversia relativa ai danni subiti dal privato rientra nella
giurisdizione del
giudice ordinario perché ha ad oggetto non già la lesione di un interesse
legittimo
pretensivo, bensì una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla
conservazione dell'integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte
compiute
confidando sulla legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato”;
j7) Cass. civ., sez. un., 19.02.2019, n. 4889 (in Foro it., 2019, I,
4066, con
nota di richiami di BORGIANI, alla quale si rinvia per ulteriori riferimenti
giurisprudenziali);
j8) Cass. civ., sez. un.,
ordinanza, 24.09.2018, n. 22435 (oggetto
della
News US, in data
08.10.2018, cui si rinvia per ulteriori
approfondimenti);
j9) Cass. civ., sez. un.,
ordinanza 22.06.2017, n. 15640 (oggetto della
News
US, in data 04.07.2017, cui si rinvia per ulteriori
approfondimenti), secondo cui “è devoluta alla giurisdizione del giudice
ordinario l’azione di risarcimento del danno proposta dal privato che abbia
fatto
incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente
dichiarato illegittimo”;
j10) Cass. civ., sez. un.,
16.12.2016, n. 25978 (oggetto della
News
US, in
data 09.01.2017, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti);
j11) Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586 (in Riv. neldiritto,
2016, 467; in
Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1044, con nota di SINISI, e in Dir. proc. amm.,
2016,
547, con nota di GALLO);
j12) sulla questione di giurisdizione in esame si sono funditus pronunciate
le tre
ordinanze Cass., sez. un., 03.03.2011 n. 6596 (in Foro it., 2011, I, 2387,
con
nota di TRAVI; Corriere giur., 2011, 933, con nota di DI MAJO; Urbanistica e
appalti, 2011, 915, con nota di MASERA; Giust. civ., 2011, I, 1209, con nota
di
LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1749 (m), con nota di
SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2315 (m), con nota di D'ANGELO;
Giur. it., 2012, 193, con nota di COMPORTI), 03.03.2011, n. 6595 (in Foro
it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Corriere giur., 2011, 934, con nota
di DI
MAJO; Resp. civ. e prev., 2011, 1748 (m), con nota di SCOGNAMIGLIO; Riv.
giur. edilizia, 2011, I, 406, con nota di CAPONIGRO; Giust. civ., 2011, I,
2315,
con nota di D'ANGELO; Giur. it., 2012, 193, con nota di COMPORTI); 03.03.2011, n. 6594 (in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust.
civ.,
2011, I, 1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1743, con
nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m), con nota di
D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, con nota di COMPORTI; Giust. civ., 2012, I,
2769 (m), con nota di. SALVAGO) che hanno concluso per la giurisdizione del
giudice ordinario su tre fattispecie differenti ma riconducibili alla stessa
regola;
j13) in dottrina, per una nitida ricostruzione del tema e per ulteriori
approfondimenti: CIRILLO, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma
a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e
l’interesse alla
stabilità dell’atto amministrativo, in Foro amm., 2016, 7-8, 1991 ss.; NERI,
La
tutela dell'affidamento spetta sempre alla giurisdizione del giudice
ordinario, in
www.giustizia-amministrativa.it, Studi e rassegne Ufficio studi della G.A.,
2021;
k) si segnala che la Plenaria, con la pronuncia in commento:
k1) consapevole dell’indirizzo contrario consolidato delle sezioni unite
della
Corte di cassazione, afferma la possibilità che si impugnino le sentenze
delle
sezioni del Consiglio di Stato che applicheranno il principio elaborato
dalla
Plenaria. Sulla impossibilità di configurare l’interesse all’impugnazione ex
art. 111 Cost. nei confronti delle decisioni della Plenaria che non
definiscono
il merito della controversia si veda Cass. civ., sez. un.,
30.10.2019,
n.
27482 (in Foro it., 2020, I, 246 con nota CONDORELLI; oggetto della
News
US, n. 124 del 15.11.2019), secondo cui “È inammissibile il ricorso
per
motivi inerenti alla giurisdizione proposto avverso la sentenza
dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato che, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.,
si sia
limitata a enunciare uno o più principi di diritto”.
Alla citata News US si rinvia,
oltre che per l’esame delle argomentazioni sviluppate dal collegio: al § h),
sulla natura delle sentenze (e del vincolo) rese dalla Plenaria ai sensi
dell’art. 99, comma 4, c.p.a. quanto non definiscono in tutto o in parte la
lite
(anche con riferimenti dottrinali); al § i), nel senso della non
impugnabilità ex art. 111, u.c., Cost., delle pronunce del Consiglio di
Stato
prive del carattere della definitività e decisorietà; al § k), nel senso che
la
violazione dell’art. 99, comma 3, c.p.a. –il quale impone ad una sezione
del
Consiglio di Stato di rimettere la questione alla Plenaria se non ritenga di
condividere il principio da essa fissato– non costituisce un motivo
attinente
alla giurisdizione ex art. 111, u.c., Cost.;
k2) richiama le sezioni del Consiglio di Stato, ex art. 99 c.p.a., al
rispetto del
principio formulato in materia di giurisdizione sebbene, ai sensi dell’art.
111
Cost., siano le sezioni unite il giudice della giurisdizione, per tale via
assumendo un indirizzo divergente rispetto a quanto affermato
dalla Plenaria sulla non vincolatività del proprio precedente in contrasto
col diritto europeo come interpretato dalla Corte di giustizia UE.
Si veda,
oltre alla citata News US, n. 124 del 15.11.2019, anche:
News US, n.
99 del 15.09.2020, a Cons. Stato, Ad. plen.,
09.07.2020, n. 14,
cui si
rinvia per ulteriori approfondimenti, specie al § g), in tema di
restituzione
degli atti, da parte della Plenaria, alla sezione rimettente ai sensi
dell’art. 99
c.p.a.; Cons. Stato, Ad. plen., 17.12.2019, n. 14, in tema di
restituzione degli atti alla sezione deferente in seguito a intervento della
Corte di giustizia UE che soddisfi l’esigenza di pronuncia del principio di
diritto formulato nella ordinanza di rimessione;
News US, in data
01.08.2016, a Cons. Stato, Ad. plen.,
27.07.2016, n. 19 (in Foro it. 2017, III,
309),
cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, specie ai §§ I) e II), ove si
esamina il rapporto tra la funzione nomofilattica della Plenaria e il dovere
di sollevare la questione pregiudiziale di legittimità comunitaria
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria,
sentenza 29.11.2021 n. 20 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Osserva
il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura
tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non
ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
---------------
Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali”
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali”.
---------------
H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del
ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i
ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione
della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la
società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il
responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale.
Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno
personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di
approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla
società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti
impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di
astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i
ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La
sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data
16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione
comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019,
e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di
Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione
del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite
non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali
coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data
21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione
assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica
natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove
non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso
di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere
preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce
il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il
parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data
24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora
astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione
dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita
il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di
vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da
dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con
elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato
all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista,
attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di
valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un
esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di
approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale
delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il
progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche
per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché
dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal
caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico
procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità
dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che
“l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa
sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente
all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha,
quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali
intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo
eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di
riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da
approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere
definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa
espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione”
redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel
procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato
dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita
in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa
quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo”
(f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è,
comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario
progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta
la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923)
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve,
pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità
dell'obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede,
oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di
avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
---------------
6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto
tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a
giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di
astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente
lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito
all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che
ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art.
51, n. 3, c.p.c. da imporre
l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della
configurabilità del predetto obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede
disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità,
la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile
sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile
nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2021 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Cessazione
materia del contendere, improcedibilità per sopravvenuta difetto di
interesse e accertamento della illegittimità a fini risarcitori.
---------------
●
Processo amministrativo - Interesse a ricorrere – Cessazione della materia
del contendere e sopravvenuta carenza di interesse – Differenza.
●
Processo amministrativo - Interesse a ricorrere – Carenza sopravvenuta -
Decisione di merito – Solo ai fini risarcitori - Limiti.
●
La cessazione della materia del contendere postula la realizzazione piena
dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione
giudiziaria, permettendo al ricorrente in primo grado di ottenere il bene
della vita agognato, sì da rendere inutile la prosecuzione del processo.
L’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse risulta,
invece, riscontrabile qualora sopravvenga un assetto di interesse ostativo
alla realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso, anche in
tale caso rendendo inutile la prosecuzione del giudizio -anziché per
l’ottenimento- per l’impossibilità sopravvenuta del conseguimento del bene
della vita ambito dal ricorrente (1).
●
La previsione di cui al terzo comma dell’art. 34 c.p.a. deve
essere interpretata, in coerenza con il senso letterale delle espressioni
impiegate, nel senso che l’unico interesse deducibile, per evitare
l’adozione di una sentenza che dichiari la sopravvenuta carenza di
interesse, è quello di natura risarcitoria.
La possibilità che sia sufficiente un mero “interesse morale” è condizionata
alla circostanza che tale interesse venga dedotto per dimostrare la
sussistenza dei presupposti per la proposizione di una, anche successiva,
azione risarcitoria per danno non patrimoniale nella forma del danno morale
ovvero di un danno anche di natura diversa correlato alla tipologia di
diritto della persona che viene in rilievo.
In definitiva, sono individuabili tre evenienze che si possono realizzare
nel corso del processo:
a) “causa” che rende impossibile la realizzazione del bene della
vita originariamente preteso, con improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse;
b) “causa” che realizza pienamente l’interesse al bene della vita,
con cessazione della materia del contendere;
c) “causa” che, pur privando la parte dell’interesse all’adozione
di una sentenza costitutiva di annullamento degli atti, impone l’adozione di
una sentenza di accertamento della illegittimità degli atti ai soli fini
risarcitori (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. VI, 15.03.2021, n. 2224.
(2) Cons. St.,
sez. III, 15.04.2021, n. 3086; id., sez. V, 15.06.2015, n. 2952
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.10.2021 n. 6824 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2021 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Autonoma
valutazione da parte della Prefettura di stralci delle risultanze
investigative penali in sede di interdittiva antimafia.
Informativa antimafia – Presupposti – Risultanze investigative penali -
Autonoma valutazione da parte della Prefettura – Limiti.
In sede di interdittiva antimafia la autonoma
valutazione da parte della Prefettura di stralci delle risultanze
investigative penali e della motivazione dei relativi provvedimenti
giurisdizionali, in modo difforme rispetto alla magistratura penale, è
operazione delicata, anche alla luce del ne bis in idem per come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo e soprattutto
dell’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento giuridico, che non può
considerare talune condotte penalmente irrilevanti e al contempo rilevanti
in un procedimento amministrativo che sfocia in un provvedimento che per i
suoi dirompenti effetti ben può definirsi parapenale; pertanto, siffatta
operazione di autonoma e difforme valutazione, da parte della Prefettura,
delle risultanze investigative penali richiede sempre un attento vaglio del
giudice amministrativo (CGARS,
decreto 03.08.2021 n. 544 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti, stressare gli impiegati è reato solo se c'è paralisi degli
uffici.
Il diritto d'accesso ai documenti amministrativi è riconosciuto a chiunque
vi abbia interesse. Attese le sue finalità di pubblico valore costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e assicurare l'imparzialità e la trasparenza della Pa. Quest'ultima
deve accertare la sussistenza di un motivato interesse alla richiesta; e in
caso di riscontro positivo ha il dovere di adottare le misure organizzative
più idonee a garantire la piena soddisfazione del diritto in argomento. Ma
abusare del «diritto a sapere» può costituire reato qualora la costante
pressione del cittadino alteri la regolarità degli uffici, stressati da
richieste ripetitive e cavillose.
Secondo la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 01.07.2021 n. 25296)
solo se sia accertato che le sollecitazioni incalzanti abbiano comportato il
serio "turbamento" nella gestione dell'ente può configurarsi reato di
interruzione di pubblico servizio; altrimenti vale la regola per cui
l'esercizio di un diritto, sebbene assillante, esclude la punibilità del «cittadino
curioso».
L'interesse all'accesso
Presupposto necessario per configurare il reato di interruzione di servizio
pubblico è che le richieste di accesso ai documenti dell'ente non siano
sorrette da alcun interesse concreto; o pur sorrette da un interesse siano
esercitate sempre per gli stessi atti senza semmai adire l'autorità
competente a decidere sui dinieghi opposti.
Dà vita al reato in parola ogni condotta che determini un effettivo
congestionamento anche solo temporaneo ma notevole delle procedure in cura
all'ufficio coinvolto. Il reato non è invece configurabile quando il
servizio nel suo complesso continui a funzionare adempiendo agli scopi ai
quali è stato preordinato.
La strumentalizzazione del diritto a sapere
L'esercizio del diritto d'accesso anche quando esercitato con plurime
richieste non integra l'elemento oggettivo del reato di interruzione di
pubblico servizio se non sia dimostrato il nesso di causalità fra le
molteplici richieste e lo scompiglio o il grave intoppo alle attività
amministrative.
Manca pure l'elemento soggettivo se non sia accertata la coscienza e volontà
del privato di "strumentalizzare" il diritto d'accesso per
ingarbugliare il regolare funzionamento delle procedure burocratiche;
compiendo azioni che solitamente sono lecite tuttavia accettando che possano
"deviare" in un illecito penale.
E si badi -evidenzia la Corte Suprema– in tali casi non va confuso il
normale smarrimento psicologico degli impiegati derivante dalle difficoltà,
magari incolpevoli, di fronteggiare le insistenti richieste di un utente,
con l'oggettivo scombussolamento dell'ufficio se non addirittura col suo
palese blocco
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.07.2021). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Troppe richieste di accesso agli atti del Comune
non comportano interruzione di pubblico del servizio.
L'esercizio legittimo del diritto d'accesso agli atti non
integra, anche quando esercitato con plurime richieste,
l'elemento oggettivo del reato di turbamento dell'attività
del pubblico ufficio.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 01.07.2021 n. 25296,
ha respinto il ricorso delle parti civili, compreso il
Comune, nei confronti di un cittadino "colpevole" di
aver fatto eccessive richieste di accessi agli atti
amministrativi.
Il procedimento penale
La Corte di appello con sentenza del novembre 2019 aveva
assolto un cittadino dal reato contestatogli per avere
turbato con condotte intimidatorie la regolarità dei servizi
di un Comune con continue e immotivate richieste di accesso
agli atti così da impegnare totalmente (dal luglio del 2011
al gennaio del 2014) i servizi tecnici e legali a copiare
gli atti per rispondere ai quesiti dal cittadino stesso,
posti per svariate pratiche edilizie.
La sentenza della Cassazione
Secondo la Cassazione in questo contesto, non può
trascurarsi che il diritto all'accesso ai documenti
amministrativi (mediante esame o estrazione di copie) è
riconosciuto a chiunque vi abbia interesse e «attese le
sue rilevanti finalità di pubblico interesse costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e
la trasparenza» (articolo 22, comma 2, della legge n.
241 del 1990). La Pa deve accertare la sussistenza di un
motivato interesse alla richiesta e ha l'obbligo di adottare
le misure organizzative idonee a garantire l'esercizio del
diritto previsto dalla norma.
Solo se sia accertato che la mancanza di un motivato
interesse e le continue richieste di accesso e di copia dei
più disparati documenti abbiano comportato alterazione nella
regolarità dell'ufficio può configurarsi il reato di
interruzione di un ufficio o servizio pubblico (articolo 340
del codice penale), diversamente vale il principio secondo
cui «l'esercizio di un diritto (...) esclude la
punibilità» (articolo 51, comma 1, del codice penale).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha rilevato che dai
contenuti delle testimonianze acquisite si ricava che:
a) l'imputato (che agì rappresentando soggetti che avevano
interessi specifici in relazione alle situazioni oggetto
delle istanze e che esercitavano il diritto riconosciuto
dall'articolo 22 della legge 241/1990) si è sempre
comportato educatamente, ha rispettato i protocolli -senza
pretendere trattamenti di favore o risposte prima dello
scadere dei termini fissati dalla legge- e non ha formulato
istanze pretestuose o richiesto atti inesistenti;
b) l'ufficio comunale non è mai stato costretto a chiudere a causa
della condotta del cittadino, né, in conseguenza dei
colloqui fra gli impiegati e l'imputato si sono mai formate
code tali da congestionare l'uffici impedendone il normale
funzionamento
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.07.2021).
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SENTENZA
1. Secondo l'imputazione, la condotta di Ma.Gr. avrebbe
turbato,
mediante plurime richieste di accesso agli atti
amministrativi formulate
esercitando il diritto previsto dall'art. 22 legge n. 241
del 07.08.1990, la
regolarità dei servizi del Comune di Barberino Val d'Elsa.
In questo contesto, non può trascurarsi che
il diritto
all'accesso ai documenti
amministrativi (mediante esame o estrazione di copie) è
riconosciuto a chiunque
vi abbia interesse e «attese le sue rilevanti finalità di
pubblico interesse costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione
e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza» (art. 22,
comma 2, legge n. 241
del 1990).
Ne deriva che la pubblica amministrazione deve accertare la
sussistenza di un
motivato interesse alla richiesta e, in caso di accertamento
positivo (da ritenersi implicito una volta che sia stato
consentito l'accesso), ha l'obbligo di adottare le
misure organizzative idonee a garantire l'esercizio del
diritto previsto dalla norma.
Solo se sia accertato che la mancanza di un motivato
interesse e le continue
richieste di accesso e di copia dei più disparati documenti
abbiano comportato
alterazione nella regolarità dell'ufficio può configurarsi
il reato di interruzione di un
ufficio o servizio pubblico ex art. 340 cod. pen. (Sez. 6,
n. 13451 del 12/10/2000,
Castagna, Rv. 217634), diversamente vale il principio
secondo cui «l'esercizio di
un diritto (...) esclude la punibilità» (art. 51, comma 1,
cod. pen.).
L'art. 24, comma 1, legge 241 del 1990 prevede «Il diritto
di accesso si
esercita (...) nei modi e nei limiti indicati dalla presente
legge» e che, in caso di
diniego dell'accesso, il richiedente non esercita il suo
diritto reiterando la richiesta
ma presentando ricorso al tribunale amministrativo regionale
(art. 24, commi 4 e
5, legge n. 241 del 1990).
In altri termini, presupposto necessario per configurare il
reato ex art. 340 cod. pen. è che le richieste di accesso
ex. art. 22 l. 241/1990, non siano sorrette da alcun
interesse o, pur sorrette da un interesse, siano esercitate
sempre per gli stessi atti senza adire l'autorità competente
a decidere, secondo le norme regolatrici della materia, sui
dinieghi opposti.
2. Il Tribunale non ha negato la legittimità delle richieste
di accesso avanzate
da Gr. ma ha ritenuto che l'imputato abbia
volontariamente provocato un
turbamento nella regolarità dei servizi del Comune con
richieste caratterizzate da
anomala frequenza e intensità, spesso senza effettiva
motivazione, così
compiendo un "abuso" nell'esercizio del diritto pur
riconosciuto dall'art. 22 legge
n. 241 del 07.08.1990.
Nella sentenza di primo grado sono indicate: la denuncia e
le 16 segnalazioni
presentate da Gr. al Comune tra il 19 luglio e il 20.08.2011 (vicenda della
Et.), in relazione alle quali il responsabile
dell'area tecnica successivamente
annullò d'ufficio la attestazioni di conformità della quale Gr. aveva denunciato
l'illegittimità (p. 3-6); la denuncia presentata da Gr.
in relazione al piazzale
di parcheggio in località Chiano, con accuse all'architetto
Ma. (all'epoca
responsabile dell'unità operativa e urbanistica del Comune)
e le attività di indagine
che ne seguirono, in relazione alle quali il Tribunale
amministrativo regionale
"disattese un parere espresso dall'architetto" (pp .6-7).
Inoltre, si rileva (p.7) che
aspetti simili a quelli che hanno caratterizzato le due
vicende ricordate «si
rinvengono nella vicenda ATOP e nella pratica La To.»,
delle quali, però nulla
si riporta circa le specifiche condotte dell'imputato e i
loro effetti sull'andamento
dei servizi comunali Inoltre, la sentenza di primo grado
contiene anche una digressione sul
concetto di "abuso di diritto" (pp. 8-11) e opina che esso
possa applicarsi nel diritto
penale come limite alla causa di giustificazione
dell'esercizio del diritto prevista
dall'art. 51 cod. pen.
Conclude ritenendo che vi sia stato un "turbamento"
dell'attività dell'ufficio
perché alcuni testi hanno ricordato difficoltà materiali a
rispondere alle istanze di
altri utenti (sino a chiudere l'ufficio per valutare come
rispondere a Gr.) e che
la complessità delle questioni provocò uno stato d'ansia nei
dipendenti del Comune
(pp. 11-12). Assume -senza chiarire su quali basi- che il
vero scopo di Gr.
fosse di tipo ostruzionistico, ma non precisa rispetto a che
cosa.
Per altro verso, il Tribunale ha assolto l'imputato dal
reato di calunnia
continuata (capo B), ritenendo non provato l'elemento
soggettivo del reato e
dando atto della dovizia di particolari contenuti nelle sue
38 denunce penali (non
riguardanti le vicende oggetto delle condotte di cui al capo
A).
3. Il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la
sentenza di condanna
di primo grado ha l'obbligo di fornire, con una motivazione
puntuale e adeguata,
una razionale giustificazione della difforme conclusione
adottata.
Il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio vale nel
caso della pronuncia di
una sentenza di condanna ex art. 533 cod. proc. pen., mentre
dall'art. 530 cod.
proc. pen., che disciplina la decisione assolutoria, emerge
un criterio di giudizio
opposto: è la condanna che deve intervenire al di là di ogni
ragionevole dubbio,
non —invece— l'assoluzione, possibile anche ex art. 530,
comma 2, cod. proc.
pen.
Ne deriva, che —mentre quando riforma la sentenza di
assoluzione, il giudice
d'appello deve argomentare circa la ricostruzione che
approva la ipotesi
accusatoria come l'unica al di là di ogni ragionevole dubbio— nel caso di riforma
della sentenza di condanna il giudice d'appello può
limitarsi a giustificare
ricostruzioni alternative del fatto che siano plausibili e
ancorate alle risultanze
processuali, confutando in modo specifico e completo i più
rilevanti argomenti della
motivazione della prima sentenza e dando conto delle ragioni
della relativa
incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma
del provvedimento
impugnato (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430;
Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez.
U, n. 6682 del
04/02/1992, Musunneci, Rv. 191229).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha rilevato (p. 8)
che dai contenuti delle
testimonianze acquisite si ricava che:
a) l'imputato (che
agì rappresentando
soggetti che avevano interessi specifici in relazione alle
situazioni oggetto delle
istanze e che esercitavano il diritto riconosciuto dall'art.
22 legge n. 241/1990) si
è sempre comportato educatamente, ha rispettato i protocolli
-senza pretendere trattamenti di favore o risposte prima
dello scadere dei termini fissati dalla legge- e non ha formulato istanze pretestuose o richiesto atti
inesistenti;
b) l'ufficio
comunale non è mai stato costretto a chiudere a causa della
condotta di Gr.,
né, in conseguenza dei colloqui fra gli impiegati e
l'imputato si sono mai formate
code tali da congestionare l'uffici impedendone il normale
funzionamento.
Inoltre, ha osservato che non è provato che il difficoltoso
funzionamento
dell'ufficio sia stato causato dalle istanze di Gr. e
ha considerato che le attività
che ne sono derivate non possono ritenersi un "turbamento"
dell'ufficio o del
servizio solo per i loro contenuti complessi, perché non
possono attribuirsi a
responsabilità dell'utente le eventuali problematiche di
organico altre difficoltà
dell'ufficio a provvede nei tempi richiesti (pp. 8-9).
La valutazione della Corte di appello risulta corretta
perché
la mancata o
insoddisfacente organizzazione dell'attività di un servizio
pubblico non può
condurre a configurare l'elemento oggettivo del reato ex
art. 340 cod. pen. perché
la norma sanziona esclusivamente la volontaria alterazione,
anche temporanea,
del funzionamento di tale servizio, incidente sulla sua
complessiva regolarità
(Sez.
6, n. 4908 del 06/11/2018, dep. 31.01.2019, Gallucci, Rv. 274933).
In altri termini,
occorre che sia dimostrata che il privato fosse consapevole
che il proprio
comportamento potesse determinare l'interruzione o il
turbamento del pubblico
ufficio o servizio, accettando il relativo rischio
(Sez. 6,
n. 39219 del 09/04/2013,
Trippitelli, Rv. 257081; Sez. 6, n. 8996 del 11/02/2010,
Notarpietro, Rv. 246411).
4.
Costituisce interruzione di ufficio o di pubblico
servizio ogni condotta che
determini una qualunque temporanea alterazione,
oggettivamente apprezzabile,
della regolarità dell'ufficio o del servizio, anche se
coinvolgente un settore e non
la totalità delle attività
(Sez. 6, n. 1334 del 12/12/2018,
dep. 11.01.2019, Carannante,
Rv. 274836;
Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017, dep.
17.01.2018, Andriulo, Rv. 272321;
Sez. 6, n. 19676 del 16/04/2014, Musolino, Rv. 259768),
il
che particolarmente
vale quando il settore si inserisce in un ufficio di non
grandi dimensioni
(Sez. 6 n.
6412 del 02.02.2016, dep. 17.02.2016, Caminiti, non mass.).
Tuttavia, il
reato ex art. 340 cod.
pen. non è configurabile se il servizio pubblico nel suo
complesso continua a
funzionare regolarmente adempiendo allo scopo per il quale è
stato predisposto
(Sez. 6, n. 9422 del 17/02/2016,
dep. 07.03.2016, non mass.).
Vale il principio di diritto secondo cui
l'esercizio
legittimo del diritto d'accesso
previsto dagli art. 22 e ss. legge n. 241/1990 non integra,
anche quando esercitato
con plurime richieste, l'elemento oggettivo del reato di cui
all'art. 340 cod. pen.,
se non è dimostrato il nesso di causalità fra le plurime
richieste e il turbamento
dell'attività del pubblico ufficio o servizio, né l'elemento
soggettivo, se non sia
accertata la coscienza e volontà, anche nella forma del dolo
eventuale, del privato di strumentalizzare il diritto
d'accesso per turbare il regolare funzionamento delle
attività contemplate dall'art. 340 cod. pen.
Invece, il Tribunale ha erroneamente confuso il turbamento
psicologico degli
impiegati di un ufficio pubblico derivante dalla difficoltà,
magari incolpevole, a
fronteggiare le richieste di un utente, con l'oggettivo
turbamento della regolarità
del servizio causato da una volontaria alterazione, anche
temporanea, del
funzionamento di tale servizio, incidente sulla sua
complessiva attività (Sez. 6, n.
4908 del 06/11/2018, dep. 2019, Gallucci, Rv. 274933) (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 01.07.2021 n. 25296). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Plurime richieste di accesso agli
atti amministrativi – Turbamento psicologico degli impiegati
di un ufficio pubblico – Interruzione di pubblico servizio
causato da un legittimo del diritto d’accesso agli atti –
Esclusione – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Accesso agli atti
atti – Art. 22, 24, L. n. 241/1990 e ss.mm. – DIRITTO
URBANISTICO – EDILIZIA – Pratiche edilizie – Diritto
all’accesso ai documenti amministrativi (mediante esame o
estrazione di copie) – Difficoltà nel funzionamento
dell’ufficio pubblico – Interruzione di pubblico servizio ex
art. 340 cod. pen. – Esclusione.
L’esercizio legittimo del diritto
d’accesso previsto dagli art. 22 e ss. legge n. 241/1990 non
integra, anche quando esercitato con plurime richieste,
l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 340 cod. pen.,
se non è dimostrato il nesso di causalità fra le plurime
richieste e il turbamento dell’attività del pubblico ufficio
o servizio, né l’elemento soggettivo, se non sia accertata
la coscienza e volontà, anche nella forma del dolo
eventuale, del privato di strumentalizzare il diritto
d’accesso per turbare il regolare funzionamento delle
attività contemplate dall’art. 340 cod. pen..
A nulla rileva il turbamento psicologico degli impiegati di
un ufficio pubblico derivante dalla difficoltà, magari
incolpevole, a fronteggiare le richieste di un utente, con
l’oggettivo turbamento della regolarità del servizio causato
da una volontaria alterazione, anche temporanea, del
funzionamento di tale servizio, incidente sulla sua
complessiva attività.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Diritto all’accesso ai documenti
amministrativi – Garanzia di partecipazione e imparzialità e
trasparenza della P.A. – Presupposti – Limiti alla
configurabilità del reato di interruzione di un ufficio o
servizio pubblico.
Il diritto all’accesso ai documenti
amministrativi (mediante esame o estrazione di copie) è
riconosciuto a chiunque vi abbia interesse e «attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse costituisce
principio generale dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e
la trasparenza» (art. 22, comma 2, legge n. 241 del 1990).
Ne deriva che la pubblica amministrazione deve accertare la
sussistenza di un motivato interesse alla richiesta e, in
caso di accertamento positivo (da ritenersi implicito una
volta che sia stato consentito l’accesso), ha l’obbligo di
adottare le misure organizzative idonee a garantire
l’esercizio del diritto previsto dalla norma.
Solo se sia accertato che la mancanza di un motivato
interesse e le continue richieste di accesso e di copia dei
più disparati documenti abbiano comportato alterazione nella
regolarità dell’ufficio può configurarsi il reato di
interruzione di un ufficio o servizio pubblico ex art. 340
cod. pen., diversamente vale il principio secondo cui
«l’esercizio di un diritto (…) esclude la punibilità» (art.
51, comma 1, cod. pen.).
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Turbamento nella regolarità dei
servizi del Comune con richieste caratterizzate da anomala
frequenza e intensità – Configurabilità dell’interruzione di
ufficio o di pubblico servizio – Limiti – Valutazione della
condotta – L’esercizio legittimo di un diritto non può mai
essere punito come reato – Art. 51, c. 1, cod. pen. –
Fattispecie.
Costituisce interruzione di ufficio o di
pubblico servizio ogni condotta che determini una qualunque
temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della
regolarità dell’ufficio o del servizio, anche se
coinvolgente un settore e non la totalità delle attività il
che particolarmente vale quando il settore si inserisce in
un ufficio di non grandi dimensioni.
Tuttavia, il reato ex art. 340 cod. pen. non è configurabile
se il servizio pubblico nel suo complesso continua a
funzionare regolarmente adempiendo allo scopo per il quale è
stato predisposto.
Inoltre, la mancata o insoddisfacente organizzazione
dell’attività di un servizio pubblico non può condurre a
configurare l’elemento oggettivo del reato ex art. 340 cod.
pen. perché la norma sanziona esclusivamente la volontaria
alterazione, anche temporanea, del funzionamento di tale
servizio, incidente sulla sua complessiva regolarità. In
altri termini, occorre che sia dimostrata che il privato
fosse consapevole che il proprio comportamento potesse
determinare l’interruzione o il turbamento del pubblico
ufficio o servizio, accettando il relativo rischio.
Fattispecie: continue richieste di accesso agli atti così da
impegnare totalmente i servizi tecnici e legali a copiare
gli atti per rispondere ai quesiti da lui posti circa
svariate pratiche edilizie, in sintesi l’esercizio legittimo
di un diritto non può mai configurasi come reato (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 01.07.2021 n. 25296 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: E'
illegittima l'ordinanza sindacale di sgombero di un'area comunale,
abusivamente occupata nonché recintata, poiché viziata da incompetenza.
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero
di un’area comunale occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in
quanto è fondato l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco,
trattandosi di atto gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli
organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio
generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova
riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma
altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001,
il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle
scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e
non in quella degli organi politici.
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area
abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza
che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo
fatto dal Sindaco al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL, che presuppone e
non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella specie, come detto, è
mancante.
---------------
... per l’annullamento:
- dell’ordinanza sindacale n. 13 del 23.04.2020, notificata il
giorno 23 successivo, con la quale il Sindaco ha ordinato “lo sgombero
per il rilascio immediato dell’area di proprietà del Comune di Cattolica
Eraclea, ricadente sulle Via Filippo Turati - Arciprete Sebastiano Gentile,
con la relativa bonifica e ripristino dello stato dei luoghi”;
...
Con ricorso, notificato il 20.06.2020 e depositato il 16 luglio successivo,
il signor Mi.Fa. ha chiesto l’annullamento, previa sospensiva e vinte le
spese, dell’ordinanza n. 13 del 23.04.2020, con cui il Sindaco del Comune di
Cattolica Eraclea gli ha intimato di sgomberare l’area ivi indicata, in
quanto di proprietà pubblica e dallo stesso abusivamente occupata, nonché
recintata, per i seguenti motivi:
1) Violazione degli artt. 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990.
2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del TUELL. Difetto
dei presupposti e della motivazione. Sviamento e incompetenza.
3) Eccesso di potere sotto i profili: della carenza di motivazione;
del difetto di motivazione; della violazione del principio del legittimo
affidamento.
Si è costituito in giudizio il Comune di Cattolica Eraclea che ha depositato
una memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso, poiché infondato,
vinte le spese.
...
Il ricorso, che ha ad oggetto un’ordinanza di sgombero di un’area comunale
occupata abusivamente dal ricorrente, va accolto, in quanto è fondato
l’assorbente motivo dell’incompetenza del Sindaco, trattandosi di atto
gestionale.
Invero, come noto, la ripartizione delle competenze amministrative tra gli
organi politici e quelli burocratici va effettuata in base al principio
generale di distinzione fra atti di gestione e atti d’indirizzo, che trova
riscontro non solo nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18.08.2000, ma
altresì, in termini generali, nell’art. 4 del d.lgs. n. 165 del 30.03.2001,
il quale comporta che tutta l’attività gestionale rientra, unitamente alle
scelte che le sono inerenti, nella sfera delle competenze dirigenziali, e
non in quella degli organi politici (in termini CGA, sez. giur., 17.06.2016,
n. 173).
Nella specie viene in considerazione un’ordinanza di sgombero di un’area
abusivamente occupata, la quale rientra nella competenza dirigenziale, senza
che a diversa conclusione possa addivenirsi sulla base del mero richiamo
fatto dal Sindaco di Cattolica Eraclea al comma 4-bis dell’art. 54 del TUELL,
che presuppone e non fonda il potere di adozione dell’atto, che nella
specie, come detto, è mancante.
Tale considerazione era già stata fatta negli stessi termini nell’ordinanza
cautelare di accoglimento, nella quale si era, altresì, fatto esplicito
riferimento alla circostanza che “rimaneva impregiudicato il
potere/dovere del Comune di riadottare l’atto, ove ritenga accertata, alla
stregua della convenzione relativa al piano di lottizzazione, l’occupazione
di un’area pubblica, mediante ordinanza dirigenziale”
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 01.07.2021 n. 2134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
La domanda di
risarcimento per contatto sociale
qualificato o per responsabilità
extracontrattuale, genericamente introdotta
dal ricorrente, va qualificata più correttamente
come risarcimento per responsabilità precontrattuale, configurabile nel caso in
cui, pur a fronte di un atto legittimo, la
condotta dell’amministrazione non sia
improntata a correttezza e buona fede e ciò
cagioni un pregiudizio al privato
interessato.
La domanda va peraltro respinta in quanto
del tutto indeterminata nella causa petendi,
negli elementi costitutivi e nella
quantificazione delle poste di danno, mai
precisati in corso di causa.
Il principio generale dell’onere della prova
previsto dall’articolo 2697 del codice
civile si applica infatti anche all’azione
risarcitoria nei confronti della pubblica
amministrazione “con la conseguenza che
spetta al danneggiato fornire in giudizio la
prova di tutti gli elementi costitutivi
della fattispecie risarcitoria, e quindi, in
particolare, quella della presenza di un
nesso causale che colleghi la condotta
commissiva o omissiva della Pubblica
Amministrazione all'evento dannoso, e quella
dell’effettività del danno di cui si invoca
il ristoro, con la conseguenza che, ove la
domanda di risarcimento manchi della
necessaria prova, la stessa deve essere
respinta”.
---------------
13. Ciò comporta la reiezione della domanda
di risarcimento fondata sull’illegittimità
dell’atto impugnato.
Parimenti va respinta la domanda di
risarcimento per contatto sociale
qualificato o per responsabilità
extracontrattuale, genericamente introdotta
dal ricorrente nel ricorso e poi,
diversamente da quanto ivi anticipato, non
ulteriormente specificata.
Va evidenziato in primo luogo che la domanda
azionata va qualificata più correttamente
come risarcimento per responsabilità
precontrattuale, configurabile nel caso in
cui, pur a fronte di un atto legittimo, la
condotta dell’amministrazione non sia
improntata a correttezza e buona fede e ciò
cagioni un pregiudizio al privato
interessato.
La domanda va peraltro respinta in quanto
del tutto indeterminata nella causa petendi,
negli elementi costitutivi e nella
quantificazione delle poste di danno, mai
precisati in corso di causa.
Il principio generale dell’onere della prova
previsto dall’articolo 2697 del codice
civile si applica infatti anche all’azione
risarcitoria nei confronti della pubblica
amministrazione “con la conseguenza che
spetta al danneggiato fornire in giudizio la
prova di tutti gli elementi costitutivi
della fattispecie risarcitoria, e quindi, in
particolare, quella della presenza di un
nesso causale che colleghi la condotta
commissiva o omissiva della Pubblica
Amministrazione all'evento dannoso, e quella
dell’effettività del danno di cui si invoca
il ristoro, con la conseguenza che, ove la
domanda di risarcimento manchi della
necessaria prova, la stessa deve essere
respinta.” (C.G.A.R. Sicilia, 15.10.2029, n. 914).
14. In conclusione il gravame deve essere
respinto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.06.2021 n. 603 - link
a www.giuatizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta
amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate
motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
---------------
(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il
responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità
(art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri
funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma.
nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine
all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di
ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al
vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione
delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di
pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc.
amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo
competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di
annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen.,
27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come
anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica
comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria
del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n.
1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Mancata adozione di provvedimenti amministrativi necessari? La questione
è di interessi legittimi.
Posto che la convenzione urbanistica non è suscettibile
di produrre obblighi per la pubblica amministrazione, con i correlativi
diritti soggettivi del privato, attraverso l'integrazione legale
dell'accordo sostitutivo di provvedimento, per l'incompatibilità del
principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la
norma attributiva del potere amministrativo, la controversia relativa alla
mancata adozione di provvedimenti che abbia determinato la non eseguibilità
della convenzione, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, è afferente ad interessi legittimi e non può essere risolta
mediante arbitrato rituale di diritto.
---------------
Sul danno cagionato al privato
decide il lodo arbitrale solo se c’è lesione dell’affidamento riposto
nell’emanazione del provvedimento amministrativo.
Affinché si perfezioni la fattispecie di
lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento
amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si
assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, e la relativa
controversia in quanto concernente diritti soggettivi possa essere risolta
mediante arbitrato rituale di diritto, è necessario che sia identificabile
un comportamento della pubblica amministrazione, differenziabile dalla mera
inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il
procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo
indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico, ovvero che
abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela
dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento
riposto nell'emanazione del provvedimento non più adottato.
---------------
Convenzioni urbanistiche, correttezza e buona fede nella fase civilistica.
Il presupposto di applicabilità dei principi del codice
civile alla convenzione urbanistica è l’esaurimento del potere
amministrativo con la stipulazione dell’accordo sostitutivo dando vita
all’obbligazione di diritto civile, rispetto a cui la buona fede non è
quella che l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo menziona,
quale forma del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente
alla collaborazione, e che corrisponde non alla regola di diritto civile, ma
a un principio generale dell’ordinamento che ha la funzione, al pari della
collaborazione, di modellare l’esercizio del potere fronteggiato
dall’interesse legittimo (e di cui è espressione la previsione del «termine
ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi» nell’art. 21-nonies per
l’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo illegittimo, c.d.
affidamento legittimo).
La correttezza che emerge con la lesione dell’affidamento è quella cui si
correla una posizione di diritto soggettivo, mediante un comportamento,
soggetto alla normativa civilistica di correttezza, corrispondente a quell’area
in cui l’Amministrazione dismette i panni dell’autorità, o perché manchi una
norma attributiva del potere, come nel caso del tempo del procedimento, o
perché la stessa Amministrazione assuma una condotta che acquista rilevanza
al di là del regime degli atti formali del procedimento amministrativo,
entrando in un’area disciplinata dal diritto comune.
La lesione dell’affidamento, ovvero della libertà di autodeterminazione
negoziale, quale danno evento, eventualmente in unione con contegni non
formali dell’Amministrazione, introduce una distinzione già sul piano del
fatto, ancor prima dell’effetto giuridico, rispetto alla fattispecie di
violazione procedimentale.
Trattandosi della lesione dell’affidamento di natura civilistica,
differenziata ed indipendente dalla violazione procedimentale, deve
intervenire un quid pluris rispetto alla mera inerzia o alla mera sequenza
di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo, tale da
integrare una fattispecie di diritto comune nella quale possa valutarsi, dal
punto di vista della qualificazione giuridica, che l’Amministrazione abbia
dismesso i panni dell’autorità che agisce sulla base di norme di azione per
avere assunto dei comportamenti, formali ed informali, eccedenti il
significato dell’esercizio fisiologico della funzione amministrativa,
entrando così in una sfera suscettibile di essere apprezzata, alla luce
della normativa di correttezza, alla stregua di un comune rapporto paritario
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
---------------
1. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia che con il lodo
arbitrale sono stati decisi quesiti vertenti su questioni aventi natura di
interesse legittimo e pertanto non compromettibili.
Osserva la parte
ricorrente che era precluso al Collegio Arbitrale l'esame dei quesiti
proposti con la domanda indicati con i numeri 2), 3), 4), 5), 6), 7),
8), 12), 16) e 19) e che, quanto al quesito n. 15), relativo alla
decadenza dalla concessione del diritto di superficie, trattasi di atto
amministrativo c.d. di autotutela vincolata, per il quale era stata dal
lodo pronunciata l'illegittimità della decadenza nonostante la mancata
impugnazione del relativo atto dirigenziale.
Aggiunge che alcun
obbligo gravava sul Comune in ordine all'approvazione di una
variante del PRU, trattandosi dell'esercizio di un potere pubblicistico,
tale costituendo anche l'approvazione del progetto per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione (comportante la
dichiarazione di pubblica utilità), di cui nel quesito 4) viene lamentata
l'omissione.
Osserva ancora che il quesito n. 5), avente ad oggetto
l'omessa sottoscrizione del nuovo schema di convenzione approvato
dal Consiglio comunale, in cui veniva riconosciuto il diritto di CO.CA.
all'aggiornamento del prezzo, costituiva indebita ingerenza nelle
valutazioni della PA e che, quanto al quesito n. 8) avente ad oggetto
l'illegittimo accertamento di abusi edilizi, il giudice amministrativo
aveva confermato la legittimità dei provvedimenti adottati.
Aggiunge
inoltre che il Collegio Arbitrale era sguarnito di ogni competenza circa il
quesito 14), avente ad oggetto la mancata realizzazione delle opere
pubbliche previste dal PRU.
2.1 Il motivo è parzialmente fondato.
Con riferimento al quesito
n. 14), pur reputato dagli arbitri relativo a diritti soggettivi, vi è
carenza di interesse a ricorrere trattandosi di quesito rigettato dal
lodo, come esposto nello stesso ricorso a pag. 14.
Va premesso che il sancire se una lite appartenga alla
competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a
quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice
amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione
(così da ultimo Cass. Sez. U. 26.10.2020, n. 23418; 30.10.2019, n. 27847).
E' risalente e costante l'affermazione che le convenzioni
urbanistiche costituiscono accordi sostitutivi di provvedimento
amministrativo ai sensi dell'art. 11 legge n. 241 del 1990 (Cass. Sez.
U. 11.08.1997, n. 7452; 01.02.1999, n. 8; 17.01.2005,
n. 732; 07.02.2002, n. 1763; 20.11.2007, n. 24009; 09.03.2012, n. 3689; 06.12.2012, n. 21912; 25.05.2007,
n. 12186; 05.10.2016, n. 19914). La controversia relativa ad una
convenzione urbanistica rientra in tal modo nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2), cod. proc. amm..
Ai sensi tuttavia dell'art. 12 del
medesimo codice le controversie concernenti diritti soggettivi,
devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, possono essere
risolte mediante arbitrato rituale di diritto.
Deve pertanto farsi una
ricognizione dei quesiti posti con la domanda arbitrale, ed oggetto del
motivo di ricorso, allo scopo di stabilire se si abbia ricorrenza di diritti
soggettivi o interessi legittimi.
Un preliminare criterio direttivo della ricognizione è quello della
pertinenza del quesito alla questione dell'adempimento delle
obbligazioni previste dalla convenzione, questione inerente, come è
evidente, anche alla luce del richiamo ai principi del codice civile in
materia di obbligazioni e contratti nel citato art. 11, alla materia dei
diritti soggettivi.
Come affermato da Corte cost. 15.07.2016, n.
179, in base alla convenzione urbanistica sorgono vincoli sia per
l'autorità procedente che per il contraente privato. L'effetto
obbligatorio della convenzione urbanistica discende dalla circostanza
che l'esercizio del potere amministrativo mediante un modulo
convenzionale comporta in linea di principio l'esaurimento del potere
discrezionale, salvo che non residuino comunque spazi di
discrezionalità amministrativa. Il vincolo contrattuale permane finché
l'Amministrazione non eserciti il potere di recesso unilaterale
dall'accordo per sopravvenuti motivi d'interesse pubblico, dietro
corresponsione di indennizzo per l'eventuale pregiudizio, ai sensi
dell'art. 11, comma 4, della legge n. 241 del 1990.
La natura anfibia
dell'accordo sostitutivo di provvedimento fa si che la subordinazione
del recesso unilaterale dell'Amministrazione alla sopravvenienza di
motivi d'interesse pubblico derivi non solo dalla vincolatività
dell'accordo ai sensi dell'art. 1372 cod. civ. (in base al quale il
contratto può essere sciolto «per cause ammesse dalla legge»), ma
anche dalla consumazione del potere amministrativo mediante la
stipulazione dell'accordo, il quale, come si evince dalla denominazione
del capo della legge in cui si inserisce l'art. 11, realizza una forma di
partecipazione del privato al procedimento amministrativo, per cui il
potere può riemergere solo sub specie di potestà di autotutela.
2.2. Muovendo dalla dichiarazione di decadenza dal diritto di
superficie, prevista dall'art. 11 della convenzione nel caso di mancato
inizio o ultimazione dei lavori nel termine e di mancato rispetto delle
caratteristiche costruttive e tipologiche, la clausola collega al
verificarsi dei presupposti previsti, integranti fatti di infedele
esecuzione della convenzione, la risoluzione di diritto del rapporto.
Essa è pertanto da qualificare, per la natura di inadempienza delle condotte
rilevanti alla luce della disposizione convenzionale, come
clausola risolutiva espressa. La risoluzione di diritto integra un'ipotesi
di estinzione del rapporto alternativa al recesso unilaterale dal
rapporto per sopravvenuti motivi di interesse pubblico e rappresenta
una vicenda rilevante dal punto di vista dell'adempimento della
convenzione e dunque dei diritti soggettivi.
Sul piano
dell'adempimento degli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica
si colloca anche la questione degli abusi edilizi, questione qui
rilevante come fatto rientrante nella valutazione della fedele
esecuzione della convenzione, ai fini dell'attivazione della clausola
risolutiva espressa, e non rilevante ai fini della legittimità del
provvedimento adottato in seguito all'accertamento dei detti abusi.
2.3. Gli ulteriori quesiti, oggetto della proposta impugnazione,
sono l'omessa sottoscrizione del nuovo schema di convenzione, che
avrebbe consentito di aumentare il prezzo di cessione degli alloggi,
schema approvato con delibera del Consiglio comunale, il mancato
completamento del procedimento di approvazione della variante al
Programma di Recupero Urbano e la mancata approvazione dei
progetti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.
La prima
verifica da compiere è quella se trattasi di profili rilevanti ai fini
dell'adempimento della convenzione urbanistica.
La convenzione non prevede obblighi che rinviino agli aspetti in
questione, secondo quanto è dato di accertare mediante il diretto
accesso agli atti consentito dalla natura processuale della censura
proposta. Peraltro una questione interpretativa della convenzione non
si pone perché la denuncia relativa al mancato esercizio di poteri
amministrativi attiene a circostanze sopravvenute rispetto alla
conclusione della convenzione e relative alla fase dell'esecuzione.
Deve pertanto verificarsi se obblighi siano insorti sulla base
dell'integrazione della convenzione alla luce del principio di
esecuzione del contratto secondo buona fede di cui all'art. 1375 cod. civ.
Del resto, come si legge nel controricorso, ciò che il privato ha
inteso dedurre in giudizio è il «comportamento del Comune in
relazione agli obblighi assunti con la convenzione».
Come è noto, con riferimento alla buona fede in executivis sono
presenti in dottrina due linee di fondo, quella che vi attribuisce una
funzione integrativa del regolamento mediante l'inserimento di
obblighi accessori o strumentali e quella che vi assegna una funzione
valutativa della condotta delle parti, ovvero di limite rispetto a
modalità dell'agire reputate abusive nell'ambito di una valutazione
distinta da quella di stretto diritto (ed operante anche mediante lo
strumento dell'exceptio doli generalis).
Poiché nella prospettazione
della parte attrice il mancato esercizio dei poteri amministrativi, che
avrebbe determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica
per la parte dipendente dall'esercizio dei detti poteri, rileverebbe «in
relazione agli obblighi assunti con la convenzione», ciò che viene qui
in rilievo è la buona fede quale fonte di integrazione della
convenzione. Deve pertanto deve accertarsi se la detta non
eseguibilità sia imputabile all'inadempimento di un'obbligazione, la cui
fonte sia non la volontà delle parti della convenzione, ma la legge in
forza della clausola di buona fede in executivis.
Più in generale deve
essere valutato se, alla luce dell'art. 11 legge n. 241 del 1990, che
prevede che agli accordi sostitutivi di provvedimento «si applicano,
ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia
di obbligazioni e contratti in quanto compatibili», risulti compatibile
con l'accordo sostitutivo di provvedimento la norma di cui all'art.
1375 cod. civ. quale fonte eteronoma di obblighi.
Il presupposto di applicabilità dei principi del codice civile alla
convenzione urbanistica è l'esaurimento del potere amministrativo
con la stipulazione dell'accordo.
Se tale è il presupposto, allora il
limite di applicabilità dei principi in discorso è segnato dal
regolamento contrattuale divisato dalle parti, perché il perimetro del
potere esaurito è dato dalle clausole convenzionali stipulate in luogo
del suo esercizio. La sfera di discrezionalità amministrativa, non
trasfusa nell'accordo, non è recuperabile all'obbligazione
convenzionale, per via di integrazione legale degli obblighi sulla base
della fonte eteronoma della buona fede, perché, in mancanza
dell'esercizio del potere in forma convenzionale e del suo esaurimento
nell'accordo, permane la deroga al diritto civile stabilita dalla norma
attributiva del potere amministrativo. L'applicazione della clausola
generale di buona fede introdurrebbe obblighi derivanti non dalla
convenzione, nella quale è stato speso il potere, ma dalla legge e
dunque da un ordinamento nel quale prevale sul diritto comune la
norma attributiva del potere. Il diritto comune si riespande solo in
presenza dell'esaurimento del potere nell'accordo sostitutivo dando
vita all'obbligazione di diritto civile.
La misura di compatibilità dei
princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti con
l'accordo sostitutivo di provvedimento è data dall'esaurimento del
potere nelle clausole convenzionali, che definiscono così il perimento
di applicazione dei principi in questione. Per tutto ciò che non è
disposto dal regolamento contrattuale vige la norma attributiva del
potere, sulla quale non prevalgono le norme di diritto comune, ivi
compreso l'art. 1375 quale fonte di obbligazioni, per la natura propria
di deroga al diritto comune della norma in discorso, la quale
attribuisce all'Amministrazione il potere di regolare gli interessi in
luogo della legge e del contratto. Stante la prevalenza della norma
attributiva del potere, è incompatibile con l'accordo sostitutivo di
provvedimento il principio della buona fede in executivis quale fonte
di integrazione degli obblighi contrattuali.
Tale conclusione trova conferma nel requisito della motivazione
che ai sensi dell'art. 11, comma 3, deve assistere l'accordo sostitutivo
di provvedimento. La motivazione attiene al potere che risulta
assorbito nella convenzione, non a quello che non è stato speso ed al quale afferirebbero le determinazioni integratrici di fonte legale. Con
l'integrazione legale della convenzione, quanto agli obblighi ricadenti
sull'Amministrazione, si avrebbe una produzione di effetti giuridici per
un verso riconducibili alla legge, e non all'autorità amministrativa in
forma convenzionale, nonostante la presenza della norma attributiva
del potere, per l'altro carenti del requisito motivazionale.
Rispetto alla corona di poteri amministrativi non esauriti con la
conclusione dell'accordo, e tuttavia incidenti in linea di fatto
sull'attuazione dell'accordo medesimo, non essendo configurabile un
rapporto obbligatorio permane così una situazione di interesse
legittimo. Si tratta, per riprendere quanto affermato da questa Corte
a proposito della diversa fattispecie dell'accordo di programma di cui
all'art. 27 legge n. 142 del 1990 (poi trasfuso nell'art. 34 d.lgs. n.
267 del 2000), di una situazione analoga a quella dell'interesse
legittimo che viene in rilievo quando il privato intende esercitare il
potere di reazione avverso scelte discrezionali operate
dall'Amministrazione che rendono inattuabile l'accordo nei termini
programmati (cfr. Cass. 05.02.2021, n. 2738).
Per tornare al
caso di specie, relativo alla mancata approvazione sia della variante
al Programma di Recupero Urbano che dei progetti per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione, lo strumento di tutela da
esperire, a tutela dell'interesse pretensivo all'esercizio del potere
amministrativo in senso favorevole al privato, è quello dell'istanza
atipica di parte per l'adozione del provvedimento alla quale far
seguire, nel caso di permanenza dell'inerzia dell'Amministrazione, il
ricorso avverso il silenzio ai sensi dell'art. 117 cod. proc. amm..
Si
rammenti che nell'ambito della giurisdizione amministrativa la
domanda di risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo
trova il limite, ai sensi dell'art. 30, comma 3, cod. proc. amm., nei
danni che si sarebbero potuti evitare attraverso l'esperimento degli
strumenti di tutela previsti (come di recente rammentato da Cons.
Stato, ad. plen, 23.04.2021, n. 7).
2.4. Escluso che il diritto soggettivo, in relazione a quanto non
risulti divisato dalle clausole della convenzione urbanistica, possa
sorgere quale effetto di quest'ultima per via di integrazione legale,
deve accertarsi se una posizione di diritto soggettivo sia rinvenibile
assumendo il punto di vista del comportamento, che il Procuratore
generale ha introdotto nelle sue conclusioni motivate, scisso
dall'attuazione del rapporto convenzionale, ma tuttavia incidente
sull'esecuzione della convenzione ai fini della sussunzione della
fattispecie nella clausola arbitrale.
Il riferimento è a quanto di recente affermato da queste Sezioni
Unite, e cioè che spetta al giudice ordinario, per la ricorrenza di diritti
soggettivi, la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata
sulla lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un
provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica
amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e
buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno
prodotto al privato quale conseguenza della violazione
dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione
amministrativa è configurabile non solo nel caso in cui tale danno
derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto
ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento
amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il
proprio affidamento in un mero comportamento dell'amministrazione
(Cass. Sez. U. 28.04.2020, n. 8236; conforme Cass. Sez. U. 15.01.2021, n. 615).
Il procedimento amministrativo costituisce un'interlocuzione fra
l'Amministrazione ed il privato retta da norme per l'esercizio della
funzione amministrativa. Rispetto a tale agere che si dispiega
mediante atti formali e si colloca sul piano del diritto pubblico, deve
essere individuato quale sia lo spazio del comportamento in
violazione dei canoni di correttezza e buona fede perché lesivo
dell'affidamento riposto nell'adozione di un provvedimento
amministrativo.
Deve in particolare meglio essere definito il campo di
applicazione del diritto civile rispetto all'azione regolata dal diritto
amministrativo.
La buona fede che qui rileva non è quella che l'art. 1
della legge sul procedimento amministrativo menziona, quale forma
del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente alla
collaborazione, e che corrisponde non alla regola di diritto civile, ma a
un principio generale dell'ordinamento che ha la funzione, al pari della
collaborazione, di modellare l'esercizio del potere fronteggiato
dall'interesse legittimo (e di cui è espressione la previsione del
«termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi»
nell'art. 21-nonies per l'annullamento d'ufficio del provvedimento
amministrativo illegittimo, c.d. affidamento legittimo). La correttezza
che emerge con la lesione dell'affidamento è quella cui si correla una
posizione di diritto soggettivo.
Per la verità, nella stessa disciplina del procedimento
amministrativo s'incunea il diritto comune, ove si consideri l'art. 2-bis,
comma 1, della legge n. 241 del 1990, che prevede che la pubblica
amministrazione è tenuta «al risarcimento del danno ingiusto
cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento».
Come chiarito da Cons.
Stato, ad. plen., 04.05.2018, n. 5 (in materia di responsabilità
precontrattuale della pubblica amministrativa in procedura di
evidenza pubblica, sul cui solco è da ultimo Cons. Stato, sez. II, 20.11.2020, n. 7237), la norma individua un diritto soggettivo
perché la violazione del termine di conclusione del procedimento non
determina l'invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma
rappresenta un comportamento scorretto dell'Amministrazione. Più
precisamente, l'Adunanza plenaria chiarisce che il tempo del procedimento
non rientra nella sfera del potere dell'Amministrazione,
la quale rispetto al tempo è gravata da un obbligo. In definitiva, per
riprendere una classica distinzione dottrinale, la norma sul tempo del
procedimento è una norma non di azione, nella quale
l'Amministrazione rilevi come autorità, ma è una norma di relazione,
ricondotta da Cons. Stato, ad. plen, 23.04.2021, n. 7 nell'ambito
della responsabilità aquiliana.
Il campo del comportamento, soggetto alla normativa civilistica di
correttezza, corrisponde dunque a quell'area in cui l'Amministrazione
dismette i panni dell'autorità, o perché manchi una norma attributiva
del potere, come nel caso del tempo del procedimento, o perché la
stessa Amministrazione assuma una condotta che acquista rilevanza
al di là del regime degli atti formali del procedimento amministrativo,
entrando in un'area disciplinata dal diritto comune.
Rispetto alla mera
inerzia dell'Amministrazione, suscettibile di essere compulsata con
l'istanza del privato ed il successivo ricorso avverso il silenzio, o alle
condotte procedimentali quali l'obbligo di valutare le memorie scritte
ed i documenti presentati dai partecipanti al procedimento (art. 10) o
la tempestiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza (art. 10-bis), il comportamento dell'Amministrazione
rilevante ai fini dell'affidamento del privato «si pone -e va valutato-
su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti
procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene
esercitato il potere amministrativo» (Cass. Sez. U. 28.04.2020, n.
8236).
Deve trattarsi di un comportamento che, pur dispiegandosi anche
mediante atti formali, sul piano del significato sporga rispetto alla
fisiologia del procedimento e che pertanto si differenzi rispetto a
quest'ultimo, perché la responsabilità non è da procedimento, che
resta regola dell'azione di un'autorità che esercita un potere, ma da
comportamento. La questione della correttezza del comportamento è
indipendente da quella della legittimità del procedimento, il quale
potrebbe anche non essere attinto da violazioni sul piano formale.
La
fattispecie di comportamento lesivo dell'affidamento va così tenuta
distinta da quella di violazione della norma del procedimento (le cui
conseguenze, sul piano del provvedimento, sono regolate dall'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241), per cui potrebbe aversi un
comportamento in violazione della regola di responsabilità civile
nonostante la validità dell'atto sul piano del diritto pubblico. Non
differenziando peraltro procedimento e comportamento, e collegando
al medesimo presupposto di fatto la produzione di effetti giuridici
distinti a seconda del criterio qualificatorio adottato (legalità del
procedimento o correttezza del comportamento), si verrebbe a
riproporre l'antica teoria della prospettazione, elaborata sul finire del
diciannovesimo secolo dalla dottrina amministrativistica, secondo cui
ciò che determina la giurisdizione non è il petitum sostanziale, ossia
l'oggettiva situazione dedotta in giudizio, ma la situazione fatta valere
della parte, consentendo così a quest'ultima di scegliere il giudice cui
rivolgersi. La lesione dell'affidamento (ovvero della libertà di
autodeterminazione negoziale, secondo Cons. Stato, ad. plen., 04.05.2018, n. 5) quale danno evento, eventualmente in unione con
contegni non formali dell'Amministrazione, introduce una distinzione
già sul piano del fatto, ancor prima dell'effetto giuridico, rispetto alla
fattispecie di violazione procedimentale.
Entrando nella problematica dell'affidamento, come di recente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa, «per aversi un
affidamento giuridicamente tutelabile in capo al privato, occorre, da
un lato, una condotta della pubblica amministrazione connotata da
mala fede o da colpa in grado di far sorgere nell'interessato, versante
in una condizione di totale buona fede, un'aspettativa al
conseguimento di un bene della vita e, dall'altro, che la fiducia riposta
da quest'ultimo in un esito del procedimento amministrativo a lui favorevole
sia ragionevole e non colposamente assunta come
fondata» (Cons. Stato, sez. II, 09.03.2021, n. 2013, che ha
deferito all'Adunanza plenaria la questione, fra l'altro, delle condizioni
in presenza delle quali sia configurabile un diritto al risarcimento per
lesione dell'affidamento incolpevole). L'affidamento incolpevole di
natura civilistica si sostanzia così «nella fiducia, nella delusione della
fiducia e nel danno subito a causa della condotta dettata dalla fiducia
mal riposta; si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e non
contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata
sulla buone fede» (Cass. Sez. U. 28.04.2020, n. 8236).
Trattandosi della lesione dell'affidamento di natura civilistica,
differenziata ed indipendente, come si è detto, dalla violazione
procedimentale, deve intervenire un quid pluris rispetto alla mera
inerzia o alla mera sequenza di atti formali di cui si compone il
procedimento amministrativo. Quel quid pluris deve integrare una
fattispecie di diritto comune nella quale possa valutarsi, dal punto di
vista della qualificazione giuridica, che l'Amministrazione abbia
dismesso i panni dell'autorità che agisce sulla base di norme di azione
per avere assunto dei comportamenti, formali ed informali, eccedenti
il significato dell'esercizio fisiologico della funzione amministrativa,
entrando così in una sfera suscettibile di essere apprezzata, alla luce
della normativa di correttezza, alla stregua di un comune rapporto
paritario.
A fronte della possibilità di esperire gli strumenti di tutela
dell'interesse legittimo per la mancata emanazione di un
provvedimento amministrativo, deve essere intervenuto un
comportamento dell'Amministrazione che abbia indotto il privato a
non promuovere le iniziative a tutela del proprio interesse legittimo
pretensivo ed a confidare ragionevolmente sul soddisfacimento della
sua aspettativa. Dunque non la mera inerzia, suscettibile di essere
compulsata nelle forme previste dall'ordinamento, la quale potrebbe pure
risultare legittima all'esito dell'eventuale esercizio degli
strumenti di tutela, ma contegni positivi, formali ed informali, tali da
indurre colpevolmente il privato a fare affidamento su un esito
favorevole della vicenda in corso e ad astenersi dall'intraprendere le
iniziative a tutela del proprio legittimo interesse.
Data l'autonomia
della nozione di comportamento rispetto a quella di azione
amministrativa, dal punto di vista dell'esercizio della funzione l'inerzia
potrebbe essere legittima, ma ciò nondimeno risultano cagionate
dalla lesione dell'affidamento nell'emanazione di un provvedimento
favorevole conseguenze patrimoniali pregiudizievoli, in termini di
perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali condizionate
dal comportamento scorretto.
Sotto altro profilo, conseguenza della
lesione dell'affidamento, patrimonialmente rilevante, è anche quella
che al danno subito a cagione del colposo comportamento non possa
più rimediarsi con l'attivazione degli strumenti di tutela avverso
l'inerzia dell'Amministrazione, non tempestivamente attivati appunto
per l'affidamento ragionevolmente indotto dalla controparte pubblica.
Elemento costitutivo del diritto soggettivo dedotto in giudizio è
così l'affidamento colpevolmente indotto dall'Amministrazione con il
proprio comportamento circa l'emanazione del provvedimento tale da
indurre il privato a non esperire gli strumenti di tutela dell'interesse
legittimo pretensivo, ovvero tale da determinare, in assenza di una
questione di legittimità di diritto pubblico, l'irrilevanza degli strumenti
di controllo dell'azione amministrativa ai fini della preservazione della
sfera patrimoniale del privato, la quale può così essere riparata solo
con il rimedio risarcitorio.
Il privato che agisce per i danni ha l'onere
di allegare (e provare) lo specifico comportamento lesivo
dell'affidamento. Ricorrendo tale fattispecie, il diritto soggettivo che,
ai fini della compromettibilità in arbitrato, non poteva essere
configurato sulla base del rapporto derivato dalla convenzione
urbanistica, è suscettibile ora di essere individuato sulla base del
comportamento tenuto dall'Amministrazione, a prescindere
dall'adempimento dell'obbligazione convenzionale.
2.5. Tornando al caso di specie, va evidenziato che nell'atto
introduttivo di procedimento arbitrale, cui queste Sezioni Unite
possono accedere in ragione della natura processuale della censura
proposta, con riferimento al mancato completamento del
procedimento di approvazione della variante al Programma di
Recupero Urbano e alla mancata approvazione dei progetti per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione non risulta dedotta in
giudizio una specifica fattispecie di affidamento incolpevole del
privato, tale da avere indotto il medesimo a non esperire gli
strumenti di tutela dell'interesse legittimo (pretensivo) all'adozione
dei provvedimenti in questione. Vi è esclusivamente un riferimento
alla convocazione di CO.CA. «a decine di riunioni, facendole
sopportare ingenti spese legali e tecniche, per poi abbandonare le
trattative nel momento in cui risultava possibile la risoluzione di tutte
le problematiche pendenti».
Tale riferimento, a parte il problema
della configurabilità di una fattispecie di lesione dell'affidamento, è
posto però in relazione non alle suddette omissioni provvedimentali,
ma alla contestazione di difformità delle opere realizzate rispetto a
quanto assentito e di decadenza dalla concessione edilizia, nonché in
relazione alle istanze presentate «per la definizione di tali questioni».
Significativamente nel controricorso CO.CA. continua ad
esprimersi in termini di mera omissione di provvedimento ed
aggiunge che ciò che intendeva ottenere dagli arbitri, come si è
anticipato sopra, era «solo una valutazione del comportamento del
Comune in relazione agli obblighi assunti con la convenzione»,
obblighi la cui portata è stata sopra scrutinata quanto all'estraneità,
dei profili relativi al completamento del procedimento di approvazione
della variante al Programma di Recupero Urbano e all'approvazione
dei progetti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, agli
effetti dell'accordo.
Deve in conclusione escludersi che in relazione
all'emanazione di tali provvedimenti sia stata dedotta una specifica
fattispecie di lesione dell'affidamento. A fronte della mera omissione
provvedimentale non c'è che l'interesse legittimo pretensivo,
tutelabile con l'istanza atipica di provvedimento ed il ricorso avverso il
silenzio innanzi al giudice amministrativo.
Quanto invece all'omessa sottoscrizione del nuovo schema di
convenzione, che avrebbe consentito di aumentare il prezzo di
cessione degli alloggi, approvato con delibera del Consiglio comunale,
nell'atto introduttivo del giudizio è stata allegata l'inottemperanza del
Comune alla diffida a presentarsi presso il notaio per la stipulazione
della convenzione sulla base dello schema per il quale vi era la
delibera consiliare.
Non è dubbio che qualora tra l'approvazione dello
schema di convenzione e il momento di stipulazione della
convenzione stessa vengano meno i presupposti sui quali
l'approvazione è stata fondata, l'amministrazione procedente non
possa ritenersi obbligata alla stipulazione e, conseguentemente, a
proseguire il relativo iter procedimentale, potendo valutare
l'eventuale sussistenza di ragioni di revoca dell'approvazione, ai sensi
dell'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990.
Il rapporto dedotto
in giudizio non è però relativo all'esercizio del potere in questione, ma
al comportamento inerte dell'Amministrazione a fronte
dell'approvazione dello schema di convenzione. L'inerzia
dell'Amministrazione è qui in grado di acquistare, nello specifico
contesto della delibera consiliare di approvazione dello schema e del
permanente mancato esercizio del potere di revoca, la valenza di
comportamento tale da indurre il legittimo affidamento sulla
conclusione della convenzione, per cui può ritenersi dedotta in
giudizio la violazione della normativa di correttezza, da cui l'inerenza
della controversia a un diritto soggettivo.
2.6. Vanno in conclusione enunciati i seguenti principi di diritto:
- "posto che la convenzione urbanistica non è
suscettibile di produrre obblighi per la pubblica amministrazione, con i
correlativi diritti soggettivi del privato, attraverso l'integrazione legale
dell'accordo sostitutivo di provvedimento, per l'incompatibilità del
principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la
norma attributiva del potere amministrativo, la controversia relativa alla
mancata adozione di provvedimenti che abbia determinato la non eseguibilità
della convenzione, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, è afferente ad interessi legittimi e non può essere risolta
mediante arbitrato rituale di diritto";
- "affinché si perfezioni la fattispecie di
lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento
amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si
assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, e la relativa
controversia in quanto concernente diritti soggettivi possa essere risolta
mediante arbitrato rituale di diritto, è necessario che sia identificabile
un comportamento della pubblica amministrazione, differenziabile dalla mera
inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il
procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo
indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico, ovvero che
abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela
dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento
riposto nell'emanazione del provvedimento non più adottato"
(Corte di Cassazione, Sezz. Unite civili,
sentenza 11.05.2021 n. 12428). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella
specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due
componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore,
dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la
mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo
a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave
inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione
sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla
realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati,
concreti e specifici.
---------------
Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità
imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp.
3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza
di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata
sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra
due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei
ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma
1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi
giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di
ricusazione, in quanto:
- l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al
processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e
tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio
dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
- infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta
del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc.
pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla
pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed
fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n.
1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
- nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R.
n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del
difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati
–peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo
svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di
attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa
pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc.
civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si
trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi
dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati,
e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai
sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez.
IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia
disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc.
pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di
conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente»
ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
- anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di
cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore
all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il
pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo
giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare
rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le
Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i
Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio
di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera
delle parti private in funzione della creazione di situazioni di
incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice
naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
- né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave
inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del
menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è
sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque,
di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o
disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi
fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis,
Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id.,
ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
ENTI LOCALI - VARI: Nomina
del difensore civico nella Regione Lombardia.
----------------
Regioni – Difensore civico – Nomina -Adeguato presupposti culturali -
Necessità - Licenza di scuola media inferiore – Insufficienza.
Nella regione Lombardia, il difensore civico, per
poter svolgere le competenze attribuite dall’art. 61 dello Statuto regionale
-id est compiti di carattere para-giurisdizionale nei rapporti tra cittadino
ed amministrazione, in funzione del buon andamento e dell’imparzialità di
quest’ultima e della tutela dei diritti e degli interessi dei primi- deve
possedere una adeguata preparazione culturale, in aggiunta ai requisiti di
esperienza specificamente previsti per quest’ultimo dalla l.reg. Lombardia
n. 18 del 2010.
E' pertanto illegittima la nomina a difensore civico di un soggetto titolare
di licenza di scuola media inferiore, non potendosi considerare in possesso
di un “titolo di studio adeguato all’attività dell’organismo interessato” ai
sensi dell’art. 5, comma 2, lett. a), l.reg. n. 25 del 2009 (1).
----------------
(1) Ha premesso la Sezione che l’art. 61 dello statuto della
Regione Lombardia, dopo avere definito il difensore regionale “organo
indipendente della Regione” (comma 1), cui sono tra l’altro attribuiti i
compiti di “tutela i diritti e gli interessi dei cittadini singoli e
associati all’interno dei procedimenti regionali, verificando e promuovendo
la conoscenza, la trasparenza, la legalità, il buon andamento e
l’imparzialità” (comma 2, lett. a), da svolgere «garantendo la tutela
non giurisdizionale dei diritti e degli interessi e svolgendo attività di
mediazione» (comma 3), prevede che esso sia “scelto tra soggetti con
esperienza nei campi del diritto, dell’economia e dell’organizzazione
pubblica” (comma 4), sulla base di “requisiti per l’accesso
all’incarico” stabiliti con l’art. 2, comma 2, l.reg. n. 18 del 2010,
secondo cui il requisito di candidabilità consistente nell’esperienza “nei
campi del diritto, dell’economia e dell’organizzazione pubblica”, con
l’aggiunta che tali soggetti devono assicurare la “massima garanzia di
indipendenza, imparzialità e competenza amministrativa”.
Il successivo comma 3 specifica ulteriormente che i candidati devono essere
in possesso di una “qualificata esperienza professionale, almeno
decennale (…) nei settori di cui al comma 2, preferibilmente nel campo della
difesa dei diritti dei cittadini”, ed equipara a quella maturata “in
posizione dirigenziale presso enti od aziende pubbliche o private, ovvero di
lavoro autonomo assimilabile”, quella maturata ricoprendo per un
decennio “cariche pubbliche di parlamentare nazionale, consigliere
regionale, presidente o assessore regionale, presidente o assessore
provinciale, sindaco o assessore di comune con popolazione superiore a
15.000 abitanti”.
Ha evidenziato la Sezione che nella fattispecie rileva anche la l.reg.
Lombardia n. 25 del 2009, cui ambito di applicazione, definito dall’art. 2,
è relativo alle nomine e alle designazioni dei rappresentanti della Regione
negli organi di revisione degli enti strumentali della stessa, oltre che a
tutti i casi di “nomine e designazioni di rappresentanti del Consiglio
regionale nei casi espressamente previsti dallo Statuto e dalla legge”
(comma 1, lett. c). Per queste nomine e designazioni l’art. 5 della medesima
legge, relativo ai requisiti professionali dei soggetti da nominare,
richiede tra l’altro un «titolo di studio adeguato all’attività
dell’organismo interessato» (comma 2, lett. a).
Ad avviso della Sezione il requisito culturale alla figura del difensore
regionale della Lombardia. La tesi affermativa sostenuta sul punto
dall’appellante può essere accolta alla luce della consustanzialità di
un’adeguata preparazione culturale al ruolo alle funzioni del difensore
regionale quali definite dall’art. 61 dello Statuto. La disposizione ora
richiamata assegna infatti al difensore regionale compiti di carattere
para-giurisdizionale nei rapporti tra cittadino ed amministrazione, in
funzione del buon andamento e dell’imparzialità di quest’ultima e della
tutela dei diritti e degli interessi dei primi. Sulla base di ciò gli
assicura una posizione di indipendenza rispetto alla Regione.
Sul piano logico-sistematico la natura di organismo indipendente e la
funzioni tutorie e di garanzia assegnate dallo statuto al difensore
regionale esigono pertanto un’adeguata preparazione culturale in aggiunta ai
requisiti di esperienza specificamente previsti per quest’ultimo dalla
l.reg. Lombardia n. 18 del 2010.
Nella misura in cui alle funzioni di garanzia del difensore regionale sono
connaturate le conoscenze necessarie per promuovere “la conoscenza, la
trasparenza, la legalità, il buon andamento e l’imparzialità”
dell’amministrazione, dall’esperienza a tal fine richiesta dalla l.reg. n.
18 del 2010 non può andare disgiunto, come presupposto dell’indipendenza
statutariamente prevista, il possesso di titoli culturali adeguati
all’incarico (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 03.05.2021 n. 3465 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
... per la riforma della
sentenza 10.04.2019 n. 797 del Tribunale amministrativo regionale
per la Lombardia – Sede di Milano (sezione prima) n. 797/2019, resa tra le
parti, concernente l’elezione del difensore regionale della Lombardia;
...
1. L’avvocato Fo. sostiene che la nomina del sig. L. a difensore
civico regionale sarebbe illegittima per le seguenti ragioni:
- quest’ultimo sarebbe privo di «titolo di studio adeguato all’attività
dell’organismo interessato», ai sensi dell’art. 5, comma 2, della legge
regionale della Lombardia 04.12.2009, n. 25 (Norme per le nomine e
designazioni di competenza del Consiglio regionale), integrativa della legge
regionale 06.12.2010, n. 18 (Disciplina del Difensore regionale), il
cui art. 2, comma 2, prevede a sua volta che siano candidabili «i cittadini
esperti nei campi del diritto, dell’economia e dell’organizzazione pubblica,
che diano la massima garanzia di indipendenza, imparzialità e competenza
amministrativa»; secondo l’appellante il controinteressato non potrebbe
giovarsi del solo requisito di esperienza previsto dall’art. 2, comma 3,
della medesima legge regionale n. 18 del 2010, consistente nell’avere
ricoperto per oltre dieci anni cariche politiche, poiché quest’ultimo si
cumulerebbe con quello di competenza previsto dal comma 2 e sopra
richiamato, di cui il sig. L. è privo; la sentenza di primo grado avrebbe
pertanto errato nel considerare sufficiente i soli requisiti di esperienza
ed invece non necessari i titoli culturali previsti in generale dal sopra
citato art. 5, comma 2, l.reg. n. 25 del 2009;
- nel procedimento elettivo non sarebbe stata svolta alcuna comparazione tra
i curricula dei candidati, per cui sotto tale dirimente profilo la delibera
di elezione del controinteressato sarebbe carente di motivazione, mentre la
sentenza avrebbe errato nel considerare questa non necessaria in ragione del
carattere politico della scelta di competenza dell’organo consiliare;
- all’elezione del controinteressato osterebbe il divieto di conferire
incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza previsto dall’art. 5, comma
9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini,
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), applicabile anche al controinteressato quale ex consigliere
regionale titolare di vitalizio, diversamente da quanto affermato dalla
sentenza di primo grado;
- l’elezione del sig. L. sarebbe invalida perché sostenuta dalla
presentazione della candidatura di un solo consigliere regionale, che
tuttavia ha contemporaneamente proposto altre cinque candidature, in
violazione dell’art. 3, comma 1 della l.reg. 25 del 2009, che al contrario
di quanto statuito dalla sentenza di primo grado attribuisce il potere ai
«consiglieri regionali» collettivamente intesi;
- la candidatura del controinteressato sarebbe priva di un elemento
essenziale, consistente nell’indicazione dell’istituto scolastico presso il
quale quest’ultimo ha conseguito la licenza media e dunque incompleta e non
valutabile, ai sensi dell’art. 3, commi 5, lett. b), e 7, l.reg. n. 25 del
2009;
- non sarebbero stati valutati alcuni titoli professionali e di esperienza
dell’appellante: l’abilitazione forense e il conseguente titolo di avvocato
(anche presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in Palazzo Chigi), la
carica di segretario comunale, le specializzazioni ed i master, e gli
incarichi di ricoperti, oltre alle numerose attività internazionali, come
riconosciuto dalle stesse amministrazioni intimate, per cui sarebbe
irrilevante il fatto, considerato dalla sentenza a fondamento del rigetto
della censura, che i curricula dei candidati erano comunque a disposizione e
consultabili dai consiglieri regionali che hanno poi eletto il
controinteressato.
2. Premesso che la procedibilità dell’appello non è impedita dal fatto che
l’avvocato Fo. ha assunto nelle more del giudizio analoghi incarichi,
alla luce dell’interesse da esso manifestato ad ottenere quello oggetto del
presente contenzioso, delle censure da esso proposte e sopra sintetizzate
sono fondate (re melius perpensa rispetto all’ordinanza resa in sede di
appello cautelare, in data 08.09.2017, n. 3627) quelle oggetto del
primo motivo d’appello.
3. Esse sollecitano un’analisi dei rapporti tra le varie fonti normative
regionali relativi all’incarico in contestazione che deve muovere dalla
norma fondamentale contenuta nell’art. 61 dello statuto.
Dopo avere definito il difensore regionale «organo indipendente della
Regione» (comma 1), cui sono tra l’altro attribuiti i compiti di «tutela i
diritti e gli interessi dei cittadini singoli e associati all’interno dei
procedimenti regionali, verificando e promuovendo la conoscenza, la
trasparenza, la legalità, il buon andamento e l’imparzialità» (comma 2,
lett. a), da svolgere «garantendo la tutela non giurisdizionale dei diritti
e degli interessi e svolgendo attività di mediazione» (comma 3), la
disposizione statutaria prevede che esso sia «scelto tra soggetti con
esperienza nei campi del diritto, dell’economia e dell’organizzazione
pubblica» (comma 4), sulla base di «requisiti per l’accesso all’incarico»
stabiliti con «legge, approvata a maggioranza dei componenti del Consiglio
regionale» (comma 7).
4. La legge in questione è la già citata avente n. 18 del 2010, il cui art.
2, comma 2, riproduce l’art. 61, comma 4, dello statuto nella parte in cui
prevede il requisito di candidabilità consistente nell’esperienza «nei campi
del diritto, dell’economia e dell’organizzazione pubblica», con l’aggiunta
che tali soggetti devono assicurare la «massima garanzia di indipendenza,
imparzialità e competenza amministrativa».
Il successivo comma 3 specifica
ulteriormente che i candidati devono essere in possesso di una «qualificata
esperienza professionale, almeno decennale (…) nei settori di cui al comma
2, preferibilmente nel campo della difesa dei diritti dei cittadini», ed
equipara a quella maturata «in posizione dirigenziale presso enti od aziende
pubbliche o private, ovvero di lavoro autonomo assimilabile», quella
maturata ricoprendo per un decennio «cariche pubbliche di parlamentare
nazionale, consigliere regionale, presidente o assessore regionale,
presidente o assessore provinciale, sindaco o assessore di comune con
popolazione superiore a 15.000 abitanti».
5. Nella fattispecie oggetto del presente giudizio rileva anche la parimenti
sopra citata legge regionale della Lombardia n. 25 del 2009, contenente le
norme «per le nomine e designazioni di competenza del Consiglio regionale»
(così l’intitolazione), ed il cui ambito di applicazione, definito dall’art.
2, è relativo alle nomine e alle designazioni dei rappresentanti della
Regione negli organi di revisione degli enti strumentali della stessa, oltre
che a tutti i casi di «nomine e designazioni di rappresentanti del Consiglio
regionale nei casi espressamente previsti dallo Statuto e dalla legge»
(comma 1, lett. c).
Per queste nomine e designazioni l’art. 5 della medesima
legge, relativo ai requisiti professionali dei soggetti da nominare,
richiede tra l’altro un «titolo di studio adeguato all’attività
dell’organismo interessato» (comma 2, lett. a), di cui l’avvocato Fo.
assume essere privo il controinteressato.
6. Tanto premesso, le questioni poste dal primo motivo d’appello riguardano
la possibilità di estendere il requisito culturale alla figura del difensore
regionale della Lombardia. La tesi affermativa sostenuta sul punto
dall’appellante può essere accolta alla luce della consustanzialità di
un’adeguata preparazione culturale al ruolo alle funzioni del difensore
regionale quali definite dall’art. 61 dello statuto.
La disposizione ora
richiamata assegna infatti al difensore regionale compiti di carattere
para-giurisdizionale nei rapporti tra cittadino ed amministrazione, in
funzione del buon andamento e dell’imparzialità di quest’ultima e della
tutela dei diritti e degli interessi dei primi. Sulla base di ciò gli
assicura una posizione di indipendenza rispetto alla Regione.
7. Sul piano logico-sistematico la natura di organismo indipendente e la
funzioni tutorie e di garanzia assegnate dallo statuto al difensore
regionale esigono pertanto un’adeguata preparazione culturale in aggiunta ai
requisiti di esperienza specificamente previsti per quest’ultimo dalla legge
regionale n. 18 del 2010.
La tesi opposta conduce infatti all’aporia per cui
solo nei confronti di soggetti incaricati di svolgere funzioni di
rappresentanza nell’interesse della Regione ai sensi della legge regionale
n. 25 del 2009 sono richiesti adeguati titoli culturali e non anche nella
figura preposta per statuto alla tutela dei diritti e dei cittadini nei
confronti della medesima amministrazione regionale.
Per contro, nella misura
in cui alle funzioni di garanzia del difensore regionale sono connaturate le
conoscenze necessarie per promuovere «la conoscenza, la trasparenza, la
legalità, il buon andamento e l’imparzialità» dell’amministrazione,
dall’esperienza a tal fine richiesta dalla legge regionale n. 18 del 2010
non può andare disgiunto, come presupposto dell’indipendenza statutariamente
prevista, il possesso di titoli culturali adeguati all’incarico.
8. I rilievi di ordine logico-sistematico finora svolti non sono infirmati
dal fatto, posto in rilievo dagli appellati, che l’art. 61 dello statuto
demanda alla «legge, approvata a maggioranza dei componenti del Consiglio
regionale, (…) i limiti e le modalità dell’esercizio delle funzioni, i
requisiti per l’accesso all'incarico, le cause di ineleggibilità e
incompatibilità, il trattamento economico del Difensore, assicurandone
l’effettiva autonomia e indipendenza», e che la fonte normativa così
individuata è la legge regionale n. 18 del 2010, e non anche la n. 25 del
2009.
L’una non esclude infatti l’altra, posto che la specialità ratione materiae
assegnata dallo statuto alla prima non implica, in assenza di elementi
testuali, alcuna esclusività o deroga rispetto alle norme di carattere
generale previste per le nomine di competenza del consiglio regionale.
9. Sulla base di tutto quanto finora considerato il primo motivo d’appello
va accolto, avuto riguardo al fatto che rispetto all’elezione a difensore
regionale il sig. L., titolare di licenza di scuola media inferiore, deve
considerarsi non in possesso di un «titolo di studio adeguato all’attività
dell’organismo interessato» ai sensi del sopra citato art. 5, comma 2, lett.
a), della legge regionale n. 25 del 2009.
10. L’appello va dunque accolto in ragione dell’assorbente fondatezza del
primo motivo. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, il
ricorso dell’avvocato Fo. deve essere accolto per cui l’elezione del
sig. L. a difensore regionale ai sensi dell’art. 61 dello statuto della
Regione Lombardia va annullata.
In esecuzione della presente sentenza il
procedimento elettivo dovrà essere rinnovato senza tenere conto della
candidatura del controinteressato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2021 n. 3465 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Motivazione
postuma e convalida.
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●
Atto amministrativo – Convalida – Difetto di motivazione – Supplemento di
motivazione – Condizione.
●
Atto amministrativo – Convalida – Difetto di motivazione – In corso di
giudizio – Limiti.
●
Atto amministrativo – Convalida – Difetto di motivazione – Art. 10-bis, l.
n. 241 del 1990 come modificato dall’art. 12, comma 1, lett. e), d.l. n. 76
del 2020 – Applicabilità.
●
Ai fini della convalida dell’atto viziato da insufficiente motivazione, va
posta la distinzione:
a) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della
funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto
dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non
può giammai essere emendato, tanto meno con un mero maquillage della
motivazione: l’atto dovrà comunque essere annullato;
b) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una
insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto
riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale
dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non
riconoscersi all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila
delle stesse risultanze procedimentali, munendo l’atto originario di una
argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza
dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli
interessi appresi nel procedimento (1).
●
La convalida dell’atto viziato da insufficiente motivazione, va posta la
distinzione:
a) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale può
essere adottata anche se pende l’impugnativa dell’atto da convalidare; in
tale caso, l’interessato, con motivi aggiunti, può domandare, sia
l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato
‒contestandone quindi la stessa ammissibilità‒, sia l’annullamento dell’atto
come convalidato, adducendone la persistente illegittimità (2).
●
L’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, come novellato dall’art. 12,
comma 1, lett. e, d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni,
dalla l. 11.09.2020, n. 120 ‒che impone alla pubblica amministrazione di
esaminare l’affare nella sua interezza, già nella fase del procedimento,
sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò
non potendo tornare a decidere sfavorevolmente in relazione ai profili non
ancora esaminati‒ deve trovare applicazione, per evidenti ragioni
sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida
per difetto di motivazione (3).
---------------
(1) La Sezione ha affrontato la questione della conservazione
dell’atto amministrativo operata mediante un nuovo atto integrativo della
motivazione insufficiente.
La dottrina pubblicistica ha sempre ritenuto ammissibile il fenomeno della
«convalescenza» dell’atto amministrativo. La possibilità per
l’Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una
decisione di carattere conservativo trova fondamento nel principio generale
di economicità e conservazione dei valori giuridici e nella garanzia del
buon andamento dell’agire amministrativo.
A seconda della specie di vizio da emendarsi, è stata nel corso del tempo
elaborata una articolata tassonomia di atti ad esito confermativo, dei quali
fanno parte: la conferma, la ratifica, la convalida, la rettifica, la
conversione e la sanatoria.
Sul piano della ricostruzione sistematica, l’insieme di tali istituti è
stato ricompreso nella categoria dell’autotutela, ovvero della potestà
generale dell’amministrazione di prevenire o risolvere le controversie sulla
legittimità dei propri atti, inquadrandoli fra i procedimenti di secondo
grado.
In particolare, la pubblica amministrazione ha la facoltà di convalidare i
propri atti affetti da vizi di legittimità, attraverso una manifestazione di
volontà intesa ad eliminare il vizio da cui l’atto stesso è inficiato.
Al pari dell’istituto romanistico della convalida del contratto annullabile,
la convalida amministrativa trae anch’essa origine dalla necessità di
rimediare alla “rottura” del collegamento funzionale tra fattispecie
concreta e fattispecie astratta, ma si distingue dall’omonimo istituto civilistico, in quanto: nel diritto privato, la convalida si attua
attraverso atti e comportamenti negoziali della parte che potrebbe avvalersi
dell’invalidità a proprio vantaggio; nel diritto amministrativo, invece
soggetto legittimato alla convalida è colui (l’apparato amministrativo) che
intende prevenire o scongiurare l’azione di annullamento della controparte.
La l. 11.02.2005, n. 15, ha tipizzato la figura, pur restando tra gli
istituti meno studiati in ragione della sua limitata applicazione pratica e
giurisprudenziale.
Il comma 2 dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 fa espressamente «salva
la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole».
Per quanto scarna, la proposizione tratteggia la convalida come un istituto
di carattere generale, volto a rendere l’atto stabile a tutti gli effetti
per i quali è preordinato, ogniqualvolta il pubblico interesse ne richieda
il consolidamento.
Sotto altro profilo, la collocazione della norma nel medesimo articolo
dedicato all’annullamento d’ufficio, conferma la comune ambientazione dei
due istituti nell’ambito dell’autotutela. Tale correlazione appare altresì
espressiva di un principio di preferenza per la scelta amministrativa volta
alla correzione e alla conservazione ‒ove possibile‒ di quanto
precedentemente disposto, rispetto all’opzione eliminatoria.
L’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore consente di
ricomprendere nella convalida anche altre figure giuridiche, pure espressive
del fenomeno della convalescenza, quali: i) la sanatoria, ovvero l’effetto
che si verifica allorquando un provvedimento viziato per mancanza nel
procedimento di un atto preparatorio viene sanato dalla successiva
emanazione dell’atto mancante; ii) la ratifica, consistente
nell’appropriazione dell’atto, emesso da un organo incompetente (ovvero
fornito di una competenza temporanea e occasionale), da parte della Autorità
che sarebbe stata competente.
La convalida continua invece a distinguersi, per struttura e funzione, da
altri istituti limitrofi e segnatamente:
a) dall’atto meramente confermativo
‒enucleato dalla giurisprudenza per impedire l’elusione della perentorietà
del termine di ricorso‒ il quale non modifica forma, motivazione e
dispositivo del provvedimento confermato (rimasto generalmente inoppugnato);
b) dalla conferma propria, la quale ‒sebbene connotata dall’apertura di una
nuova istruttoria‒ non è comunque volta a rimuovere alcun vizio;
c) dalla
rettifica, avente ad oggetto le difformità che con comportano l’invalidità
del provvedimento originario ma solo la sua irregolarità; d) dalla
conversione che tiene fermo l’atto originario sussumendolo però sotto una
diversa fattispecie legale.
Sul piano della dinamica giuridica, la convalida non determina una
modificazione strutturale del provvedimento viziato (non configurabile
neppure logicamente, essendosi la fattispecie stessa già integralmente
conclusa), bensì il sorgere di una fattispecie complessa, derivante dalla
“saldatura” con il provvedimento convalidato, fonte di una sintesi
effettuale autonoma.
L’efficacia consolidativa degli effetti della convalida opera
retroattivamente: il provvedimento di convalida, ricollegandosi all’atto
convalidato, ne mantiene fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne
emanato (si tratta di una opinione risalente quantomeno a Consiglio di
Stato, sez. V, 21.07.1951, n. 682). La decorrenza ex tunc è connaturale
alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un
provvedimento nuovo ed autonomo. È questa la principale differenza rispetto
alla rinnovazione dell’atto che invece non retroagisce per conservarne gli
effetti fin dall’origine.
La retroattività della convalida trova tuttavia un importante limite nelle
ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine
perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene
necessariamente meno.
Sul piano della struttura, il legislatore conferma che la convalida ha un
contenuto positivo e non si sostanzia nella mera rinunzia a far valere la
potestà di auto-annullamento (come pure in passato teorizzato da alcuni
autori).
Il legislatore non ha voluto tuttavia irrigidire i requisiti di
forma-contenuto dell’atto: pare quindi superato quell’orientamento
giurisprudenziale che, in analogia con le disposizioni del codice civile,
riteneva che la convalida dovesse necessariamente contenere l’espressa
menzione dell’atto da convalidare, del vizio che lo inficia, e la chiara
manifestazione della volontà di eliminare il vizio.
Appare infatti sufficiente che, dal tenore complessivo, si desuma che la
“causa” dell’atto è quella di dare stabilità e sicurezza a un atto invalido,
in quanto la situazione, che da esso è derivata, ne richiede il
consolidamento (e dunque «sussistendone le ragioni di interesse pubblico»).
La norma, analogamente a quanto disposto per l’annullamento d’ufficio,
richiede che l’esercizio del potere di riesame avvenga entro un termine
ragionevole. Peraltro, è interessante notare come lo stesso trascorrere del
tempo possa contribuire a corroborare il legittimo affidamento del privato
che dal provvedimento invalido abbia ricavato delle utilità (circostanza,
come noto, ostativa all’esercizio dei poteri di auto-annullamento ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
Ciò posto in via generale, veniamo ora al principale nodo problematico
rilevante ai fini del decidere: l’emendabilità tramite l’atto di convalida
del vizio di motivazione, in termini generali e nel corso del giudizio già
instaurato per il suo annullamento.
Non si vi sono dubbi circa la possibilità di emendare i vizi di tipo formale
e procedimentale, ivi compreso quello di incompetenza (relativa). Deve
ritenersi possibile per la pubblica amministrazione anche di procedere alla
convalida di un provvedimento non annullabile ai sensi del citato comma 2
dell’art. 21-octies (la cui regola si muove sul piano processuale), sebbene
in tal caso l’utilità giuridica consista al più soltanto in una maggiore
certezza e stabilità del rapporto amministrativo.
Non sono invece sanabili i vizi che possono definirsi “sostanziali” ‒derivanti cioè dall’insussistenza di un presupposto o requisito di legge,
ovvero dall’irragionevolezza e non proporzionalità del decisum‒ rispetto ai
quali la semplice dichiarazione dell’Amministrazione di volerli convalidare
non può che rimanere priva di effetto.
La convalida, in questi casi, non potrebbe mai assicurare il permanere,
senza alterazioni, della parte dispositiva del provvedimento su cui intende
operare. Se infatti l’illegittimità attiene al contenuto dell’atto, la
stessa può essere eliminata solo attraverso la sua riforma (spunti in tal
senso si traggono, sia pure nel diverso contesto della c.d. fiscalizzazione
dell’abuso edilizio, nella decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 17 del 2020).
Sono così poste le basi per comprendere entro quali limiti è possibile
convalidare ‒ossia sottrarre al rimedio dell’annullamento (e dell’auto
annullamento)‒ il vizio di insufficiente motivazione.
(2) La Sezione si è posta il problema della convalida in corso di
giudizio.
Nel vigore del modello processuale amministrativo primigenio ‒in cui la
res
litigiosa era tutta incentrata “sull’atto”‒, si è sempre ritenuta ineludibile condizione di ammissibilità della convalida la circostanza che
non fosse pendente l’impugnativa dell’atto da convalidare. Se infatti ‒si
diceva‒ la convalida valesse ad impedire l’annullamento dell’atto invalido
in pendenza di una impugnativa giurisdizionale, l’Autorità finirebbe con
l’eludere le garanzie predisposte a tutela del cittadino leso dal
provvedimento, il quale «ha acquisito il diritto a ottenere una decisione di
annullamento del provvedimento viziato».
A tale assunto, si faceva eccezione soltanto per il caso del vizio di
incompetenza in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 6, l. n.
249 del 1968 ‒secondo cui “Alla convalida in corso di giudizio degli atti
viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede
amministrativa e giurisdizionale”‒ norma ritenuta dai più espressiva di un
principio generale, come tale applicabile per analogia anche ad altri casi
affini.
Sennonché, le ragioni di tale preclusione sono totalmente venute meno
nell’impianto del nuovo processo amministrativo.
In primo luogo, al privato è oramai riconosciuta la possibilità di
impugnare, mediante la proposizione di motivi aggiunti, tutti i
provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti e
connessi all’oggetto del ricorso stesso.
L’interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare,
sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato ‒contestandone quindi la stessa “ammissibilità”‒, sia l’annullamento
dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità.
Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e
concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, c.p.a.), i quali postulano il
massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato
amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire
all’interno dello stesso rapporto processuale ‒per quanto possibile‒ tutti
gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare
una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o
conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti
parcellizzazioni della medesima disputa.
Quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un
provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato
per mero difetto di motivazione ‒in quanto il giudicato non ha potuto
accertare la spettanza del provvedimento favorevole‒, la combinazione di
convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un ‘remand’
o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso
l’atto di riesercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità
cognitive dell’azione di annullamento, consentendo di focalizzare
l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di
potere (diversa è l’ipotesi in cui venga contestato un atti non ripetibile,
giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto
retroattivo).
Il predetto dispositivo di concentrazione ‒coniugando l’inesauribilità del
potere amministrativo con il diritto di difesa‒ agevola entrambe le parti
del giudizio, in quanto: consente al ricorrente una più rapida ed efficace
verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso (perseguita
attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di
motivazione); consente all’amministrazione di evitare annullamenti del tutto
“sovradimensionati” rispetto alla reale consistenza dell’interesse materiale
del privato, potendo dimostrare che l’insufficiente motivazione non ha
alterato la fondatezza sostanziale della decisione.
(3) Nei procedimenti ad istanza di parte, la definizione positiva
(e non parentetica) del conflitto sarà peraltro agevolata dalla nuova regola
di preclusione procedimentale di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990
(come novellato dall’art. 12, comma 1, lett. e), d.l. 16.07.2020, n.
76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.09.2020, n. 120),
secondo cui “In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così
adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può
addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria
del provvedimento annullato”.
Tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare
nella sua interezza ‒già nella fase del procedimento (e non solo nel
processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr.
Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una
volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo
tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non
ancora esaminati‒ dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni
sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida
per difetto di motivazione.
Ha ancora chiarito la Sezione che l’ammissibilità, nei limiti anzidetti, di
una motivazione successiva non comporta una ‘dequotazione’ dell’obbligo
motivazionale, sussistendo adeguati disincentivi alla sua inosservanza: sul
piano individuale, perché restano ferme le ricadute negative sulla
valutazione della performance del funzionario; sul piano processuale, in
quanto il giudice potrà accollare (in tutto o in parte) le spese di lite
all’Amministrazione che (pur non soccombente, cionondimeno) abbia con il suo
comportamento dato scaturigine alla controversia
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2021 n. 3385 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6.‒ Con il primo motivo di gravame, il Codacons contesta il capo di
sentenza che ha dichiarato improcedibili il ricorso introduttivo ed i primi
motivi aggiunti.
Il giudice di primo grado ha fondato tale statuizione sulla considerazione
che il provvedimento di archiviazione del 23.09.2013, originariamente
impugnato, doveva ritenersi oramai superato dal successivo atto del 18.04.2014, con il quale l’Autorità non si era limitata a confermare
l’esito dell’archiviazione disposta, bensì aveva fornito le ragioni (che
precedentemente non aveva puntualmente esplicitato) a sostegno della
decisione assunta.
Secondo l’appellante, tale statuizione si porrebbe in contrasto con il
divieto di motivazione postuma.
La questione così sollevata, in parte nuova, necessità di una premessa
ricostruttiva.
6.1.‒ Il problema dell’integrazione della motivazione dell’atto
amministrativo in corso di giudizio, può essere tematizzato in relazione
alle seguenti diverse fattispecie:
i) la motivazione postuma fornita dall’amministrazione resistente attraverso
gli scritti difensivi;
ii) la statuizione del giudice di non annullabilità dell’atto viziato da
carente motivazione, qualora «sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (in
applicazione, dunque, dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990);
iii) la possibilità di sanare la motivazione carente o insufficiente con un
provvedimento di convalida.
6.2.‒ Con riguardo alla prima ipotesi (dell’integrazione della motivazione
tramite atto difensivo), l’orientamento della giurisprudenza è stato sempre
di segno negativo.
Gli argomenti tradizionalmente addotti possono essere così sintetizzati:
senza una motivazione anteriore al giudizio, verrebbero frustrati gli
apporti (oppositivi o collaborativi) del partecipante al procedimento,
essendo la motivazione della decisione strettamente legata alle «risultanze
dell’istruttoria»; non si potrebbe consentire all’amministrazione di
modificare unilateralmente l’oggetto del giudizio rappresentato dall’atto
originariamente adottato; si imporrebbe al privato di attivare la tutela
giurisdizionale praticamente “al buio”, potendo questi conoscere le ragioni
alla base della decisione soltanto nel corso del processo; ulteriore
conferma, nel segno della inammissibilità, si traeva poi dall’art. 6, della
legge 18.03.1968, n. 249, il quale non ammetteva la convalida nelle more
del giudizio se non con riguardo ai vizi di incompetenza.
6.3.‒ Il dibattito sulla motivazione postuma si è riproposto quando il
legislatore, al fine di alleggerire il peso dei vincoli formali e
procedimentali di una pubblica amministrazione che si sarebbe voluta
informata ad una logica di “risultato” più che alla legalità “formale” dei
singoli atti, ha introdotto la regola della non applicabilità della misura caducatoria in presenza di difformità dallo schema legale che non abbiano
influenzato la composizione degli interessi prefigurata nel dispositivo
della decisione (si tratta, come noto, dell’art. 21-octies, comma 2, primo
periodo, della legge 07.08.1990, n. 241, inserito dall’articolo 14, comma
1, della legge 11.02.2005, n. 15).
Le pronunce che avevano inizialmente ritenuto di fare applicazione della
predetta clausola di non annullabilità, considerando il difetto di
motivazione come vizio di carattere meramente formale reso irrilevante
dall’accertamento che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, sono rimaste sporadiche e
isolate.
L’indirizzo maggioritario della giurisprudenza amministrativa si è infatti
ben presto orientato nel senso che «il difetto di motivazione nel
provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di
norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di
legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento
ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non
invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014,
n. 1629; sezione sesta, 22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta, 27.03.2013, n. 1808).
Sulla scorta di tale indirizzo giurisprudenziale, la Corte costituzionale ha
dichiarato, con l’ordinanza 26.05.2015, n. 92, la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art.
21-octies, comma 2, della n. 241 de 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, da una sezione
giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che
la rimettente si era sottratta al doveroso tentativo di sperimentare
l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
chiedendo un improprio avallo a una determinata interpretazione della norma
censurata.
Anche la dottrina ha sostenuto l’opinione di inammissibilità della
motivazione postuma (sia attraverso gli scritti difensivi che attraverso la
regola del raggiungimento dello scopo), ritenendola in contrasto anche con
le regole del giusto procedimento amministrativo come delineato dal diritto
euro-unitario (in particolare, l’art. 296 TFUE, che richiede la motivazione
per tutti gli atti delle istituzioni comunitarie, inclusi quelli normativi,
e il diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea ) e dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia, che qualifica la motivazione come «forma sostanziale» e
motivo d’ordine pubblico da sollevarsi d’ufficio (ex plurimis, Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, sez. VII, 11.04.2013, n. 652, C-652/11).
6.4.‒ Nel presente giudizio viene in rilievo la diversa fattispecie della
conservazione dell’atto amministrativo operata mediante un nuovo atto
integrativo della motivazione insufficiente.
7.‒ La dottrina pubblicistica ha sempre ritenuto ammissibile il fenomeno
della «convalescenza» dell’atto amministrativo. La possibilità per
l’Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una
decisione di carattere conservativo trova fondamento nel principio generale
di economicità e conservazione dei valori giuridici e nella garanzia del
buon andamento dell’agire amministrativo.
A seconda della specie di vizio da emendarsi, è stata nel corso del tempo
elaborata una articolata tassonomia di atti ad esito confermativo, dei quali
fanno parte: la conferma, la ratifica, la convalida, la rettifica, la
conversione e la sanatoria.
Sul piano della ricostruzione sistematica, l’insieme di tali istituti è
stato ricompreso nella categoria dell’autotutela, ovvero della potestà
generale dell’amministrazione di prevenire o risolvere le controversie sulla
legittimità dei propri atti, inquadrandoli fra i procedimenti di secondo
grado.
7.1.‒ In particolare, la pubblica amministrazione ha la facoltà di
convalidare i propri atti affetti da vizi di legittimità, attraverso una
manifestazione di volontà intesa ad eliminare il vizio da cui l’atto stesso
è inficiato.
Al pari dell’istituto romanistico della convalida del contratto annullabile,
la convalida amministrativa trae anch’essa origine dalla necessità di
rimediare alla “rottura” del collegamento funzionale tra fattispecie
concreta e fattispecie astratta, ma si distingue dall’omonimo istituto civilistico, in quanto: nel diritto privato, la convalida si attua
attraverso atti e comportamenti negoziali della parte che potrebbe avvalersi
dell’invalidità a proprio vantaggio; nel diritto amministrativo, invece
soggetto legittimato alla convalida è colui (l’apparato amministrativo) che
intende prevenire o scongiurare l’azione di annullamento della controparte.
7.2.‒ La legge 11.02.2005, n. 15, ha tipizzato la figura, pur restando
tra gli istituti meno studiati in ragione della sua limitata applicazione
pratica e giurisprudenziale.
Il comma 2 dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 fa espressamente
«salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole».
Per quanto scarna, la proposizione tratteggia la convalida come un istituto
di carattere generale, volto a rendere l’atto stabile a tutti gli effetti
per i quali è preordinato, ogniqualvolta il pubblico interesse ne richieda
il consolidamento.
Sotto altro profilo, la collocazione della norma nel medesimo articolo
dedicato all’annullamento d’ufficio, conferma la comune ambientazione dei
due istituti nell’ambito dell’autotutela. Tale correlazione appare altresì
espressiva di un principio di preferenza per la scelta amministrativa volta
alla correzione e alla conservazione ‒ove possibile‒ di quanto
precedentemente disposto, rispetto all’opzione eliminatoria.
7.3.‒ L’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore consente di
ricomprendere nella convalida anche altre figure giuridiche, pure espressive
del fenomeno della convalescenza, quali: i) la sanatoria, ovvero l’effetto
che si verifica allorquando un provvedimento viziato per mancanza nel
procedimento di un atto preparatorio viene sanato dalla successiva
emanazione dell’atto mancante; ii) la ratifica, consistente
nell’appropriazione dell’atto, emesso da un organo incompetente (ovvero
fornito di una competenza temporanea e occasionale), da parte della Autorità
che sarebbe stata competente.
La convalida continua invece a distinguersi, per struttura e funzione, da
altri istituti limitrofi e segnatamente:
a) dall’atto meramente confermativo ‒enucleato dalla giurisprudenza per
impedire l’elusione della perentorietà del termine di ricorso‒ il quale non
modifica forma, motivazione e dispositivo del provvedimento confermato
(rimasto generalmente inoppugnato);
b) dalla conferma propria, la quale ‒sebbene connotata dall’apertura di una
nuova istruttoria‒ non è comunque volta a rimuovere alcun vizio;
c) dalla rettifica, avente ad oggetto le difformità che con comportano
l’invalidità del provvedimento originario ma solo la sua irregolarità;
d) dalla conversione che tiene fermo l’atto originario sussumendolo però
sotto una diversa fattispecie legale.
7.4.‒ Sul piano della dinamica giuridica, la convalida non determina una
modificazione strutturale del provvedimento viziato (non configurabile
neppure logicamente, essendosi la fattispecie stessa già integralmente
conclusa), bensì il sorgere di una fattispecie complessa, derivante dalla
“saldatura” con il provvedimento convalidato, fonte di una sintesi
effettuale autonoma.
L’efficacia consolidativa degli effetti della convalida opera
retroattivamente: il provvedimento di convalida, ricollegandosi all’atto
convalidato, ne mantiene fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne
emanato (si tratta di una opinione risalente quantomeno a Consiglio di
Stato, sez. V, 21.07.1951, n. 682). La decorrenza ex tunc è connaturale
alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un
provvedimento nuovo ed autonomo. È questa la principale differenza rispetto
alla rinnovazione dell’atto che invece non retroagisce per conservarne gli
effetti fin dall’origine.
La retroattività della convalida trova tuttavia un importante limite nelle
ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine
perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene
necessariamente meno.
7.5.‒ Sul piano della struttura, il legislatore conferma che la convalida ha
un contenuto positivo e non si sostanzia nella mera rinunzia a far valere la
potestà di auto-annullamento (come pure in passato teorizzato da alcuni
autori).
Il legislatore non ha voluto tuttavia irrigidire i requisiti di
forma-contenuto dell’atto: pare quindi superato quell’orientamento
giurisprudenziale che, in analogia con le disposizioni del codice civile,
riteneva che la convalida dovesse necessariamente contenere l’espressa
menzione dell’atto da convalidare, del vizio che lo inficia, e la chiara
manifestazione della volontà di eliminare il vizio.
Appare infatti sufficiente che, dal tenore complessivo, si desuma che la
“causa” dell’atto è quella di dare stabilità e sicurezza a un atto invalido,
in quanto la situazione, che da esso è derivata, ne richiede il
consolidamento (e dunque «sussistendone le ragioni di interesse pubblico»).
La norma, analogamente a quanto disposto per l’annullamento d’ufficio,
richiede che l’esercizio del potere di riesame avvenga entro un termine
ragionevole. Peraltro, è interessante notare come lo stesso trascorrere del
tempo possa contribuire a corroborare il legittimo affidamento del privato
che dal provvedimento invalido abbia ricavato delle utilità (circostanza,
come noto, ostativa all’esercizio dei poteri di auto-annullamento ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
8.‒ Ciò posto in via generale, veniamo ora al principale nodo problematico
rilevante ai fini del decidere: l’emendabilità tramite l’atto di convalida
del vizio di motivazione, in termini generali e nel corso del giudizio già
instaurato per il suo annullamento.
8.1.‒ Non si vi sono dubbi circa la possibilità di emendare i vizi di tipo
formale e procedimentale, ivi compreso quello di incompetenza (relativa).
Deve ritenersi possibile per la pubblica amministrazione anche di procedere
alla convalida di un provvedimento non annullabile ai sensi del citato comma
2 dell’art. 21-octies (la cui regola si muove sul piano processuale),
sebbene in tal caso l’utilità giuridica consista al più soltanto in una
maggiore certezza e stabilità del rapporto amministrativo.
Non sono invece sanabili i vizi che possono definirsi “sostanziali” ‒derivanti cioè dall’insussistenza di un presupposto o requisito di legge,
ovvero dall’irragionevolezza e non proporzionalità del decisum‒ rispetto ai
quali la semplice dichiarazione dell’Amministrazione di volerli convalidare
non può che rimanere priva di effetto.
La convalida, in questi casi, non potrebbe mai assicurare il permanere,
senza alterazioni, della parte dispositiva del provvedimento su cui intende
operare. Se infatti l’illegittimità attiene al contenuto dell’atto, la
stessa può essere eliminata solo attraverso la sua riforma (spunti in tal
senso si traggono, sia pure nel diverso contesto della c.d. fiscalizzazione
dell’abuso edilizio, nella decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 17 del 2020).
8.2.‒ Sono così poste le basi per comprendere entro quali limiti è possibile
convalidare ‒ossia sottrarre al rimedio dell’annullamento (e dell’auto
annullamento)‒ il vizio di insufficiente motivazione. In particolare, va
rimarcata la seguente distinzione:
i) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della
funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto
dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non
può giammai essere emendato, tanto meno con un mero maquillage della
motivazione: l’atto dovrà comunque essere annullato;
ii) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una
insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto
riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale
dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non
riconoscersi all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila
delle stesse risultanze procedimentali, munendo l’atto originario di una
argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza
dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli
interessi appresi nel procedimento.
8.2.‒ Rimane il tema della convalida in corso di giudizio.
Nel vigore del modello processuale amministrativo primigenio ‒in cui la
res
litigiosa era tutta incentrata “sull’atto”‒, si è sempre ritenuta ineludibile condizione di ammissibilità della convalida la circostanza che
non fosse pendente l’impugnativa dell’atto da convalidare. Se infatti ‒si
diceva‒ la convalida valesse ad impedire l’annullamento dell’atto invalido
in pendenza di una impugnativa giurisdizionale, l’Autorità finirebbe con
l’eludere le garanzie predisposte a tutela del cittadino leso dal
provvedimento, il quale «ha acquisito il diritto a ottenere una decisione di
annullamento del provvedimento viziato».
A tale assunto, si faceva eccezione soltanto per il caso del vizio di
incompetenza in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 6, della
legge n. 249 del 1968 ‒secondo cui: «Alla convalida in corso di giudizio
degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di
gravame in sede amministrativa e giurisdizionale»‒ norma ritenuta dai più
espressiva di un principio generale, come tale applicabile per analogia
anche ad altri casi affini.
Sennonché, le ragioni di tale preclusione sono totalmente venute meno
nell’impianto del nuovo processo amministrativo.
8.3.‒ In primo luogo, al privato è oramai riconosciuta la possibilità di
impugnare, mediante la proposizione di motivi aggiunti, tutti i
provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti e
connessi all’oggetto del ricorso stesso.
L’interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare,
sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato ‒contestandone quindi la stessa «ammissibilità»‒, sia l’annullamento
dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità.
8.4.‒ Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e
concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, del c.p.a.), i quali postulano
il massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato
amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire
all’interno dello stesso rapporto processuale ‒per quanto possibile‒ tutti
gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare
una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o
conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti
parcellizzazioni della medesima disputa.
Quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un
provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato
per mero difetto di motivazione ‒in quanto il giudicato non ha potuto
accertare la spettanza del provvedimento favorevole‒, la combinazione di
convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un ‘remand’
o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso
l’atto di riesercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità
cognitive dell’azione di annullamento, consentendo di focalizzare
l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di
potere (diversa è l’ipotesi in cui venga contestato un atti non ripetibile,
giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto
retroattivo).
Il predetto dispositivo di concentrazione ‒coniugando l’inesauribilità del
potere amministrativo con il diritto di difesa‒ agevola entrambe le parti
del giudizio, in quanto:
- consente al ricorrente una più rapida ed efficace verifica della sua
possibilità di risultato vantaggioso (perseguita attraverso la deduzione di
un vizio strumentale come il difetto di motivazione);
- consente all’amministrazione di evitare annullamenti del tutto
«sovradimensionati» rispetto alla reale consistenza dell’interesse materiale
del privato, potendo dimostrare che l’insufficiente motivazione non ha
alterato la fondatezza sostanziale della decisione.
Nei procedimenti ad istanza di parte, la definizione positiva (e non
parentetica) del conflitto sarà peraltro agevolata dalla nuova regola di
preclusione procedimentale di cui all’art. 10-bis, della legge 241 del 1990
(come novellato dall’articolo 12, comma 1, lettera e, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120), secondo cui: «In caso di annullamento in giudizio del
provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere
l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già
emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato».
Tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare
nella sua interezza ‒già nella fase del procedimento (e non solo nel
processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr.
Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per
tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a
decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora
esaminati‒ dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e
per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di
motivazione.
8.5.‒ L’ammissibilità, nei limiti anzidetti, di una motivazione successiva
non comporta una ‘dequotazione’ dell’obbligo motivazionale, sussistendo
adeguati disincentivi alla sua inosservanza: sul piano individuale, perché
restano ferme le ricadute negative sulla valutazione della performance del
funzionario; sul piano processuale, in quanto il giudice potrà accollare (in
tutto o in parte) le spese di lite all’Amministrazione che (pur non
soccombente, cionondimeno) abbia con il suo comportamento dato scaturigine
alla controversia
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2021 n. 3385 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
motivazione costituisce il contenuto insostituibile della decisione
amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un
presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2,
della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi
non invalidanti.
In particolare, “la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta
il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del
legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e,
per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno
mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art.
21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d.
vizi non invalidanti, non potendo perciò il suo difetto o la sua
inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme
procedimentali o ai vizi di forma.
La motivazione del provvedimento costituisce infatti “l’essenza e il
contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di
attività vincolata”, e non può certo essere emendata o integrata, quasi
fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione
postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del
giudizio”.
---------------
5. Procedendo all’esame dei motivi di impugnazione, deve, in primo luogo,
rilevarsi che le uniche ragioni di diniego esaminabili nel presente giudizio
sono quelle recate nei provvedimenti impugnati in prime cure, non potendo
estendersi il thema decidendum mediante meri scritti difensivi.
Nel processo amministrativo l'integrazione in sede giudiziale della
motivazione dell'atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata
mediante gli atti del procedimento -nella misura in cui i documenti
dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta- oppure
attraverso l'emanazione di un autonomo provvedimento di convalida (art.
21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È invece
inammissibile un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio,
mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi.
La motivazione costituisce, infatti, il contenuto insostituibile della
decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per
questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante
il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma
2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi
non invalidanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 19.10.2018, n. 5984).
In particolare, “la motivazione del provvedimento amministrativo
rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa
del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990)
e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno
mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art.
21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d.
vizi non invalidanti (si veda Cons. St., Sez. III, 07.04.2014, n. 1629), non
potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo
assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma.
La motivazione del provvedimento costituisce infatti “l’essenza e il
contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di
attività vincolata” (Consiglio di Stato, III, 30.04.2014, n. 2247), e non
può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una
pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc
dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio” (Consiglio di
Stato, sez. V, 10.09.2018, n. 5291)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.04.2021 n. 3352 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Compatibilità
della disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 con i principi
costituzionali ed unionali.
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Informativa antimafia – Disciplina - Compatibilità con i principi
costituzionali ed unionali
La disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 in
materia di informativa antimafia non si pone in contrasto con i principi
costituzionali ed eurounitari (1).
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(1) La Sezione ha premesso di non ignorare che voci fortemente
critiche si sono alzate rispetto alla presunta indeterminatezza dei
presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione
antimafia, soprattutto dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti
dell’uomo del 23.02.2017, riguardante le misure di prevenzione personali, e
taluni autori, nel preconizzare l’“onda lunga” di questa pronuncia
anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto
rilevare come anche l’informazione antimafia generica, nelle ipotesi
dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti
disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso),
sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i
giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d.lgs.
n. 159 del 2011.
Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono
consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”,
in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal
Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che
rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene”
del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di
diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.
L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 –ma con un
ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6,
dello stesso Codice, laddove si riferisce a non meglio precisati “concreti
elementi”– non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro
oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il
margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto
imprevedibile la possibile adozione della misura.
La Sezione ha ritenuto, alla stregua di quanto già affermato dalla Sezione (05.09.2019,
n. 6105), che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma
restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per
l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte
costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia
prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, Cedu,
con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro
interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una
adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.
Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui
ha sede l’impresa o in altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare
elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, d.lgs.
n. 159 del 2011 (v. anche art. 91, comma 4), “eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi
delle società o imprese interessate” e tali tentativi, per la loro
stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente
enunciabili a priori in modo tassativo.
Nella stessa sentenza sopra ricordata, la Corte europea dei diritti
dell’uomo ha rammentato, in via generale, che “mentre la certezza è
altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e
la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle
circostanze”, conseguendone che “molte leggi sono inevitabilmente
formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui
interpretazione e applicazione sono questioni di pratica” (§ 107), e ha
precisato altresì che “una legge che conferisce una discrezionalità deve
indicare la portata di tale discrezionalità” (§ 108).
Ora, non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del
provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di
infiltrazione mafiosa, come si è visto, abbia fatto ricorso,
inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non
costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio
dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile
per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su
elementi “tipizzati” [quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c)
ed f)], ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli
accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa
costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e,
quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata
della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e
ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario
rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di
equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione
secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in
questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da
autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del
resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi
tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato,
fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni
ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità
della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere
l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma
deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e
buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di
legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando
compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento
amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati”
dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del
provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed
attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la
prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica
(diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non
dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli
elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da
qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di
recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 30.11.2017, dep.
04.01.2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a verificare la gravità
del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine
al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del
potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo,
consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che
devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la
ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che
l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che,
necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non
sanzionatoria, della misura in esame.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del
provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem
agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto
divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della
discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare
l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro
arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione
antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio
delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti,
risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la
capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di
fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo
valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”,
dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare
qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome
di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la
sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per
usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella
citata sentenza, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare
delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale,
il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte
europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché “il
presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una
‘condizione’ personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti,
anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di
vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una
sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del
processo penale” (Cass. pen., sez. II, 09.07.2018, n. 30974).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha così enucleato –in modo
sistematico a partire dalla
sentenza n. 1743 del 03.05.2016 e con uno sforzo ‘tassativizzante’–
le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla
casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti ‘indici’
o ‘spie’ dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse,
per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo
aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire
all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa
all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre
mutevoli.
Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai
consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le
seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e
vincolata dal legislatore stesso:
a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure
emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando
la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della
contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la
continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle
misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011;
d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da
far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva”
dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”,
in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente”
della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza,
colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse
le situazioni, recentemente evidenziate in pronunzie di questa Sezione, in
cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a
iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo
scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o
elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i
relativi “benefici”;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in
assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Come condivisibilmente affermato nella sentenza 05.09.2019, n. 6105, deve
essere riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione
amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato
di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare
l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche
sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il
corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione
mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di
tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per
una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango
costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41
Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto
irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle
mafie.
La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati
democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e
le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese
e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo
la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme,
incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire
illeciti profitti.
Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio
di Stato non osta nemmeno l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale
nelle sentenze n. 24 del 27.02.2019 e n. 195 del 24.07.2019, orientamento di
cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della
documentazione antimafia, occorre dare qui conto.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24
del 2019, infatti, allorché si versi –come nel caso di specie– al di fuori
della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di
predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può
legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente
protetto possa essere soddisfatta anche sulla base “dell’interpretazione,
fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni
legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da
formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione”.
Essenziale –nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale
(Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 26.11.2011, Gochev c.
Bulgaria; id., sez. I, 04.06.2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; id.
20.05.2010, Lelas c. Croazia)– è, infatti, che tale interpretazione
giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente
destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter
ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Nel caso di specie, non si può dubitare che l’interpretazione
giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla
sentenza n. 1743 del 03.05.2016, consenta ragionevolmente di
prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due
forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze
mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare
dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le
imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di
scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un
qualsivoglia vantaggio per la propria attività.
Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di
più, si traggono dalla ancor più recente sentenza n. 195 del 24.07.2019, con
cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
l’art. 28, comma 1, d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis
nell’art. 143 del T.U.E.L., laddove la Corte costituzionale ha rilevato che,
mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o
provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o
indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un
livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come “concreti,
univoci e rilevanti” (art. 143, comma 1, del T.U.E.L.), invece, quanto
alle “condotte illecite gravi e reiterate”, di cui al comma 7-bis
censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere “situazioni
sintomatiche”, sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo
prefettizio “è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi,
ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del
potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur
essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice
procedimentale”.
Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella
emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del
2011, poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di
tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente chiarito. Anzi
proprio la sentenza n. 195 del 24.07.2019 della Corte costituzionale sembra
confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa
ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di
coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo
Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato
di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve
essere “determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere
costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione
amministrativa”, per usare le parole della Corte costituzionale (sent.
n. 195 del 24.07.2019, appena citata, che richiama la sentenza n. 115 del
07.04.2011 della stessa Corte costituzionale sull’art. 54, comma 4, del
T.U.E.L.)
Ritiene questo Collegio che, alla luce di quanto si è chiarito, siano così
soddisfatte le condizioni di tassatività sostanziale, richieste dal diritto
convenzionale e dal diritto costituzionale interno, e indefettibili anche
per la delicatissima materia delle informazioni antimafia a tutela di
diritti fondamentali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte
costituzionale nella propria costante giurisprudenza ribadiscono. La
tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della
giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa
Corte costituzionale) “elasticità della copertura legislativa”,
giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve
assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida
adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.
Parimenti la Sezione ha ritenuto che il criterio del “più probabile che
non” soddisfi, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività
processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella già richiamata
sentenza n. 24 del 27.02.2019, afferenti alle modalità di accertamento
probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e “riconducibili
a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in
particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un
‘giusto processo’ ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU
[…] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità
costituzionale del sistema delle misure di prevenzione” (Corte cost.
27.02.2019, n. 24).
Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”,
nel richiedere la verifica della c.d. probabilità cruciale, impone infatti
di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile
l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe
insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del
provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e
significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia
altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni
divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un
ragionevole dubbio (Cons.
St., sez. III, 26.09.2017, n. 4483), non richiedendosi infatti,
in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi
qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo
quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e
del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione
preventiva.
Per queste ragioni la Sezione ha ribadito il proprio orientamento, già
riaffermato nella
sentenza n. 758 del 30.01.2019, senza dover rimettere la
questione di legittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 84, comma
4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, per violazione degli artt. 1 Prot.
add. CEDU, art. 2 Prot. nn. 4 e 6 CEDU e degli artt. 3, 24, 41, 42, 97 e 111
Cost..
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non
è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore)
forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva,
l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul
piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi
intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme,
ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più
appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons.
St., sez. III, 26.09.2017, n. 4483).
E questo Consiglio ha già esaurientemente illustrato nella già richiamata
sentenza n. 758 del 2019, alle cui argomentazioni tutte qui ci si richiama,
le ragioni per le quali a questa materia, sul piano della c.d. tassatività
processuale, non è legittimo applicare le regole probatorie del giudizio
penale, dove ben altri e differenti sono i beni di rilievo costituzionali a
venire in gioco, e in particolare i criterî di accertamento, propri del
giudizio dibattimentale, e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio,
tipica inferenza logica che, se applicata al diritto della prevenzione,
imporrebbe alla pubblica amministrazione una probatio diabolica, come
si è osservato in dottrina, in quanto, se intesa in senso assoluto,
richiederebbe di falsificare ogni ipotesi contraria e, se intesa in senso
relativo (secondo il modello dell’abduzione pura, che implica l’assunzione
di una ipotesi che va corroborata alla luce degli specifici riscontri
probatori), richiederebbe alla pubblica amministrazione uno sforzo
istruttorio sproporzionato rispetto alla finalità del suo potere e ai mezzi
di cui è dotata per esercitarlo.
Le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della
giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale della
prevenzione antimafia sono agevolmente superabili, per gli argomenti già
esposti in merito all’istituto dell’informazione antimafia, ma anche
ricorrendo al criterio dell’interpretazione sistematica, cui il giudice ben
può ricorrere per valutare i profili applicativi e interpretativi di un
istituto, esaminandone la coerenza con il sistema normativo in cui esso è
inserito.
Ed allora, per la materia in esame, non può sfuggire come il codice
antimafia abbia, al suo interno, principi ed istituti –ancorché diversi
dalla interdittiva antimafia– che sono posti a presidio di un ragionevole
contemperamento tra l’interesse generale prioritario alla prevenzione contro
la mafia e il diritto di ciascun imprenditore alla tutela costituzionale di
cui all’art. 41 Cost., appunto con i limiti che spetta al legislatore
stabilire.
L’istituto della gestione con controllo giudiziale di cui all’art. 34-bis
del codice antimafia, introdotto dall’art. 11, l. n. 161 del 2017, dimostra
in particolare come il legislatore abbia ben considerato ipotesi in cui –pur
in presenza di una informazione antimafia– l’interesse alla sopravvivenza di
una impresa può essere tutelato accordando una “occasione” per
rimuovere entro un periodo temporale breve, grazie appunto al controllo
giudiziale sulla gestione aziendale, la contaminazione mafiosa che il
provvedimento interdittivo aveva rilevato. E non a caso l’effetto sulla
informazione antimafia non è certo caducante, giacché il giudice ordinario,
che non ha potere di sindacarne la legittimità, determina solo la
sospensione dell’effetto interdittivo dell’impresa per tutto il periodo
della amministrazione controllata.
Il legislatore, quindi, ha stabilito:
a) che l’informazione antimafia è meramente sospesa nei suoi
effetti, fermo restando il sindacato del giudice amministrativo, che
parimenti resta sospeso, potendo riprendere il procedimento dopo la
conclusione del periodo fissato dal giudice ordinario;
b) che, ove la contaminazione mafiosa sia ritenuta occasionale e
quindi rimovibile in tempi brevi, la tutela costituzionale dell’impresa può
essere garantita, seppure sotto il controllo del giudice cui spetterà
valutare se durante il periodo stabilito –di solito uno o due anni– le
infiltrazioni siano state tutte rimosse, anche attraverso riscontrabili
modifiche nella compagine e nel “portafoglio contratti” della
società.
Questa ulteriore riflessione vale in modo compiuto a sgombrare il campo da
dubbi relativi alla sistematica condizione di equilibrio e contemperamento
realizzata dal codice antimafia con riguardo a interessi e diritti
meritevoli di indubbia considerazione.
La Sezione ha escluso peraltro l’esistenza di un obbligo di rimessione alla
Corte di giustizia nella presente sede d’appello, per essere questo
Consiglio di Stato giudice di ultima istanza per gli effetti dell’obbligo di
rimessione alla Corte europea sancito dall’art. 267, comma 3, TFUE. Tale
obbligo, infatti, non sussiste nelle ipotesi in cui la questione sollevata
sia identica ad altra sollevata in relazione ad analoga fattispecie già
decisa in via pregiudiziale della Corte, o la giurisprudenza costante della
Corte risolva il punto di diritto controverso, indipendentemente dalla
natura del procedimento in cui tale giurisprudenza si sia formata (c.d.
teoria dell’acte éclairé); ipotesi, quest’ultima, che, alla luce
della sopra riportata giurisprudenza della Corte di giustizia in materia,
appare ricorrere nel caso di specie (Cons.
St., sez. III, 03.04.2019, n. 2212)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.04.2021 n. 3182 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Comunicazione
dell’ordinanza che dispone l’interruzione del giudizio per morte
dell’avvocato.
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Processo amministrativo – Interruzione – Per morte dell’avvocato –
Ordinanza che dispone l’interruzione – Va comunicato anche alla parte
personalmente.
Il provvedimento che dispone l’interruzione del
processo per morte dell’avvocato deve essere comunicato anche alla parte
personalmente, affinché la stessa sia messa in condizione di sanare il
vulnus che ha subito la difesa tecnica (1).
---------------
(1) Ha chiarito il C.g.a. che la norma del codice di procedura
civile che dispone l’interruzione del processo in caso di morte del
difensore è una disposizione processuale a tutela del diritto di difesa, in
adesione al dettato dell’art. 24 Cost..
La norma è finalizzata a limitare le conseguenze negative della sopravvenuta
assenza di continuità della difesa tecnica.
L’interruzione del processo consente alla parte di provvedere a dotarsi
dell’indispensabile difesa tecnica evitando che, nelle more, possano
prodursi effetti processuali pregiudizievoli per la propria posizione.
La comunicazione alla parte personalmente si impone nel caso in cui la parte
si sia costituita in processo a mezzo del procuratore poi deceduto, perché
se la comunicazione fosse fatta presso il procuratore deceduto, la parte
potrebbe non averne conoscenza.
Il provvedimento che dispone l’interruzione del processo deve essere,
pertanto, comunicato anche alla parte personalmente, affinché la stessa sia
messa in condizione di sanare il vulnus che ha subito la difesa tecnica
(CGARS,
ordinanza 20.04.2021 n. 351 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Interdittiva
antimafia e legami affettivi o parentali intercorrenti tra esponenti della
compagine sociale e soggetti affiliati o vicini alle consorterie criminali.
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Informativa antimafia - Legame parentale - Tra esponenti della compagine
sociale e soggetti affiliati o vicini alle consorterie criminali – Limiti.
Il legame parentale non costituisce di per sé un
indizio dell’infiltrazione mafiosa, specie laddove il parente deriva la
propria presunta pericolosità dalla frequentazione di altri soggetti; la
pericolosità sociale non si trasferisce infatti automaticamente da un
parente all’altro ma occorre almeno ipotizzare che dal rapporto di parentela
sia scaturita una cointeressenza in illeciti rapporti o compartecipazione in
azioni sospette (1).
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(1) Ha chiarito il C.g.a. che ai sensi dell’art. 84, comma 4,
d.lgs. n. 159 del 2011, l'informazione antimafia consiste nell'attestazione
della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa
tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese.
L’art. 93 comma 4, dispone che il prefetto valuta se dai dati raccolti
possano desumersi elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa, e
l’art. 91 comma 6, che il prefetto può, altresì, desumere il tentativo di
infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna anche non definitiva per
reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali unitamente a
concreti elementi da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in
modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo
condizionata, nonché dall'accertamento delle violazioni degli obblighi di
tracciabilità dei flussi finanziari di cui all'art. 3, l. 13.08.2010, n.
136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall'art. 8-bis,
l. 24.11.1981, n. 689.
La Corte costituzionale ha inquadrato l’istituto affermando che “il
potere di adottare un'informazione interdittiva nei confronti delle imprese
private oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa perché, pur
comportando tale atto un grave sacrificio della libertà di impresa (nella
specie era in gioco l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane), esso è
giustificato dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di
una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”
(Corte cost. 26.03.2020, n. 57).
Con riferimento ai rapporti di parentela la giurisprudenza (Cons.
St., III, 08.07.2020, n. 4372) ha chiarito che "laddove il
nucleo forte della motivazione del provvedimento prefettizio consista nella
valorizzazione dei legami affettivi o parentali intercorrenti tra esponenti
della compagine sociale e soggetti affiliati o vicini alle consorterie
criminali, dovranno con chiarezza emergere gli elementi concreti che abbiano
indotto l’Autorità a ritenere il predetto legame affettivo o parentale una
via d’accesso agevolata alla gestione dell’impresa.
Non può dedursi, dal mero vincolo parentale con un soggetto controindicato,
non supportato da ulteriori elementi validi, la vocazione criminale del
parente stesso: tuttavia, è anche vero che, se non si può scegliere la
propria parentela, si può cionondimeno scegliere di prendere le definitive
distanze da essa, ove ponga in essere attività non accettabili.
Detto altrimenti, ben può il parente di un soggetto riconosciuto affiliato
alle consorterie mafiose svolgere attività imprenditoriale, anche
interfacciandosi con la committenza pubblica: a condizione, però, che sia
chiara la sua distanza concreta e certa dal metodo e dal mondo criminale” (CGARS,
sentenza 16.04.2021 n. 323 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12.1. I riferimenti normativi sono contenuti nel d.lgs. n. 159/2011 e, in
particolare, nell’art. 84. comma 4, secondo cui l'informazione antimafia
consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi
di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi
delle società o imprese, nell’art. 93, comma 4, secondo cui il prefetto
valuta se dai dati raccolti possano desumersi elementi relativi a tentativi
di infiltrazione mafiosa, e nell’art. 91 comma 6, secondo cui il prefetto
può, altresì, desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da
provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali
all'attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi
da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto,
agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata,
nonché dall'accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità
dei flussi finanziari di cui all'articolo 3 della legge 13.08.2010, n. 136,
commesse con la condizione della reiterazione prevista dall'articolo 8-bis
della legge 24.11.1981, n. 689.
La Corte costituzionale ha inquadrato l’istituto affermando che “il
potere di adottare un'informazione interdittiva nei confronti delle imprese
private oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa perché, pur
comportando tale atto un grave sacrificio della libertà di impresa (nella
specie era in gioco l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane), esso è
giustificato dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di
una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”
(Corte cost., 26.03.2020, n. 57).
Si richiamano brevemente i principi già espressi da questo CGARS con
riferimento all’istituto (20.07.2020, n. 641).
Il principio secondo cui in sede di applicazione di misure di prevenzione
-e, fra esse, anche di misure interdittive ante delictum- occorre far
riferimento ad una condotta tipizzata o a una situazione di fatto
(obiettivamente percepibile) che la presupponga (o che sia indice presuntivo
sintomatico del pericolo di condizionamento mafioso), è stato affermato
dalla Corte costituzionale fin da tempo risalente (Corte cost., n. 2/1956,
n. 23/1964, n. 68/1964, n. 113/1975 e n. 177/1980); e, in ultimo, anche
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 23.02.2017 in ricorso
43395/2009 De Tommaso c/ Italia), la quale, proprio in tema di misure di
prevenzione in vigore nella Repubblica italiana, ha affermato l’importanza
del rispetto sia del principio di tassatività sia del principio di
specificità delle fattispecie, stigmatizzando negativamente le norme che non
descrivono con sufficiente determinatezza le condotte umane da valutare ai
fini dell’applicazione di misure preventive implicanti la compressione di
diritti di libertà (ciò che peraltro era stato già fatto, fin da tempo ben
anteriore alla pronunzia della Corte europea testé citata, da CGARS,
29.07.2016 n. 257 e da Cons. St., sez. III, 25.01.2016 n. 253). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Permanenza
dell’interesse alla pronuncia di merito una volta venuta meno l’utilità
dell’annullamento.
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Processo amministrativo – Interesse a ricorrente – Sopravvenuta carenza -
Decisione di merito – Solo ai fini risarcitori.
Ai sensi dell’art. 34 c.p.a., solo l’interesse
risarcitorio dà titolo all’accertamento dell’illegittimità di un
provvedimento impugnato, una volta divenuto inutile l’annullamento
giurisdizionale di un provvedimento non più efficace (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che il principio secondo il quale
l’interesse meritevole di tutela può correlarsi, una volta venuta meno
l’utilità dell’annullamento, a posizioni d’interesse “strumentale o
morale” ha riguardo ad utilità giuridiche comunque attuali,
funzionalmente collegate agli effetti del provvedimento impugnato:
consistenti, in altre parole, nel “vantaggio che il ricorrente può
conseguire per effetto dell'accoglimento del ricorso” in relazione alla
“concreta possibilità di perseguire un bene della vita, anche di natura
morale o residuale, attraverso il processo, in corrispondenza ad una lesione
diretta ed attuale dell'interesse protetto” (Consiglio
di Stato, sez. V, 12.05.2020, n. 2969).
Il legislatore ha perimetrato con chiarezza che l’unica forma d’interesse
che legittima la prosecuzione del giudizio una volta acclarata l’inutilità
dell’annullamento è quella che sorregge l’azione risarcitoria. Non esiste,
evidentemente, un tertium genus (il cui riconoscimento sarebbe
peraltro contra legem, in presenza del chiaro disposto dell’art. 34,
comma 3, c.p.a.), ma unicamente il rilievo di posizioni d’interesse comunque
connesse ad un bene della vita (ancorché immateriale) in qualche modo inciso
dal provvedimento.
Il bene della vita cui aspira l’odierno appellante è invece relativo ad una
sorta di “interpello” preventivo in merito all’organizzazione e
all’attività d’impresa che possa, in futuro, costituire oggetto (non
conflittuale) di atti di esercizio del potere amministrativo attribuito
dalla disposizione del cui significato si controverte (art. 28, comma 2,
d.lgs. 09.04.2008, n. 8). Una simile pretesa non legittima –per il diritto
positivo- l’affermazione della permanenza dell’interesse all’accertamento
della illegittimità del provvedimento nel giudizio impugnatorio, una volta
acclarata l’inutilità della pronuncia caducatoria.
In un’ottica di coerenza sistematica va peraltro rilevato che neppure lo
stesso interesse che, a determinate condizioni, legittima –ove ammissibile-
la proposizione dell’azione di mero accertamento nel processo
amministrativo, può essere ancorato alla tutela di situazioni future od
eventuali, non potendo “prescindere dall'esistenza di un pregiudizio
attuale del diritto” (Tar
Toscana n. 1377 del 2020)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.04.2021 n. 3086 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: È
costante la giurisprudenza nello statuire che l’omessa indicazione de
responsabile del procedimento amministrativo “costituisce una semplice
irregolarità, che non determina l'illegittimità del provvedimento finale, in
quanto supplisce il criterio legale di imputazione del ruolo al dirigente
preposto all'unità organizzativa competente”.
---------------
4. Con la prima censura il ricorrente lamenta la violazione dell’art
20, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, poiché il nominativo del responsabile unico
del procedimento non è stato comunicato entro dieci giorni dalla
presentazione della domanda del permesso di costruire, avvenuta in data
1.10.2019, ma soltanto il 07.04.2020 con nota n. prot. 2413.
L’assunto non è fondato.
È invero costante la giurisprudenza nello statuire che l’omessa indicazione
de responsabile del procedimento amministrativo “costituisce una semplice
irregolarità, che non determina l'illegittimità del provvedimento finale, in
quanto supplisce il criterio legale di imputazione del ruolo al dirigente
preposto all'unità organizzativa competente” (ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. III, 02.11.2020, n. 6755)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.04.2021 n. 752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Reclamo
ed autotutela sugli atti del commissario ad acta nominato nello
speciale rito avverso il silenzio della p.a..
---------------
Processo amministrativo - Silenzio della p.a. – Atti del commissario ad
acta – Contestazione – Con reclamo allo stesso giudice che ha nominato il
commissario – Autotutela – Esclusione.
Gli atti del commissario ad acta nominato nello
speciale rito avverso il silenzio della p.a. possono essere contestati dalle
parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha nominato il
commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 114, comma
4, c.p.a.; non possono invece essere annullati in autotutela
dall’Amministrazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che anche il commissario ad acta
nominato nello speciale rito avverso il silenzio della p.a., ai sensi
dell’art. 117, comma 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di
ottemperanza, è un ausiliario del giudice e non un organo straordinario
dell’amministrazione.
Pertanto, anche in tale ipotesi gli atti commissariali possono essere
contestati dalle parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha
nominato il commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art.
114, comma 4, c.p.a., disposizione la cui applicazione, ancorché non
espressamente richiamata, è implicita nel disposto del comma 4 del precitato
art. 117 (“il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta
adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti
del commissario”), chiaramente espressivo dell’intento del legislatore
di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende
conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il
sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati.
La Sezione ha invece escluso che gli atti adottati dal commissario ad
acta nominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il
silenzio-inadempimento della p.a. non possono essere rimossi in autotutela
dall’amministrazione sostituita dal commissario. dato decisivo al fine di
dirimere la res controversa è costituito non dal tipo di attività
(segnatamente, dall’ampiezza della valutazione discrezionale) che il
commissario è chiamato a svolgere nel contesto del giudizio di ottemperanza
e del giudizio avverso il silenzio-inadempimento, bensì dalla natura
intrinseca degli atti commissariali, in quanto tali.
Questi, infatti, non sono geneticamente riconducibili all’ordinario
esercizio della potestà amministrativa, ma, al contrario, conseguono
proprio, a monte, al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di
tale potestà o di un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio.
Ne consegue, in un sistema che costituzionalmente non tollera vuoti di
tutela giurisdizionale, l’esigenza di una supplenza giudiziaria, veicolata
tramite una specifica figura che, sostituendosi all’Amministrazione, emani,
quale ausiliario del giudice e nell’esercizio, dunque, di un potere
soggettivamente giurisdizionale, i necessari atti.
L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata”
del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice
non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario
dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice.
Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli
atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.03.2021 n. 2335 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – DIRITTO PROCESSUALE
AMMINISTRATIVO – Annullamento in autotutela – Art.
21-nonies, L. n. 241 del 1990 – Istruttoria nuova – Capacità
lesiva autonoma – Impugnazione.
L’esercizio dei poteri di autotutela è,
di norma, discrezionale nell’an, ovvero quanto alla fase di
avvio del procedimento. Ragion per cui, se anche instata
dalla parte privata, l’Amministrazione conserva la piena
facoltà in ordine alla decisione se avviare o meno il
procedimento di riesame, che resta, dunque, un tipico
procedimento ad avvio facoltativo d’ufficio.
Una volta che il Comune, esperita la ricognizione circa la
sussistenza dei presupposti per l’avvio del procedimento, si
è determinato per il riesame del provvedimento
amministrativo, alla luce di una nuova istruttoria mercé la
riconsiderazione degli originari presupposti rivalutati alla
luce di acquisizioni fattuali prima ignote (articolo
21-nonies, L. n. 241 del 1990), il provvedimento che ne
consegue sostituisce l’atto di primo grado nel regolare ex
novo l’assetto di interessi ed esprime una rinnovata,
autonoma capacità lesiva in grado di legittimare il soggetto
alla impugnazione del nuovo atto.
Non si tratta, dunque, di una remissione in termini che
autorizza, in via postuma, la proposizione di un ricorso che
sarebbe altrimenti ormai tardivo bensì, di un nuovo e
diverso ricorso proposto contro un provvedimento che ha
regolato ex novo il rapporto inter partes.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Art. 21-nonies, L. n. 241 del
1990 – Annullamento d’ufficio – False rappresentazioni dei
fatti – Termine di 18 mesi – Amministrazione incolpevole –
Ragionevolezza – Accertamento dell’amministrazione.
L’articolo 21-nonies, legge n. 241/1990
contempla due categorie di provvedimenti –differenziabili in
ragione dell’uso della disgiuntiva “o”– che consentono
all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento
d’ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro
adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false
rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive
false.
Quando l’erroneità dei dati è imputabile non già
all’Amministrazione, bensì esclusivamente al comportamento
della parte, non si può pretendere dalla incolpevole
Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica
nella gestione dell’iniziativa di controllo dei dati forniti
e rimotiva, dovendosi dare spazio, invece, in questi casi,
al più generale canone di ragionevolezza per apprezzare e
gestire la tempistica del caso concreto.
Il superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per
l’esercizio del potere di autotutela di cui all’art.
21-nonies deve pertanto ritenersi ammissibile, a prescindere
da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale,
tutte le volte in cui il soggetto segnalante abbia
rappresentato uno stato preesistente diverso da quello
reale.
Viene in rilievo, in questi casi, una fattispecie non
corrispondente alla realtà determinata da dichiarazioni
false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta
di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente
dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni
sostitutive), dovrà scontare l’accertamento definitivo in
sede penale; se induttiva, invece, di una falsa
rappresentazione dei fatti, può essere rilevante al fine di
superamento del termine di 18 mesi anche in assenza di un
accertamento giudiziario della falsità, purché questa venga
accertata inequivocabilmente dall’Amministrazione con i
propri mezzi (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.03.2021 n. 2329 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
mancanza di una espressa domanda di risarcimento del danno formulata in
termini concreti e non meramente "eventuali", è necessario che la parte
prospetti almeno per sommi capi il danno di cui intende chiedere il ristoro
in separato giudizio, deducendo, quantomeno in nuce, gli elementi
strutturali della fattispecie di danno ingiusto, sotto il profilo sia
soggettivo che oggettivo, dovendo comunque la parte allegare e provare
l’interesse concreto ad una pronuncia ai soli fini di un futuro giudizio
risarcitorio, come si evince dal tenore della richiamata disposizione di
rito, laddove si prevede che il giudice accerta l’illegittimità dell’atto
“se sussiste l’interesse a fini risarcitori”, con la conseguenza che incombe
sulla parte l’onere di dimostrare la sussistenza in concreto (e non
meramente in astratto) di un siffatto interesse (...).
Sul punto, si richiama peraltro l’orientamento maggioritario della
giurisprudenza secondo cui “L'art. 34, comma 3, c.p.a. non può essere
interpretato nel senso che, in seguito ad una semplice generica indicazione
della parte, il giudice debba verificare la sussistenza di un interesse a
fini risarcitori, anche perché, sul piano sistematico, diversamente
opinando, perderebbe di senso il principio dell'autonomia dell'azione
risarcitoria enucleato dall'art. 30 dello stesso c.p.a. e verrebbe svalutato
anche il principio dispositivo che informa anche il giudizio amministrativo
e precludente la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una
volta azionato.
---------------
Giova rimarcare che, in base a consolidata giurisprudenza anche di questo
TAR, è possibile affermare che: “In mancanza di una espressa domanda di
risarcimento del danno formulata in termini concreti e non meramente
"eventuali", è necessario che la parte prospetti almeno per sommi capi il
danno di cui intende chiedere il ristoro in separato giudizio, deducendo,
quantomeno in nuce, gli elementi strutturali della fattispecie di danno
ingiusto, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, dovendo comunque la
parte allegare e provare l’interesse concreto ad una pronuncia ai soli fini
di un futuro giudizio risarcitorio, come si evince dal tenore della
richiamata disposizione di rito, laddove si prevede che il giudice accerta
l’illegittimità dell’atto “se sussiste l’interesse a fini risarcitori”, con
la conseguenza che incombe sulla parte l’onere di dimostrare la sussistenza
in concreto (e non meramente in astratto) di un siffatto interesse (...) Sul
punto, si richiama peraltro l’orientamento maggioritario della
giurisprudenza, ribadito di recente anche da questo Tribunale, secondo cui
“L'art. 34, comma 3, c.p.a. non può essere interpretato nel senso che, in
seguito ad una semplice generica indicazione della parte, il giudice debba
verificare la sussistenza di un interesse a fini risarcitori, anche perché,
sul piano sistematico, diversamente opinando, perderebbe di senso il
principio dell'autonomia dell'azione risarcitoria enucleato dall'art. 30
dello stesso c.p.a. e verrebbe svalutato anche il principio dispositivo che
informa anche il giudizio amministrativo e precludente la mutabilità ex
officio del giudizio di annullamento, una volta azionato” (cfr. TAR Reggio
Calabria, 19.04.2019 n. 267; Cons. Stato sez. V, 28.02.2014 n. 1214)” (cfr.
TAR Calabria, Reggio Calabria, 18.11.2020, nr. 34/2021; in senso conforme:
Tar Veneto, III Sez., 12.02.2020, nr. 324)
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 18.03.2021 n. 377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Sulla
legittimazione a ricorrere da parte del comune confinante.
Non può disconoscersi la legittimazione e l’interesse ad agire del Comune, nel cui ambito ricade
l’impianto de quo, che peraltro aveva espresso parere negativo in seno alla
conferenza dei servizi ex art. 208 T.U.A., ad impugnare gli atti della
procedura con cui si è assentita la realizzazione dell’impianto medesimo.
Ciò avuto altresì riguardo alla circostanza che il Comune è ente
esponenziale della relativa comunità e con il presente gravame fa valere il
pregiudizio all’assetto urbanistico ed ambientale anche relativamente al
mancato rispetto dalle distanze prescritte dalle norme tecniche del PTCP (artt.
16, 20 e 79) dal corridoio ecologico del Fiume Tammaro e dagli edifici
destinati ad abitazione e il mancato espletamento della valutazione di
incidenza prevista a protezione dei siti che costituiscono la rete Natura
2000, secondo le prescrizioni dell’articolo 6 della Direttiva 92/43/CEE
“Habitat”.
Come osservato da TAR Brescia, “La legittimazione ad agire dell'ente locale in materia
ambientale, in quanto titolare di un interesse collettivo, è riconosciuta
dalla giurisprudenza fin da Tar Lazio 1064/1990 (secondo cui "il comune,
quale ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di
cittadini della quale cura istituzionalmente gli interessi a promuovere lo
sviluppo, è pienamente legittimato ad impugnare dinanzi al giudice
amministrativo i provvedimenti ritenuti lesivi dell'ambiente).
Sarebbe d'altronde alquanto irragionevole riconoscere legislativamente
all'ente territoriale la possibilità di agire in giudizio (in via
successiva) per il risarcimento del danno all'ambiente (come fa l'art. 18,
co. 3, l. 349/1986), e negargli invece la possibilità di agire (in via
preventiva) per impedire la produzione di quello stesso danno.
Sarebbe altrettanto irragionevole riconoscere la titolarità di un interesse
collettivo ad associazioni ambientaliste, il cui collegamento con il
territorio interessato dall'abuso è talora costituito soltanto dal fine
statutario, e non individuarlo nell'ente istituzionalmente esponenziale
della comunità di riferimento”.
---------------
Parimenti deve riconoscersi, la legittimazione e l’interesse a ricorrere del
Comune di Morcone, confinante con il Comune di Sassinoro,
quale ente esponenziale della relativa comunità, e degli altri ricorrenti, i quali hanno allegato e
comprovato di essere titolari di aziende e/o proprietari di immobili siti a
ridosso o comunque nelle immediate vicinanze del capannone in cui dovrebbe
essere svolta l’attività, lamentando il pregiudizio derivante dal relativo
svolgimento anche in termini di emissioni odorigene derivanti non solo
dall’esercizio dell’impianto medesimo, ma anche dal connesso aumento del
traffico, nonché il mancato rispetto delle prescrizioni degli artt. 20 e 79
delle NTA del PTCP in materia di localizzazioni
degli impianti per il trattamento dei rifiuti, ed ancora il mancato rispetto
della normativa posta protezione dei siti della Rete Natura 2000.
Alla stregua di tali rilievi deve senz’altro ritenersi sussistente la loro
legittimazione e il loro interesse ad agire in forza del criterio della
vicinitas.
---------------
Quanto alla legittimazione ad impugnare del Comune di Morcone, ente
territoriale viciniore, basti richiamare la giurisprudenza relativa alla
sussistenza delle legitimatio ad causam dei comuni limitrofi ad impugnare la
verifica di esclusione dalla Valutazione Ambientale Strategica, affermata da
Cons. Stato, Sez. IV, Sent., 17.09.2012, n. 4926, che ha ricordato
come il criterio della vicinitas, è stato in passato positivamente
scrutinato da Consiglio Stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263, secondo
cui un impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di
energia elettrica radica in capo al comune finitimo la legittimazione ad
agire, poiché non può essere subordinata alla produzione di una prova
puntuale della concreta pericolosità dell'impianto, reputandosi sufficiente
la prospettazione delle temute ripercussioni su un territorio comunale
collocato nelle immediate vicinanze della centrale da realizzare.
----------------
In riferimento alla legittimazione ed all’interesse ad agire degli
altri ricorrenti deve del pari ritenersi sufficiente il criterio della vicinitas, alla stregua della giurisprudenza in materia che ritiene
sufficiente detto criterio in riferimento alla materia ambientale e al
connesso diritto alla salute.
Ed invero, nella materia ambientale, viene in rilievo, oltre ai beni
fondamentali del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, garantiti
dall'art. 9, comma 2, Cost., il bene primario della salute umana, garantito
dall'art. 32 Cost. come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività", la cui soglia di tutela giurisdizionale, nella relativa
declinazione di salvaguardia dei valori ambientali, deve intendersi
anticipata al livello di oggettiva presunzione di lesione.
Conseguentemente,
ai fini della sussistenza della legittimazione e dell'interesse ad agire,
risulta sufficiente la vicinitas, intesa come situazione di fatto
sufficientemente differenziata per ragioni di carattere spaziale in capo ai
soggetti che si ritengono lesi dal sito prescelto per l'ubicazione di una
struttura avente potenzialità inquinanti e/o degradanti, non potendo loro
addossarsi il gravoso onere dell'effettiva prova del danno subito o subendo.
Peraltro, la vicinitas in
parola non può certo intendersi a guisa di stretta contiguità geografica col
sito assunto come potenzialmente dannoso, giacché la portata delle possibili
esternalità negative di una installazione avente impatto sull'ambiente non
si limita a investire i soli terreni confinanti, che, al più, sono destinati
a sopportarne le conseguenze più gravi.
In questo senso, è stato, dunque, condivisibilmente statuito che, nella
materia ambientale, "va seguito un approccio necessariamente non restrittivo
nell'individuazione della lesione che potrebbe astrattamente fondare
l'interesse all'impugnazione, essendo sul punto sufficiente rammentare come
-anche sotto la spinta del diritto europeo- la materia della tutela
dell'ambiente si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento della
legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei soggetti
potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle scelte legislative in
materia, in specie in tema di valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, [quindi] la legittimazione al ricorso in materia ambientale
va riconosciuta alle persone fisiche anche in base al criterio della
“prossimità dei luoghi interessati” ovvero della sussistenza di uno “stabile
collegamento” ambientale, come per la materia edilizia".
Ciò posto, nel caso in esame, può ritenersi che la vicinitas, intesa come
prossimità, ragionevolmente intesa, al sito di realizzazione dell’impianto,
possa ritenersi provata con riguardo alla posizione dei ricorrenti, che non
si sono limitati ad allegare la mera vicinanza delle loro proprietà all'area
di intervento, ma hanno anche prospettato, in concreto, l'incisione di beni
della vita di rilevanza costituzionale (ossia l'ambiente, la salute e la
sicurezza degli esseri umani e degli animali) ed euro-unitaria (ossia
l'habitat di vita dell'uomo, che assurge a valore primario ed assoluto, in
quanto espressivo di un diritto fondamentale della personalità umana) per
effetto dei vizi degli atti impugnati, illustrando come l'istruttoria ad
essi sottesa sia inidonea a salvaguardarli, cosicché la relativa domanda di
tutela può dirsi sorretta dai requisiti della legittimazione e
dell'interesse ad agire.
---------------
36. In limine litis, va affronta l’eccezione di difetto di
legittimazione e di interesse a ricorrere fatta valere dalla Ne.Vi. in
relazione ad entrambi i ricorsi.
36.1. La stessa è infondata.
36.1.1. Ed invero non può certamente disconoscersi la legittimazione e
l’interesse ad agire del Comune di Sassinoro, nel cui ambito ricade
l’impianto de quo, che peraltro aveva espresso parere negativo in seno alla
conferenza dei servizi ex art. 208 T.U.A., ad impugnare gli atti della
procedura con cui si è assentita la realizzazione dell’impianto medesimo.
Ciò avuto altresì riguardo alla circostanza che il Comune è ente
esponenziale della relativa comunità e con il presente gravame fa valere il
pregiudizio all’assetto urbanistico ed ambientale anche relativamente al
mancato rispetto dalle distanze prescritte dalle norme tecniche del PTCP (artt.
16, 20 e 79) dal corridoio ecologico del Fiume Tammaro e dagli edifici
destinati ad abitazione e il mancato espletamento della valutazione di
incidenza prevista a protezione dei siti che costituiscono la rete Natura
2000, secondo le prescrizioni dell’articolo 6 della Direttiva 92/43/CEE
“Habitat”.
Come osservato da TAR Lombardia–Brescia, sez. I, sent. 16.11.2011, n. 1568, “La legittimazione ad agire dell'ente locale in materia
ambientale, in quanto titolare di un interesse collettivo, è riconosciuta
dalla giurisprudenza fin da Tar Lazio 1064/1990 (secondo cui "il comune,
quale ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di
cittadini della quale cura istituzionalmente gli interessi a promuovere lo
sviluppo, è pienamente legittimato ad impugnare dinanzi al giudice
amministrativo i provvedimenti ritenuti lesivi dell'ambiente).
Sarebbe d'altronde alquanto irragionevole riconoscere legislativamente
all'ente territoriale la possibilità di agire in giudizio (in via
successiva) per il risarcimento del danno all'ambiente (come fa l'art. 18,
co. 3, l. 349/1986), e negargli invece la possibilità di agire (in via
preventiva) per impedire la produzione di quello stesso danno.
Sarebbe altrettanto irragionevole riconoscere la titolarità di un interesse
collettivo ad associazioni ambientaliste, il cui collegamento con il
territorio interessato dall'abuso è talora costituito soltanto dal fine
statutario, e non individuarlo nell'ente istituzionalmente esponenziale
della comunità di riferimento”.
36.1.1. Parimenti deve riconoscersi, la legittimazione e l’interesse a
ricorrere del Comune di Morcone, confinante con il Comune di Sassinoro,
quale ente esponenziale della relativa comunità, e degli altri ricorrenti
nell’ambito del giudizio R.G. n. 1766 del 2018, i quali hanno allegato e
comprovato di essere titolari di aziende e/o proprietari di immobili siti a
ridosso o comunque nelle immediate vicinanze del capannone in cui dovrebbe
essere svolta l’attività, lamentando il pregiudizio derivante dal relativo
svolgimento anche in termini di emissioni odorigene derivanti non solo
dall’esercizio dell’impianto medesimo, ma anche dal connesso aumento del
traffico, nonché il mancato rispetto delle prescrizioni degli artt. 20 e 79
delle norme tecniche di attuazione del piano provinciale territoriale di
coordinamento della provincia di Benevento in materia di localizzazioni
degli impianti per il trattamento dei rifiuti, ed ancora il mancato rispetto
della normativa posta protezione dei siti della Rete Natura 2000.
Alla stregua di tali rilievi deve senz’altro ritenersi sussistente la loro
legittimazione e il loro interesse ad agire in forza del criterio della
vicinitas.
Quanto alla legittimazione ad impugnare del Comune di Morcone, ente
territoriale viciniore, basti richiamare la giurisprudenza relativa alla
sussistenza delle legitimatio ad causam dei comuni limitrofi ad impugnare la
verifica di esclusione dalla Valutazione Ambientale Strategica, affermata da
Cons. Stato, Sez. IV, Sent., 17.09.2012, n. 4926, che ha ricordato
come il criterio della vicinitas, è stato in passato positivamente
scrutinato da Consiglio Stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263, secondo
cui un impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di
energia elettrica radica in capo al comune finitimo la legittimazione ad
agire, poiché non può essere subordinata alla produzione di una prova
puntuale della concreta pericolosità dell'impianto, reputandosi sufficiente
la prospettazione delle temute ripercussioni su un territorio comunale
collocato nelle immediate vicinanze della centrale da realizzare.
36.1.2. In riferimento alla legittimazione ed all’interesse ad agire degli
altri ricorrenti deve del pari ritenersi sufficiente il criterio della
vicinitas, alla stregua della giurisprudenza in materia che ritiene
sufficiente detto criterio in riferimento alla materia ambientale e al
connesso diritto alla salute.
Ed invero, nella materia ambientale, viene in rilievo, oltre ai beni
fondamentali del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, garantiti
dall'art. 9, comma 2, Cost., il bene primario della salute umana, garantito
dall'art. 32 Cost. come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività", la cui soglia di tutela giurisdizionale, nella relativa
declinazione di salvaguardia dei valori ambientali, deve intendersi
anticipata al livello di oggettiva presunzione di lesione.
Conseguentemente,
ai fini della sussistenza della legittimazione e dell'interesse ad agire,
risulta sufficiente la vicinitas, intesa come situazione di fatto
sufficientemente differenziata per ragioni di carattere spaziale in capo ai
soggetti che si ritengono lesi dal sito prescelto per l'ubicazione di una
struttura avente potenzialità inquinanti e/o degradanti, non potendo loro
addossarsi il gravoso onere dell'effettiva prova del danno subito o subendo
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015 n. 263; TAR Marche, 10.01.2014 n. 65; TAR Abruzzo, L'Aquila,
01.03.2016 n. 117; 20.04.2016, n.
237; TAR Lazio, Latina, 18.10.2019, n. 621).
Peraltro, la vicinitas in
parola non può certo intendersi a guisa di stretta contiguità geografica col
sito assunto come potenzialmente dannoso, giacché la portata delle possibili
esternalità negative di una installazione avente impatto sull'ambiente non
si limita a investire i soli terreni confinanti, che, al più, sono destinati
a sopportarne le conseguenze più gravi (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.05.2016 n. 5274).
In questo senso, è stato, dunque, condivisibilmente statuito che, nella
materia ambientale, "va seguito un approccio necessariamente non restrittivo
nell'individuazione della lesione che potrebbe astrattamente fondare
l'interesse all'impugnazione, essendo sul punto sufficiente rammentare come
-anche sotto la spinta del diritto europeo- la materia della tutela
dell'ambiente si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento della
legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei soggetti
potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle scelte legislative in
materia, in specie in tema di valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, [quindi] la legittimazione al ricorso in materia ambientale
va riconosciuta alle persone fisiche anche in base al criterio della
“prossimità dei luoghi interessati” ovvero della sussistenza di uno “stabile
collegamento” ambientale, come per la materia edilizia" (TAR Abruzzo,
Pescara, 08.06.2019, n. 188; cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2043; TAR Toscana, sez. I, 12.09.2016, n. 1334; TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 22.12.2017, n. 1478; TAR Abruzzo,
L’Aquila, 12.01.2019, n. 41).
Ciò posto, nel caso in esame, può ritenersi che la vicinitas, intesa come
prossimità, ragionevolmente intesa, al sito di realizzazione dell’impianto,
possa ritenersi provata con riguardo alla posizione dei ricorrenti, che non
si sono limitati ad allegare la mera vicinanza delle loro proprietà all'area
di intervento, ma hanno anche prospettato, in concreto, l'incisione di beni
della vita di rilevanza costituzionale (ossia l'ambiente, la salute e la
sicurezza degli esseri umani e degli animali) ed euro-unitaria (ossia
l'habitat di vita dell'uomo, che assurge a valore primario ed assoluto, in
quanto espressivo di un diritto fondamentale della personalità umana: cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 09.01.2014, n. 36) per effetto dei vizi degli atti
impugnati, illustrando come l'istruttoria ad essi sottesa sia inidonea a
salvaguardarli, cosicché la relativa domanda di tutela può dirsi sorretta
dai requisiti della legittimazione e dell'interesse ad agire (in tal senso,
da ultimo, TAR Campania-Salerno, sez. II, 24/02/2020, n. 259) (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 17.03.2021 n. 1790 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Giurisdizione
del giudice amministrativo sulle controversie per risarcimento del danno per
violazione dei principi di correttezza comportamentale – Termine per l’autotutela
nel caso di violazione di disposizione europee.
---------------
●
Giurisdizione - Risarcimento danni - Violazione dei principi di correttezza
comportamentale – Giurisdizione del giudice amministrativo.
●
Contributi e finanziamenti – Annullamento d’ufficio – Per violazione
disposizione europee – Termine – Non sussiste.
●
Nelle fattispecie di risarcimento del danno per violazione dei principi di
correttezza comportamentale va valutato complessivamente l’agire
amministrativo, che, nelle fasi dell’adozione dell’atto ampliativo
illegittimo e della decisione legittima di annullarlo in autotutela, è di
tipo pubblicistico e si traduce nell’adozione di provvedimenti
amministrativi di primo e secondo grado, a fronte del quale si configurano
interessi legittimi, la cui cognizione, in caso di impugnazione, spetta al
giudice amministrativo, in quanto l’affidamento del privato alla stabilità
degli effetti di un atto illegittimo ritirato è strettamente connesso
all’esercizio del potere amministrativo (1).
●
L’annullamento in autotutela di provvedimenti di concessione di
contributi in violazione di norme europee ha carattere di doverosità anche
quando è scaduto il termine a tal fine previsto dal diritto nazionale a
tutela della certezza del diritto, in quanto le norme interne in materia di
atti di ritiro hanno carattere recessivo rispetto a quello euro-unitarie
(2).
---------------
(1) La Sezione ha avanzato dubbi in ordine alla correttezza del
ragionamento seguito dalle Sezioni Unite nell’ordinanza n. 32365 del 2018,
la quale si colloca, come noto, nel solco di un orientamento che va
consolidandosi, secondo il quale la giurisdizione in materia di risarcimento
dell’affidamento incolpevole spetta al giudice ordinario (di recente, con
riferimento, peraltro, a una controversia rientrante nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, vedi la sentenza n. 8236 del
28.04.2020).
Valga, sotto tale profilo, il richiamo alla condivisa sentenza n. 292 del
18.03.2019 nella quale la sezione prima del Tar Piemonte ha affermato che,
nelle ipotesi di esercizio di poteri di ritiro, a cui consegue la lesione
dell’affidamento del privato, la complessità della fattispecie causativa del
danno non giustifica la disconnessione con l’esercizio del potere, in quanto
il provvedimento non recede a fatto storico espressione di un mero
comportamento, relativamente soltanto al quale potrebbe ipotizzarsi la
sussistenza della giurisdizione ordinaria.
Il Tar Piemonte ha, in particolare, rilevato che il comportamento colpevole
tenuto dall’Amministrazione all’interno del procedimento non può ritenersi
sconnesso dall’esercizio del potere nemmeno nei casi in cui sia stato
legittimamente esercitato; ha, conseguentemente, concluso nel senso che
sussiste la giurisdizione amministrativa anche nelle ipotesi di azioni
risarcitorie per lesione del legittimo affidamento nella conservazione
dell’atto illegittimo favorevole, successivamente annullato.
A tali convincenti considerazioni deve aggiungersi che in tali fattispecie
va valutato il senso complessivo dell’agire amministrativo, che, nelle fasi
dell’adozione dell’atto ampliativo illegittimo e della decisione legittima
di annullarlo in autotutela, è indiscutibilmente di tipo pubblicistico e si
traduce nell’adozione di provvedimenti amministrativi di primo e secondo
grado, la cui cognizione, in caso di impugnazione, spetta al giudice
amministrativo.
Diversamente da quanto ritenuto dalle Sezioni Unite, il Collegio ritiene che
la sussistenza dell’esercizio di un vero e proprio potere pubblicistico, a
fronte del quale si configurano interessi legittimi rientranti nella
cognizione del giudice amministrativo, non è intaccata dall’insorgenza di un
affidamento del privato sulla stabilità degli effetti, che non è idoneo a
spostare la vicenda sul piano privatistico dei diritti soggettivi.
In altri termini, non corrisponde alla realtà fattuale del dispiegarsi
dell’azione amministrativa l’affermazione secondo la quale la pretesa al
risarcimento non consegue all’illegittimità dell’atto, ma all’affidamento
ingenerato dal comportamento colpevole dell’amministrazione, in quanto il
privato ha lamentato una lesione della sua integrità patrimoniale “rispetto
alla quale l’esercizio del potere non rileva in sé, ma solo per l’efficacia
causale del danno evento”.
È, infatti, vero, il contrario, ovverosia che l’affidamento del privato alla
stabilità degli effetti di un atto illegittimo ritirato è strettamente
connesso all’esercizio del potere amministrativo, a fronte del quale si
configurano interessi legittimi, la cui cognizione spetta al giudice
amministrativo.
(2) Ha ricordato il Tar che la sentenza della Corte di Giustizia Ue
n. 24 del 20.03.1997, relativa alla causa 2C-24/95, ha ad oggetto una
fattispecie sovrapponibile a quella in esame, nella quale era stato erogato
un aiuto di Stato illegittimo, ma era decorso il termine previsto dalla
normativa interna (tedesca) per l’esercizio del potere di ritiro.
La Corte di Giustizia Ue ha, in particolare, affermato che l’autorità
nazionale competente è tenuta, in forza del diritto comunitario, a revocare
la decisione di concessione di un aiuto attribuito illegittimamente, anche
quando: a) abbia lasciato scadere il termine a tal fine previsto dal diritto
nazionale a tutela della certezza del diritto; b) l’illegittimità della
decisione sia alla stessa imputabile in una misura tale che la revoca
appare, nei confronti del beneficiario dell’aiuto, contraria al principio di
buona fede; c) tale revoca sia esclusa dal diritto nazionale a causa del
venir meno dell’arricchimento, in assenza di malafede, del beneficiario
dell’aiuto.
Deve pertanto concludersi -melius re perpensa rispetto a quanto
ritenuto da questa Sezione in sede di sommaria delibazione- che il ritiro di
aiuti di Stato illegittimi, in quanto erogati in violazione di norme
europee, è doveroso, con conseguente recessività delle norme interne in
materia di atti di ritiro, cosicché il primo motivo di ricorso va ritenuto
infondato
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 16.03.2021 n. 875 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
della Certosa di Trisulti alla Dignitatis Humanae e limiti temporali
per l’esercizio del potere di autotutela.
---------------
●
Beni culturali – Concessione - Certosa di Trisulti – requisiti - Mancanza .
Ritiro dell’affidamento della concessione – legittimità.
●
Atto amministrativo – Autotutela – Termine – Provvedimento ampliativo -
Autotutela a seguito di false dichiarazioni – Termine di 18 mesi ex art.
21-nonies, l. n. 241 del 1990 – Inapplicabilità.
●
E’ legittimo il decreto del Ministero dei beni culturali ed ambientali che
ha ritirato l'affidamento in concessione del bene immobile culturale
denominato della Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone, alla
Dignitatis Humanae, a causa della mancanza dei requisiti richiesti dal bando
che riguardavano non solo la personalità giuridica, ma anche lo Statuto
dell'associazione, che al tempo della presentazione della domanda non
riportava gli indirizzi di tutela e valorizzazione richiesti dal ministero
(1).
●
Il limite temporale dei 18 mesi per l’esercizio del potere di
autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio
al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui
che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di
vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova
applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso
del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto
in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure
determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza
dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento
l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare
il provvedimento favorevole (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che il d.m. 06.10.2015, recante la
disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili
del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente
chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo
associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di
enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili
del demanio culturale dello Stato.
Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a
diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le
concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle
associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di
personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei
seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per
legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione,
di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b)
documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione
per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata
esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la
pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile
culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza
territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla
pubblica fruizione”.
I requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per
presentazione delle domande. Ciò discende da un principio immanente nel
nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la
partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento
della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la
presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare
la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre
deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa,
anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre
ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1, l. n. 241 del 1990,
che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo
selettivo (Cons.
Stato, sez. VI, 08.09.2020, n. 5412) e che, ovviamente (operando,
in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a
partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del
beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa),
trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della
partecipazione di un solo candidato alla selezione.
Ha ancora affermato la Sezione che la selezione avviata dal Ministero dei
beni culturali e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della
graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un
bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio,
l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la
scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento
economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica,
in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato
dell'Unione europea (Cons. Stato, sez. V,
31.05.2011, n. 3250 e
07.04.2011, n. 2151).
(2) La Sezione ha premesso che la concessione per la cura e lo
sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale
demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un
procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente
individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad
evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione,
che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione,
per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano
gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale,
individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti,
anche sotto il profilo economico.
Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione
della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità
ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella
fase autoritativa di individuazione del concessionario.
Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a
portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale
dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni
negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto
economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni
economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.).
Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto,
un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone
di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente
ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei
diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene,
elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto
concessorio.
Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello
consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla
concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”)
che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento
amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale
della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere
oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte
dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che
intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde,
anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata
l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto
al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo
strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità
pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto
indebitamente.
Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un
provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti
pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12, l. n. 241 del
1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che
rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione
civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei
confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso
viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla
l. n. 241 del 1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi
dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Ha ancora ricordato la Sezione che il potere di autotutela decisoria è,
invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un
precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione
di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé
costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art.
21-nonies, l. n. 241 del 1990, per esigenze di sicurezza giuridica e
certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere
inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro
diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
Nel caso di specie si è al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che
ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo
culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di
dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di
partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere.
Il giudice di primo grado ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta
ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento,
adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del
giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa
sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto
procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta
nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990.
La Sezione ha ritenuto che tale lettura interpretativa della norma non è
condivisibile.
Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in
occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18.04.2016, n.
50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame,
l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25.09.2020 n. 16,
ha affermato che: in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico
secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno
dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una
dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in
quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; premesso
quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben
possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da
un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; va però
precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la
stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei
provvedimenti concernenti la procedura selettiva; a ciò va aggiunto che le
informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza
dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a
loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di
fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per
quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite.
Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale,
la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa
non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione
appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della
procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e
dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie,
consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare
l’operato della medesima amministrazione.
Da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in
termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla
selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della
inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione
alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e
quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta
dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione
procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione
potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se
inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se
il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla
sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà
stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire
informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa
della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio
di integrità ed affidabilità.
Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art.
21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, tenuto conto della portata degli
artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che il termine massimo di 18 mesi
assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal
mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione
o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di
garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il
suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato
dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost.
nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990.
Sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza
della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo
affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato
da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa
essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario
per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione
acquisita). Nello stesso tempo però (Cons.
Stato, sez. III, 08.07.2020, n. 4392), affinché un affidamento
sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la
necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo
rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa
del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona
fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi
legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa).
Sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque
introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di
provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che
costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia
che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241 del 1990, affligge
l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto
illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione.
Diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne
impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al
comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore
dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici.
Ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost.,
quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al
rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato
hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad
altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può
tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non
corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando
in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini
del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando
(anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla
selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo
i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state
escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti
in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione
delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque,
partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti,
addirittura aggiudicandosela).
Pertanto, la su riproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art.
21-nonies, comma 1, l. 241 del n. 1990, porta ad affermare che il limite
temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del
legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto
un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è
dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il
comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o
successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore
l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non
veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti
richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si
sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento
favorevole.
Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del
pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata,
non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è
impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del
destinatario (Cons. Stato, sez. IV,
17.05.2019, n. 3192; id.
24.04.2019, n. 2645)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.03.2021 n. 2207 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DIRITTO SANITARIO – COVID – 19 e
pandemia – Normativa emergenziale sanitaria – Delitto di
falso in atto pubblico – Presupposti e limiti – DIRITTO
PROCESSUALE PENALE – COVID 19 – Falsa autodichiarazione –
Nessuno può essere obbligato ad affermare la propria
responsabilità penale – Diritto di difesa del singolo (art.
24 Cost.).
Le false dichiarazioni del privato
integrano il delitto di falso in atto pubblico solo quando
sono destinate a provare la verità dei fatti cui si
riferiscono nonché ad essere trasfuse in un atto pubblico.
In tale prospettiva, il delitto di cui all’art. 483 c.p. si
consuma non nel momento in cui il privato rende la
dichiarazione infedele, ma in quello della relativa
percezione da parte del pubblico ufficiale che lo trasfonde
nell’atto pubblico.
Inoltre, bisogna ancora evidenziare che, per un privato che
si trovi sottoposto a controllo di polizia in relazione ai
divieti di spostamento imposti dalla normativa emergenziale
Covid 19, non sussiste alcun obbligo giuridico di dire la
verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta
in quanto non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica
che in tale contesto prescriva l’obbligo di riferire la
verità e, ove una tale norma esistesse, si porrebbe in
palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art.
24 Cost.) e con il principio nemo tenetur se detegere” (TRIBUNALE
di Milano,
sentenza 12.03.2021 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Plenaria i limiti di proponibilità della questione di giurisdizione in
appello e il tema del risarcimento del danno da provvedimento favorevole
annullato.
La II sezione del Consiglio di Stato ha sottoposto all’esame della plenaria
le seguenti questioni:
- se in sede di impugnazione l’originario ricorrente
possa contestare la giurisdizione del giudice amministrativo dallo stesso
adito;
- se la questione di giurisdizione possa essere esaminata anche in caso
di declaratoria di inammissibilità in primo grado; in caso positivo
- se
sussista la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere una domanda
del privato diretta ad ottenere la condanna della pubblica amministrazione
al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’annullamento giurisdizionale
di un provvedimento amministrativo favorevole all’interessato;
- se il privato
possa in astratto vantare un legittimo e qualificato affidamento sul
provvedimento amministrativo annullato, idoneo a fondare un’azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione; in caso positivo,
- in presenza di quali condizioni ed entro quali limiti possa riconoscersi al
privato un diritto al risarcimento per lesione dell’affidamento incolpevole.
---------------
●
Giustizia amministrativa – Appello – Contestazione della giurisdizione
amministrativa da parte dell’originario ricorrente – Deferimento
all’Adunanza plenaria
●
Giustizia amministrativa – Appello – Declaratoria di inammissibilità –
Questione di giurisdizione – Deferimento all’Adunanza plenaria
●
Giustizia amministrativa – Giurisdizione – Risarcimento danni da
provvedimento amministrativo favorevole all’interessato annullato –
Deferimento all’Adunanza plenaria
●
Giurisdizione e competenza – Responsabilità civile della P.A. – Annullamento
giurisdizionale di un provvedimento favorevole – Giurisdizione – Deferimento
all’Adunanza plenaria
●
Responsabilità civile della P.A. – Annullamento giurisdizionale di un
provvedimento favorevole – Lesione dell’affidamento del contraente – Tutela
risarcitoria – Deferimento all’Adunanza plenaria
●
Responsabilità civile della P.A. – Annullamento giurisdizionale di un
provvedimento favorevole – Lesione dell’affidamento del contraente – Tutela
risarcitoria – Condizioni e limiti – Deferimento all’Adunanza plenaria
Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, del codice del processo amministrativo, le seguenti
questioni:
a) se sia ammissibile un motivo d’impugnazione volto a contestare
la giurisdizione del giudice amministrativo, formulato dalla parte che aveva
introdotto il giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale,
soprattutto quando il giudizio è stato introdotto in un contesto
ordinamentale e giurisprudenziale completamente diverso da quello attuale
(1);
b) se il giudice possa comunque affrontare la questione della
giurisdizione in generale, anche in caso di una declaratoria
d’inammissibilità, dato che una cosa è l’effetto dell’esame della questione,
altra è la questione in senso lato (2);
c) in caso positivo, se sussista la giurisdizione del giudice
amministrativo a conoscere una domanda del privato diretta ad ottenere la
condanna della pubblica amministrazione al risarcimento dei danni subiti a
seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo ‒emanato dalla medesima amministrazione‒ favorevole
all’interessato e, in particolare, di un titolo edilizio esplicito o
implicito (3);
d) se l’interessato ‒a prescindere dalle valutazioni circa la
sussistenza in concreto della colpa della pubblica amministrazione, del
danno in capo al privato e del nesso causale tra l’annullamento e la
lesione‒ possa in astratto vantare un legittimo e qualificato affidamento
sul provvedimento amministrativo annullato, idoneo a fondare un’azione
risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione (4);
e) in caso positivo, in presenza di quali condizioni ed entro quali
limiti può riconoscersi al privato un diritto al risarcimento per lesione
dell’affidamento incolpevole (5).
---------------
(1-5) I. – Con l’ordinanza in esame la II sezione del Consiglio di
Stato ha sottoposto all’Adunanza plenaria una serie di questioni, riassunte
in massima, relative ai limiti entro i quali può essere esaminata la
questione di giurisdizione in appello, nonché in relazione alla
giurisdizione sulla domanda da risarcimento del danno proposto dal privato
nei confronti dell’amministrazione in caso di annullamento di provvedimento
amministrativo favorevole e ai presupposti applicativi e ai limiti della
tutela risarcitoria.
II. – Il collegio, con l’ordinanza in esame, dopo aver analizzato la vicenda
processuale sottesa e le argomentazioni delle parti, ha osservato quanto
segue:
a) la ricorrente ha adito l’autorità giurisdizionale al fine di
ottenere dal comune resistente il risarcimento dei danni da essa subiti in
conseguenza dell’annullamento di una concessione edilizia e delle sue
varianti disposto con provvedimento giurisdizionale;
b) con la sentenza n.
293 del 20.06.2012, il Tar per l’Abruzzo, sez. staccata di Pescara,
dopo aver ritenuto sussistente la propria giurisdizione e tempestivo il
ricorso, lo ha respinto;
c) in via pregiudiziale, va vagliata
l’ammissibilità del primo motivo di impugnazione, formulato dalla parte che
in primo grado ha adito il Tar e che, in sede di gravame, si duole
dell’esplicita affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo
da parte del giudice di primo grado, che ha rigettato l’eccezione proposta
dal comune resistente:
c1) dagli atti processuali emerge che la ricorrente,
in primo grado, ha solo adombrato che vi potesse essere un difetto di
giurisdizione, concludendo per l’accoglimento del ricorso;
c2) in ogni caso,
una eventuale richiesta di declaratoria di difetto di giurisdizione in primo
grado sarebbe irrilevante ai fini dell’ammissibilità del motivo di
impugnazione, in quanto l’interessata avrebbe potuto utilizzare lo strumento
del regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 10 c.p.a.;
c3) secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa il
soggetto che ha proposto ricorso al giudice amministrativo non può poi
contestarne la giurisdizione;
c4) tale orientamento è motivato sia sul
presupposto che l’originario ricorrente non è soccombente in punto di
giurisdizione, sia sulla circostanza che tale condotta processuale integra
un abuso del diritto di difesa, scaturente dal venire contra factum
proprium, nonché dalla violazione del dovere di cooperazione per la
realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2,
comma 2, c.p.a.;
c5) il citato approdo ermeneutico, tuttavia, in mancanza di
una norma espressa, non è univoco neanche nella giurisprudenza di
legittimità;
d) nel caso in cui l’Adunanza plenaria ritenesse ammissibile il
motivo di giurisdizione, si rileva un contrasto giurisprudenziale in punto
di giurisdizione all’interno del Consiglio di Stato:
d1) secondo un
orientamento, la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica
amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole
affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella
giurisdizione ordinaria –anche nelle materie rientranti nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo– non trattandosi di una lesione
dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato, ma di una lesione del
diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure di una lesione
all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma,
dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per
l’efficacia causale del danno-evento;
d2) in altre pronunce si è invece
affermato che nelle materie di giurisdizione esclusiva, le domande relative
al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento riposto sulla
legittimità dei provvedimenti
successivamente annullati rientrerebbero nell’ambito della cognizione del
giudice amministrativo;
d3) ad avviso del collegio, la domanda proposta
dall’appellante sembra rientrare nella giurisdizione del giudice
amministrativo, in quanto il ricorso non si fonda su un mero comportamento
dell’amministrazione comunale, ma sulla circostanza che essa aveva
rilasciato un permesso a costruire sulla base di un’interpretazione poi
rilevatasi errata di una sua norma regolamentare.
Quindi non si tratta di
mero comportamento, ma di attività amministrativa procedimentalizzata, con
la conseguenza che la lesione di un’aspettativa giuridicamente tutelabile è
derivata, nella prospettazione della ricorrente, da un illegittimo esercizio
del potere amministrativo che rientra nell’alveo della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 133, lett. f), c.p.a.,
“atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di
effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del
giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la
posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare
l’amministrazione e che la circostanza che il danno non sia direttamente
cagionato dal provvedimento, ma derivi dal suo annullamento, attiene
soltanto al piano cronologico e non, per contro, a quello logico ed eziologico, stante la riconducibilità diretta del pregiudizio al
provvedimento amministrativo”;
d4) l’orientamento favorevole alla
giurisdizione del giudice ordinario si basa sul presupposto per cui vi
sarebbe l’interesse legittimo solo a fronte della illegittima negazione di
un bene della vita e non nell’illegittimo riconoscimento del bene. Tale
impostazione non appare coerente con il generale criterio di riparto sancito
dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive
al carattere satisfattivo o meno del provvedimento amministrativo;
d5)
l’opposta soluzione potrebbe condurre a esiti disarmonici, in quanto, in
base ad essa, laddove il risarcimento venga chiesto dal controinteressato
per i danni causatigli da un provvedimento illegittimo, vi sarebbe
giurisdizione del giudice amministrativo su tale domanda, mentre, qualora la
domanda risarcitoria sia proposta dal soggetto destinatario del medesimo
illegittimo provvedimento a lui favorevole, la giurisdizione si radicherebbe
presso l’autorità giudiziaria ordinaria;
e) qualora l’Adunanza plenaria
reputasse il caso di specie rientrante nella giurisdizione del giudice
amministrativo occorrerà esaminare i presupposti dell’azione risarcitoria
proposta dal privato:
e1) a giudizio del collegio appare corretta la statuizione del Tar che ha
negato tutela all’appellante evidenziando che: la vicenda trae origine da un
atto amministrativo –concessione edilizia– chiesto e voluto dal privato e
conforme ai suoi interessi; l’interessata ha difeso in giudizio tale atto
amministrativo risultando soccombente; l’affidamento ingenerato dal Comune
si sostanzia semplicemente nella buona fede dell’interessata; l’affidamento
non deriva da un comportamento colpevole dell’ente pubblico, in quanto è
corrispondente e speculare alla convinzione dell’appellante di avere diritto
a ottenere la concessione edilizia;
e2) occorre tuttavia rilevare la
presenza di un contrasto giurisprudenziale in punto di diritto al
risarcimento da lesione dell’affidamento verso un provvedimento
amministrativo illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale;
e3)
secondo una ricostruzione, la sentenza di annullamento del provvedimento
amministrativo illegittimo ha accertato l’assenza del danno ingiusto perché
all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo. L’amministrazione, anzi, avrebbe dovuto
respingere l’istanza di concessione edilizia, per cui non può dolersi del
danno chi abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto non
assentibile; in tal caso il ricorrente avrebbe, sotto il profilo soggettivo,
manifestato quanto meno una propria colpa e, sotto il profilo oggettivo,
avrebbe attivato con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo
alla verificazione del danno;
e4) un diverso orientamento giurisprudenziale
è invece favorevole al riconoscimento della risarcibilità della lesione
dell’affidamento del privato verso un provvedimento illegittimo, annullato
in sede di autotutela o in sede giurisdizionale, seppur in presenza di
stringenti limiti di prova della colpa dell’amministrazione, del danno
subito dall’istante e del nesso di causalità tra l’annullamento e il danno;
f) nel condividere il primo orientamento, il collegio osserva che:
f1)
“L’affidamento è un istituto giuridico che taglia trasversalmente l’intero
ordinamento giuridico e senza dubbio assume rilievo nei rapporti tra i
privati e le pubbliche amministrazioni, anche nelle fattispecie in cui vi è
esercizio di potere di natura pubblicistica”;
f2) l’affidamento non è un
diritto soggettivo, ma una situazione giuridica soggettiva dai tratti
peculiari propri, idonea a fondare una particolare responsabilità, che si
colloca tra il contratto e il torto civile;
f3) in ogni caso, per aversi un affidamento giuridicamente tutelabile in
capo al privato occorre: una condotta della pubblica amministrazione
connotata da mala fede o da colpa in grado di far sorgere nell’interessato,
versante in una condizione di buona fede, un’aspettativa al conseguimento di
un bene della vita; che la fiducia riposta da quest’ultimo in un esito del
procedimento amministrativo a lui favorevole sia ragionevole e non
colposamente assunta come fondata;
f4) “In sostanza, ai fini della
sussistenza dell’affidamento, il privato che ha interloquito con la pubblica
amministrazione non soltanto non deve averla condotta dolosamente o
colposamente in errore, ma deve aver aspettativa qualificata, ovverosia
basata su una pretesa legittima alla luce del quadro ordinamentale
applicabile al caso di specie”;
f5) ai fini dell’affidamento, l’ipotesi
dell’annullamento del provvedimento favorevole in sede giurisdizionale va
tenuta chiaramente distinta da quella di annullamento d’ufficio in autotutela e dalla revoca, in quanto, a fronte della medesima domanda di
risarcimento del danno, le causae petendi sono differenti;
f6) in tali
ultimi casi, infatti, l’eventuale affidamento del privato verrebbe
pregiudicato da una condotta dell’amministrazione che modifica
unilateralmente l’assetto di interessi in precedenza dalla stessa delineato;
f7) invece, nel primo caso, il potenziale affidamento verrebbe leso da un
provvedimento promanante dal potere giurisdizionale, nei cui confronti non
può esserci in radice, per la natura terza del giudice, alcuna aspettativa
qualificata all’accoglimento delle proprie ragioni. “Ne discende che
l’annullamento del provvedimento amministrativo in sede giurisdizionale non
può mai ridondare in una lesione di un affidamento legittimo, idonea a
fondare una domanda risarcitoria nei confronti della pubblica
amministrazione”;
f8) tali requisiti non appaiono sussistere nel caso di
specie, in cui l’interessato ha chiesto all’amministrazione il rilascio di
un provvedimento ampliativo della propria sfera soggettiva, che è stato
emesso e poi annullato in sede giurisdizionale. In questi casi, anche
qualora possa riscontrarsi la buona fede del privato, l’eventuale
aspettativa non sarebbe legittima, in quanto basata su una pretesa non
tutelata dall’ordinamento;
f9) le domande inoltrate dal privato
all’amministrazione comunale erano volte ad ottenere una concessione
edilizia e successive varianti, non conformi agli strumenti urbanistici,
cosicché non può essere riconosciuto un ristoro a chi non avrebbe avuto
diritto, in una prospettiva ex ante, al bene della vita;
f10) “Si evidenzia altresì che, presentando un’istanza infondata, il privato
non soltanto non ha subito alcun danno ingiusto e, pertanto, ristorabile,
ma, per tal via, ha egli cagionato un danno al Comune, sia in relazione ad
uno spreco delle limitate risorse umane e materiali dell’amministrazione per
la trattazione della pratica, sia con riferimento all’interesse
dell’amministrazione ad una corretta gestione del territorio, atteso che il
Comune è l’ente esponenziale che, in via diretta e primaria, ha il compito
di pianificare, governare e tutelare l’armonico e sostenibile sviluppo
urbanistico”.
III. – Per completezza si osserva quanto segue:
g) sulla giurisdizione del
giudice ordinario in materia di domanda di risarcimento del danno derivante
da atto favorevole al destinatario successivamente annullato ovvero da
inerzia nella repressione di abusi dovuti a omessa vigilanza ovvero a omessa
esecuzione di provvedimenti repressivi:
g1)
Cons. Stato, Ad. plen.,
07.09.2020, n. 17 (in Foro it., 2021, III, 33, con nota di E. TRAVI;
oggetto della
News US, n. 107 del 28.09.2020, non citata nel
deferimento in rassegna), che (al § 8.1.) riconosce espressamente la piena
operatività dell’indirizzo espresso dalla Corte di cassazione:
“Nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità degli
interessi legittimi a seguito della nota sentenza delle Sezioni unite della
Corte di cassazione n. 500/1999, si è affermato, anche per via legislativa,
che il “bene della vita” cui il privato aspira è meritevole di protezione
piena a prescindere dalla qualificazione come diritto soggettivo o interesse
legittimo della posizione giuridica al quale esso di correla. E’ quindi ben
possibile che, a prescindere dalla qualificazione giuridica della posizione
giuridica del costruttore che dinanzi all’annullamento in sede
amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire reclami il
ristoro dei danni conseguenti al legittimo affidamento dal medesimo riposto
circa la legittimità dell’edificazione realizzata (sul punto le Sezioni
unite sono ferme nel ritenere che trattasi di diritto soggettivo: SSUU, 24.09.2018, n. 22435; 22.06.2017, n. 15640;
04.09.2015, n.
17586; 23.03.2011, n. 6596), l’illecito commesso dall’amministrazione
comporti il sorgere di un’obbligazione all’integrale risarcimento, per
equivalente, del danno provocato”;
g2) Cass. civ., sez. un., 28.04.2020,
n. 8236 (in Giur. it., 2020, 2530, con nota di COMPORTI; Corriere giur.,
2020, 1025, con nota di SCOGNAMIGLIO; Riv. giur. edilizia, 2020, I, 461;
Resp. civ. e prev., 2020, 1181, con nota di PATRITO; Nuova giur. civ., 2020,
1074, con note di ZACCARIA, SCOGNAMIGLIO; Giornale dir. amm., 2020, 805, con
nota di BONTEMPI; Rass. dir. civ., 2020, 959, con nota di MANFREDONIA),
secondo cui:
- “L'affidamento leso è una situazione autonoma, tutela(ta) in sé
e non nel suo
collegamento con l'interesse pubblico, come affidamento incolpevole di
natura civilistica, che si sostanzia in un'aspettativa di coerenza e non
contraddittorietà del comportamento dell'amministrazione fondata sulla buona
fede; il comportamento rilevante ai fini di siffatto affidamento si colloca
in una dimensione relazionale complessiva tra l'amministrazione e il
privato, nel cui ambito un atto provvedimentale di esercizio del potere
amministrativo potrebbe mancare del tutto o addirittura essere legittimo, e
viene apprezzato sulla base di regole di correttezza e di buona fede che si
pongono su un piano autonomo rispetto a quelle di validità delle forme di
esercizio della funzione pubblica”;
- “La violazione delle regole di
correttezza e di buona fede ingenera una responsabilità da «contatto sociale
qualificato» o di tipo «relazionale», qualificata dallo status della p.a. i
cui agenti sono tenuti a uno sforzo maggiore in termini di correttezza,
lealtà e protezione rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de
populo, da inquadrare nello schema della responsabilità contrattuale, con
l'avvertenza che esso si riferisce non al contratto come atto ma al rapporto
obbligatorio sorto da fonti diverse dell'ordinamento ex art. 1173 c.c.”;
- “Spetta alla giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria la
controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione
dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento
amministrativo a causa di una condotta della p.a. che si assume difforme dai
canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della p.a.
per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione
dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione
amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica
amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione)
inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema
della responsabilità relazionale o da «contatto sociale qualificato», inteso
come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo
nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo
annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui
nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato
abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento
dell'amministrazione”;
g3) Cass. civ., sez. un., 19.02.2019, n. 4889
(in Foro it., 2019, I, 4066, con nota di richiami di BORGIANI, alla quale si
rinvia per ulteriori riferimenti giurisprudenziali; Riv. giur. edilizia,
2019, I, 580), secondo cui “È devoluta al giudice ordinario la controversia
che il privato promuova per il risarcimento dei danni nei confronti del
comune che abbia omesso la dovuta sorveglianza ed i controlli prescritti
dall'art. 27 d.p.r. 06.06.2001 n. 380, nei confronti del costruttore ed
abbia emesso i relativi provvedimenti abilitativi (nella specie, il privato
aveva acquistato una porzione dell'edificio, confidando incolpevolmente
sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi insussistente)”.
Osserva BORGIANI, op. ult. cit., che con l’ordinanza in esame le sezioni
unite confermano il loro indirizzo avviato nel 2011, secondo cui è devoluta
alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda di risarcimento dei
danni proposta dal privato nei confronti dell’amministrazione per la lesione
dell’affidamento ingenerato da un provvedimento favorevole, successivamente
annullato dal giudice amministrativo o dalla stessa amministrazione in
autotutela. L'affermazione della giurisdizione ordinaria si fonda
sull’argomento che in questo caso la domanda ha ad oggetto non una lesione
dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato, ma una lesione del suo
diritto all'integrità patrimoniale, rispetto al quale l'esercizio del potere
amministrativo rileva non in quanto tale, ma come mero comportamento per
l'efficacia causale del danno-evento da affidamento legittimo.
Osserva l’A.
che la posizione della Corte risulta ormai accolta dalla giurisprudenza
amministrativa maggioritaria, mentre risulta in via di superamento
l’orientamento secondo cui la lesione dell’affidamento riconducibile a un
esercizio scorretto del potere determinerebbe sempre la lesione di un
interesse legittimo. L’ordinanza ammette un legittimo affidamento non solo
in presenza di un provvedimento favorevole poi annullato, ma anche in
presenza dell’inerzia dell’amministrazione nell’esercizio dei doveri di
vigilanza.
Nel caso di specie, si trattava dell’inerzia dell’amministrazione
nell’esercizio dei poteri di vigilanza sull’attività edilizia. In
particolare, il privato aveva acquistato una porzione di edificio realizzato
dal costruttore con abusi edilizi senza che il comune fosse intervenuto per
reprimere tali abusi e l’acquirente era convinto di aver acquistato un
immobile regolare. Il comune solo in un secondo tempo aveva applicato le
misure sanzionatorie per l’abuso edilizio, misure sanzionatorie che, secondo
la giurisprudenza amministrativa hanno carattere reale e pertanto possono
essere applicate non solo nei confronti dei soggetti responsabili
dell'abuso, ma anche nei confronti del proprietario attuale dell'immobile,
ancorché incolpevole.
Il privato acquirente dell'immobile aveva proposto
ricorso avanti al giudice amministrativo contro il provvedimento sanzionatorio del comune, ma con esito non positivo. Pur ritenendo
ampiamente condivisa la devoluzione della questione alla giurisdizione del
giudice ordinario, osserva che le posizioni della giurisprudenza civile e
amministrativa risultano divergenti per quanto riguarda l’identificazione
delle condizioni per ammettere un legittimo affidamento nei confronti
dell’amministrazione. In particolare, in materia edilizia, la giurisprudenza
amministrativa ha negato la configurabilità di un legittimo affidamento
anche nel caso di un abuso edilizio eseguito in epoca
non recente e a lungo non sanzionato, e su questa base ha escluso
l’illegittimità del provvedimento di demolizione o di annullamento in
autotutela del titolo edilizio, applicato nei confronti del proprietario
dell’immobile (cfr. in particolare,
Cons. Stato, Ad. plen. 17.10.2017,
n. 9, in Foro it., 2018, III, 5; Foro amm., 2017, 1988; Giornale dir. amm.,
2018, 67, con nota di TRIMARCHI; Foro amm., 2018, 789, con nota di CURTO;
Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1128; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 113, con
note di DROGHINI, STRAZZA; Riv. amm., 2018, 92; oggetto della
News US, in
data 23.10.2017).
Argomento centrale nella sentenza dell’Adunanza
plenaria è che il decorso di un notevole intervallo di tempo prima
dell'adozione del provvedimento sanzionatorio di demolizione o di
annullamento in autotutela del titolo edilizio non può rendere legittimo ciò
che sin dall'origine è illegittimo e che i trasferimenti a titolo
particolare dei beni immobili non sarebbero idonei a dare origine a una
condizione di buona fede nell'acquirente.
La tendenza a ridimensionare o ad
escludere del tutto una posizione di legittimo affidamento del privato si
riscontra inoltre nella giurisprudenza sugli atti assunti
dall'amministrazione per far valere o recuperare posizioni creditorie (Cons.
Stato, ad. plen., 30.08.2018, n. 12, in Foro it., 2018, III, 618; Vita
not., 2018, 1141; Foro amm., 2018, 1197; Guida al dir., 2018, fasc. 38, 86,
con nota di PONTE; Riv. giur. edilizia, 2018, I, 985; Riv. giur.
urbanistica, 2019, 91, con nota di GORGERINO; Riv. amm., 2018, 422; oggetto
della
News US, in data 17.09.2018).
Esemplare è l'evoluzione della
giurisprudenza amministrativa in tema di ripetizione delle somme
indebitamente erogate dall'amministrazione ai propri dipendenti. Se in
origine lo stato di buona fede ed il decorso del tempo erano considerati
ostativi rispetto alla ripetizione, perché in definitiva si riteneva
configurabile un legittimo affidamento dei pubblici dipendenti, più di
recente si è imposto l'orientamento secondo cui il recupero di tali somme
costituirebbe per l'amministrazione un dovere per superiori ragioni di
finanza pubblica. L'affidamento del dipendente potrebbe solo orientare
l'amministrazione ad adottare modalità di ripetizione che non incidano
troppo gravosamente sulle esigenze primarie del debitore;
g4)
Cass. civ.,
sez. un., ordinanza, 24.09.2018, n. 22435 (oggetto della
News US, in
data 08.10.2018), secondo cui “Rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario la domanda di risarcimento dei danni derivanti da una fattispecie
complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga
successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno
dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità
del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione
del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta
caducazione del provvedimento favorevole”;
g5) alla citata News US, in data
08.10.2018, si rinvia –oltre che per l’esame delle argomentazioni della
Corte e per riferimenti giurisprudenziali ai §§ j), k), l) ed m)– per le
ulteriori considerazioni sviluppate al § p), ove si precisa che, sul piano
strettamente positivo, avuto riguardo al riparto di giurisdizione in
relazione al risarcimento del danno derivante da annullamento del
provvedimento favorevole:
p1) l’art. 103 Cost. indica come criterio di
riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo le
nozioni di diritto soggettivo e interesse legittimo, precisando che, in
alcune particolari materie indicate dalla legge, il giudice amministrativo
ha giurisdizione anche per i diritti soggettivi;
p2) l’art. 7, commi 1, 4, 5
e 7, c.p.a. delinea la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione
al risarcimento del danno precisando, tra l’altro, che: “sono devolute alla
giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia
questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla
legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio
del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere,
posti in essere da pubbliche amministrazioni” (comma 1); “sono attribuite
alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le
controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche
amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per
lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali, pure se introdotte in via autonoma” (comma 4); “nelle
materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo
133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche
delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”
(comma 5); “il principio di effettività è realizzato attraverso la
concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela
degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge,
dei diritti soggettivi” (comma 7);
p3) l’art. 30, comma 2, c.p.a. precisa,
ancora, che “può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno
ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o
dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione
esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di
diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058
del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma
specifica”;
p4) la giurisprudenza ha variamente precisato che il
risarcimento del danno non costituisce una “materia” autonoma, ma uno
strumento, astrattamente, idoneo a tutelare sia i diritti soggettivi che gli
interessi legittimi. La domanda risarcitoria può essere proposta anche in
via autonoma dinanzi al giudice amministrativo;
p5) nella prospettiva della
giurisprudenza di legittimità, alla quale ha aderito l’ordinanza in
commento: sembra esistere un diritto soggettivo a fare affidamento sulla
legittimità dell’atto amministrativo; non vi è, in questo caso, esercizio di
un pubblico potere, ma si tratta di verificare l’esistenza di doveri di
comportamento, con la conseguenza che non può immaginarsi la giurisdizione
del giudice amministrativo neanche in ipotesi di materia di giurisdizione
esclusiva; il consociato che ha beneficiato di un provvedimento satisfattivo
legittimo poi annullato si duole del danno derivante dall’affidamento
causatogli dall’emissione del provvedimento e, quindi, non introduce una
controversia sull’esercizio del potere amministrativo, ma intende sindacare
il comportamento dell’amministrazione nella sua oggettiva idoneità a
determinare l’affidamento, quale fatto storico; l’interesse legittimo,
soddisfatto dal provvedimento illegittimo, risulta insoddisfatto
legittimamente e, dunque, senza che si configuri alcuna sua lesione ai sensi
dell’art. 2043 c.c.; ciò che il privato denuncia è la lesione di una
situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione
dell’integrità del suo patrimonio; il danno ingiusto è individuabile nel
fatto che il privato, in seguito al provvedimento favorevole illegittimo, ha
sopportato perdite o mancati guadagni a causa dell’agire della pubblica
amministrazione; la fattispecie costitutiva del danno ingiusto risulta
riconducibile ad una fattispecie complessa rappresentata dall’essere stato
il provvedimento ampliativo emesso illegittimamente, dall’essere stato
l’agire dell’amministrazione determinativo di affidamento incolpevole e
dalla rimozione del provvedimento illegittimo;
p6) in una prospettiva
critica si è osservato che: il privato intende ottenere un provvedimento
favorevole, stabile e definitivo, ossia produttivo di tutti gli effetti
giuridici di cui è capace, con la conseguenza che il pregiudizio –derivante
dall’emissione di un provvedimento non stabile e non definitivo– è,
comunque, connesso all’esercizio di un’attività provvedimentale
dell’amministrazione (CIRILLO, La giurisdizione sull’azione risarcitoria
autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e
l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Foro amm., 2016,
7-8, 1991 ss.); l’affidamento non è da intendersi come materia autonoma, ma
costituisce una situazione che può accedere sia all’interesse legittimo che
al diritto soggettivo; l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di
legittimità crea una distinzione ingiustificata sulla giurisdizione tra
provvedimento favorevole e sfavorevole; nella prospettiva della Corte di
cassazione, sembra che l’esistenza dell’interesse legittimo sia correlata
all’esito dell’esercizio del potere, mentre l’interesse legittimo, sia pretensivo che oppositivo, sorge in presenza di un qualsiasi potere
amministrativo in qualunque modo esercitato; l’interesse legittimo è leso
non solo quando è illegittimamente negato il bene della vita sotteso allo
stesso, ma anche quando è illegittimamente riconosciuto tale bene (cfr.
TRAVI, Nota alle tre ordinanze delle Sezioni Unite, in Foro it., 2011, 2398
ss.); nella prospettiva codicistica l’attrazione della tutela risarcitoria
nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo non può limitarsi
alla sola ipotesi in cui il danno sia consequenziale ad un atto
amministrativo tempestivamente impugnato, dovendosi ritenere effetto di ogni
forma di esercizio del potere pubblico, in quanto rileva l’attribuzione alla
cognizione del giudice amministrativo di tutti gli strumenti processuali
idonei a tutelare la posizione soggettiva lesa dall’esercizio dei pubblici
poteri di cui è titolare l’amministrazione; il danno è, comunque,
eziologicamente legato all’esercizio del potere, infatti la tutela
risarcitoria si rivolge contro la conseguenza di un illegittimo potere
esercitato nei confronti del privato, essendo controverso l’agere
provvedimentale nel suo complesso, del quale l’affidamento costituisce un
riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione (cfr. anche, tra gli altri:
CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2018, 100 ss.; AA.VV.,
Codice del processo amministrativo, diretto da CHIEPPA, Milano, 2018, 63 ss.);
nel caso in cui il danno sia la conseguenza dell’illegittimità dei
provvedimenti sfavorevoli, la successiva richiesta di danni per la lesione
dell’interesse leso e dell’affidamento riposto nella legittimità degli atti
amministrativi è comunque collegato al potere amministrativo (Cass. civ.,
sez. un., 21.04.2016, n. 8057, in Foro it., Mass., 2016, 285);
g6)
Cass. civ., sez. un., ordinanza 22.06.2017, n. 15640 (oggetto della
News
US, in data 04.07.2017), secondo cui “E’ devoluta alla giurisdizione del
giudice ordinario l’azione di risarcimento del danno proposta dal privato
che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo
successivamente dichiarato illegittimo”. Alla citata News US si rinvia,
oltre che per l’esame delle argomentazioni sviluppate dal collegio, anche
per alcuni precedenti giurisprudenziali ai §§ da a) a g);
g7)
Cass. civ.,
sez. un., 16.12.2016, n. 25978 (oggetto della
News US, in data
09.01.2017, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo
cui “Rientra nella giurisdizione dell’A.G.O. l’azione di risarcimento
proposta dal proprietario nei confronti di un Comune per danni asseritamente
patiti a causa della omessa demolizione di un manufatto abusivo”;
g8) in
dottrina, per una nitida ricostruzione del tema e per ulteriori
approfondimenti: NERI, La tutela dell'affidamento spetta sempre alla
giurisdizione del giudice ordinario, in www.giustizia-amministrativa.it,
Studi e rassegne US, 2021;
h) sulla impossibilità che l’attore che abbia
proposto ricorso dinanzi al giudice amministrativo appelli la sentenza
sfavorevole innanzi al Consiglio di Stato, si vedano:
h1) Cass. civ., sez.
un., 05.03.2019, n. 6355 (in www.lanuovaproceduracivile.com, 2019), che,
nel chiudere la vicenda processuale di cui a
Cons. Stato, Ad. plen.,
ordinanza 28.07.2017, n. 4 (in Foro it., 2018, III, 24, con nota di
SIGISMONDI, alla quale si rinvia anche per una descrizione delle vicende
fattuali e processuali; Dir. proc. amm., 2018, 1357, con nota di CELLINI;
Riv. amm., 2018, 90, oggetto della
News US, in data
01.08.2017, alla
quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), ha ritenuto che “In materia
di giurisdizione, non è configurabile soccombenza rispetto al capo implicito
sulla medesima che accompagna la statuizione di rigetto nel merito della
domanda principale quando sia stata proposta pure riconvenzionale –o, nel
processo amministrativo, ricorso incidentale– poi non esaminata in quanto
assorbita dal pieno rigetto della prima, visto che in tal caso il convenuto
originario aveva, dispiegando a sua volta una sua domanda, per implicito
invocato l'affermazione della giurisdizione del giudice adito e che pure sul
punto è risultato pienamente vittorioso; pertanto, il convenuto, non
soccombente sulla domanda principale, che aveva però proposto domanda riconvenzionale –ovvero, nel processo amministrativo, impugnazione
incidentale in primo grado– non è legittimato ad appellare, in via
incidentale eventualmente subordinata, la pronuncia di primo grado di
integrale rigetto nel merito della domanda principale”.
Secondo la Corte, in
particolare, l’impugnazione costituisce il presupposto per superare il
giudicato interno, sia pure implicito, formatosi e va esclusa la
legittimazione a proporla in capo alla parte che, benché convenuta in primo
grado, abbia in quella sede dispiegato a sua volta domanda sia pure
subordinata o condizionata, con la quale ha implicitamente riconosciuto la
giurisdizione del giudice cui si è rivolta.
In questo senso deve essere
inteso il principio ormai costantemente affermato dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo la quale l’attore che abbia incardinato la causa
dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato
ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di
giurisdizione del giudice da lui prescelto in quanto non soccombente su
tale, autonomo capo della decisione. Rispetto al capo sulla giurisdizione
che accompagna la statuizione di rigetto nel merito della domanda è
configurabile esclusivamente la soccombenza del convenuto, sempre che a sua
volta non abbia chiesto al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione.
Il vincitore della causa, se non ha interesse a impugnare per primo il capo
della giurisdizione, perché il passaggio in giudicato della statuizione di
rigetto gli assicura una utilità maggiore di quella che potrebbe ottenere
dalla declinatoria di giurisdizione, ha tuttavia interesse ad impugnare dopo
e per effetto della impugnazione principale sul merito da parte del
soccombente pratico e così in via incidentale per il caso di suo
accoglimento.
Nella specie, sia pure con ricorso incidentale, la stessa
ricorrente aveva implicitamente riconosciuto ed anzi invocato la
giurisdizione di quel giudice: pertanto, quella stessa parte non poteva
sollevare la questione di giurisdizione -sulla quale anzi era vittoriosa,
atteso il rigetto nel merito della pretesa del ricorrente principale- ed
una tale questione non poteva allora, tanto meno di ufficio, essere
esaminata dal giudice amministrativo di secondo grado, non ritualmente
investito di quella per il difetto di legittimazione dell'appellante
incidentale.
Ne consegue il consolidamento in capo a quel giudice della potestas iudicandi per effetto della formazione a suo beneficio di un
giudicato implicito sulla relativa attribuzione; la relativa questione era
preclusa, non potendo più essere rimessa in discussione la giurisdizione del
giudice amministrativo implicitamente affermata in primo grado anche nei
confronti del ricorrente;
h2) Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 28.07.2017, n. 4, cit., secondo cui “La parte risultata vittoriosa di fronte al
tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non
è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice
amministrativo”.
L’Adunanza plenaria, nel restituire gli atti al Consiglio
di giustizia amministrativa per la regione Siciliana, ribadisce il principio
per cui la parte che ha adito correttamente il giudice amministrativo in
primo grado (anche come ricorrente incidentale) non può proporre appello
negando la giurisdizione di quest’ultimo, e si sofferma sulla delicata
questione dell’ordine di esame dell’appello principale (sul merito) e di
quello incidentale (su questione di rito e in particolare di giurisdizione).
Osserva, in particolare, SIGISMONDI, op. ult. cit., che l’Adunanza plenaria,
nel confermare l’orientamento nel senso dell’inammissibilità, argomenta non
sul divieto di venire contra factum proprium e sul limite generale del
divieto di abuso del diritto, ma, aderendo alla teoria del doppio oggetto
del processo, esclude l'interesse della parte a
impugnare un capo di sentenza (quello sulla giurisdizione) rispetto al quale
sia risultata vittoriosa.
Nel caso di specie, tuttavia, il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo non era stato dedotto dalla parte
ricorrente soccombente nel merito, ma dal controinteressato ricorrente
incidentale che nel merito era risultato vincitore (anche se i motivi
dedotti con il ricorso incidentale erano stati dichiarati assorbiti dopo che
il giudice aveva esaminato per primo il ricorso principale, ritenendolo
infondato).
Secondo l’A., “al di là di alcuni profili problematici degli
argomenti addotti a sostegno della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo (in particolare, per quanto riguarda l'esistenza, nelle
controversie in questione, del collegamento almeno mediato con l'esercizio
di un pubblico potere, dal momento che le stesse riguardano l'attribuzione
di spazi per l'esercizio di un'attività commerciale e che il ricorso a una
procedura di gara da parte della società di gestione aeroportuale non
dipende dalla legge, ma da una clausola della convenzione di concessione),
un dato non va sottovalutato: su controversie identiche, a distanza di pochi
mesi (l'ordinanza di rimessione all'adunanza plenaria che ha ritenuto la
questione di giurisdizione fondata su argomenti seri è dell'ottobre 2015,
l'ordinanza cautelare resa nel secondo giudizio d'appello che ha affermato
la giurisdizione del giudice amministrativo —poi ribadita dalla sentenza di
merito— è del maggio 2016) il medesimo giudice si è espresso in senso
diametralmente opposto. Questo non giustifica una critica al giudice
(entrambe le decisioni sono estremamente meticolose e argomentate), ma
attesta l'esistenza di ambiti di oggettiva incertezza. Il problema è quindi
stabilire se in presenza di tali spazi di incertezza il richiamo al
principio di autoresponsabilità e la teoria del doppio oggetto del processo
siano sufficienti a far ritenere giusta la conclusione che non consente alla
parte di poter rimettere in discussione la giurisdizione del giudice adìto.
A meno di non considerare definitivamente svalutata la rilevanza della
giurisdizione come presupposto processuale”;
h3) sulla inammissibilità
dell’appello da parte dell’attore che in primo grado non abbia contestato la
declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario riassumendo
il giudizio innanzi al Tar, si veda Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2017,
n. 1839 (in Foro amm., 2017, 835);
h4) Cass. civ., sez. un., 20.10.2016, n. 21260 (in Foro it., 2017, I, 966, con note di POLI, TRAVI, AULETTA;
Giur. it., 2017, 457, con nota di VIPIANA PERPETUA; Corriere giur., 2017,
257, con note di ASPRELLA, CONSOLO; Riv. dir. proc., 2017, 793, con nota di
RUFFINI; Riv. corte conti, 2017, fasc. 1, 556: Giusto processo civ., 2017,
777, con nota di FORNACIARI; Dir. proc. amm., 2018, 1357, con nota di
CELLINI), secondo cui: “L'attore che abbia incardinato la causa dinanzi a un
giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre
appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del
giudice da lui prescelto”;
h5) in dottrina, tra gli altri: R. VILLATA,
Ancora in tema di inammissibilità dell'appello al Consiglio di Stato sulla
giurisdizione promosso dal ricorrente soccombente in primo grado, in Riv.
dir. proc., 2017, 1093;
i) sulla diversa situazione in cui versa l’attore
che, adito il giudice amministrativo, proponga, nel corso del giudizio di
primo grado, regolamento di giurisdizione dubitando ragionevolmente di tale
giurisdizione si vedano:
i1) Cass. civ., sez. un., 26.06.2020, n. 12864
(in Foro it., 2020, I, 3070), secondo cui “La proposizione del regolamento
di giurisdizione non è impedita dalla pronuncia di un'ordinanza cautelare da
parte del giudice amministrativo, atteso che il provvedimento cautelare,
destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza di merito, non
assume carattere decisorio e non statuisce sulle posizioni soggettive con la
forza dell'atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato,
neppure in punto di giurisdizione”;
i2) Cass. civ., sez. un., 18.12.2018, n. 32727 (in Ced Cassazione), secondo cui “Il regolamento preventivo
di giurisdizione può essere proposto anche dall'attore sussistendo, in
presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del
giudice adito, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della
questione da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in via
definitiva, per evitare che vi possano essere successive modifiche della
giurisdizione nel corso del giudizio così ritardando la definizione della
causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole”;
i3) Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2017, n. 1839, cit., “Il regolamento
preventivo di giurisdizione può essere proposto anche in presenza di un
provvedimento cautelare già emesso, non potendosi configurare lo stesso
quale decisione che definisce il giudizio; in effetti la proposizione del
regolamento preventivo di giurisdizione non è preclusa dalla circostanza che
il giudice adito per il merito abbia provveduto su una richiesta di
provvedimento cautelare, pur se, ai fini della pronuncia, abbia risolto in
senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione,
ovvero sia intervenuta pronunzia sul reclamo avverso il provvedimento
cautelare, in quanto il provvedimento reso sull’istanza cautelare non
costituisce sentenza e la pronunzia sul reclamo mantiene il carattere di
provvisorietà proprio del provvedimento cautelare”;
i4) Cass. civ., sez.
un., 21.09.2006, n. 20504 (in Ced Cassazione), secondo cui “Il
regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto da ciascuna
parte, e quindi anche dall'attore nel giudizio di merito, essendo palese, in
presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del
giudice adito (nella
specie, originati da un provvedimento di rigetto di un'istanza proposta in
via cautelare), la sussistenza di un interesse concreto ed immediato ad una
risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, in via definitiva ed immodificabile, onde evitare che la sua
risoluzione in sede di merito possa incorrere in successive modifiche nel
corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di
ottenere un giusto processo di durata ragionevole”;
j) sul diritto al
risarcimento del danno da provvedimento favorevole poi annullato e da
inerzia della P.A., come fattispecie lesive dell’affidamento privato, si
vedano, tra le altre:
Cons. Stato, Ad. plen.,
07.09.2020, n. 17, cit.
(e relativa
News US, n. 107 del 28.09.2020), secondo cui “I vizi
delle procedure amministrative cui fa riferimento l’art. 38 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (“Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia”) ai fini dell’applicazione della sanzione
pecuniaria in caso di annullamento del titolo edilizio, sono esclusivamente
quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in
concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”.
In particolare, il collegio, nell’interpretare il citato art. 38 del d.P.R.,
n. 380 del 2001, osserva tra l’altro che: effetto della disciplina di cui
trattasi è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e
condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di
costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione
conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione
pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria; detta equiparazione è solo
quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale
principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre
demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità
urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa
fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di
costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo
all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di
legittimità degli atti amministrativi; la composizione degli opposti
interessi in rilievo –tutela del legittimo affidamento da una parte, tutela
del corretto assetto urbanistico ed edilizio dall’altra– è realizzato dal
legislatore per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari
“al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite” (c.d.
fiscalizzazione dell’abuso).
Il punto di equilibrio sin qui individuato nel
delicato bilanciamento fra tutela dell’affidamento, tutela del territorio e
tutela del terzo non è depotenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul
carattere fondamentale del diritto di abitazione e sul necessario rispetto
del principio di proporzionalità nell’irrogazione della sanzione demolitoria
(si veda, da ultimo, Corte EDU, 21.04.2016, Ivanova vs. Bulgaria, in
Urbanistica e appalti, 2016, 1317, con nota di SCARCELLA), sul rilievo che:
nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità degli
interessi legittimi, si è affermato, anche per via legislativa, che il bene
della vita cui il privato aspira è meritevole di protezione piena a
prescindere dalla qualificazione come diritto soggettivo o interesse
legittimo della posizione giuridica al quale esso si correla; è quindi
possibile che, a prescindere dalla qualificazione giuridica della posizione
soggettiva del costruttore che dinanzi all’annullamento in sede
amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire reclami il
ristoro dei danni conseguenti al legittimo affidamento dal medesimo riposto
circa la legittimità dell’edificazione realizzata, l’illecito commesso
dall’amministrazione comporti il sorgere di un’obbligazione all’integrale
risarcimento, per equivalente, del danno provocato; l’obbligazione
interviene a ridare coerenza, ragionevolezza ed effettività al sistema delle
tutele, ove la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga in
irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e ambientali.
Alla citata
News US si rinvia, oltre che per l’esame del caso esaminato dall’Adunanza
plenaria e delle relative argomentazioni: al § ee), per approfondimenti
giurisprudenziali sul diritto al risarcimento del danno da provvedimento
favorevole poi annullato e da inerzia come esaminato dalla giurisprudenza di
legittimità
(Consiglio di Stato, Sez. II,
ordinanza 09.03.2021 n. 2013 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
In merito alla tutela dell’affidamento
incolpevole, ciò si determina ogni qualvolta il privato possa confidare sul
già intervenuto rilascio di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica (anche perché l’eventuale lesione
riguarda non già un interesse legittimo pretensivo, bensì una situazione di
diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell'integrità del
patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla legittimità
del provvedimento amministrativo poi caducato).
---------------
7. - Con l’ottavo motivo, rubricato:
“8) Erroneità della sentenza per
Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001
e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge
provinciale 11.08.1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e
falsa applicazione del principio dell’affidamento ingeneratosi nella
ricorrente in ragione della concessione n. 175/2003 del 26.02.2003 e
successivo prot. n. 26525/20111, rif. n. 698/2011 del 22.06.2011. Violazione
e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 07.08.1990, n. 241
e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità
e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata
rilevazione dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. Violazione
del principio dell’affidamento”,
si censura la mancata considerazione del
legittimo affidamento, ingenerato nella ricorrente, dal Comune che aveva già
rilasciato due titoli edilizi relativamente al medesimo immobile, per un
intervento analogo, poi non realizzato.
7.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in primo luogo notare che il rilascio della precedente concessione
edilizia non aveva determinato alcuna utilità in capo alla parte appellante,
atteso che la concessione edilizia del 2003-2011 è poi decaduta per
mancato inizio dei lavori. Non è quindi predicabile alcuna incisione
dell’amministrazione su situazioni già determinatesi, il che implica il
posizionamento della fattispecie al di fuori dell’ordinario perimetro della
tutela dell’affidamento incolpevole, che si determina ogni qualvolta il
privato possa confidare sul già intervenuto rilascio di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica (anche perché l’eventuale lesione
riguarda non già un interesse legittimo pretensivo, bensì una situazione di
diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell'integrità del
patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla legittimità
del provvedimento amministrativo poi caducato, così Cass. civ., sez. un., 08.03.2019, n. 6885).
Pertanto, la parte poteva solo confidare nell’accoglimento della sua istanza
e quindi del rilascio di un provvedimento favorevole, condizionato
ovviamente al rispetto della strumentazione urbanistica vigente, circostanza
questa non verificatasi.
Deve quindi escludersi la sussistenza di alcun affidamento incolpevole
tutelabile, con conseguente rigetto della censura
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2021 n. 1867 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per giurisprudenza pacifica, il giudice di
primo grado ha ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle
spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti
motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per
escluderla, con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle
spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni
abnormi.
Il che comporta che nel processo amministrativo la valutazione di merito
sulla compensazione delle spese giudiziali non è sindacabile in appello
neppure per difetto di motivazione, essendo fondata su considerazioni di
opportunità ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede di gravame se
non nel caso di evidente irrazionalità.
---------------
8. - Infine, con un ulteriore motivo recante:
“II. In via subordinata.
9) Erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92
c.p.c.”,
si lamenta l’illegittima condanna dell’originaria ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio a favore del Comune.
8.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in primo luogo ricordare che, per giurisprudenza pacifica, il
giudice di primo grado ha ampi poteri discrezionali in ordine alla
statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano
equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese
giudiziali, ovvero per escluderla, con il solo limite, in pratica, che non
può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o
disporre statuizioni abnormi (da ultimo, Cons. Stato, IV, 30.12.2020,
n. 8517; id., IV, 23.10.2020, n. 6407; id., IV, 21.09.2020, n. 5545).
Il che comporta che nel processo amministrativo la valutazione di merito
sulla compensazione delle spese giudiziali non è sindacabile in appello
neppure per difetto di motivazione, essendo fondata su considerazioni di
opportunità ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede di gravame se
non nel caso di evidente irrazionalità (Cons. Stato, II, 27.10.2020, n. 6557;
id., III, 07.09.2020, n. 5374).
Nel caso in esame, la detta evidente irrazionalità non appare, atteso che il
TRGA ha effettivamente condannato la parte soccombente e il quantum di spese
non appare esorbitante rispetto ai minimi tabellari previsti
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2021 n. 1867 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accordi
quadro.
Il TAR Milano precisa
che la procedura di cui all’art. 54 del
d.lgs. n. 50/2016 sugli accordi quadro <<è
una procedura bifasica, nella quale la
scelta del contraente finale del singolo
ente si sviluppa attraverso un articolato
procedimento, in cui la fase per così dire
conclusiva e relativa all’appalto specifico
non può essere ritenuta totalmente avulsa da
quella precedente -volta ad individuare gli
operatori che saranno coinvolti nell’appalto
specifico- nella quale viene già posto in
essere un apprezzamento tecnico della
proposta contrattuale, mediante
l’assegnazione di un punteggio che sarà poi
mantenuto nel successivo momento di
individuazione definitiva del contraente
dell’Amministrazione>>.
Sul punto, il TAR richiama la precedente
sentenza dello stesso Tribunale (sez. I, n.
2132/2020) che aveva statuito che la
conoscenza dei punteggi attribuiti nella
prima fase da parte della Commissione, ma
anche di tutti gli operatori, è
fisiologicamente preordinata al
funzionamento del sistema, in quanto
finalizzata a consentire, nella seconda, di
proporre offerte migliorative, in modo da
modificare la graduatoria: la fattispecie
non è quindi diversa da quanto si riscontra
nelle operazioni di valutazione tecnica
delle offerte nell’ambito delle procedure
ordinarie, in cui la commissione
giudicatrice procede via via
all’assegnazione dei punteggi parziali, ed
essendo pertanto a conoscenza degli stessi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 01.03.2021 n. 541 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
In ogni caso e fermo restando quanto sopra
esposto, deve rimarcarsi che la procedura di
cui al più volte richiamato art. 54 del
codice è una procedura bifasica, nella quale
la scelta del contraente finale del singolo
ente si sviluppa attraverso un articolato
procedimento, in cui la fase per così dire
conclusiva e relativa all’appalto specifico
non può essere ritenuta totalmente avulsa da
quella precedente -volta ad individuare gli
operatori che saranno coinvolti nell’appalto
specifico- nella quale viene già posto in
essere un apprezzamento tecnico della
proposta contrattuale, mediante
l’assegnazione di un punteggio che sarà poi
mantenuto nel successivo momento di
individuazione definitiva del contraente
dell’Amministrazione.
Sul punto, sia consentito il richiamo alla
sentenza del TAR Lombardia, Milano, sez. I,
n. 2132/2020, la quale, in una analoga
fattispecie di cui al citato art. 54, ha
statuito che: «La conoscenza dei punteggi
attribuiti nella prima fase da parte della
Commissione, ma anche di tutti gli
operatori, è fisiologicamente preordinata al
funzionamento del sistema, in quanto
finalizzata a consentire, nella seconda, di
proporre offerte migliorative, in modo da
modificare la graduatoria. Come
correttamente osservato dalla difesa della controinteressata, la fattispecie in esame
non è quindi diversa da quanto si riscontra
nelle operazioni di valutazione tecnica
delle offerte nell’ambito delle procedure
ordinarie, in cui la commissione
giudicatrice procede via via
all’assegnazione dei punteggi parziali, ed
essendo pertanto a conoscenza degli stessi». |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ai
sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, infatti, <<il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo>>.
La natura discrezionale dell'annullamento d'ufficio fa sì che
l'Amministrazione procedente debba motivare, con consistente e convincente
articolazione logica, la sussistenza dell'interesse pubblico alla rimozione
dell'atto operando una comparazione tra lo stesso e quelli contrapposti dei
privati al suo mantenimento. L'onere motivazionale si connota ovviamente in
termini di differente intensità a seconda della tipologia e della
consistenza di quelli coinvolti nel procedimento, non dei contenuti della
funzione esercitata.
Il fatto che, nell'ipotesi di attività vincolata, esso possa risultare
notevolmente affievolito, dipende dalle specifiche caratteristiche della
fattispecie concreta e dalla tipologia degli interessi in gioco.
In tal senso, è stato sottolineato che <<i provvedimenti di annullamento in
autotutela sono attratti all'alveo normativo dell'art. 21-nonies L. n. 241
del 1990 che, per effetto delle riforme introdotte dal legislatore (da
ultimo, la L. n. 124 del 2015), ha riconfigurato il relativo potere
attribuendo all'Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si
esprime attraverso la valutazione dell'interesse pubblico in comparazione
con l'affidamento del destinatario dell'atto. Pertanto, nel fare
applicazione dei principi espressi anche dall'Adunanza plenaria, si rileva
che i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei
titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del
provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto
anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai
destinatari. L'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di
una discrezionalità che non esime l'Amministrazione dal dare conto, sia pure
sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di
motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il
titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e
dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere
prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché
dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore
l'Amministrazione>>.
---------------
2. La fattispecie astratta applicabile al caso di specie.
E’ importante partire dalla considerazione per cui il provvedimento in esame
non è un mero diniego di autorizzazione ex art. 87, l. n. 259 del 2003, ma
un provvedimento di secondo grado in autotutela,
Ciò implica che i presupposti e l’obbligo motivazionale a carico
dell’Amministrazione per l’adozione di un provvedimento di annullamento
d’ufficio sono sicuramente più stringenti rispetto ad un mero rigetto, il
potere autoritativo della P.A. dovendosi confrontare e bilanciare con la
tutela del legittimo affidamento del privato e con la necessità di dar conto
di tutti gli interessi pubblici e privati che vengono in gioco.
Ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, infatti, <<il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies,
esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro
un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo>>
(C. Stato, sez. II, 14.12.2020, n. 8004).
La natura discrezionale dell'annullamento d'ufficio fa sì che
l'Amministrazione procedente debba motivare, con consistente e convincente
articolazione logica, la sussistenza dell'interesse pubblico alla rimozione
dell'atto operando una comparazione tra lo stesso e quelli contrapposti dei
privati al suo mantenimento. L'onere motivazionale si connota ovviamente in
termini di differente intensità a seconda della tipologia e della
consistenza di quelli coinvolti nel procedimento, non dei contenuti della
funzione esercitata.
Il fatto che, nell'ipotesi di attività vincolata, esso possa risultare
notevolmente affievolito, dipende dalle specifiche caratteristiche della
fattispecie concreta e dalla tipologia degli interessi in gioco.
In tal senso, è stato sottolineato che <<i provvedimenti di annullamento
in autotutela sono attratti all'alveo normativo dell'art. 21-nonies L. n.
241 del 1990 che, per effetto delle riforme introdotte dal legislatore (da
ultimo, la L. n. 124 del 2015), ha riconfigurato il relativo potere
attribuendo all'Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si
esprime attraverso la valutazione dell'interesse pubblico in comparazione
con l'affidamento del destinatario dell'atto. Pertanto, nel fare
applicazione dei principi espressi anche dall'Adunanza plenaria (cfr. in
specie sentenza 17.10.2017, n. 8), si rileva che i presupposti
dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono
costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino
della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche
soggettive consolidate in capo ai destinatari. L'esercizio del potere di
autotutela è dunque espressione di una discrezionalità che non esime
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza
dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere
conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in
materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che
possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli
contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del
privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (cfr. ad es. Cons. Stato,
sez. IV, 07.09.2018, n. 5277)>> (C. Stato, sez. II, 07.09.2020, n. 5392)
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 01.03.2021 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Quella
dell’art. 17-bis L. 241/1990, come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia
nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici”, è una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che
matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti
gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti
disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene
definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno
del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in
quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non
involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento.
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della
decisione finale.
---------------
Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di applicazione
della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti amministrativi
generali ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni deputate alla
cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito dal comma
terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha
affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve
ritenersi che l'istituto del silenzio-assenso tra pubbliche Amministrazioni
di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a
prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai
procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti
su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali
complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in fattispecie
relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale generale al
piano paesaggistico territoriale).
---------------
La scelta della Soprintendenza di rinvio di ogni valutazione paesaggistica
sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si
è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die”
dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò
indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e
buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L.
241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato
all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i
soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni
dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in
modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una
legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza
di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le
modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento
d’ufficio) e al
potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio
all’inerzia della p.a..
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in
sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha
rilevato, con considerazioni di carattere generale, che:
- “il ‘fattore-tempo' assume un ‘valore ordinamentale fondamentale'
quale componente determinante per la vita e l'attività dei cittadini e delle
imprese, per i quali l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi
può costituire un costo che incide sulla libertà di iniziativa privata ex
art. 41 Cost.”;
- "Tale fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo
moderno, e si connette a principi fondamentali di rango costituzionale
(quali l'efficienza e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che
vanno declinati ‘in concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche
sovranazionale (cfr. in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, che riconosce al cittadino un diritto a
che le questioni che lo riguardano siano trattate dall'amministrazione
pubblica, oltre che con imparzialità ed equità, anche “entro un termine
ragionevole”)”.
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi
convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di
urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi
esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in
discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante,
se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame
nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
---------------
In sede di rilascio del parere prescritto dall’art. 16 L. 1150/1942 la
mancata adozione da parte della Soprintendenza di un tempestivo atto di
dissenso congruamente motivato comporta l’effetto tipico dell’assenso ai
sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990, non diversamente peraltro da quanto
previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in tema di
conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di assenso
delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e
ambientale, fatto qui salvo il rimedio dell’opposizione di cui all’art.
14-quinquies L. 241/1990.
---------------
1.- E’ materia del contendere la legittimità del parere espresso ai sensi
dell'art. 146, c. 5, del D.Lgs. n. 42/2004 dalla locale Soprintendenza
nell'ambito della Conferenza di servizi asincrona convocata dal Comune di
Casalecchio per il rilascio del titolo abilitativo relativo alle opere di
urbanizzazione relative all'attuazione del PUA “SA.”.
Si duole la società ricorrente dall’avere la Soprintendenza motivato il
proprio parere negativo con valutazioni proprie della fase urbanistica
attinente all’esame della variante al Piano particolareggiato, nel
convincimento -a suo dire del tutto erroneo- della mancata consumazione
del proprio potere consultivo in seguito al parere soprassessorio rilasciato
il 23.04.2018.
2.- Preliminarmente può prescindersi dall’eccezione di tardività ex art. 73
c.p.a. sollevata dalla difesa di parte ricorrente, avendovi essa rinunciato
all’udienza pubblica e avendo comunque diffusamente replicato a tutte le
argomentazioni difensive dell’Autorità tutoria.
3.- Venendo al merito il ricorso è fondato e va accolto.
3.1. - In punto di fatto, va evidenziato come con il parere 9250 del 23.04.2018 rilasciato ai sensi dell’art. 16 L. 1150/1942, sulla variante al
Piano Particolareggiato la Soprintendenza abbia affermato testualmente che
“Con riferimento agli aspetti di tutela paesaggistica si rinvia il parere
alla fase di ordinario procedimento ai sensi del Codice Beni Culturali e
Paesaggio”.
Ad avviso dell’Amministrazione tale asserzione non potrebbe avere alcun
valore legale tipico, valendo tuttalpiù come silenzio-rifiuto.
3.2. - Non ritiene il Collegio di poter condividere tale assunto.
Ai sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990 come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia
nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici”: “1. Nei casi in cui è prevista
l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di
amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per
l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti
comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal
ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa
documentazione, da parte dell'amministrazione procedente. Esclusi i casi di
cui al comma 3, quando per l'adozione di provvedimenti normativi e
amministrativi è prevista la proposta di una o più amministrazioni pubbliche
diverse da quella competente ad adottare l'atto, la proposta stessa è
trasmessa entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta da parte di
quest'ultima amministrazione. Il termine è interrotto qualora
l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto
o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica,
motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso,
l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni
dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento;
lo stesso termine si applica qualora dette esigenze istruttorie siano
rappresentate dall'amministrazione proponente nei casi di cui al secondo
periodo. Non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato
l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Esclusi i casi di cui al comma 3, qualora la proposta non sia trasmessa nei
termini di cui al comma 1, secondo periodo, l'amministrazione competente può
comunque procedere. In tal caso, lo schema di provvedimento, corredato della
relativa documentazione, è trasmesso all'amministrazione che avrebbe dovuto
formulare la proposta per acquisirne l'assenso ai sensi del presente
articolo. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali
coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio
dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle
modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è
prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque
denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini,
per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i
provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il
termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio
assenso, concerto o nulla osta e' di novanta giorni dal ricevimento della
richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti
termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla
osta, lo stesso si intende acquisito.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui
disposizioni del diritto dell'Unione europea richiedano l'adozione di
provvedimenti espressi.”
Trattasi di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che
matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti
gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti
disegnati dalla specifica disposizione normativa. Per tale motivo viene
definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno
del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in
quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non
involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento (ex
plurimis TAR Puglia Bari, sez. II, 06.02.2020, n. 194).
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della
decisione finale.
3.3. - Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di
applicazione della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti
amministrativi generali (ex plurimis Consiglio di Stato sez. VI, 08.06.2020, n. 3632) ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni
deputate alla cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito
dal comma terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha
affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve
ritenersi che l'istituto del silenzio assenso tra pubbliche Amministrazioni
di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a
prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento
pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai
procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti
su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali
complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in
fattispecie relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale
generale al piano paesaggistico territoriale).
3.4. - Tanto doverosamente premesso, la scelta della Soprintendenza espressa
con la nota del 23.04.2018 di rinvio di ogni valutazione paesaggistica
sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si
è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die”
dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò
indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e
buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L. 241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato
all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i
soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni
dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in
modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una
legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza
di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le
modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento
d’ufficio cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 14.10.2019, n. 6975) e al
potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio
all’inerzia della p.a. (ex multis TAR Campania Napoli sez. I, 07.01.2016, n. 2).
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in
sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha
rilevato, con considerazioni di carattere generale, che “il ‘fattore-tempo'
assume un ‘valore ordinamentale fondamentale' quale componente determinante
per la vita e l'attività dei cittadini e delle imprese, per i quali
l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi può costituire un costo
che incide sulla libertà di iniziativa privata ex art. 41 Cost.”; “Tale
fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo moderno, e si
connette a principi fondamentali di rango costituzionale (quali l'efficienza
e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che vanno declinati ‘in
concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche sovranazionale (cfr.
in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, che riconosce al cittadino un diritto a che le questioni che lo
riguardano siano trattate dall'amministrazione pubblica, oltre che con
imparzialità ed equità, anche “entro un termine ragionevole”)” (Consiglio di
Stato comm. spec., 15.04.2016, n. 929).
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi
convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di
urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi
esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in
discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante,
se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame
nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
3.5. - E’ altrettanto condivisibile poi l’assunto della ricorrente di netta
distinzione tra le valutazioni paesaggistiche da effettuarsi in sede di
approvazione di piani urbanistici e quelle in sede di parere ex art. 146
d.lgs. 42/2004 sull’autorizzazione adottata dalla Regione o dall'Ente
locale subdelegato di compatibilità di un singolo intervento, non essendo
consentita una arbitraria commistione tra le due diverse fasi procedimentali
peraltro in evidente quanto immotivato pregiudizio degli interessi privati
coinvolti.
3.6. - Può semmai discutersi della legittimità, sotto un profilo
strettamente costituzionale, della scelta invero non episodica operata dal
legislatore statale di estendere forme di silenzio-assenso ad atti emanati
da amministrazioni deputate alla cura degli interessi c.d. sensibili.
In realtà la giurisprudenza costituzionale ha più volte escluso quanto al
parametro degli artt. 9 e 32 Cost. l’incostituzionalità del silenzio-assenso
in materia ambientale e di interessi sensibili, limitandosi invero ad
escludere l’introduzione di forme di assenso tacito da parte delle Regioni
per contrasto (art. 117 Cost.) con le competenze statali in materia
ambientale (Corte Costituzionale 01.07.1992, n. 306; Id. 12.02.1996, n. 26; Id. 27.04.1993 n. 194, Id.
08.11.2017, n. 232; Id. 18.07.2014, n. 209; Consiglio di Stato, Comm. spec., 13.07.2016, n.
1640; Id. Adunanza plen., 27.07.2016, n. 17).
La Consulta, pur qualificando gli interessi sensibili come “valori
costituzionali primari”, ha d’altronde chiarito che la “primarietà” non
legittima un primato assoluto, incondizionato e aprioristico in un'ipotetica
scala gerarchica dei valori costituzionali, ma, piuttosto, impone più
limitatamente che essi siano effettivamente presi in considerazione nei
concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche
amministrazioni (Corte Cost. 09.05.2013, n. 85 sul c.d. caso Ilva). Di
contro la semplificazione amministrativa, sempre secondo la giurisprudenza
costituzionale, è principio di diretta rilevanza costituzionale (C. Cost. sent. n. 81/2013) e comunitaria (C. Cost. sent. n. 164/2012).
3.7. - Va pertanto ribadito che in sede di rilascio del parere prescritto
dall’art. 16 L. 1150/1942 la mancata adozione da parte della Soprintendenza
di un tempestivo atto di dissenso congruamente motivato comporta l’effetto
tipico dell’assenso ai sensi dell’art 17-bis L. 241/1990, non diversamente
peraltro da quanto previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in
tema di conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di
assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e ambientale, fatto qui salvo il rimedio
dell’opposizione di cui all’art. 14-quinquies L. 241/1990.
3.8. - Ne consegue la fondatezza del primo motivo di gravame, di
natura assorbente
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
I,
sentenza 27.02.2021 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Quando un provvedimento
amministrativo negativo è fondato su una
pluralità di motivi, tra loro autonomi,
proprio come nel caso in esame, è
sufficiente che resti dimostrata, all’esito
del giudizio, la fondatezza di uno solo di
questi perché ne derivi la consolidazione
dell’atto, stante l’impossibilità di
disporne l’annullamento giurisdizionale”.
A fronte di un atto c.d. “plurimotivato”,
l'eventuale fondatezza di una delle
argomentazioni addotte, infatti, non
potrebbe in ogni caso condurre
all'annullamento del provvedimento
impugnato, in quanto esso rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale
risultato immune ai vizi lamentati.
---------------
11. In ragione di quanto esposto i primi
due motivi di ricorso devono dichiararsi
infondati.
Ne consegue l’operatività nel caso di specie
del consolidato principio giurisprudenziale
secondo cui “quando un provvedimento
amministrativo negativo è fondato su una
pluralità di motivi, tra loro autonomi,
proprio come nel caso in esame, è
sufficiente che resti dimostrata, all’esito
del giudizio, la fondatezza di uno solo di
questi perché ne derivi la consolidazione
dell’atto, stante l’impossibilità di
disporne l’annullamento giurisdizionale”
(TAR per la Campania – sede di Napoli, Sez.
II, 25.11.2019, n. 5565).
A fronte di un atto c.d. “plurimotivato”,
l'eventuale fondatezza di una delle
argomentazioni addotte, infatti, non
potrebbe in ogni caso condurre
all'annullamento del provvedimento
impugnato, in quanto esso rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale
risultato immune ai vizi lamentati.
Può, quindi, assorbirsi la censura relativa
alla dedotta violazione della previsione di
cui all’art. 90 del d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.02.2021 n. 472 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è pacifica nel ritenere che l'obbligo dell'Amministrazione di
prendere in considerazione le osservazione dell'interessato non impone
affatto la puntuale confutazione delle rimostranze negative, essendo
sufficiente la completezza motivazionale dell'atto nel suo complesso,
allorché da esso possano agevolmente e chiaramente desumersi le ragioni
giuridiche e i presupposti di fatto posti a base della decisione.
---------------
Secondo la giurisprudenza, “il corretto
svolgimento del contraddittorio
procedimentale non esige la completa
disclosure da parte dell'Amministrazione”;
il confronto con il privato si colloca,
infatti, nella fase della gestazione del
provvedimento conclusivo, pertanto “sarebbe
contrario ai principi di efficienza ed
economicità dell'attività amministrativa se
l'Amministrazione fosse tenuta ad enucleare
compiutamente i motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, in una sorta
di integrale anticipazione del contenuto
motivazionale del futuro ed eventuale
provvedimento di diniego”.
---------------
13. Con il quinto motivo le
ricorrenti deducono la violazione dei
principi di partecipazione procedimentale e
buon andamento dell’azione amministrativa.
13.1. Il motivo è infondato.
13.2. Infatti, il Comune di Milano ha
avviato il confronto con le ricorrenti sia
in occasione della comunicazione di avvio
del procedimento, a fine 2019, sia in un
momento successivo ed ulteriore, nel
febbraio 2020. La mancata adesione alle
prospettazioni del privato, d’altro canto,
non può costituire, di per sé, un indice di
violazione del contraddittorio
procedimentale.
Del resto, la giurisprudenza è pacifica nel
ritenere che l'obbligo dell'Amministrazione
di prendere in considerazione le
osservazione dell'interessato non impone
affatto la puntuale confutazione delle
rimostranze negative, essendo sufficiente la
completezza motivazionale dell'atto nel suo
complesso, allorché da esso possano
agevolmente e chiaramente desumersi le
ragioni giuridiche e i presupposti di fatto
posti a base della decisione (cfr. ex
multis, Consiglio di Stato, sez. III,
01.06.2020, n. 3438; TAR per l’Emilia
Romagna – sede di Bologna, sez. I,
07.12.2017, n. 824).
13.3. Parimenti, è priva di fondamento la
prospettata violazione delle garanzie
procedimentali individuate dalla legge
241/1990 in relazione all’omessa
contestazione già nella comunicazione di
avvio del procedimento della violazione
delle distanze calcolate a partire dalla
scala in ferro.
13.3.1. A riguardo occorre premettere come,
secondo la giurisprudenza, “il corretto
svolgimento del contraddittorio
procedimentale non esige la completa
disclosure da parte dell'Amministrazione”;
il confronto con il privato si colloca,
infatti, nella fase della gestazione del
provvedimento conclusivo, pertanto “sarebbe
contrario ai principi di efficienza ed
economicità dell'attività amministrativa se
l'Amministrazione fosse tenuta ad enucleare
compiutamente i motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, in una sorta
di integrale anticipazione del contenuto
motivazionale del futuro ed eventuale
provvedimento di diniego” (cfr.:
Consiglio di Stato, Sez. III, 01.06.2020, n.
3438).
13.3.2. Nel caso in esame, a ben vedere, le
criticità in materia di distanze legali
erano già state indicate in sede di
comunicazione ex art. 7 della legge 241/1990
sebbene con riferimento alla piattaforma
elevatrice, mentre con specifico riguardo
alla scala, contemplata esclusivamente in
variante, il Comune constata come
l’edificazione della stessa non faccia che
aggravare la violazione delle norme edilizie
in materia, come ulteriormente precisato
dall’annullamento in autotutela. Le ragioni
dell’annullamento si ascrivono, quindi,
nell’alveo già tracciato nell’iniziale
contestazione comunale. Inoltre, è dirimente
osservare come nel caso di specie si tratti
di violazione di norma inderogabile e,
quindi, di provvedimento a contenuto
vincolato con conseguente operatività della
regola di cui all’art. 21-octies, co. 2, l.
n. 241/1990
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.02.2021 n. 472 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
URBANISTICA:
Secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente la
responsabilità da attività provvedimentale
illegittima della Pubblica Amministrazione
va ascritta al paradigma definito
dall’articolo 2043 Cod. civ..
Conseguentemente, in virtù del combinato
disposto degli articoli 2056, I comma, e
1223 Cod. civ., i danni risarcibili sono
quelli che sono conseguenza diretta e
immediata del fatto generatore del danno
(nel caso di specie, l’atto di approvazione
del PGT impugnato in parte qua).
E,
come da regola generale (contenuta
nell’articolo 2697 Cod. civ.), in capo a
colui che si assume danneggiato vi è un
onere di allegazione e di prova dei danni di
si chiede il risarcimento.
---------------
6.1. Non può di contro trovare accoglimento
la domanda risarcitoria formulata dalla
società Be.Im. S.a.s., per le ragioni
che si vanno a esporre.
6.2. Secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente la
responsabilità da attività provvedimentale
illegittima della Pubblica Amministrazione
va ascritta al paradigma definito
dall’articolo 2043 Cod. civ. (cfr., C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 118/2018).
Conseguentemente, in virtù del combinato
disposto degli articoli 2056, I comma, e
1223 Cod. civ., i danni risarcibili sono
quelli che sono conseguenza diretta e
immediata del fatto generatore del danno
(nel caso di specie, l’atto di approvazione
del PGT impugnato in parte qua). E,
come da regola generale (contenuta
nell’articolo 2697 Cod. civ.), in capo a
colui che si assume danneggiato vi è un
onere di allegazione e di prova dei danni di
si chiede il risarcimento (cfr., TAR Veneto,
Sez. I, sentenza n. 128/2018).
6.3. Nel caso di specie, la società Be.Im.
S.a.s. ha allegato quale danno patito per
effetto della trasformazione da temporaneo a
permanente del vincolo di destinazione
sull’immobile di proprietà, il fatto di non
poter realizzare il proprio progetto di
alienazione dell’immobile alla scadenza del
vincolo, così da poter restituire il
finanziamento contratto per la realizzazione
del fabbricato, finanziamento che genera
interessi passivi non totalmente coperti
dall’attività alberghiera.
Sennonché, tale danno non è risarcibile,
perché non è certo, e comunque non è
conseguenza diretta e immediata dell’atto
amministrativo illegittimamente emesso
dall’Amministrazione.
Valgono al riguardo le seguenti
considerazioni:
(i) il vincolo posto dalla convenzione urbanistica non era un
vincolo di inalienabilità assoluta, ma era
un vincolo a non alienare il fabbricato
costruendo per porzioni o unità abitative
separate fino a quando perdurava la
destinazione turistico –ricettiva–
alberghiera (v. articolo 3 - lettera D),
dunque nulla impediva alla società
ricorrente (allora come ora) di mettere sul
mercato il fabbricato nella sua interezza e
con l’originaria destinazione, per
rientrare, anche prima della scadenza del
vincolo, dell’investimento;
(ii) il progetto di alienazione del fabbricato per unità separate
con destinazione residenziale non è
definitivamente tramontato, perché allo
stato, per effetto della presente pronuncia
di annullamento (che sul punto è pienamente
satisfattiva dell’interesse fatto valere
dalla ricorrente), non sussiste più alcun
impedimento giuridico;
(iii) quand’anche la ricorrente avesse messo sul mercato le singole
porzioni del fabbricato, come autonome unità
aventi destinazione residenziale alla
scadenza del vincolo convenzionale
(25.11.2018), non è certo se e quando
avrebbe portato a termine l’operazione
economica progettata, dipendendo questa
anche da variabili legate all’esistenza di
una domanda e di un livello di prezzi
soddisfacente per l’alienante.
In definitiva, il nocumento che lamenta la
società ricorrente, ovverosia il pagamento
degli interessi passivi del mutuo, non è
certo nella sua esistenza, e comunque non è
direttamente riconducibile all’attività
provvedimentale illegittima del Comune
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.02.2021 n. 157 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
gennaio 2021 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Come è noto, nel processo amministrativo l'interesse a ricorrere è
caratterizzato dalla presenza dei requisiti che qualificano l'interesse ad
agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una
lesione concreta ed attuale della sfera giuridica della parte ricorrente e
dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultima
dall'annullamento dell'atto impugnato.
L'interesse all’annullamento dell’atto impugnato deve inoltre sussistere non
solo al momento della proposizione del ricorso, ma anche in epoca
successiva, in base al principio per il quale le condizioni dell'azione
debbono permanere sino al momento del passaggio in decisione della
controversia.
Nel caso all’esame, nelle more della definizione nel merito del ricorso si è
determinata una situazione di sopravvenuta carenza di interesse, essendosi
verificato un mutamento della situazione di fatto e di diritto tale da
rendere certa la inutilità di una decisione di merito sulla odierna
controversia, non potendo la parte ricorrente trarre alcuna utilità
dall'annullamento degli atti impugnati nel presente giudizio ed alcun
concreto vantaggio in relazione alla sua posizione legittimante.
---------------
Secondo l'ordine logico delle questioni di cui agli articoli 276, comma 2,
c.p.c. e 76 c.p.a. occorre previamente scrutinare l'eccezione di
improcediibilità del ricorso sollevata dal Comune.
L’eccezione è fondata.
Come è noto nel processo amministrativo l'interesse a ricorrere è
caratterizzato dalla presenza dei requisiti che qualificano l'interesse ad
agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una
lesione concreta ed attuale della sfera giuridica della parte ricorrente e
dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultima
dall'annullamento dell'atto impugnato.
L'interesse all’annullamento dell’atto impugnato deve inoltre sussistere non
solo al momento della proposizione del ricorso, ma anche in epoca
successiva, in base al principio per il quale le condizioni dell'azione
debbono permanere sino al momento del passaggio in decisione della
controversia (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.01.2016, n. 309; Consiglio di Stato, Sez. III, 11.12.2012, n.
6353).
Nel caso all’esame, come fondatamente eccepito dall’Amministrazioni
resistente, nelle more della definizione nel merito del ricorso si è
determinata una situazione di sopravvenuta carenza di interesse, essendosi
verificato un mutamento della situazione di fatto e di diritto tale da
rendere certa la inutilità di una decisione di merito sulla odierna
controversia, non potendo la parte ricorrente trarre alcuna utilità
dall'annullamento degli atti impugnati nel presente giudizio ed alcun
concreto vantaggio in relazione alla sua posizione legittimante (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.07.2011, n. 4507).
Risulta, invero, dagli atti, che in corso di causa la Co. de. Sc. di Ca. – Is.Ca. di Venezia ha effettuato la disdetta del
contratto di locazione della porzione di terreno a suo tempo concessa alla
società TIM, con contratto del 05.11.1998, per la realizzazione
dell’impianto di telecomunicazioni ove anche Vodafone Omnitel ha in seguito
installato le proprie antenne di trasmissione.
Per effetto di tale disdetta, comunicata dall’Istituto con lettera
raccomandata del 10.11.2015, con registrazione presso l’Agenzia delle
Entrate di Venezia dell’avvenuta risoluzione del contratto di locazione in
data 30.12.2016 (cfr. doc. 2 del secondo elenco documenti del Comune),
la società ricorrente ha indirettamente perso la disponibilità del sito.
Da ciò consegue la sopravvenuta carenza d’interesse della società Vodafone
Omnitel alla decisione del presente ricorso, posto che la ricorrente non
potrà conseguire nessuna utilità pratica dall’eventuale accoglimento del
gravame.
Difatti, l’intervento di potenziamento dell’impianto progettato dalla
ricorrente postula necessariamente che la ditta istante dimostri di godere
di un titolo idoneo che le consenta di effettuare l’intervento di
potenziamento dell’impianto, titolo che è venuto meno nel corso del giudizio
(il contratto di locazione dell’area sulla quale è installato il palo
antenna oggetto di modifica è stato risolto e non consta sia stato
sostituito da altro contratto di godimento).
Alla luce delle suesposte considerazioni –rilevato che le asserzioni della
ricorrente che, in replica alla memoria avversaria, ha affermato di
continuare a pagare regolarmente i canoni di locazione, sono rimaste prive
di qualsiasi riscontro documentale– il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.01.2021 n. 119 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Attivazione
della piattaforma «procedimenti» per la gestione telematica
di procedure amministrative" (deliberazione
G.R. 20.01.2020 n. 2741). |
dicembre 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto
all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto
illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi
degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249,
l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa
anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta
una sentenza passata in giudicato.
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida
presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale; più in
particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice,
sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve
aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di
elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse
pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
---------------
La volontà dell’ente di eliminare i
vizi di illegittimità che affliggono gli atti da convalidare, lungi dal
determinare uno sviamento del potere rispetto alle finalità per cui esso è
riconosciuto, costituisce, al contrario, proprio il perseguimento di tali
finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un
provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo
dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990,
n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia
decorso un termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo.
---------------
Quanto all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto
illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi
degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249,
l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa
anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta
una sentenza passata in giudicato (cfr. Cons. St., Sez. V, 25.06.2015, nr.
4650; Cons. St., sez. IV, 29.12.2014, n. 6384; Cons. St., sez. V,
24.04.2013, n. 2278).
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida
presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale;
più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal
giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato. A ciò deve
aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di
elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse
pubblico alla convalida di un atto non più esistente (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 02.04.2012 n. 1958).
Nel caso in disamina la convalida è intervenuta ancora pendente il presente
giudizio, prima che l’atto illegittimo venisse travolto definitivamente da
una pronuncia di annullamento passata in giudicato, così sanando in via
retroattiva i vizi riscontrati dall’Amministrazione.
Con il terzo motivo di
censura di tale ricorso si lamenta, inoltre, che il potere di convalida
sarebbe stato esercitato oltre il termine ragionevole di cui all’art.
21-nonies, comma 2, L. 241/1990, e cioè circa un anno dopo l’adozione
dell’atto convalidato, con ciò violando l’affidamento maturato in capo alle
ricorrenti.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio, avuto riguardo alla concreta scansione degli eventi che
hanno interessato la vicenda in disamina, che il termine entro il quale è
stato esercitato il potere di autotutela non può considerarsi irragionevole.
Gli atti convalidati sono stati adottati nel mese di luglio dell’anno 2019;
nel successivo mese di ottobre le ricorrenti impugnavano tali provvedimenti
con il ricorso introduttivo del presente giudizio, prospettandone alcuni
vizi di illegittimità; a luglio 2020 interveniva l’atto di convalida qui in
contestazione, all’esito di un procedimento avviato nel precedente mese di
marzo 2020.
In tale contesto non pare al Collegio che l’esercizio del potere di
convalida possa dirsi intempestivo, avuto, peraltro, riguardo al fatto che
ove il legislatore ha inteso codificare un termine per l’esercizio del
potere di autotutela, prendendo in considerazione quei casi in cui l’autotutela
è suscettibile di incidere in maniera particolarmente negativa sugli
interessi privati, lo ha determinato in 18 mesi (cfr. art. 21-nonies, comma
1, L. 241/1990, riferito all’annullamento dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici).
Né, d’altro canto, merita tutela l’affidamento che parte ricorrente invoca
quanto al fatto che la controversia sarebbe passata in decisione “nei
termini prospettati nel ricorso originario”, posto che l’esercizio dell’autotutela
è intervenuto proprio per emendare quei vizi di illegittimità che sono stati
denunciati dalle ricorrenti.
Con il quarto motivo di gravame si deduce, ancora, che l’atto
impugnato sarebbe illegittimo per sviamento di potere, in quanto il potere
di convalida sarebbe stato esercitato dall’Amministrazione non per assumere
provvedimenti in autotutela (vuoi conservativa, vuoi demolitoria), bensì per
“proteggere” gli atti della Giunta e del dirigente dalle statuizioni
del Tribunale.
Anche questo motivo non coglie nel segno: è appena il caso di rilevare in
proposito che la volontà dell’ente di eliminare i vizi di illegittimità che
affliggevano gli atti da convalidare, lungi dal determinare uno sviamento
del potere rispetto alle finalità per cui esso è riconosciuto, costituisce,
al contrario, proprio il perseguimento di tali finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un
provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo
dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990,
n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse, su cui le
ricorrenti non svolgono alcuna contestazione, e che non sia decorso un
termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo (cfr. Cons. St.,
sez. IV, sentenza 18.05.2017, n. 2351) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 17.12.2020 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 19.10.2020 n. 259 "Adozione delle «Linee guida sulla
formazione, gestione e conservazione dei documenti
informatici»" (AGID,
determinazione 09.09.2020 n. 407).
---------------
Correlativamente, si leggano:
●
Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei
documenti informatici
●
Glossario dei termini e degli acronimi (Allegato 1)
●
Formati di file e riversamento (Allegato 2)
●
Certificazione di processo (Allegato 3)
●
Standard e Specifiche tecniche (Allegato 4)
●
I metadati (Allegato 5)
●
Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi
Protocollati (Allegato 6) |
settembre 2020 |
|
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Stante
il disposto di cui all’art.
13 della legge n. 689 del 1981, gli organi preposti all’accertamento di
illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi
dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen., la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e
degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma
dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della
vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il
consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi
comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano
luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta
categoria di persone, e non soltanto ai condomini.
---------------
1. La ricorrente impugna l’ordinanza con cui il Comune di Gignod le ha
ordinato di rimuovere -OMISSIS- collocata nel terreno di sua proprietà, sul
presupposto che si tratti di un rifiuto abbandonato.
...
6. Con il primo motivo, si denuncia: violazione dell’art. 13 della
legge n. 689 del 1981; violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006;
sviamento di potere; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990;
difetto d’istruttoria e motivazione; contraddittorietà.
In particolare, la ricorrente lamenta che l’ispezione, sulla quale
l’ordinanza si fonda, sia stata svolta sul suo terreno senza il suo consenso
e in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come invece
richiesto per gli accessi a una proprietà privata; a tal fine, contesta che
il fondo sia gravato da una servitù di uso pubblico e sostiene che
l’eventuale circostanza che sia gravato da una servitù a vantaggio di altri
privati non lo renderebbe comunque aperto a un ingresso da parte di una
collettività indeterminata.
La difesa dell’Ente sostiene invece che la strada che attraversa il terreno,
ancorché di proprietà privata, sia asservita all’uso pubblico (e sia dunque
una “strada vicinale”), come dimostrerebbero il fatto che vi passano
una serie di condutture pubbliche, che sia stata asfaltata a cura e spese
del Comune e che a essa accedano indiscriminatamente tutti gli abitanti
della frazione.
Sebbene le parti abbiano dibattuto soprattutto sulla natura privata o
pubblica della strada che attraversa il terreno e sul novero dei soggetti
che possano legittimamente percorrerla, tale questione non appare dirimente,
con la conseguenza che questo Tribunale può esimersi dall’affrontarla (anche
perché si tratta di un problema di natura squisitamente civilistica che, di
per sé, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario).
A ben vedere, infatti, la ricorrente la solleva solo al fine d’invocare
l’applicabilità dell’art.
13 della legge n. 689 del 1981, secondo cui gli organi preposti
all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni
solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen. (in questi termini, si v. Cass. civ., sez, I, sent. n.
6361 del 2005), la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli
eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal
fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e
che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del
titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un
condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti
al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di
persone, e non soltanto ai condomini (si v., tra le tante, Cass. pen., sez.
V, sentt. n. 24755 del 01.06.2018 e n. 53438 del 24.11.2017).
Pertanto, nel caso di specie non è necessario verificare se, sul piano del
diritto privato, la strada che attraversa il terreno della ricorrente sia
gravata da una servitù privata o asservita all’uso pubblico, quanto
piuttosto se, in punto di fatto, risulti o meno accessibile ai terzi.
La risposta non può che essere positiva, perché si tratta di un’area aperta
e potenzialmente accessibile da un’indistinta categoria di persone, ovvero
dagli abitanti delle case vicine e da coloro che vi si dirigono (occorre
infatti rammentare che la stessa servitù di passaggio “civilistica”
può essere esercitata dal proprietario del fondo dominante anche in via
indiretta, attraverso le visite di terzi riferibili alle normali esigenze
della vita di relazione: sul punto si v., tra le più recenti, Cass. civ.,
sez. II, sent. n. 4821 del 2019).
Pertanto, per quanto è d’interesse in questo giudizio, il terreno della
ricorrente non può essere considerato una «privata dimora», ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che, sotto
questo profilo, l’accertamento è legittimo e il primo motivo di ricorso è
meritevole di rigetto (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.09.2020 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
convalida (ex art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990) per il tramite
della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura
“procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla
sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro
normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di
quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto
normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio”
afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale.
---------------
1. Viene all’attenzione dell’Adunanza Plenaria l’esatta interpretazione
dell’art. 38 del Testo unico edilizia (disposizione che ricalca esattamente
quanto innanzi previsto dall’art. 11 della legge n. 47/1985).
2. La disposizione prevede che “In caso di annullamento del permesso,
qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La
valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal
responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di
impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria
irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria
di cui all'articolo 36 (comma 2)”.
3. L’articolo da ultimo citato (art. 36, comma 2), com’è noto, disciplina
l’accertamento di conformità, ovvero la sanatoria degli interventi abusivi
in quanto realizzati ab origine sine titulo, ma conformi alle norme
urbanistico edilizie vigenti, sia al tempo della costruzione che al tempo
del rilascio del permesso in sanatoria (ex multis, Cons. Stato, Sez.
VI, 24.04.2018, n. 2496; Sez. II, 18.02.2020, n. 1240).
4. Dunque, il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di
tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni,
l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire
circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al
rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al
rilascio del permesso in sanatoria.
4.1. L’equiparazione è solo quoad effectum, costituendo un
eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la
costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione,
non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della
stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma
della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha
giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla
luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi.
4.2. La composizione degli opposti interessi in rilievo –tutela del
legittimo affidamento da una parte, tutela del corretto assetto urbanistico
ed edilizio dall’altra– è realizzato dal legislatore per il tramite di una “compensazione”
monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite” (cd fiscalizzazione dell’abuso).
4.2.1. Proprio perché costituente eccezionale deroga al principio di
necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, la
disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la
motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle
procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione
circa l’impossibilità di restituzione in pristino.
4.2.2. Trattasi di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene
alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del
provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art.
21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura,
non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del
privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione
dei luoghi in pristino stato.
4.3. Entrambe le condizioni sono invero declinate in modo generico dal
legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito cosa debba intendersi per “vizi
delle procedure amministrative” e per “impossibilità” di
riduzione in pristino.
4.3.1. I quesiti posti dall’ordinanza di rimessione si concentrano sul
primo aspetto, avendo la giurisprudenza in alcuni casi sostenuto che nei
“vizi della procedura” possano sussumersi tutti quelli potenzialmente
in grado di invalidare il provvedimento, siano essi relativi alla forma e al
procedimento, siano essi invece relativi alla conformità del provvedimento
finale rispetto alle previsioni edilizie e urbanistiche disciplinati
l’edificazione (C.d.S. sez. VI 19.07.2019 n. 5089, e in senso
sostanzialmente conforme, fra le molte, C.d.S. sez. VI 28.11.2018 n. 6753 e
sez. VI 12.05.2014 n. 2398, da ultimo anche Sez. VI n. 2419/2020).
4.3.2. Secondo questo ormai nutrito filone giurisprudenziale, la
fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio
(procedurale o sostanziale) avendo il legislatore affidato l’eccezionale
percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale
dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e
la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato.
In questa chiave di lettura è la “motivata valutazione” fornita
dall’amministrazione l’unico elemento sul quale il sindacato del giudice
amministrativo dovrebbe concentrarsi.
5. Questa Adunanza plenaria è di diverso avviso, alla luce delle seguenti
considerazioni d’ordine testuale e sistematico.
5.1. La disposizione in commento fa specifico riferimento ai vizi “delle
procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che
possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in
guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo
al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione
rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an
e il quomodo dell’attività edificatoria.
5.2. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito,
all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio,
rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente
sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via
generale dall’art. 21-nonies, comma 2, della legge generale sul
procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica
necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo
evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del
rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe
superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens
che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula
da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta
fattispecie provvedimentale.
5.3. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile
delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa
proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per
questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che,
sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate
valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in
concreto (Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 07.09.2020 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
ordine alla determina di convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente
evincibile peraltro dal suo tenore letterale, la stessa ha inteso, ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, sanare il vizio di incompetenza
relativa di cui era affetta la delibera di Giunta Municipale, con la
conseguenza efficacia retroattiva della medesima delibera di convalida, i
cui effetti non potevano che decorrere dall’atto convalidato.
Invero, al riguardo:
- “L'esercizio del potere di convalida (mediante ratifica)
spettante all'organo competente sana con efficacia retroattiva l'atto
viziato da incompetenza relativa, ancorché quest'ultimo sia oggetto di
ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento; infatti il provvedimento di secondo grado con cui l'autorità
competente fa proprio un atto adottato da un organo riconosciuto
incompetente, esprimendo l'univoca volontà di eliminare il vizio suddetto,
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida, secondo la
terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968- il quale si
sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
- “Il provvedimento di convalida, correlato al vizio di
incompetenza, opera retroattivamente, sicché l'invalidità lamentata da parte
ricorrente è venuta meno ab origine, con conseguente carenza di interesse a
dedurre il vizio stesso, specie considerando che l'atto di convalida non è
stato oggetto di impugnazione”;
- “È legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è
proceduto alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la
quale era stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge,
il regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di
compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art.
6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza
dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia
retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso
di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la
terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto
viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi
sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di
una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se
questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o
anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il
principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del
principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6
l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia
retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di
convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2,
l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto
che si intenda convalidare.
---------------
- “La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata
dalla Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado,
laddove sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un
termine ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”;
- “Per ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e
di conservazione dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o
convalida) di atti amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro
contenuto sostanziale. Tale principio ha trovato da ultimo riscontro
normativo nell'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla
legge n. 15 del 2005, che espressamente consente la convalida del
provvedimento annullabile "sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed
entro un termine ragionevole".
---------------
- “In caso di proposizione di un ricorso giurisdizionale
avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni
giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento, l’atto di convalida del
provvedimento impugnato produce immediati effetti pregiudizievoli per i
ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il rispetto della garanzie
di partecipazione previste dall’ordinamento, attraverso l’avviso di avvio
del procedimento”;
- “In caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti,
atteso che l’atto di convalida del provvedimento impugnato è tale da
provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso questi
ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del procedimento”.
---------------
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo
della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui
confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a
quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti,
individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio,
superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico
interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti
restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a
rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli
interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e
dell’accessibilità dei documenti amministrativi.
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti
appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia
tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i
quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del
potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè
di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella
disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la
convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento
d’ufficio.
---------------
13.1. In tale ottica va esaminata in via prioritaria, in quanto di carattere
assolutamente assorbente, avuto riguardo al decorso nelle more del giudizio
del termine di cinque anni dalla delibera della giunta comunale n. 107 del
12/09/2013 del Comune di Casoria, oggetto di convalida con la delibera del
Commissario straordinario del Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, la
censura sollevata con il terzo motivo del ricorso per motivi
aggiunti, nella parte in cui si evidenzia che il Comune avrebbe
illegittimamente fatto decorrere il termine di cinque anni di efficacia
della dichiarazione di pubblica utilità, entro cui adottare il decreto di
esproprio, non dall’atto oggetto di convalida, ma dalla medesima
deliberazione di convalida, con conseguente elusione del termine massimo di
5 anni stabilito rispettivamente dall'art. 9, comma 2, e dall'art. 13, commi
3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il termine di ulteriori due anni di
proroga della pubblica utilità previsto dal comma 5).
13.2. La stessa è fondata in considerazione del rilievo che la determina di
convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente evincibile peraltro dal
suo tenore letterale, ha inteso, ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, l.
241/1990, sanare il vizio di incompetenza relativa di cui era affetta la
delibera di Giunta Municipale n. 107 del 2013, con la conseguenza efficacia
retroattiva della medesima delibera di convalida, i cui effetti non potevano
che decorrere dall’atto convalidato (ex multis TAR Catania, (Sicilia)
sez. III, 29/04/2011, n. 1071, secondo cui, “L'esercizio del potere di
convalida (mediante ratifica) spettante all'organo competente sana con
efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a
quando non ne sia intervenuto l'annullamento; infatti il provvedimento di
secondo grado con cui l'autorità competente fa proprio un atto adottato da
un organo riconosciuto incompetente, esprimendo l'univoca volontà di
eliminare il vizio suddetto, costituisce un provvedimento di ratifica -o di
convalida, secondo la terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968-
il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
- in senso analogo TAR Milano, (Lombardia) sez. III, 06/04/2010, (ud.
18/02/2010, dep. 06/04/2010), n. 988 secondo cui “Il provvedimento di
convalida, correlato al vizio di incompetenza, opera retroattivamente,
sicché l'invalidità lamentata da parte ricorrente è venuta meno ab origine,
con conseguente carenza di interesse a dedurre il vizio stesso, specie
considerando che l'atto di convalida non è stato oggetto di impugnazione”;
- TAR Firenze, (Toscana) sez. I, 20/03/2008, n. 411 secondo cui “È
legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è proceduto
alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la quale era
stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge, il
regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di
compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art.
6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza
dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia
retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso
di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la
terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto
viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi
sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di
una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se
questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o
anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il
principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del
principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6
l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia
retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di
convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2,
l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto
che si intenda convalidare.
13.3. Le conclusioni innanzi evidenziate sono nell’ipotesi di specie tanto
più valide, avuto riguardo alla circostanza che per contro la delibera di
Giunta Comunale n. 6 del 2014, di approvazione del progetto esecutivo –che
non può che essere successiva all’approvazione del progetto definitivo– con
la delibera del commissario straordinario viene sottoposta ad atto meramente
confermativo, come claris verbis evincibile dalla relativa
motivazione, senza nuova istruttoria e motivazione, con la conseguenza che
la delibera del commissario straordinario, rispetto al progetto esecutivo,
non ha alcuna natura novativa in senso provvedimentale.
Ciò a dimostrazione della circostanza che con la delibera del Commissario
straordinario non si è inteso rinnovare in toto la procedura
espropriativa –altrimenti avrebbe dovuto procedersi anche alla
riapprovazione, con atto di conferma in senso proprio e non con atto
meramente confermativo, del progetto esecutivo– ma semplicemente emendare,
con efficacia retroattiva, l’atto di approvazione del progetto definitivo
dal vizio di incompetenza relativa da cui era affetto.
Pertanto illegittimamente e contraddittoriamente, con la delibera del
commissario straordinario, nonostante il chiaro richiamo all’art. 21-nonies,
comma 2, l. 241/1990 e alla circostanza che si intendesse emendare il vizio
di incompetenza relativa da cui era affetto l’atto della G.M. di
approvazione del progetto definitivo, sottoponendo peraltro ad atto
meramente confermativo l’atto di approvazione del progetto esecutivo, si è
fatto decorrere il termine di cinque anni, entro il quale adottare il
decreto di esproprio, non dall’atto convalidato ma dal provvedimento di
convalida.
13.4. Peraltro così facendo il Comune ha inoltre eluso il termine di cinque
anni posto dall'art. 13, commi 3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il
termine di ulteriori due anni di proroga della pubblica utilità previsto dal
comma 5) (cfr. al riguardo, in ordine alla natura perentoria del termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ex multis Cons.
Stato Sez. IV Sent., 26/07/2011, n. 4457 secondo cui “L'art. 13 del
D.P.R. n. 327 del 2001, dal titolo "Contenuto ed effetti dell'atto che
comporta la dichiarazione di pubblica utilità", al comma 3 prevede che "nel
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera
può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va
emanato"; al successivo comma 4 poi è espressamente contemplato che "se
manca l'espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di
esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente
dalla data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità
dell'opera"; ancora, al comma 5 è stabilito che "l'autorità che
dichiarato la pubblica utilità dell'opera può disporre la proroga dei
termini previsti dai commi 3 e 4 per casi di forza maggiore o per altre
giustificate ragioni. La proroga può essere disposta anche d’ufficio, prima
della scadenza del termine, per un periodo non superiore a due anni";
quindi al sesto comma è previsto che "la scadenza del termine entro il
quale può essere emanato il decreto di esproprio determina l'inefficacia
della dichiarazione di pubblica utilità". Sulla natura perentoria e non
ordinatoria del termine quinquennale entro cui adottare l'atto conclusivo
del procedimento ablativo, non pare sussistano dubbi, in ossequio ad un più
che ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale "al
termine finale va riconosciuto, a differenza del termine iniziale, natura
perentoria e tanto con riferimento anche al regime giuridico descritto sul
punto dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, norma sostanzialmente
riprodotta nell'omologo art. 13 del D.P.R. n. 327/2001” (conferma della
sentenza del Tar Lombardia-Brescia, sez. II, n. 2072/2010).
14. Nonostante il carattere assorbente dell’indicata censura, avuto riguardo
all’intervenuto decorso del termine quinquennale, con conseguente
impossibilità per il Comune di adottare il decreto di esproprio, va
osservato che parimenti fondato è il primo motivo di ricorso, nella
parte in cui i ricorrenti si dolgono della violazione del disposto dell’art.
21-nonies, comma 2, l. 241/1990, per essere stato l’atto di convalida
adottato dopo un lungo lasso di tempo, ovvero due anni e otto mesi,
dall’atto convalidato e quindi oltre il termine ragionevole previsto dalla
legge (ex multis Cons. Stato Sez. IV, 26/10/2018, n. 6125 secondo cui
“La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata dalla
Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela
decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado, laddove
sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un termine
ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”; in senso analogo Cons.
Stato Sez. IV, 18/05/2017, n. 2351, Cons. Stato Sez. IV Sent., 18/05/2017,
n. 2351; Cons. Stato Sez. VI, 20/04/2006, n. 2198, secondo cui “Per
ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e di conservazione
dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o convalida) di atti
amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro contenuto sostanziale.
Tale principio ha trovato da ultimo riscontro normativo nell'art. 21-nonies,
legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla legge n. 15 del 2005, che
espressamente consente la convalida del provvedimento annullabile
"sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole").
Ed invero, si deve ritenere, avuto riguardo al termine quinquennale di
validità della dichiarazione di pubblica utilità, che il termine di due anni
e otto mesi, pari ad oltre la metà di detto termine, non sia un termine
ragionevole, avuto anche riguardo alla circostanza che parte ricorrente, già
con la notifica del ricorso introduttivo dell’odierno giudizio, avvenuta in
data 28.10.2014, aveva sollevato la censura di incompetenza da cui era
affetta la delibera della giunta comunale n. 107 del 12/09/2013, confidando
nel relativo annullamento giurisdizionale e che pertanto il Comune avrebbe
dovuto prontamente attivarsi in ordine alla sua convalida, intervenuta per
contro solo in data 30.05.2016.
15. Fondata è inoltre la censura, del pari riferita all’atto di convalida,
formulata nel secondo motivo di ricorso, relativa alla violazione
dell’art. 7 della l. 241/1990, per non essere stato lo stesso preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento, tanto più necessaria in
relazione agli atti di autotutela, avuto riguardo al loro carattere
discrezionale.
15.1. Peraltro nell’ipotesi di specie in alcun modo poteva essere bypassata
la comunicazione di avvio del procedimento, avuto riguardo alla pendenza del
ricorso giurisdizionale avverso l’atto convalidato e all’affidabilità
nutrita dalla parte ricorrente in ordine al suo annullamento, quanto meno in
relazione alla sollevata censura di incompetenza relativa dell’atto giuntale
di approvazione del progetto definitivo (in senso analogo TAR Campania,
Salerno, sez. II. 14/12/2011, n. 1991).
Come indicato nella citata pronuncia infatti in giurisprudenza deve
intendersi prevalente l’affermazione della necessità di tale adempimento
formale, proprio nel caso di convalida di vizi, fatti risaltare a mezzo di
ricorso giurisdizionale amministrativo: “In caso di proposizione di un
ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto
lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento,
l’atto di convalida del provvedimento impugnato produce immediati effetti
pregiudizievoli per i ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il
rispetto della garanzie di partecipazione previste dall’ordinamento,
attraverso l’avviso di avvio del procedimento” (TAR Trentino Alto Adige
Trento, 02.01.2007, n. 4); “In caso di proposizione di ricorso
giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo
delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo
ai medesimi ricorrenti, atteso che l’atto di convalida del provvedimento
impugnato è tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti
stessi, verso questi ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle
garanzie partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento” (TAR Liguria Genova, sez. I, 07.04.2006, n. 353).
Nella parte motiva della decisione, da ultimo citata, significativamente si
legge: “Del pari fondato appare il sesto motivo di gravame laddove si
censura l’adozione di un atto di convalida senza il rispetto delle garanzie
partecipative al relativo procedimento facenti capo ai soggetti che quel
provvedimento hanno impugnato in sede giurisdizionale.
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo
della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui
confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a
quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti,
individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio,
superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico
interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti
restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a
rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli
interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e
dell’accessibilità dei documenti amministrativi (cfr. ad es. Consiglio
Stato, sez. VI, 30.12.2005, n. 7592).
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti
appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia
tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i
quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del
potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè
di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella
disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la
convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento
d’ufficio”.
16. In considerazione delle precedenti considerazioni, il ricorso per motivi
aggiunti va accolto, con assorbimento delle ulteriori censure, avuto
riguardo tra l’altro all’intervenuto decorso del termine di cinque anni di
validità della dichiarazione di pubblica utilità, secondo quanto evidenziato
nella disamina del terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, con
conseguente annullamento della delibera del Commissario straordinario del
Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, nonché dei relativi atti
consequenziali fra cui (avuto riguardo alla ritenuta retroattività delle
delibera del commissario straordinario) la delibera n. 6 del 23/01/2014
della Giunta comunale di Casoria, di approvazione del progetto esecutivo
dell'opera
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 01.09.2020 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Sospensione
dell'ordinanza del Presidente della Regione Siciliana. Chi ha sbagliato,
come sempre, non pagherà (28.08.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ordinanzite,
la grave malattia che flagella l'ordinamento giuridico
(24.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1.-
Privacy – oscuramento dei dati personali ex art. 52, c. 1, Dlgs. n. 196/2003
– condizioni.
La domanda di oscuramento dei dati personali presentata
dall'interessato ai sensi dell'art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003,
deve essere sostenuta dalla indicazione dei "motivi legittimi" che segnano
all'evidenza il discrimine fra l'accoglimento ed il rigetto della relativa
domanda.
Il concetto utilizzato dal legislatore, per certo non felice, abbisogna di
un'opportuna interpretazione. Va innanzi tutto escluso che l'espressione
possa essere intesa nell'accezione di "motivi normativi": in tal senso
depone sia la clausola di riserva che figura nell'incipit del citato
articolo di legge ("Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni
concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti
giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado..."), sia
il ricorso ad elementari criteri esegetici, in ragione dell'evidente
superfluità di una disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto
già previsto da altre norme.
Dunque, per dare un significato compiuto all'espressione che ne occupa -che,
ovviamente, non può neppure discendere da un'interpretazione a contrario,
non potendosi ammettere l'esito positivo di una richiesta di oscuramento
dati per motivi illegittimi- non resta che apprezzarla come sinonimo di
"motivi opportuni": donde la particolare ampiezza, opportunamente non
predeterminata dal legislatore all'interno di schemi rigidi, delle ragioni
che possono essere addotte a sostegno della richiesta di oscuramento, fermo
restando che l'accoglimento della richiesta medesima interverrà
ogniqualvolta l'Autorità giudiziaria ravviserà un equilibrato bilanciamento
tra le esigenze di riservatezza del singolo e il principio della generale
conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale
delle sentenze, quale strumento di democrazia e di informazione giuridica (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
SENTENZA
Considerato che:
- va preliminarmente rigettata l'istanza di omissione delle
generalità e degli
altri dati identificativi avanzata dai controricorrenti, ai sensi dell'art.
52,
comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003, per i motivi di seguito indicati;
- l'art. 52 cit. definisce i casi nei quali è garantito il diritto
all'anonimato
delle parti in giudizio o dei soggetti interessati.
Ai sensi del primo comma
del detto articolo -che disciplina l'ipotesi in cui l'anonimizzazione delle
generalità e degli altri dati identificativi è affidata all'intervento del
giudice- fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la
redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti
giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado [sicché
le pronunce, nel momento in cui sono redatte e depositate in cancelleria,
devono contenere l'indicazione del nome delle parti, dei loro difensori e
del
giudice ex art. 133 cod. proc. civ. e artt. 536 e 545 cod. proc. pen.], l'«l'interessato» può chiedere per «motivi legittimi», con richiesta
depositata nella cancelleria o segreteria dell'ufficio che procede prima
che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura
della medesima cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o
del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di
riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per
finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti
elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione
delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato
riportati sulla sentenza o provvedimento;
- la qualità di «interessato» legittimato a presentare la
domanda di cui all'art. 52, primo comma, cit. è definita direttamente
dall'art. 4, comma 1, lett. i), del medesimo decreto legislativo,
disposizione che, se nella originaria formulazione includeva non solo la
persona fisica, ma anche la persona giuridica, l'ente o l'associazione cui
si riferivano i dati personali, coincidendo il concetto di "dato
personale" di cui alla lett. b) del medesimo articolo con "qualunque
informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od
associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di
identificazione personale", a decorrere dal 06/12/2011, in forza della
novella ex art. 40 del d.l. del 06/12/2011 n. 201, include solo la persona
fisica, cui si riferiscono i dati personali, coincidendo il modificato
concetto di "dato personale" di cui alla lett. b) dell'art. 4 con "qualunque
informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi
compreso un numero di identificazione personale".
Questa diversa ampiezza
del termine "dato personale" orienta anche la lettura dei concetti di "dati
identificativi" di cui alla lett. c) dell'art. 4 quali "dati personali che
permettono l'identificazione diretta dell'interessato" e di "dati
sensibili" di cui alla lett. d) dell'art. 4 quali "dati personali idonei
a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico,
politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale" (v. ora art. 9 del Regolamento (UE) 2016/679);
- la domanda di oscuramento dei dati personali presentata
dall'interessato
deve essere sostenuta dalla indicazione dei "motivi legittimi" che segnano
all'evidenza il discrimine fra l'accoglimento ed il rigetto della relativa
domanda. Il concetto utilizzato dal legislatore, per certo non felice,
abbisogna di un'opportuna interpretazione.
Va innanzi tutto escluso che
l'espressione possa essere intesa nell'accezione di "motivi normativi": in
tal
senso depone sia la clausola di riserva che figura nell'incipit del citato
articolo di legge ("Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni
concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti
giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado..."), sia
il
ricorso ad elementari criteri esegetici, in ragione dell'evidente
superfluità
di una disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto già previsto
da
altre norme.
Dunque, per dare un significato compiuto all'espressione che
ne occupa -che, ovviamente, non può neppure discendere da
un'interpretazione a contrario, non potendosi ammettere l'esito positivo di
una richiesta di oscuramento dati per motivi illegittimi- non resta che
apprezzarla come sinonimo di "motivi opportuni": donde la
particolare ampiezza, opportunamente non predeterminata dal legislatore
all'interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono essere addotte a
sostegno della richiesta che qui interessa, fermo restando che
l'accoglimento della richiesta medesima interverrà ogniqualvolta l'autorità
giudiziaria ravviserà un equilibrato bilanciamento tra le esigenze di
riservatezza del singolo e il principio della generale conoscibilità dei
provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze,
quale strumento di democrazia e di informazione giuridica.
In tal senso, interessanti indicazioni conformi si
traggono dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 02.12.2010, "in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di
provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica",
pubblicate sulla G.U. n. 2 del 04.01.2011, in cui al punto 3., con
specifico riferimento alla c.d. "procedura di anonimizzazione dei
provvedimenti giurisdizionali" di cui all'art. 52, commi da 1 a 4, del d.lgs.
n. 196/2003, si indicano possibili "motivi legittimi", in grado di fondare
la
relativa richiesta (ovvero di indurre l'A.G. a provvedere d'ufficio), nella
"particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati
sensibili)", ovvero nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio"
(Cass. pen. 13.03.2017, n. 11959);
- nella specie, la richiesta dei controricorrenti di omissione
delle generalità
e degli altri dati identificativi ad essi riconducibili è da respingere, in
quanto, ancorché la si possa intendere riferita ai legali rappresentanti
delle
società controricorrenti (con ciò non rilevando, quindi, la mancata
inclusione delle persone giuridiche nel concetto di "interessato" in base
alla
formulazione- con decorrenza dal 06/12/2011- dell'art. 4, comma 1, lett. i), e la
restrizione di quello di "dato personale" di cui all'art. 4, comma 1, lett.
b),
difettano i presupposti per la detta domanda, non essendo stati indicati i
"motivi legittimi" a giustificazione della medesima.
Infatti, premesso che
la
materia trattata nel presente giudizio (atto di contestazione di sanzioni a
seguito di rettifica del valore doganale delle merci importate) non può
ritenersi di per sé sensibile, e come tale, assoggettata al cogente regime
di
tutela della riservatezza delle parti in causa, né tanto meno la vicenda
oggetto di controversia può ritenersi caratterizzata in re ipsa da una
particolare "delicatezza", era fatto onere ai richiedenti di specificare
resistenza e la natura dei motivi che avrebbero dovuto qui apportare
deroga alla regola generale di cui al co. 7 della stessa disposizione,
secondo
la quale: "Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la
diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di
altri
provvedimenti giurisdizionali" (nello
stesso senso v.
Cass.,
Sez. 5, 29.03.2019, n. 8829); al riguardo, i controricorrenti si sono limitati a
richiedere l'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi
ad
essi riconducibili "avendone motivo legittimo", senza esternare il
medesimo;
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 07.08.2020 n. 16807). |
luglio 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla
valutazione del danno da ritardo.
E' condivisibile la giurisprudenza espressa in materia
di risarcimento del danno da ritardo, secondo cui l’espresso riferimento al
“danno ingiusto” –contenuto nell’art. 2-bis l. n. 241 del 1990, così come
nel comma 2 dell’art. 30 c.p.a., secondo cui può essere chiesta la condanna
al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio
dell’attività amministrativa o dal “mancato esercizio di quella
obbligatoria”– induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela
risarcitoria in tali fattispecie, come in quelle in cui la lesione nasce da
un provvedimento espresso, non possa in alcun caso prescindersi dalla
spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo
che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal
provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto dalla sua
colpevole inerzia e lo rende risarcibile.
L’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo
dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il
provvedimento favorevole sia stata adottato, sia pure in ritardo,
dall’autorità competente, ovvero avrebbe dovuto essere adottato, sulla base
di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un
provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al
procedimento.
---------------
Secondo la giurisprudenza in tema di variante semplificata ex art. 5 del
d.P.R. n. 447 del 1998, l'eventuale esito positivo della conferenza di
servizi non è in alcun modo vincolante per il Consiglio comunale, il quale,
siccome organo titolare della potestà pianificatoria, resta pienamente
padrone della propria autonomia e discrezionalità, potendo discostarsi dalla
proposta di variante e respingerla senza alcun dovere di motivazione
puntuale o "rafforzata", in quanto l'esito della conferenza non comporta il
sorgere di alcun affidamento né di aspettative qualificate in capo al
proponente, essendo la determinazione conclusiva della conferenza
qualificabile come mera "proposta di variante".
Invero, il Consiglio comunale, in seguito alla determinazione conclusiva
della conferenza di servizi, conserva le proprie attribuzioni e valuta
autonomamente se aderire o meno ad essa, dovendo apportare, nell’esercizio
della propria potestà pianificatoria urbanistica, una valutazione globale e
definitiva in termini di governo del territorio, per converso non potendo
essa essere limitata alla sola possibilità di confutare nel merito le
valutazioni tecniche della conferenza.
---------------
12.3. Premesse tali considerazioni, occorre tuttavia rilevare che:
a) in relazione a un periodo di circa cinque mesi, ossia fino
all’adozione della sentenza del Tar Campania – Sezione di Salerno n. 826 del
03.05.2011, avente ad oggetto la delibera di Giunta comunale n. 159/2010,
non è ravvisabile in capo all’Amministrazione comunale l’elemento soggettivo
della colpa, atteso che nel periodo precedente a tale pronuncia residuavano
dubbi in ordine alla natura vincolante o meno del parere della
Soprintendenza, risultando lo stesso variamente interpretabile;
b) nella condotta della società è ravvisabile un contributo causale
nella determinazione del ritardo per un durata complessiva di circa dieci
mesi, non avendo essa prodotto la totalità dei documenti richiesti e
risultando in tal modo preclusa la convocazione della conferenza di sevizi
da parte del Comune; invero, la società produceva tutta la documentazione
richiesta, e necessaria per la convocazione della conferenza dei servizi,
solo in data 24.11.2011, allorquando il d.P.R. n. 160/2010 era già entrato
in vigore;
c) sulla base di un giudizio prognostico vi è assoluta incertezza
in ordine alla spettanza del bene della vita, necessaria per accordare il
risarcimento del danno da ritardo, in quanto:
c.1) è condivisibile la giurisprudenza espressa
dalla Sezione in materia di risarcimento del danno da ritardo, secondo cui
l’espresso riferimento al “danno ingiusto” –contenuto nell’art. 2-bis
l. n. 241 del 1990, così come nel comma 2 dell’art. 30 c.p.a., secondo cui
può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante
dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal “mancato
esercizio di quella obbligatoria”– induce a ritenere che per poter
riconoscere la tutela risarcitoria in tali fattispecie, come in quelle in
cui la lesione nasce da un provvedimento espresso, non possa in alcun caso
prescindersi dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la
lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno
derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole
dell’amministrazione quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende
risarcibile.
L’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo
dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il
provvedimento favorevole sia stata adottato, sia pure in ritardo,
dall’autorità competente, ovvero avrebbe dovuto essere adottato, sulla base
di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un
provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al
procedimento (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 27.02.2020, n. 1437; cfr. id.,
sez. IV, 02.12.2019, n. 8235; id., sez. IV, 15.07.2019, n. 4951);
c.2) con riferimento al caso di specie, secondo
la giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di variante semplificata ex
art. 5 del d.P.R. n. 447 del 1998 (da ultimo, sez. IV, 01.03.2017, n. 940;
sez. IV, 18.02.2016, n. 650), l'eventuale esito positivo della conferenza di
servizi non è in alcun modo vincolante per il Consiglio comunale, il quale,
siccome organo titolare della potestà pianificatoria, resta pienamente
padrone della propria autonomia e discrezionalità, potendo discostarsi dalla
proposta di variante e respingerla senza alcun dovere di motivazione
puntuale o "rafforzata", in quanto l'esito della conferenza non
comporta il sorgere di alcun affidamento né di aspettative qualificate in
capo al proponente, essendo la determinazione conclusiva della conferenza
qualificabile come mera "proposta di variante" (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 04.11.2013, n. 5292; id., sez. IV, 19.10.2007, n. 5471; id.,
27.06.2007, n. 3772; id., sez. VI, 26.06.2007, n. 3593; id., sez. IV,
14.04.2006, n. 2170); invero, il Consiglio comunale, in seguito alla
determinazione conclusiva della conferenza di servizi, conserva le proprie
attribuzioni e valuta autonomamente se aderire o meno ad essa, dovendo
apportare, nell’esercizio della propria potestà pianificatoria urbanistica,
una valutazione globale e definitiva in termini di governo del territorio,
per converso non potendo essa essere limitata alla sola possibilità di
confutare nel merito le valutazioni tecniche della conferenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.07.2020 n. 4669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio condivide, in termini generale, quanto esposto dal comune e dalla controinteressata in ordine all’insussistenza di
un obbligo di informazione preventiva dell’interessato della pratica
edilizia che riguardi un ambito limitrofo alla proprietà.
In secondo luogo, deve osservarsi come la censura si sostanzi nella
negazione della possibilità di un apporto partecipativo.
Ora, secondo un
condivisibile orientamento giurisprudenziale, “il rispetto delle garanzie procedimentali […] non può essere inteso in senso meramente formalistico,
dovendo piuttosto interpretarsi in senso sostanziale (in quanto le garanzie
partecipative non assolvono soltanto ad una funzione difensiva in favore del
destinatario dell'atto conclusivo) ed evitando di affidarsi a letture
formalistiche che possono sottendere fini meramente speculativi e non in
linea con il principio di effettività”.
Tale principio, calibrato principalmente in relazione alla
posizione del destinatario del provvedimento, vale, persino a fortiori, con
riguardo alla posizione del soggetto terzo che si ritiene leso.
---------------
28. Con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti in esame le
ricorrenti deducono l’illegittimità degli atti impugnati per eccesso di
potere, sub specie di violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e
di leale collaborazione della Pubblica Amministrazione e per violazione
dell’articolo 1 della L. 07.08.1990, n. 241.
Osservano le ricorrenti come
il comune di Milano ometta di informarle dell’iniziativa della controinteressata, impedendo loro di presentare memorie ed osservazioni da
tener conto ai fini dell’esercizio del potere inibitorio.
28.1. La censura è infondata per due ordini di ragioni.
28.2. In primo luogo, il Collegio condivide, in termini generale, quanto
esposto dal comune e dalla controinteressata in ordine all’insussistenza di
un obbligo di informazione preventiva dell’interessato della pratica
edilizia che riguardi un ambito limitrofo alla proprietà. Né simile obbligo
risulta predicabile ratione temporis considerato che l’assetto normativo
all’epoca vigente conferisce, comunque, diversi ma non meno rilevanti
strumenti di tutela del terzo, come diffusamente evidenziato dalla sentenza
n. 1147/2019 a cui si rinvia.
28.3. In secondo luogo, deve osservarsi come la censura si sostanzi nella
negazione della possibilità di un apporto partecipativo. Ora, secondo un
condivisibile orientamento giurisprudenziale, “il rispetto delle garanzie procedimentali […] non può essere inteso in senso meramente formalistico,
dovendo piuttosto interpretarsi in senso sostanziale (in quanto le garanzie
partecipative non assolvono soltanto ad una funzione difensiva in favore del
destinatario dell'atto conclusivo) ed evitando di affidarsi a letture
formalistiche che possono sottendere fini meramente speculativi e non in
linea con il principio di effettività” (TAR per il Lazio – sede di Roma,
sez. II-quater, 14.03.2016, n. 3175; TAR per la Lombardia – sede di
Milano, Sez. II, 04.11.2019, n. 2294, relativa ad una vicenda omologa a
quella in esame).
Tale principio, calibrato principalmente in relazione alla
posizione del destinatario del provvedimento, vale, persino a fortiori, con
riguardo alla posizione del soggetto terzo che si ritiene leso.
Nel caso di
specie, le ricorrenti sono messe in condizioni di operare una valutazione
approfondita degli interventi della controinteressata prendendo visione
degli atti e presentando osservazioni e istanze nel momento procedimentale
e, successivamente, allestendo un’azione giudiziaria articolata e composta
da una pluralità di domande che investono numerosi aspetti di tali
interventi. Non vi è, quindi, alcuna concreta e sostanziale lesione delle
facoltà partecipative delle ricorrenti o dimidiazione della tutela delle
loro posizioni giuridiche soggettive
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2020 n. 1413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: È
illegittima la nomina di un RT diverso dal RPC?
Domanda
Nel nostro comune, il responsabile della trasparenza è figura diversa dal
responsabile della prevenzione della corruzione (segretario comunale). A un
corso di formazione ci hanno detto che tale situazione è illegittima.
È veramente così?
Risposta
L’articolo 43, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo
modificato dall’articolo 34, comma 1, lett. a), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, prevede testualmente che: 1. All’interno di ogni
amministrazione il responsabile per la prevenzione della corruzione, di cui
all’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, svolge, di norma,
le funzioni di Responsabile per la trasparenza, di seguito «Responsabile», e
il suo nominativo è indicato nel Piano triennale per la prevenzione della
corruzione. Il responsabile svolge stabilmente un’attività di controllo
sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di
pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza,
la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché
segnalando all’organo di indirizzo politico, all’Organismo indipendente di
valutazione (OIV), all’Autorità nazionale anticorruzione e, nei casi più
gravi, all’ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato adempimento
degli obblighi di pubblicazione.
Come ben si comprende, l’indicazione del legislatore nazionale –dal 2016– è
quella di unificare sotto la stessa persona –negli enti locali “di norma”
il segretario comunale– i compiti di responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza, utilizzando, appunto, l’acronimo di RPCT.
Analoga posizione è stata poi assunta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione
(ANAC), la quale –nella delibera n. 1310 del 28.12.2016, (di commento del
d.lgs. 97/2016)– sostiene che: “Ad avviso dell’Autorità, considerata la
nuova indicazione legislativa sulla concentrazione delle due responsabilità,
la possibilità di mantenere distinte le figure di RPCT e di RT va intesa in
senso restrittivo: è possibile, cioè, laddove esistano obiettive difficoltà
organizzative tali da giustificare la distinta attribuzione dei ruoli. Ciò
si può verificare, ad esempio, in organizzazioni particolarmente complesse
ed estese sul territorio e al solo fine di facilitare l’applicazione
effettiva e sostanziale della disciplina sull’anticorruzione e sulla
trasparenza. E’ necessario che le amministrazioni chiariscano espressamente
le motivazioni di questa eventuale scelta nei provvedimenti di nomina del
RPC e RT e garantiscano il coordinamento delle attività svolte dai due
responsabili, anche attraverso un adeguato supporto organizzativo”.
Il contenuto letterale della disposizione non prevede affatto, dunque,
l’obbligo di avere, in ogni ente e amministrazione, un unico responsabile
per la prevenzione della corruzione e trasparenza, quindi l’indicazione del
relatore circa la presunta illegittimità della nomina del RT appare non
ancorata a nessuna fonte normativa. Resta pertinente, invece, la
specificazione dell’ANAC, la quale raccomanda che l’atto di nomina emanato
dal sindaco sia debitamente motivato, circa le ragioni (legate a obiettive
difficoltà organizzative) del discostamento dal “di norma”.
Se l’ente intende confermare la propria posizione di avere due distinti
responsabili (RT e RPC), sarà poi necessario definire nel PTPCT gli ambiti
di collaborazione sinergica tra le due figure, tenendo comunque conto che la
redazione della proposta del PTPCT, compresa la sezione dello stesso
dedicata alla Trasparenza, compete esclusivamente al Responsabile della
prevenzione della corruzione, come previsto dall’articolo 1, comma 8, della
legge 190/2012. Stessa cosa vale per la relazione annuale recante i
risultati dell’attività svolta, prevista dal comma 14, del citato articolo
1, della Legge Severino.
Si ricorda, infine, che i dati relativi al Responsabile della trasparenza e
al Responsabile della prevenzione della Corruzione vanno pubblicati su
Amministrazione trasparente, all’interno della sotto-sezione: Altri
contenuti > Prevenzione della Corruzione (21.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo
sia meramente confermativo (e perciò non
impugnabile) o di conferma in senso proprio
(e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare
se l’atto successivo sia stato adottato o
meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In
particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente
l’atto la cui adozione sia stata preceduta
da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l’esperimento di un ulteriore
adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e
un nuovo esame degli elementi di fatto e di
diritto che caratterizzano la fattispecie
considerata, può condurre a un atto
propriamente confermativo in grado, come
tale, di dare vita ad un provvedimento
diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione.
Ricorre invece
l’atto meramente confermativo quando
l’Amministrazione si limita a dichiarare
l’esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
2.1. L’eccezione è fondata nella parte in
cui non si riferisce alle risultanze del
lotto 10 (“artroprotesi primaria non
cementata – conservazione di collo”), che
non è stato oggetto di rivalutazione da
parte della Stazione appaltante.
Con la determina n. 414 del 05.12.2019,
depositata in giudizio da A.R.I.A. in data 06.12.2019, la Stazione appaltante ha
recepito l’attività di rivalutazione posta
in essere dalla Commissione giudicatrice in
seguito all’accoglimento dell’istanza di
riesame formulata da Ad.Or. in data 17.09.2019 –accolta con determina n.
213 del 10.10.2019– all’esito della
quale sono stati in parte confermati gli
esiti di cui alla determina di esclusione
del 22.07.2019, impugnata con il
ricorso.
L’attività posta in essere dalla Stazione
appaltante è consistita in una
rivalutazione, per mezzo di una nuova
istruttoria (cfr. verbali allegati alla
memoria di A.R.I.A. del 06.12.2019),
della fattispecie pregressa, che in parte ha
dato luogo anche ad una modifica
dell’originaria determinazione (cfr. il
rinnovato esito di alcuni lotti, 7-bis e 8,
sebbene estranei a questo giudizio), da cui
è scaturito un atto confermativo in senso
proprio e non meramente confermativo, che
avrebbe onerato il ricorrente Ad.Or. a
proporre ricorso avverso i suoi esiti; una
tale conclusione non risulta contraddetta
dalla circostanza che, con riguardo ad
alcuni lotti, l’attività di rivalutazione
abbia avuto un esito parzialmente favorevole
per la predetta ricorrente, con
l’attribuzione di maggiori punteggi, visto
che le risultanze conclusive –cui la
Stazione appaltante è pervenuta, come
evidenziato in precedenza, attraverso
l’adozione di un nuovo provvedimento, che
assume una autonoma lesività– non hanno
consentito alla stessa di collocarsi in
posizione utile nella graduatoria finale.
Avendo il nuovo provvedimento preso il posto
del precedente oggetto di impugnazione,
nessun interesse residua ormai in capo alla
parte ricorrente in ordine allo scrutinio di quest’ultimo, non esplicando più alcun
effetto. In assenza di impugnazione
dell’ultimo provvedimento, il ricorso
originario deve essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse.
Ciò appare in linea con la consolidata
giurisprudenza, secondo la quale, «allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo
sia meramente confermativo (e perciò non
impugnabile) o di conferma in senso proprio
(e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare
se l’atto successivo sia stato adottato o
meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi. In
particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente
l’atto la cui adozione sia stata preceduta
da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l’esperimento di un ulteriore
adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e
un nuovo esame degli elementi di fatto e di
diritto che caratterizzano la fattispecie
considerata, può condurre a un atto
propriamente confermativo in grado, come
tale, di dare vita ad un provvedimento
diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece
l’atto meramente confermativo quando
l’Amministrazione si limita a dichiarare
l’esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione»
(TAR Lombardia, Milano, II, 15.06.2020, n. 1067; altresì, Consiglio di Stato,
V, 29.01.2020, n. 716; IV, 27.01.2017, n. 357; 12.10.2016, n. 4214; 12.02.2015,
n. 758)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.07.2020 n. 1386 -
link a www.giustizia-amministraiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo
noti principi, l'adozione di un'ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate
dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata
da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle
quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante
la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia
provvedimentale, nella quale la contingibilità deve essere intesa come
impossibilità di fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione
dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione
verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità di porre in essere un
intervento non rinviabile.
In altre parole, la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza
contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che
imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per
fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi
ordinari apprestati dall'ordinamento
---------------
Pur volendo ritenere che il provvedimento impugnato si giustifichi e tragga
fondamento dagli artt. 242 e 244, comma 2, del d.lgs.
152/2006 esso sarebbe
parimenti illegittimo per incompetenza e per assenza dei presupposti.
L’art. 244, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006 dispone, infatti, che “La
provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di
superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il
responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del
presente titolo”, e cioè a presentare il piano di caratterizzazione e a
predisporre il progetto di bonifica o di messa in sicurezza del sito, con le
eventuali misure di riparazione e di ripristino ambientale previste
dall’art. 242.
La norma è chiara nell’attribuire la competenza all’adozione del
provvedimento di diffida di cui sopra alla Provincia (e non al sindaco); e
in ogni caso, prevede che l’ordinanza possa essere adottata soltanto nei
confronti del “responsabile dell’inquinamento”, laddove nel caso di specie è
pacifico che i ricorrenti non sono i responsabili dell’inquinamento,
ma solo i titolari di diritti reali sull’area oggetto del deposito
incontrollato dei rifiuti; il che conduce a ritenere fondati, non solo i
primi due motivi di ricorso, ma anche il terzo, con cui i ricorrenti hanno
contestato, tra l’altro, la violazione dell’art. 244, comma 2, d.lgs.
152/2006, in forza del quale l’individuazione del responsabile
dell’inquinamento costituisce il presupposto essenziale per l’adozione dei
provvedimenti di cui all’art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, di modo che
al mero titolare di diritti reali sull’area inquinata che -come nel caso di
specie- non sia responsabile dell’inquinamento, non possono essere
addossati obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1597 del 15.05.2019, emessa dal
Sindaco del Comune di Iseo, avente ad oggetto il “Ripristino dei luoghi
mediante bonifica delle aree identificate catastalmente al fg. 21, partt.
496 - 497 e 499 NCT di Iseo”, con cui è stato ordinato a Fe.El. e
Fo.Do., nella loro qualità di usufruttuari e a Fe.Ma. e Fe.Da., nella loro qualità di nudi proprietari delle identificate
aree, di predisporre il piano di caratterizzazione e di presentare copia del
piano di bonifica entro 30 giorni dalla notificazione dell'ordinanza.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
1. Giova premettere, in punto di fatto, che il procedimento amministrativo
sfociato nell’adozione dell’ordinanza impugnata ha preso le mosse
dall’esposto presentato in data 17.03.2012 dalla società Al. s.r.l.,
che nel marzo del 2011 aveva acquistato dagli odierni ricorrenti la
proprietà del terreno oggetto del presente giudizio per impiantarvi
un’attività di torrefazione, e a tale scopo aveva avviato accertamenti
tecnici prodromici all’esecuzione dell’intervento; nell’esposto, la medesima
segnalava all’amministrazione comunale che in data 14.03.2012, a seguito
dell’esecuzione di carotaggi nel sottosuolo, alla profondità di circa 2
metri, erano stati rinvenuti “rifiuti frammisti al terreno”.
A seguito dell’esposto, l’amministrazione comunale avviava un procedimento
per “abbandono e deposito incontrollato di rifiuti nel suolo”, dandone
comunicazione anche al sig. Fe.El., odierno ricorrente; il
procedimento si articolava in alcune riunioni, a cui partecipavano vari enti
pubblici (Comune di Iseo, Provincia di Brescia, Regione Lombardia, ARPA, ASL),
nonché i consulenti legali e le parti interessate, riunioni nelle quali era
proposto a tutti i privati proprietari dei terreni di effettuare un’unica
indagine geognostica ambientale di caratterizzazione, areale e verticale,
dell’intera area.
Peraltro, dal momento che tra la società Al. s.r.l. e gli odierni
ricorrenti era insorta controversia civile dinanzi al Tribunale di Brescia
per la risoluzione dell’atto di compravendita per aliud pro aliud, e dal
momento che in tale giudizio era stata disposta c.t.u. al fine di accertare
lo stato dei luoghi, la natura dei rifiuti eventualmente presenti e gli
interventi di bonifica eventualmente necessari con i relativi costi, il
procedimento amministrativo restava di fatto sospeso in attesa degli
accertamenti del c.t.u. e della definizione del giudizio.
Il c.t.u. depositava due relazioni peritali, la prima in data 15.07.2014
e la seconda in data 29.10.2014 nelle quali evidenziava, in sintesi:
- che su una porzione di terreno costituente circa un quarto dell’area
interessata (circa 1450 mq) era stato rivenuto nel sottosuolo un
abbancamento di rifiuti confinati in sacchi, non frammisti a terreno,
identificabili come deposito incontrollato di rifiuti classificati come non
pericolosi;
- che nella porzione residua dell’area era stato rinvenuto nel sottosuolo
materiale di origine antropica frammisto a terreno naturale, caratterizzato
in alcuni punti da concentrazioni di inquinanti chimici al di sopra della
C.S.C. relativa alle aree verdi/residenziali, nonché altri da materiali
riconducibili ad attività di demolizione edile, frammisti a terreno
naturale;
- il c.t.u. stimava in € 80.000,00–100.000,00 i costi per le opere di
bonifica delle frazioni di terreno ed ulteriori 5.000,00-7.000,00 per le
indagini integrative necessarie all’analisi di rischio.
Con sentenza n. 3642/2017 del 15.12.2017 il Tribunale civile di
Brescia dichiarava la risoluzione del contratto di compravendita stipulato
il 30.03.2011 tra gli odierni ricorrenti e la società Al. s.r.l. per
inadempimento dei venditori.
A seguito di tale sentenza, l’amministrazione comunale riattivava il
procedimento amministrativo notificando agli odierni ricorrenti in data 26.10.2018 una nota con cui li invitava alla presentazione entro 60 giorni
di un “progetto di bonifica conformemente ai contenuti della relazione
peritale effettuata sugli esiti delle indagini ambientali”.
Seguivano contatti tra le parti che, tuttavia, non portavano ad alcuna
soluzione concordata.
Quindi, in data 15.05.2019 il Comune adottava l’ordinanza impugnata nel
presente giudizio.
2. Costituendosi in giudizio, l’amministrazione comunale ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, asserendo che l’atto
impugnato non avrebbe natura lesiva trattandosi di un mero invito rivolto ai
ricorrenti a partecipare al procedimento amministrativo al solo fine di
prevenire l’iscrizione sul terreno di loro proprietà dell’onere reale di cui
all’art. 253, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006.
L’eccezione non può essere condivisa, in quanto, come già rilevato in sede
cautelare, l’ordinanza impugnata, giusta il tenore letterale ed il contenuto
sostanziale, non può essere qualificata quale mero invito rivolto ai
ricorrenti ad effettuare un intervento volontario per evitare l’iscrizione
dell’onere reale di cui all’art. 253 del d.lgs. 152/2006; si tratta,
invece, di un atto con cui l’amministrazione comunale ha ordinato ai
ricorrenti di predisporre il piano di caratterizzazione con i requisiti di
cui all’Allegato 2 del d.lgs. n. 152/2006 e di produrre alle
Amministrazioni indicate copia del piano di bonifica entro 30 giorni dalla
notificazione, con avvertimento che in mancanza, salvi i provvedimenti
amministrativi e penali del caso, il Comune avrebbe proceduto in via
sostitutiva.
E’ quindi un provvedimento che implica l’imposizione di
obblighi di facere e di oneri economici a carico degli intimati e che
prefigura anche l’irrogazione di sanzioni amministrative e penali in caso di
inosservanza. L’immediata lesività di tale provvedimento non può seriamente
essere contestata.
3. Nel merito, il ricorso è fondato.
Il provvedimento impugnato è stato adottato dal sindaco di Iseo in espressa
applicazione degli artt. 50, comma 4 e 5, e 242 e 244 del d.lgs. n. 152/2006.
In realtà, la competenza del sindaco si giustifica astrattamente solo in
relazione ai disposti dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, mentre
non si giustifica in relazione agli art. 242 e 244 del Codice dell’Ambiente
che attribuiscono la competenza ad adottare i provvedimenti ivi disciplinati
alla Provincia.
I due profili appena evidenziati formano oggetto delle
censure dedotte dai ricorrenti con i primi due motivi, che sono entrambi
fondati e assorbenti.
3.1. L’art. 50, comma 5, del d.lgs. 267/2000 dispone che “In particolare, in
caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate
dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione
all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave
incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o
di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana (…)”.
Come già detto, tra le norme attributive del potere richiamate nel
provvedimento impugnato, questa è l’unica che potrebbe astrattamente
giustificare la competenza del sindaco; in concreto, tuttavia, la norma è
stata applicata senza che ne ricorressero i presupposti di contingibilità e
di urgenza, o, comunque, senza che tali presupposti siano stati minimamente
evidenziati nella motivazione dell’atto impugnato.
3.1.1. Secondo noti principi, l'adozione di un'ordinanza sindacale
contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate
dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata
da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle
quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante
la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia
provvedimentale, nella quale la contingibilità deve essere intesa come
impossibilità di fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione
dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione
verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità di porre in essere un
intervento non rinviabile (Consiglio di Stato, sez. III, 29/05/2015, n.
2697; TAR Perugia, sez. I, 12/02/2020, n. 64).
In altre parole, la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza
contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che
imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per
fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura
eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi
ordinari apprestati dall'ordinamento (TAR Torino, sez. I , 04/02/2020, n.
102).
3.1.2. Nel caso di specie, non soltanto il provvedimento impugnato appare
totalmente privo di motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti
di contingibilità ed urgenza richiesti per l’adozione dell’ordinanza
sindacale ex art. 50 d.lgs. 267/2000, con particolare riferimento alla
sussistenza di una situazione eccezionale e imprevedibile di pericolo
attuale e imminente per l’incolumità pubblica derivante dalla presenza di
rifiuti sull’area di proprietà degli intimati; ma, per di più, il
comportamento serbato dall’amministrazione nel corso dell’intero
procedimento amministrativo, avviato sin dal 2012 e concluso solo nel 2019,
attesta di per sé l’inesistenza dei tali presupposti di eccezionalità e di
urgenza, se solo si considera che la stessa amministrazione comunale ha
ritenuto di potere sospendere, di fatto, per diversi anni il procedimento in
questione in attesa del deposito della relazione peritale nel giudizio
civile intercorrente tra le parti private e in attesa della definizione del
giudizio medesimo, prima di assumere il provvedimento conclusivo impugnato
nel presente giudizio, peraltro a distanza di quasi cinque anni dal deposito
della relazione peritale e di due anni dalla sentenza del giudice civile.
E
d’altra parte, la stessa consulenza tecnica d’ufficio svolta nel giudizio
civile, pur rilevando la presenza di rifiuti di varia tipologia all’interno
dell’area di proprietà dei ricorrenti, non aveva evidenziato l’esistenza di
profili di criticità tali da imporre l’adozione di interventi immediati ed
urgenti.
3.1.3. Alla luce di tali considerazioni l’ordinanza impugnata, ove intesa
come ordinanza contingibile e urgente ex art. 50, comma 5, TUEL, è illegittima
per difetto di istruttoria e di motivazione circa la sussistenza dei
presupposti di contingibilità e di urgenza richiesti dalla norma applicata.
3.2. Peraltro, a voler ritenere che il provvedimento impugnato si
giustifichi e tragga fondamento dagli artt. 242 e 244, comma 2, del d.lgs.
152/2006 -pure richiamati nella motivazione dell’atto- esso sarebbe
parimenti illegittimo per incompetenza e per assenza dei presupposti.
3.2.1. L’art. 244, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006 dispone, infatti, che “La
provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di
superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il
responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del
presente titolo”, e cioè a presentare il piano di caratterizzazione e a
predisporre il progetto di bonifica o di messa in sicurezza del sito, con le
eventuali misure di riparazione e di ripristino ambientale previste
dall’art. 242.
3.2.2. La norma è chiara nell’attribuire la competenza all’adozione del
provvedimento di diffida di cui sopra alla Provincia (e non al sindaco); e
in ogni caso, prevede che l’ordinanza possa essere adottata soltanto nei
confronti del “responsabile dell’inquinamento”, laddove nel caso di specie è
pacifico –perché ammesso espressamente dall’amministrazione comunale nelle
proprie difese– che i ricorrenti non sono i responsabili dell’inquinamento,
ma solo i titolari di diritti reali sull’area oggetto del deposito
incontrollato dei rifiuti; il che conduce a ritenere fondati, non solo i
primi due motivi di ricorso, ma anche il terzo, con cui i ricorrenti hanno
contestato, tra l’altro, la violazione dell’art. 244, comma 2, d.lgs.
152/2006, in forza del quale l’individuazione del responsabile
dell’inquinamento costituisce il presupposto essenziale per l’adozione dei
provvedimenti di cui all’art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, di modo che
al mero titolare di diritti reali sull’area inquinata che -come nel caso di
specie- non sia responsabile dell’inquinamento, non possono essere
addossati obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale.
4. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va accolto con conseguente
annullamento del provvedimento impugnato e assorbimento delle ulteriori
censure dedotte
(TAR Lombardia-Brescia, sez. I,
sentenza 17.07.2020 n. 549 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Presupposti
per l’ordinanza contingibile e urgente.
L'adozione di
un'ordinanza sindacale contingibile e
urgente presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve
essere suffragata da un'istruttoria adeguata
e da una congrua motivazione, in ragione
delle quali si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura,
di tale tipologia provvedimentale, nella
quale la contingibilità deve essere intesa
come impossibilità di fronteggiare
l'emergenza con i rimedi ordinari, in
ragione dell'accidentalità,
imprescindibilità ed eccezionalità della
situazione verificatasi e l'urgenza come
assoluta necessità di porre in essere un
intervento non rinviabile.
In altre parole, la possibilità di ricorrere
allo strumento dell'ordinanza contingibile e
urgente è legata alla sussistenza di un
pericolo concreto che imponga di provvedere
in via d'urgenza, con strumenti extra
ordinem, per fronteggiare emergenze
sanitarie o porre rimedio a situazioni di
natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana,
non fronteggiabili con i mezzi ordinari
apprestati dall'ordinamento
(TAR Lombardia- Brescia, Sez. I,
sentenza 17.07.2020 n. 549 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3. Nel merito, il ricorso è fondato.
Il provvedimento impugnato è stato adottato
dal sindaco di Iseo in espressa applicazione
degli artt. 50, comma 4 e 5, e 242 e 244 del
d.lgs. n. 152/2006. In realtà, la competenza
del sindaco si giustifica astrattamente solo
in relazione ai disposti dell’art. 50, comma
5, del d.lgs. n. 267/2000, mentre non si
giustifica in relazione agli art. 242 e 244
del Codice dell’Ambiente che attribuiscono
la competenza ad adottare i provvedimenti
ivi disciplinati alla Provincia.
I due
profili appena evidenziati formano oggetto
delle censure dedotte dai ricorrenti con i
primi due motivi, che sono entrambi fondati
e assorbenti.
3.1. L’art. 50, comma 5, del d.lgs. 267/2000
dispone che “In particolare, in caso di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica a
carattere esclusivamente locale le ordinanze
contingibili e urgenti sono adottate dal
sindaco, quale rappresentante della comunità
locale. Le medesime ordinanze sono adottate
dal sindaco, quale rappresentante della
comunità locale, in relazione all'urgente
necessità di interventi volti a superare
situazioni di grave incuria o degrado del
territorio, dell'ambiente e del patrimonio
culturale o di pregiudizio del decoro e
della vivibilità urbana (…)”.
Come già detto, tra le norme attributive del
potere richiamate nel provvedimento
impugnato, questa è l’unica che potrebbe
astrattamente giustificare la competenza del
sindaco; in concreto, tuttavia, la norma è
stata applicata senza che ne ricorressero i
presupposti di contingibilità e di urgenza,
o, comunque, senza che tali presupposti
siano stati minimamente evidenziati nella
motivazione dell’atto impugnato.
3.1.1. Secondo noti principi, l'adozione di
un'ordinanza sindacale contingibile e
urgente presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve
essere suffragata da un'istruttoria adeguata
e da una congrua motivazione, in ragione
delle quali si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura,
di tale tipologia provvedimentale, nella
quale la contingibilità deve essere intesa
come impossibilità di fronteggiare
l'emergenza con i rimedi ordinari, in
ragione dell'accidentalità,
imprescindibilità ed eccezionalità della
situazione verificatasi e l'urgenza come
assoluta necessità di porre in essere un
intervento non rinviabile (Consiglio di
Stato, sez. III, 29/05/2015, n. 2697; TAR
Perugia, sez. I, 12/02/2020, n. 64).
In altre parole, la possibilità di ricorrere
allo strumento dell'ordinanza contingibile e
urgente è legata alla sussistenza di un
pericolo concreto che imponga di provvedere
in via d'urgenza, con strumenti extra
ordinem, per fronteggiare emergenze
sanitarie o porre rimedio a situazioni di
natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana,
non fronteggiabili con i mezzi ordinari
apprestati dall'ordinamento (TAR Torino,
sez. I , 04/02/2020, n. 102).
3.1.2. Nel caso di specie, non soltanto il
provvedimento impugnato appare totalmente
privo di motivazione in ordine alla
sussistenza dei presupposti di
contingibilità ed urgenza richiesti per
l’adozione dell’ordinanza sindacale ex art.
50 d.lgs. 267/2000, con particolare
riferimento alla sussistenza di una
situazione eccezionale e imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per
l’incolumità pubblica derivante dalla
presenza di rifiuti sull’area di proprietà
degli intimati; ma, per di più, il
comportamento serbato dall’amministrazione
nel corso dell’intero procedimento
amministrativo, avviato sin dal 2012 e
concluso solo nel 2019, attesta di per sé
l’inesistenza dei tali presupposti di
eccezionalità e di urgenza, se solo si
considera che la stessa amministrazione
comunale ha ritenuto di potere sospendere,
di fatto, per diversi anni il procedimento
in questione in attesa del deposito della
relazione peritale nel giudizio civile
intercorrente tra le parti private e in
attesa della definizione del giudizio
medesimo, prima di assumere il provvedimento
conclusivo impugnato nel presente giudizio,
peraltro a distanza di quasi cinque anni dal
deposito della relazione peritale e di due
anni dalla sentenza del giudice civile.
E d’altra parte, la stessa consulenza
tecnica d’ufficio svolta nel giudizio
civile, pur rilevando la presenza di rifiuti
di varia tipologia all’interno dell’area di
proprietà dei ricorrenti, non aveva
evidenziato l’esistenza di profili di
criticità tali da imporre l’adozione di
interventi immediati ed urgenti.
3.1.3. Alla luce di tali considerazioni
l’ordinanza impugnata, ove intesa come
ordinanza contingibile e urgente ex art. 50,
comma 5, TUEL, è illegittima per difetto di
istruttoria e di motivazione circa la
sussistenza dei presupposti di
contingibilità e di urgenza richiesti dalla
norma applicata.
3.2. Peraltro, a voler ritenere che il
provvedimento impugnato si giustifichi e
tragga fondamento dagli artt. 242 e 244,
comma 2, del d.lgs. 152/2006 -pure
richiamati nella motivazione dell’atto- esso
sarebbe parimenti illegittimo per
incompetenza e per assenza dei presupposti.
3.2.1. L’art. 244, comma 2, del d.lgs. n.
152/2006 dispone, infatti, che “La
provincia, ricevuta la comunicazione di cui
al comma 1, dopo aver svolto le opportune
indagini volte ad identificare il
responsabile dell'evento di superamento e
sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del
presente titolo”, e cioè a presentare il
piano di caratterizzazione e a predisporre
il progetto di bonifica o di messa in
sicurezza del sito, con le eventuali misure
di riparazione e di ripristino ambientale
previste dall’art. 242.
3.2.2. La norma è chiara nell’attribuire la
competenza all’adozione del provvedimento di
diffida di cui sopra alla Provincia (e non
al sindaco); e in ogni caso, prevede che
l’ordinanza possa essere adottata soltanto
nei confronti del “responsabile
dell’inquinamento”, laddove nel caso di
specie è pacifico –perché ammesso
espressamente dall’amministrazione comunale
nelle proprie difese– che i ricorrenti non
sono i responsabili dell’inquinamento, ma
solo i titolari di diritti reali sull’area
oggetto del deposito incontrollato dei
rifiuti; il che conduce a ritenere fondati,
non solo i primi due motivi di ricorso, ma
anche il terzo, con cui i ricorrenti hanno
contestato, tra l’altro, la violazione
dell’art. 244, comma 2, d.lgs. 152/2006, in
forza del quale l’individuazione del
responsabile dell’inquinamento costituisce
il presupposto essenziale per l’adozione dei
provvedimenti di cui all’art. 244, comma 2,
d.lgs. n. 152/2006, di modo che al mero
titolare di diritti reali sull’area
inquinata che -come nel caso di specie- non
sia responsabile dell’inquinamento, non
possono essere addossati obblighi di
bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale.
4. Alla luce di tali considerazioni, il
ricorso va accolto con conseguente
annullamento del provvedimento impugnato e
assorbimento delle ulteriori censure
dedotte. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Ordinanze contingibili e urgenti
– Strumenti atipici – Eventi non prevedibili a priori –
Temporaneità – Compressione diritti e interessi privati –
Eccezionalità e provvisorietà
Le ordinanze contingibili ed urgenti
sono strumenti atipici e funzionali allo scopo di far fronte
ad eventi non prevedibili a priori
(Tar Veneto Sez. I 21/09/2016 n. 1055) e
proprio per la possibilità delle stesse di disporre la
compressione di diritti ed interessi dei privati con mezzi
diversi da quelli tipici indicati dalla legge devono avere
quale presupposto un’efficacia solo in via temporanea
(Cons. Stato Sez V 26/07/2016 n. 3369; TAR Campania Sez. V
09/11/2016 n. 5162 e 17/02/2016 n. 860).
Da ciò deriva che è necessario che
l’ordinanza extra ordinem contenga un termine di efficacia.
L’assenza dell’indicazione del periodo temporale non può non
invalidare gli atti stessi posto che l’Autorità può
intervenire con dette ordinanze eccezionalmente e solamente
in via provvisoria (TAR
Valle d'Aosta,
sentenza 17.07.2020 n. 25 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Com’è
noto, le ordinanze contingibili ed urgenti sono strumenti atipici essendo
funzionali allo scopo di far fronte ad eventi non prevedibili a priori e
proprio perché possono disporre la compressione di diritti ed interessi dei
privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge devono avere
come presupposto una efficacia solo in via temporanea.
Ne consegue dall’applicazione del principio su indicato che occorre fissare
nell’ordinanza extra ordinem un termine di efficacia e nella specie per le
su indicate due ordinanza alcunché è detto in ordine alla efficacia nel
tempo degli ordini impartiti.
Ora l’assenza della indicazione del periodo temporale di efficacia non può
non invalidare gli atti stessi dal momento che l’Autorità può intervenire
con detti strumenti solo eccezionalmente in via provvisoria, cosa che qui
non è dato rilevare.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza contingibile ed urgente n. 28/2019 del 06.09.2019
notificata il 11.09.2019 con la quale il Sindaco del Comune di Ayas ha
ordinato alla società Le Re. sas rappresentata dal Sig. Pr.Co., nato ad ...
(TO) il ... e residente in Ayas (AO) Fraz. ... n. ..., di garantire il
passaggio dei mezzi adibiti alla raccolta rifiuti, tutti i giorni dal lunedì
al sabato con orario dalle 5.00 alle 8.00 nonché
- dell'ordinanza contingibile ed urgente n. 23/2019 del 08.08.2019
notificata il 12.08.2019 con la quale il Sindaco del Comune di Ayas ha
ordinato alla società Le Re. sas rappresentata dal Sig. Pr.Co., nato ad ...
(TO) il ... e residente in Ayas (AO) Fraz. ... n. ..., la rimozione delle
reti metalliche e della sbarra limitatrice di traffico nel luogo indicato in
epigrafe, entro e non oltre 48 (quarantotto) ore dalla notifica della
presente Ordinanza garantendo il passaggio dei mezzi adibiti alla raccolta
dei rifiuti, tutti i giorni dal lunedì al sabato con orario dalla 5.00 alle
8.00 per tutto il periodo di maggior afflusso turistico e comunque sino
all'08.09.2019;
- di tutti gli atti e provvedimenti ai predetti provvedimenti
presupposti, conseguenti e/o comunque connessi e, in particolare,
dell'ordinanza contingibile ed urgente n. 19/2019 del 25.07.2019 notificata
il 26.07.2019 con la quale il Sindaco del Comune di Ayas ha ordinato alla
società Le Re. sas rappresentata dal Sig. Pr.Co., nato ad ... (TO) il ... e
residente in Ayas (AO) Fraz. ... n. ..., la rimozione delle reti metalliche
e della sbarra limitatrice di traffico nel luogo in epigrafe citato, entro e
non oltre 48 (quarantotto) ore dalla notifica della presente Ordinanza.
...
Passando al merito, il ricorso si rivela fondato con riferimento alle prima
delle tre ordinanze, la n. 19/2019, per un profilo di illegittimità avente
carattere assorbente.
Com’è noto le ordinanze contingibili ed urgenti sono strumenti atipici
essendo funzionali allo scopo di far fronte ad eventi non prevedibili a
priori (cfr. Tar Veneto Sez. I 2179/2016 n. 1055) e proprio perché possono
disporre la compressione di diritti ed interessi dei privati con mezzi
diversi da quelli tipici indicati dalla legge devono avere come presupposto
una efficacia solo in via temporanea (cfr. Cons Stato Sez. V 26/772016 n.
3369; TAR Campania Sez. V 09/11/2016 n. 5162 e 17/2/2016 n. 860).
Ne consegue dall’applicazione del principio su indicato che occorre fissare
nell’ordinanza extra ordinem un termine di efficacia (cfr. TAR
Lazio-Roma Sez. II n. 10859 del 19/08/2015) e nella specie per le su
indicate due ordinanza alcunché è detto in ordine alla efficacia nel tempo
degli ordini impartiti.
Ora l’assenza della indicazione del periodo temporale di efficacia non può
non invalidare gli atti stessi dal momento che l’Autorità può intervenire
con detti strumenti solo eccezionalmente in via provvisoria, cosa che qui
non è dato rilevare.
Di qui la illegittimità delle ordinanza n. 19/2019, con accoglimento quindi
del ricorso in parte qua
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 17.07.2020 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: RPCT
e attestazione obblighi trasparenza.
Domanda
Sono un RPCT e nel mio comune l’OIV non mi ha coinvolto affatto nella
procedura per l’attestazione del corretto adempimento degli obblighi,
richiesta dalla delibera ANAC n. 213/2020, mentre il mio collega di un altro
ente locale mi riferisce di aver condotto le verifiche e predisposto le
griglie in totale autonomia, in quanto l’OIV non si è affatto interessato
della questione.
Vorrei sapere quale è la procedura corretta e se devo prendere qualche
iniziativa.
Risposta
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha adottato la delibera n. 213
del 04.03.2020, nell’esercizio delle funzioni di controllo di cui all’art.
45, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (c.d. “decreto
trasparenza”).
Per espressa formulazione, l’ANAC si rivolge sia alle Amministrazioni e agli
altri soggetti di cui all’art. 2-bis, ai quali si applica il decreto
trasparenza, sia ai rispettivi Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV) o
organismi con funzioni analoghe, chiamati ad attestare l’assolvimento degli
obblighi di pubblicazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, lett. g), del
decreto legislativo 27.10.2009, n. 150.
Come noto, l’OIV rappresenta una figura di riferimento per l’ANAC, in merito
all’attuazione degli obblighi di trasparenza, analogamente al Responsabile
della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), che è un soggetto
interno all’amministrazione.
Più precisamente, ai sensi dell’art. 45, comma 2, del d.lgs. 33/2013, “L’autorità
nazionale anticorruzione controlla l’operato dei responsabili per la
trasparenza a cui può chiedere il rendiconto sui risultati del controllo
svolto all’interno delle amministrazioni. L’autorità nazionale
anticorruzione può inoltre chiedere all’organismo indipendente di
valutazione (OIV) ulteriori informazioni sul controllo dell’esatto
adempimento degli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente”.
Dal canto suo, il RPCT è la figura chiave in materia di trasparenza
all’interno dell’Amministrazione, dovendo svolgere un ruolo stabile di
promozione e controllo del rispetto degli obblighi di pubblicazione, ai
sensi dell’art. 43, del d.lgs. n. 33/2013 e, prima ancora, della “legge
Severino” (legge 06.11.2012, n. 190).
Premesso che, tra l’OIV e il RPCT deve instaurarsi, in materia di
trasparenza e in generale di prevenzione della corruzione, un rapporto di
piena e stretta collaborazione, va precisato che, con riferimento al caso
specifico –attività di verifica del corretto assolvimento degli obblighi– la
scelta in merito alle modalità di coinvolgimento del RPCT è rimessa alla
discrezionalità dell’OIV.
Ai sensi dell’8-bis, della legge 190/2012, infatti “l’Organismo medesimo
può chiedere al Responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza le informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento del
controllo”.
Coerentemente con tale quadro normativo, nella delibera ANAC n. 213/2020, si
dice che, ai fini della predisposizione dell’attestazione, “gli OIV, o
gli altri organismi con funzioni analoghe, si possono avvalere della
collaborazione del RPCT il quale, ai sensi dell’art. 43, co. 1, del d.lgs.
33/2013, «svolge stabilmente un’attività di controllo sull’adempimento da
parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla
normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e
l’aggiornamento delle informazioni pubblicate», segnalando anche agli OIV «i
casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione».”.
Non si può, dunque, stabilire a priori quale delle prassi adottate nei due
comuni sia corretta. È chiaro che la responsabilità di quanto riportato
nella attestazione è essenzialmente dell’OIV, il quale non può certo
disinteressarsi dell’istruttoria, dovendola recepire nella sottoscrizione
del documento di cui all’Allegato 1, della delibera 213/2020.
Le procedure e le modalità, seguite dall’OIV per la rilevazione, devono
essere indicate nella scheda di sintesi di cui all’Allegato 3, della
medesima delibera, nella quale si forniscono i seguenti suggerimenti:
“A titolo esemplificativo e non esaustivo, si indicano alcune modalità,
non alternative fra loro, che potrebbero essere seguite:
• verifica dell’attività svolta dal Responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza per riscontrare l’adempimento degli
obblighi di pubblicazione;
• esame della documentazione e delle banche dati relative ai dati
oggetto di attestazione;
• colloqui con i responsabili della trasmissione dei dati;
• colloqui con i responsabili della pubblicazione dei dati;
• verifica diretta sul sito istituzionale, anche attraverso
l’utilizzo di supporti informatici.”
È corretto d’altro canto che, qualora il RPCT non venga per nulla coinvolto
nell’attività di controllo, si chieda se e in che termini proporre all’OIV
la propria collaborazione, essendo legittimato senz’altro a prendere
l’iniziativa, ai sensi degli articoli 43 e 44, del d.lgs. 33/2013 e articolo
1, comma 7, della legge 190/2012.
Al di là dell’obbligo di segnalare eventuali disfunzioni o situazioni di
mancato o ritardato adempimento, resta inteso che il RPCT può trasmettere
all’OIV, in sede di attestazione annuale come anche in corso d’anno, le
proprie valutazioni positive, relazionando sulle modalità di assolvimento
degli obblighi di trasparenza e sul grado di attuazione di quanto previsto
nel Piano Triennale di Trasparenza e Prevenzione della Corruzione (14.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Inefficace la DIA (ora SCIA) in assenza dell'autorizzazione
paesaggistica.
Come evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela, richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)».
Sicché, l’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori realizzati e, quindi,
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune.
---------------
La qualificazione del provvedimento amministrativo deve
essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e
degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante.
---------------
Non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
---------------
2. Con le prime tre doglianze proposte dalle parti ricorrenti, da trattare
contestualmente in quanto strettamente e logicamente
connesse, si assume l’illegittimità dei provvedimenti
comunali impugnati, poiché la d.i.a. in base alla quale è
stato realizzato, in maniera del tutto conforme al titolo,
il box sarebbe assolutamente legittima, come sarebbe
dimostrato anche dalle plurime verifiche effettuate
dall’Ufficio tecnico comunale nel corso del tempo e dalla
circostanza che nel termine previsto dalla normativa non
sarebbe stata effettuata alcuna attività di autotutela nel
rispetto dei presupposti individuati dall’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, non potendo assumere rilevanza,
in senso contrario, il tardivo sollecito dei poteri di
controllo del Comune da parte dei vicini controinteressati;
infine, non sarebbe giustificata la circostanza assunta a
fondamento degli atti impugnati, in origine nemmeno presa in
considerazione dallo stesso tecnico comunale, ovvero che
l’autorimessa dei ricorrenti rientri tra i beni di cui agli
art. 10-13 del D.Lgs. n. 42 del 2004 o tra quelli di cui
all’art. 134 del medesimo Decreto (rientrando nel perimetro
del Parco Agricolo Sud Milano).
2.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che, in data 06.05.2019, in esecuzione
dell’ordinanza n. 428/2019, il Comune di Lacchiarella ha
depositato in giudizio una Relazione attraverso la quale ha
segnalato la sussistenza di un vincolo indiretto gravante
sugli immobili limitrofi alla Chiesa di San Martino ed
imposto dal P.G.T. entrato in vigore il 01.01.2013.
Nello specifico, nel paragrafo “3.4 Vincoli gravanti sul
territorio comunale” dell’elaborato “Piano delle regole- RP.03-
Relazione”, si è evidenziato che, “per effetto del DLgs
42/2004 (codice Urbani), oltre al territorio compreso nel
Parco regionale: - uno specifico vincolo di rispetto della
chiesa di San Martino è in vigore per effetto dell’art. 10 e
riguarda le modalità di intervento negli isolati al contorno
della chiesa”.
L’art. 28.1 (“Immobili assoggettati a
tutela”) delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano delle
Regole prescrive che “sono assoggettati alla tutela prevista
dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42: - ai sensi
degli artt. 10-13, gli immobili identificati nella tav. DA.
02, nonché gli immobili di proprietà pubblica nonché di ogni
altro ente ed istituto pubblico e di persone giuridiche
private senza fine di lucro, anche in assenza della
dichiarazione di sussistenza di specifico interesse”.
La
Tavola “DA. 02- Vincoli gravanti sul territorio comunale”
inserisce i fondi di proprietà dei ricorrenti Tr./Ta.
(e delle controinteressate Bo. e Ri.) tra gli “Isolati
interessati dal vincolo ex art. 136 del d.lgs. 42/2004”.
Anche la tavola “RP 01-bis Carta di sintesi dei contenuti
del PGT” inserisce le residenze dei ricorrenti e delle
controinteressate all’interno degli isolati soggetti al
vincolo ex art. 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (“Vincoli
ambientali e monumentali”).
Pertanto, si è al cospetto di un
vicolo diretto (assoluto) sulla Chiesa di San Martino e
indiretto (relativo) sugli isolati posti nell’intorno, in
cui è collocata anche l’area di proprietà dei ricorrenti su
cui è stato realizzato il box oggetto del presente
contenzioso. Ne discende che, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, in presenza di un intervento che altera
lo stato dei luoghi dei fondi interessati dal vincolo, si
impone il previo ottenimento dell’autorizzazione
paesaggistica.
2.2. Trattandosi di intervento effettuato con d.i.a. n.
26/2013 del 15.04.2013, lo stesso è assoggettato alla
disciplina urbanistica vigente a quella data e quindi al
richiamato P.G.T., entrato in vigore il 01.01.2013. È
altrettanto pacifico tra le parti di causa che nessuna
autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e ottenuta
per la realizzazione del box.
Tuttavia, le parti ricorrenti ritengono che la mancanza
della predetta autorizzazione non abbia alcuna conseguenza
sulla validità ed efficacia della d.i.a. n. 26/2013 (e sulla
successiva variante, n. 50/2013), poiché lo stesso Tecnico
comunale, all’atto della presentazione del titolo edilizio,
ne aveva escluso la indispensabilità, e in ogni caso sarebbe
maturato un affidamento legittimo in capo ai ricorrenti in
ordine alla regolarità dell’intervento edilizio posto in
essere, anche in relazione al lungo lasso di tempo trascorso
tra la sua realizzazione e la conclusione dell’attività
sanzionatoria comunale, avvenuta nel mese di febbraio 2019.
I predetti rilievi non appaiono persuasivi, atteso che, come
evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione. Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)» (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2013,
n. 5513; altresì, IV, 11.10.2018, n. 5841; VI, 24.03.2014, n. 1413).
L’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori di realizzazione del box e quindi
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune. La circostanza che nel provvedimento di chiusura del
procedimento impugnato sia stata eccepita la “carenza di un
requisito di legittimità” e non sia invece stata prospettata
l’inefficacia della d.i.a. non appare invalidante, atteso
che comunque era evidente e nettamente percepibile il
riferimento alla carenza dell’autorizzazione paesaggistica
(punto 1 del provvedimento); del resto, la qualificazione
del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla
base del suo effettivo contenuto e degli effetti
concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante (Consiglio di Stato, IV,
13.04.2017, n. 1718; TAR Lombardia, Milano, IV, 18.03.2019, n. 567).
Infine, non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990; Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019; Consiglio
di Stato, II, 12.03.2020, n. 1795; TAR Lombardia,
Milano, II, 26.06.2020, n. 1205) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo, come
evidenziato in precedenza) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” (sulla prevalenza della disciplina
paesaggistica su quella edilizia, cfr. Consiglio di Stato,
IV, 08.07.2019, n. 4778; anche, TAR Lombardia, Milano, II, 11.03.2020, n. 471; 21.01.2019, n. 118).
2.3. Ciò determina il rigetto delle scrutinate censure (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.07.2020 n. 1303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2020 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Deroga
all’annullamento ex tunc dell’atto impugnato: il Piano antincendio
della Toscana.
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Processo amministrativo – Decisione – Di accoglimento – Effetti ex tunc –
Deroga – Possibilità.
La regola dell'annullamento con effetti ex tunc
dell'atto impugnato può essere derogata allorché, nel caso di atti normativi
o generali, l’annullamento dell’atto possa generare una condizione
amministrativa di vuoto regolatorio, tale da determinare effetti
peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di
pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato
aspira a conseguire o mantenere (1).
---------------
(1) La Sezione ha accolto il ricorso nella parte in cui si
considerano paesaggisticamente irrilevanti -e perciò sottratti alla
preventiva autorizzazione- tutti gli interventi previsti, omettendo
un'adeguata analisi e valutazione dell'impatto paesaggistico, e nella parte
in cui la valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000
interessati dalle misure è carente nell'istruttoria e nelle motivazioni,
oltre che corredata da semplici raccomandazioni di buona esecuzione degli
interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
La Sezione però -nel particolare caso in esame- consapevole dell'importanza
del piano antincendi predisposto dalla Regione e dell'inizio della stagione
estiva, innovando la giurisprudenza sul punto, ha differito l'annullamento
di 180 giorni per consentire alle amministrazioni l'adozione di un nuovo
Piano senza rinunciare alla lotta agli incendi nel periodo estivo.
In particolare dovranno essere adottate tutte le misure per mettere in
sicurezza il sito e dovranno essere posti in essere gli interventi
improcrastinabili e indifferibili relativi ad aree -soprattutto vicine ad
insediamenti antropici- che presentano rischi elevati
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 30.06.2020 n. 1233 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
1. Il ricorso è in parte fondato e deve pertanto essere accolto, nei limiti
di seguito precisati.
2. È incontroverso tra le parti che la Pineta del Tombolo, oggetto del piano
specifico di prevenzione AIB per il comprensorio territoriale delle pinete
litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, oggetto di lite, previsto
nella delibera di giunta della Regione Toscana n. 355 del 18.03.2019, è
sottoposta a vincolo paesaggistico di tipo provvedimentale (ai sensi
dell'articolo 136 del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al
d.lgs. n. 42 del 2004, giusta sei decreti ministeriali degli anni dal 1958
al 1967), è inserita nel piano di indirizzo territoriale con valenza di
piano paesaggistico della Regione Toscana e ricade nella rete ecologica
europea denominata “Natura 2000” [ZSC/ZPS Tombolo da Marina di Grosseto a
Castiglione della Pescaia (IT51A0012), ZSC/ZPS Diaccia Botrona (IT51A0011) e
ZSC punta Ala e Isolotto dello Sparviero (IT51A0007)].
3. È altresì incontroverso in atti che il piano specifico di prevenzione AIB
oggetto di lite prevede, in sintesi, come denunciato dalle associazioni
ricorrenti e riferito nella relazione ministeriale, il taglio di circa il
70% dei pini esistenti e di circa l’80% della vegetazione arbustiva del
sottobosco.
Nella memoria difensiva regionale (pag. 7) si afferma che “È da
sottolineare che le aree soggette agli interventi strategici, contrariamente
a quanto riportato nel presente ricorso, non arrivano nemmeno al 15% della
superficie totale complessiva dell'area considerata, da trattarsi nei 10
anni di validità del Piano ed impossibile che si verifichi la lamentata
scomparsa delle aree di Rete Natura 2000”. Ma tale rilievo non contesta
tuttavia quanto affermato in ricorso, riguardo alle percentuali di pini e di
sottobosco destinati al taglio, sia pur limitatamente alle aree interessate
dagli interventi programmati.
Il piano, inoltre, qualifica espressamente gli interventi previsti come “non
soggetti ad autorizzazione paesaggistica”, ai sensi dell’articolo 149 del
citato d.lgs. n. 42 del 2004, la cui lettera b) del comma 1 esclude la
necessità dell’autorizzazione paesaggistica per gli “interventi inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed
altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non
alterino l'assetto idrogeologico del territorio”.
4. Il piano specifico di prevenzione AIB oggetto di lite costituisce uno
strumento introdotto dalla legge regionale della Toscana 20.03.2018, n.
11, pubblicata nel B.U. Toscana 26.03.2018, in vigore dal 10.04.2018,
che, con l’articolo 12, aggiunge nella legge regionale forestale della
Toscana 21.03.2000, n. 39 un nuovo articolo 74-bis del seguente tenore:
“Piani specifici di prevenzione AIB. 1. Nelle aree individuate dal piano AIB
sono approvati dalla Giunta regionale i piani specifici di prevenzione AIB
riferiti a un periodo minimo di dieci anni. Il piano specifico di
prevenzione può essere aggiornato nell'arco temporale della sua validità. Il
regolamento forestale disciplina le modalità per la realizzazione dei piani
specifici di prevenzione AIB”.
Nella relazione ministeriale si riferisce che questo “piano specifico di
prevenzione AIB” costituisce un piano operativo di prevenzione, riferito
alle aree “ritenute ad alto rischio per l'intensificarsi di fenomeni dovuti
agli incendi boschivi, stante le mutate condizioni climatiche e l'acuirsi di
fenomeni estremi che negli ultimi anni hanno colpito anche il territorio
toscano”, basato sul regime storico degli incendi boschivi ricorrenti in un
determinato comprensorio territoriale, al fine di individuare e gestire i
punti strategici dove realizzare adeguati interventi di prevenzione per
contenere gli incendi boschivi, entro la capacità di estinzione del sistema
e per salvaguardare l'incolumità pubblica e l'ambiente naturale.
In questa
prima fase sono stati individuati venti comprensori territoriali -soggetti
ad alto rischio incendi boschivi, espressi in termini di frequenza,
vulnerabilità e pericolosità potenziale- per i quali la Regione ha ritenuto
opportuno procedere prioritariamente con la predisposizione, entro la fine
del 2020, di altrettanti piani specifici di prevenzione AIB.
5. Quasi contemporaneamente alla emanazione della legge regionale n. 11 del
2018 è intervenuto a livello di legislazione statale il nuovo d.lgs. 03.04.2018, n. 34, recante il Testo unico in materia di foreste e filiere
forestali, pubblicato nella Gazz. Uff. 20.04.2018, n. 92 ed entrato in
vigore il 05.05.2018.
È indispensabile ai fini dell’esame dei motivi di ricorso svolgere una breve
descrizione del quadro normativo come ridefinito dal suddetto d.lgs. n. 34
del 2018.
5.1. È ormai un dato acquisito nella dottrina e nella giurisprudenza che il
patrimonio forestale nazionale reca in sé ed esprime una pluralità di
valori, interessi, beni, che chiamano in causa plurimi campi di materia e
titoli di potestà legislativa, essendo ormai superata la tradizionale
visione che relegava questo settore al solo campo dell’agricoltura
(silvicoltura).
È dunque pacifico che, oggi, il patrimonio forestale
nazionale intreccia titoli di competenza statale [in particolare, quelli di
cui alla lettera s) del comma 2 dell’articolo 117, Cost.: tutela
dell’ambiente e del paesaggio, in quanto componente del patrimonio
culturale] e di competenza concorrente Stato-regioni, in particolare le
politiche agricole contemplate dal comma 3 del citato articolo 117, Cost.
Lo
stesso articolo 1 del d.lgs. n. 34 del 2018 (“Principi”)
non manca di
esplicitare che “La Repubblica riconosce il patrimonio forestale nazionale
come parte del capitale naturale nazionale e come bene di rilevante
interesse pubblico da tutelare e valorizzare per la stabilità e il benessere
delle generazioni presenti e future” (comma 1)
e che lo Stato e le regioni,
nell'ambito delle rispettive competenze, perseguono il “fine di riconoscere
il ruolo sociale e culturale delle foreste, di tutelare e valorizzare il
patrimonio forestale, il territorio e il paesaggio nazionale, rafforzando le
filiere forestali e garantendo, nel tempo, la multifunzionalità e la
diversità delle risorse forestali, la salvaguardia ambientale, la lotta e
l'adattamento al cambiamento climatico, lo sviluppo socio-economico delle
aree montane e interne del Paese” (comma 3).
Coerentemente, nell’articolo 2
(“Finalità”) sono enumerati scopi sia di tipo conservativo-ambientale
([lettera a) del comma 1: “garantire la salvaguardia delle foreste nella
loro estensione, distribuzione, ripartizione geografica, diversità ecologica
e bio-culturale”], sia di tipo economico-produttivo [ad es., le lett. b) e
c): “promuovere la gestione attiva e razionale del patrimonio forestale
nazionale al fine di garantire le funzioni ambientali, economiche e
socio-culturali; promuovere e tutelare l'economia forestale, l'economia
montana e le rispettive filiere produttive ... etc.”].
5.2. Conseguentemente, nella premessa al testo dell’articolato vi è un
generico richiamo all’articolo 117 della Costituzione, ma sono
significativamente richiamati sia il d.lgs. 22.01.2004, n. 42, recante
codice dei beni culturali e del paesaggio, sia il decreto d.lgs. 03.04.2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, ed è stata acquisita
l'intesa della Conferenza unificata, espressa nella seduta dell'11.01.2018.
Non può pertanto condividersi la tesi svolta nella memoria difensiva
regionale, secondo la quale “il d.lgs. n. 34 del 2018 (Testo Unico in
materia di foreste e filiere forestali) non ha altresì innovato la legge n.
353 del 2000 (Legge quadro sugli incendi boschivi) in quanto tratta di
materie diverse”, poiché “il d.lgs. n. 34 del 2018 ha carattere di norma di
orientamento facendo salve le competenze esclusive della Regione sancite
dalla Costituzione”.
In realtà, il nuovo testo unico, aggiornando la
normativa nazionale al mutato quadro interpretativo e alle più recenti
acquisizioni sulle valenze ambientali e paesaggistiche del patrimonio
forestale, ha largamente superato la vecchia impostazione (risalente alla
seconda metà del secolo scorso, il cui precipitato giuridico conclusivo si
era depositato nel d.lgs. 31.03.1998, n. 112), che configurava il bosco
come una mera risorsa agricola in un’ottica di sfruttamento economico, cui
era legata la competenza legislativa regionale concorrente nella
tradizionale materia della “agricoltura e foreste” dell’originario testo
dell’articolo 117 della Costituzione (materia da intendersi nella sua
proiezione esclusivamente economica, oggi rifluita nella potestà legislativa
residuale regionale, di cui al comma 4 dell’articolo 117 della Costituzione,
nel testo novellato con la riforma del 2001).
5.3. Il d.lgs. n. 34 del 2018, in considerazione di questo inestricabile
intreccio di valori-beni-interessi espressi dal patrimonio forestale e delle
annesse e conseguenti competenze normative e amministrative, ha avuto cura
di costruire un sistema volto ad assicurare che tutti i diversi (e a volte
confliggenti) interessi generali-pubblici messi in gioco dal tema della
gestione del patrimonio forestale fossero adeguatamente rappresentati,
acquisiti e valutati nei procedimenti attuativi, al fine di garantire, per
quanto possibile, un ragionevole equilibrio tra le esigenze gestionali,
anche di tipo economico-produttivo, e quelle di tutela ambientale e
paesaggistica.
5.4. In particolare, come bene illustrato anche negli scritti difensivi
delle parti, il decreto legislativo prevede un complesso percorso attuativo
che si snoda attraverso i seguenti passaggi essenziali:
a) l’adozione, da
parte del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali,
d'intesa con la Conferenza unificata ed in coordinamento, per quanto di
rispettiva competenza, con il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare e con il Ministero dei beni e delle attività culturali
e del turismo, di appositi atti di indirizzo e coordinamento delle attività
necessarie a garantire il perseguimento unitario e su tutto il territorio
nazionale delle finalità enunciate nel decreto legislativo;
b) l’adozione,
con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali,
adottato di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del
turismo e il Ministro dello sviluppo economico e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, di una “Strategia forestale nazionale” (art. 6,
Programmazione e pianificazione forestale), che definisce, con validità
ventennale soggetta a revisione e aggiornamento quinquennale, gli indirizzi
nazionali per la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva del
patrimonio forestale nazionale e per lo sviluppo del settore e delle sue
filiere produttive, ambientali e socio-culturali;
c) l’adozione da parte
delle Regioni, in coerenza con la Strategia forestale nazionale, di
Programmi forestali regionali per individuare i propri obiettivi e definire
le relative linee d'azione;
d) la predisposizione da parte delle Regioni,
nell'ambito di comprensori territoriali omogenei, di piani forestali di
indirizzo territoriale, che “concorrono alla redazione dei piani
paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 del d.lgs. 22.01.2004, n.
42, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 145 del medesimo decreto
legislativo”;
e) la promozione, da parte delle Regioni, della redazione di
piani di gestione forestale o di strumenti equivalenti, riferiti ad un
ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, quali strumenti
indispensabili a garantire la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva
delle risorse forestali (per i quali è richiesto il parere del
Soprintendente, salvo che per la parte inerente la realizzazione o
l'adeguamento della viabilità forestale di cui al punto A.20 dell'Allegato A
del d.P.R. 13.02.2017, n. 31, ove i piani di gestione forestale siano
conformi ai piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3
dell’art. 6).
5.5. I commi 6 e 7 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 34 del 2018 prevedono che
gli strumenti pianificatori sopra indicati (i piani forestali di indirizzo
territoriale di cui al comma 3 e i piani di gestione forestale, o strumenti
equivalenti, di cui al comma 6) debbano essere conformi ai “criteri minimi
nazionali di elaborazione” da adottarsi con decreto del Ministro delle
politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei
beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, al fine di armonizzare le informazioni e permetterne una
informatizzazione su scala nazionale, con previsione dell’obbligo delle
regioni di adeguarsi alle suddette disposizioni entro 180 giorni dalla data
di entrata in vigore del decreto.
Il comma 8 dell’articolo 6 del d.lgs. n.
34 del 2018 prevede, inoltre, che le regioni, in conformità a quanto
statuito al comma 7, definiscono i criteri di elaborazione, attuazione e
controllo dei piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3 e
dei piani di gestione forestale o strumenti equivalenti di cui al comma 6,
definiscono, altresì, i tempi minimi di validità degli stessi e i termini
per il loro periodico riesame, garantendo che la loro redazione e attuazione
venga affidata a soggetti di comprovata competenza professionale, nel
rispetto delle norme relative ai titoli professionali richiesti per
l'espletamento di tali attività.
6. Di particolare rilievo, ai fini della decisione della controversia in
esame, sono infine le previsioni contenute nei commi 12 e 13 dell’articolo 7
(“Disciplina delle attività di gestione forestale”) del d.lgs. n. 34 del
2018: “12. Con i piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi
di collaborazione stipulati tra le regioni e i competenti organi
territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, vengono
concordati gli interventi previsti ed autorizzati dalla normativa in
materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la
riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, da
eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi dell'articolo 136 del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente
compatibili con i valori espressi nel provvedimento di vincolo. Gli
interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel rispetto delle
linee guida nazionali di individuazione e di gestione forestale delle aree
ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto del Ministro delle
politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei
beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano.
13. Le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli
selvicolturali di cui all'articolo 3, comma 2, lettera c), eseguiti in
conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali,
sono equiparati ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera
c), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”.
7. Così definito e chiarito il quadro giuridico di riferimento, è ora
possibile procedere alla trattazione dei singoli motivi di ricorso.
8. Con il primo motivo le associazioni ricorrenti assumono che i piani AIB
impugnati si porrebbero in violazione della legge nazionale e del riparto di
competenze stabilito dalla Costituzione in materia di antincendio boschivo
per i vari profili ambientali, paesaggistici, sanitari, di protezione civile
oltre che forestali in esso coinvolti. La Regione Toscana non avrebbe quindi
potuto adottare un piano antincendio boschivo specifico prima del
completamento del quadro normativo attuativo nazionale, come previsto dal
d.lgs. n. 34 del 2018.
In ogni caso, il piano specifico in oggetto sarebbe
stato approvato in violazione della stessa legge regionale forestale n. 39
del 2000 (come modificata dalla legge regionale 20.03.2018, n. 11, che
per la prima volta ha introdotto lo strumento dei piani specifici), il cui
articolo 74-bis prevede che un piano specifico di prevenzione AIB può essere
approvato solo se esista un presupposto vigente piano AIB che ne abbia
individuato l’area, piano generale che, al momento dell’approvazione del
piano specifico, non era in vigore.
La tesi di parte ricorrente non è condivisibile, poiché lo stesso articolo
17 del decreto legislativo da essa invocato, recante le disposizioni
applicative e transitorie, nel prevedere che “nelle more dell'adozione dei
decreti ministeriali e delle disposizioni di indirizzo elaborate ai sensi
del presente decreto restano valide le eventuali normative di dettaglio
nazionali e regionali vigenti” (comma 2), fa salva, contrariamente
all’assunto delle associazioni ricorrenti, la previsione della legge
regionale n. 11 del 2018 e i piani specifici di prevenzione AIB in forza di
tale nuova legge adottati (tra i quali vi è quello qui oggetto di lite).
Parimenti non condivisibile deve giudicarsi la tesi secondo la quale il
piano specifico di prevenzione AIB relativo alla Pineta del Tombolo sarebbe
illegittimo in quanto adottato prima del piano AIB pluriennale generale
2019-2021, che doveva costituire il suo presupposto, approvato dalla giunta
regionale solo successivamente, in data 23.04.2019.
In senso contrario
persuade la tesi difensiva secondo la quale il piano AIB “generale”
preesisteva, nel sistema normativo regionale, alla novella introdotta dalla
legge regionale n. 11 del 2018, poiché già la legge forestale della Toscana
n. 39 del 2000 prevedeva, nell’articolo 74, la “Pianificazione dell'AIB”.
Era dunque già vigente, all’atto dell’adozione della delibera di giunta n.
355 del 18.03.2019, il precedente piano AIB 2014-2016 approvato con
delibera di giunta n. 50 del 28.01.2014, variamente prorogato fino al
2019. Inoltre, come evidenziato nelle difese regionali, il nuovo piano AIB è
intervenuto dopo pochi giorni rispetto al piano specifico relativo alla
Pineta del Tombolo e lo ha sostanzialmente recepito, con un indiretto
effetto, ove necessario, di sanatoria.
La stessa delibera n. 355 del 18.03.2020 dà inoltre conto, nelle premesse, “che sono in corso le attività
di redazione del testo definitivo del nuovo piano AIB che, come previsto
all’articolo 74-bis, comma 1, individua le aree soggette ad alto rischio
incendi boschivi, espresso in termini di frequenza, vulnerabilità e
pericolosità potenziale”, ed ha espressamente valutato, in modo non
irragionevole, “la necessità di dover procedere, nelle more
dell’approvazione del suddetto piano AIB, alla realizzazione di uno
specifico piano di prevenzione del rischio incendi boschivi per il
comprensorio territoriale delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione
della Pescaia che presenta un’alta incidenza e pericolosità relativa al
fenomeno degli incendi boschivi”.
9. Il secondo motivo di ricorso introduce due distinte censure: la mancata
sottoposizione a VAS e la ritenuta non necessità di controllo paesaggistico
degli interventi. Tali censure devono essere partitamente esaminate, essendo
infondata la prima e in parte fondata la seconda.
10. Sotto un primo profilo, le associazioni ricorrenti, con il secondo
motivo in esame, hanno censurato gli atti gravati per la omessa valutazione
ambientale strategica (VAS, ai sensi degli articoli 5, 11 e 15 del d.lgs. n.
152 del 2006), a loro dire necessaria (in luogo del mero studio di incidenza
con valutazioni relative ai SIC/ZPS ai sensi delle direttive Natura 2000
“habitat” e “uccelli” esperito dalla Regione) giusta la previsione
dell’articolo 5, comma 2, lett. a), della legge regionale della Toscana 12.02.2010, n. 10.
La norma, riproducendo peraltro il testo della legge
nazionale [art. 6, comma 2, lettera a) del d.lgs. n. 152 del 2006], impone
la sottoposizione a VAS, tra gli altri, dei piani e dei programmi elaborati
per i settori agricolo e forestale e prevede la VAS obbligatoria [lett. b)]
anche per “i piani e i programmi per i quali, in considerazione dei
possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come
zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e
di quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione
degli habitat naturali, della flora e della fauna selvatica, si ritiene
necessaria una valutazione di incidenza, ai sensi dell'art. 5 del decreto
del Presidente della Repubblica 08.09.1997, n. 357”, come invero
avvenuto nel caso di specie.
L’assunto non è condiviso dalla Sezione.
Deve infatti ritenersi fondata la
replica regionale, che invoca l’eccezione costituita dalla previsione della
lettera c-bis) del comma 4 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152 del 2006,
[“Sono comunque esclusi dal campo di applicazione del presente decreto:…
c-bis) i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un
ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i
criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o
dagli organismi dalle stesse individuati”] ed evidenzia come il piano
specifico di prevenzione AIB costituisce uno strumento equivalente al piano
di gestione forestale, in quanto contiene gli interventi selvicolturali e le
opere necessarie alla prevenzione AIB, ed è redatto secondo i criteri della
gestione forestale sostenibile.
10.1. Aggiunge al riguardo il Ministero che, per i siti compresi nella rete
ecologica europea denominata “Natura 2000” [Siti di Importanza Comunitaria
(SIC) e Zone speciali di Conservazione (ZSC), di cui alla direttiva
92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche (“Direttiva
Habitat”); Zone di Protezione Speciale (ZPS) previste dalla direttiva
79/409/CEE, ora 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici (“Direttiva Uccelli”)], disciplinati, a livello di normativa
nazionale, dal d.P.R. 08.09.1997, n. 357, dalla legge 11.02.1992, n. 157, dai decreti ministeriali
03.09.2002 (recante “Linee guida
per la gestione dei siti Natura 2000”) e 17.10.2007 (relativo ai
criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione
relative di detti siti), qualsiasi piano o progetto che possa pregiudicare
significativamente il sito non può essere autorizzato senza una preventiva
valutazione della sua incidenza (articolo 6, comma 3, della direttiva
habitat).
Nel caso di specie risulta formalmente svolto uno studio di
incidenza per la realizzazione del piano oggetto di lite, ciò che -in
disparte la questione della sufficienza di tale studio di incidenza, che
costituisce l’oggetto di una separata e autonoma censura di parte ricorrente- consentirebbe di giudicare rispettati i canoni normativi invocati a
parametro di legittimità dalle associazioni ricorrenti.
10.2. Benché lo stesso disposto normativo dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152
del 2006 rechi in sé un elemento di interna contraddittorietà tra il comma 2
e la lettera c-bis) del comma 4 (aggiunta, senza un adeguato coordinamento,
dall'art. 4-undecies, comma 1, del d.l. 03.11.2008, n. 171, convertito,
con modificazioni, dalla legge 30.12.2008, n. 205), tuttavia, seguendo
in ciò l’impostazione sottesa alla relazione ministeriale che privilegia il
profilo di conformità comunitaria, può pervenirsi alla soluzione negativa
della necessità nella fattispecie della previa VAS.
Ed invero l’articolo 6
del d.lgs. n. 152 del 2006 da un lato afferma che è necessaria la VAS “per
tutti i piani e i programmi che sono elaborati ... per i settori agricolo,
forestale, ... etc.” [comma 2, lett. a)] e che tale valutazione è altresì
necessaria per i piani e i programmi che presentano “possibili impatti sulle
finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione
speciale per la conservazione degli uccelli selvatici ... etc.” [lett.
b)]; dall’altro lato, afferma che sono comunque esclusi dalla VAS “i piani
di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito
aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della
gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o dagli organismi
dalle stesse individuati” (comma 4, lettera c-bis).
Onde l’evidente
contraddizione con il combinato disposto delle lettere a) e b) del comma 2,
poiché pressoché tutti i siti della rete “Natura 2000” sono “di livello
locale” e dunque, dovendo prevalere la ora detta lettera c-bis) in quanto
disposizione speciale-derogatoria, nessun piano o programma di gestione
forestale o strumento equivalente, ancorché molto impattante su uno di tali
siti, essendo inevitabilmente di livello locale, potrà mai essere sottoposto
a VAS [il che svuota di senso, in una parte consistente, il disposto della
lettera b) del comma 2].
Nondimeno, come anticipato sopra e come in qualche
modo prospettato nella relazione ministeriale, ciò che soprattutto rileva è
il dettato della direttiva europea, che non richiede la VAS, ma la
valutazione di incidenza ambientale. In questo senso può confermarsi la non
fondatezza della censura in esame, pur, deve darsene atto, a fronte di un
quadro normativo al riguardo non privo di elementi di contraddittorietà.
11. Fondato e meritevole di accoglimento viene invece giudicato dalla
Sezione il secondo profilo di censura articolato dalle ricorrenti nel motivo
di ricorso in esame, riguardo alla insufficiente considerazione dei vincoli
paesaggistici gravanti sulla Pineta del Tombolo.
La contestazione in esame
fa emergere due distinti (anche se connessi e conseguenziali) elementi di
illegittimità riguardo al trattamento dei suddetti vincoli paesaggistici:
l’erronea presupposizione (poi esplicitata in puntuali note del dirigente
del settore regionale competente) della piena riconducibilità di tutti gli
interventi previsti nel piano nell’esclusione dalla previa autorizzazione
paesaggistica ai sensi delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149
del codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004; la (connessa e
conseguente) assenza, negli atti istruttori, di una analisi e valutazione
adeguate degli impatti paesaggistici dei medesimi interventi sui beni
vincolati (analisi e valutazione che, per quanto si dirà, avrebbero dovuto
comunque coinvolgere i competenti uffici territoriali del Ministero di
settore).
11.1. È in particolare illegittima la previsione, implicita nel piano
specifico di prevenzione AIB impugnato, della esclusione della previa
autorizzazione paesaggistica per tutti indistintamente gli interventi
programmati, secondo la tesi per cui tali interventi si configurerebbero
come pratiche selvicolturali, in quanto tali rientranti tutti nell’ambito
delle misure non soggette ad autorizzazione ai sensi dell’articolo 149,
comma 1, lettera c) del d.lgs. n. 42 del 2004.
11.1.2. È vero che né la delibera di giunta n. 355 del 2019, né l’allegato
piano specifico di prevenzione AIB con essa approvato contengono un’espressa
affermazione in questo senso. Ma che questa tesi sia acquisita
implicitamente negli atti impugnati e ne costituisca il presupposto
logico-giuridico fondamentale, per quanto attiene al profilo paesaggistico,
è dimostrato e reso esplicito dalle note a firma del dirigente della
Direzione agricoltura e sviluppo rurale - settore forestazione - usi civici
- agroambiente della Regione Toscana, di riscontro (rispettivamente) delle
domande di accesso agli atti del 4 e del 17.04.2019 presentate dal
Tavolo permanente di amministrazione e di governo della Pineta da Castiglione della Pescaia ai Monti dell'Uccellina (allegati nn. 19 e 21
della produzione di parte ricorrente), nelle quali si precisa che “gli
interventi previsti dal Piano Specifico di prevenzione AIB si configurano
come pratiche selvicolturali e in quanto tali rientranti nell’ambito degli
interventi non soggetti ad autorizzazione, ai sensi dell’articolo 149, comma
1, lettera c) del Codice dei beni culturali e del paesaggio. (d.lgs. n. 42
del 2004)” e, inoltre, che “ai sensi del Regolamento Forestale, articolo
61-bis, comma 4, l'attuazione dei singoli interventi previsti dal Piano è
soggetta a una dichiarazione, quale forma semplificata di autorizzazione.
Pertanto, al momento della realizzazione dei singoli interventi, resta a
carico dell’ente competente rilasciare le relative autorizzazioni”.
Che la costruzione del piano si fondi su questo errato presupposto
interpretativo è infine dimostrato ulteriormente dalle stesse difese
regionali, dove si sostiene (pag. 9-10 della memoria difensiva) che “lo
stesso articolo 7, comma 13, prevede per le tipologie di interventi di cui
all'articolo 3, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 34 del 2018 (tra i quali
rientrano anche gli interventi volti alla prevenzione incendi)
l'equiparazione ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera
c) del d.lgs. n. 42 del 2004 (interventi non soggetti ad autorizzazione
paesaggistica” (tesi poi ribadita nella pag. 16 della memoria, con
riferimento alla legge regionale n. 39 del 2000).
11.1.3. La tesi regionale non ha pregio e non può essere condivisa, e ciò
sia per ragioni legate alla lettera delle disposizioni normative di
riferimento sia per ragioni discendenti dall’interpretazione sistematica e
finalistica del complesso normativo in cui tali disposizioni si inquadrano,
come tratteggiato nel precedente par. 5 di questa motivazione.
In estrema
sintesi, l’errore interpretativo che inficia la posizione regionale consiste
nell’aver esteso ai boschi e foreste sottoposti a vincolo provvedimentale
(articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, già legge 29.06.1939, n. 1497)
il regime (meno severo) previsto per i boschi e le foreste sottoposti a
vincolo ex lege [articolo 142, comma 1, lettera g) del predetto d.lgs. n. 42
del 2004, già legge 08.08.1985, n. 431].
11.1.4. Sul piano letterale, occorre considerare che l’articolo 149 del
codice dei beni culturali e del paesaggio, a proposito dell’esclusione della
preventiva autorizzazione paesaggistica, distingue chiaramente, nelle
lettere b) e c) del comma 1, il regime proprio degli interventi “inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed
altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non
alterino l'assetto idrogeologico del territorio” rispetto a quello degli
interventi consistenti nel taglio colturale, nella forestazione,
riforestazione, in opere di bonifica, antincendio e di conservazione “da
eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1,
lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in
materia” (lett. c).
Questo diverso regime deriva dalla distinzione (articolo
134 del medesimo codice del 2004) tra i boschi e le foreste vincolati sulla
base di un apposito provvedimento amministrativo, che ne abbia acclarato il
notevole interesse pubblico paesaggistico (articolo 136 dello stesso
codice), e i boschi e le foreste vincolati indistintamente
ex lege, come
categoria geografica, in base alla cosiddetta legge “Galasso” [d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, nella legge
08.08.1985, n. 431, oggi rifluita nell’articolo 142, comma 1, lett. g) del
codice].
Il combinato disposto delle sopra riportate lettere b) e c)
dell’articolo 149 dimostra in tutta evidenza che per la prima tipologia di
boschi e foreste (vincolati con apposito provvedimento amministrativo)
l’esclusione della necessaria autorizzazione paesaggistica preventiva
prevista dalla lettera b) dell’articolo 149 per gli interventi “inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale” vale solo per gli interventi
“minori”, che non si traducano nel “taglio colturale, [nel]la forestazione,
[nel]la riforestazione, [nel]le opere di bonifica, antincendio e di
conservazione”, i quali sono sottratti all’obbligo della previa
autorizzazione paesaggistica solo ed esclusivamente quando siano “da
eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1,
lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in
materia” [articolo 149, lettera c)].
Con la conseguenza che le ora dette
tipologie di interventi -tra i quali rientra senz’altro la maggior parte di
quelli previsti dal piano oggetto di lite- riguardando un bosco vincolato
con apposito provvedimento amministrativo, ai sensi dell’articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, qual è pacificamente la pineta del Tombolo, non
possono in alcun modo considerarsi senz’altro e a priori sottratti
all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica preventiva prevista
dall’articolo 146 del decreto legislativo da ultimo citato.
Il che trova una sua evidente spiegazione razionale nel fatto che sia il
taglio colturale, sia quello antincendio, nella modalità prevista nel piano
in esame, se può presumersi compatibile con la nozione generica di
territorio coperto da foreste e da boschi, considerati in astratto, come
tipologia generale, senza alcuno specifico accertamento
tecnico-discrezionale in loco, non può logicamente ammettersi, senza un
previo controllo puntuale di compatibilità esercitato in concreto dagli
organi a ciò preposti, nel caso di boschi e foreste dichiarati di notevole
interesse pubblico e paesaggistico con apposito provvedimento motivato, nel
qual caso è coessenziale al vincolo il controllo preventivo
tecnico-discrezionale di compatibilità dei tagli proposti rispetto alla
consistenza e alla fisionomia paesaggisticamente percepibile del bene
protetto, come accertata e dichiarata nel provvedimento di vincolo.
Coerente con questo sistema normativo e con le sue finalità logiche si pone
altresì il Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria
semplificata, di cui al d.P.R. n. 31 del 2017, nel cui allegato A (di cui
all'art. 2, comma 1 - Interventi ed opere in aree vincolate esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica), non a caso e significativamente, sono
bene distinti e graduati, nelle voci A.19 e A.20, rispettivamente, gli
interventi sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell’ambito degli
interventi di cui all'art. 149, comma 1, lettera b) del codice” e quelli
sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell'ambito degli interventi di
cui all'art. 149, comma 1, lettera c) del Codice”.
Al riguardo le difese
regionali propongono, invece, un’erronea lettura di tale previsione
regolamentare, lì dove (pag. 17) si pretende di riferire anche ai boschi
vincolati con apposito provvedimento la voce A.20, che è invece testualmente
riferita solo ai boschi e alle foreste vincolati ex lege.
Il regime di tutela “rafforzato” che, limitatamente a certi aspetti, assiste
i beni paesaggistici dichiarati con apposito provvedimento motivato,
rispetto a quelli tutelati ex lege “Galasso”, trova ulteriori espressioni
nel diverso trattamento previsto nell’ambito della pianificazione
paesaggistica [articolo 143, comma 4, lettera a) del codice di settore del
2004].
11.1.5. In questo senso torna ad acquistare rilievo l’ampia premessa sopra
svolta (sub par. 5) -sull’abbrivio delle specifiche censure pure
prospettate dalle ricorrenti- riguardo all’inestricabile intreccio di
competenze che caratterizza la disciplina della gestione del patrimonio
forestale nazionale, che implica (sul piano sistematico e teleologico
dell’interpretazione) l’esigenza di garantire comunque il coinvolgimento
degli organi tecnico-scientifici statali ai quali la legge riserva, nella
cooperazione delle regioni e degli altri enti territoriali (articolo 5 e
Parte III del d.lgs. n. 42 del 2004), l’esercizio delle funzioni di tutela
paesaggistica.
Significativamente e non a caso, anche il nuovo Testo unico in materia di
foreste e filiere forestali del 2018 stabilisce che le regioni e i
competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo, “con i piani paesaggistici regionali, ovvero con
specifici accordi di collaborazione stipulati ai sensi dell'articolo 15
della legge 07.08.1990, n. 241”, concordino “gli interventi previsti ed
autorizzati dalla normativa in materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica,
antincendio e di conservazione, da eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi
dell'articolo 136 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente compatibili con i valori espressi nel provvedimento di
vincolo” (articolo 7, comma 12).
Per completezza di esame della fattispecie, deve inoltre evidenziarsi che la
previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 12 ora esaminato (secondo
la quale “Gli interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel
rispetto delle linee guida nazionali di individuazione e di gestione
forestale delle aree ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto
del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto
con il Ministro dei beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano”), contrariamente alla tesi regionale
(secondo la quale non sarebbe “vigente in quanto collegato al D.M. non
ancora promulgato”), non introduce un vincolo impeditivo della possibilità
di stipula, già prima dell’emanazione delle suddette linee guida, di
appositi accordi tra l’amministrazione regionale e quella ministeriale,
atteso che l’articolo 15 della legge n. 241 del 1990 costituisce un potere
implicito di carattere generale delle amministrazioni, attivabile anche
indipendentemente da specifiche norme autorizzative, ed esistendo ed essendo
già operanti, inoltre, anche sulla base della nuova pianificazione
paesaggistica regionale e della relativa legislazione regionale della
Toscana, diversi organismi a partecipazione mista che curano la gestione e
l’attuazione del piano paesaggistico e delle problematiche di comune
interesse inerenti la tutela dei paesaggi, in seno alle quali ben sarebbe
stato possibile ricercare forme di concordamento in attuazione della
previsione della norma del decreto del 2018 sopra richiamata.
11.1.6. Diventa recessiva, al cospetto di questo coerente sistema, la tesi
interpretativa proposta dalle difese regionali, secondo la quale l’articolo
7, comma 13 del d.lgs. n. 34 del 2018, nel prevedere che “le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all'articolo
3, comma 2, lettera c), eseguiti in conformità alle disposizioni del
presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali
di cui all'articolo 149, comma 1, lettera c), del d.lgs. 22.01.2004, n.
42”, avrebbe escluso la previa autorizzazione paesaggistica anche per gli
interventi sui boschi e le foreste vincolati ai sensi dell’art. 136 del
codice di settore del 2004.
Proprio alla luce di quanto osservato e
considerato nel precedente paragrafo 11.1.4, risulta chiaro, invece, che
questa previsione si riferisce solo ed esclusivamente ai boschi e alle
foreste vincolati ex lege (art. 142, comma 1, lett. g) del codice del 2004),
come è del resto reso evidente dal puntuale richiamo in essa contenuto alla
lettera c) del comma 1 dell’art. 149 che, come si è visto sopra, riguarda
esclusivamente i boschi e le foreste ex lege Galasso.
Questa lettura, oltre
che dalla coerenza del sistema, è imposta anche dal dato topografico del
testo dell’articolo 7 del d.lgs. n. 34 del 2018, che antepone la norma
speciale prevista dal comma 12 (relativo ai boschi e alle foreste tutelati
in base a un vincolo di tipo provvedimentale) a quella generale di cui al
seguente comma 13, erroneamente invocato dalle difese regionali.
Una diversa e più ampliativa interpretazione del d.lgs. n. 34 del 2018,
quale quella che sembra essere ipotizzata dalla Regione Toscana, tale da
derogare alle più stringenti norme di tutela prevista dal codice dei beni
culturali e del paesaggio del 2004, renderebbe inoltre incostituzionale per
eccesso di delega il decreto del 2018, nella cui delega di legge non vi era
in alcun modo il potere di incidere in senso riduttivo sui livelli di tutela
del paesaggio.
11.2. La diversa –ma non condivisa dalla Sezione– lettura del combinato
disposto delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149 del d.lgs. n.
42 del 2004 (e del d.lgs. n. 34 del 2018), con conseguente confusione tra il
regime di tutela paesaggistica del patrimonio forestale vincolato con
apposito provvedimento rispetto a quello proprio del patrimonio forestale
vincolato ex lege Galasso, ha ingenerato, come prima anticipato, un secondo
elemento di illegittimità del piano impugnato, nella parte in cui ha
condotto a una sottovalutazione degli aspetti paesaggistici, con conseguente
carenza istruttoria e motivazionale sul punto.
11.2.1. È da notare che nulla è detto nella delibera di giunta n. 355 del
2019, né nell’allegato piano specifico di prevenzione AIB con essa
approvato, in tema di valutazione paesaggistica degli interventi. Nelle
premesse della delibera compare solo la seguente considerazione: “Preso atto
che sono stati acquisiti con esito favorevole tutti gli atti e pareri
previsti dalla normativa vigente in relazione alla tipologia degli
interventi colturali straordinari e delle opere destinati alla prevenzione e
lotta agli incendi boschivi”.
Di tali atti e pareri non è tuttavia fornita alcuna indicazione specifica.
Nella parte finale del piano, alla voce “Quadro normativo e bibliografia”
(pag. 138), figura solo un generico richiamo dei vincoli paesaggistici provvedimentali imposti sulle aree interessate dal piano, nonché al codice
di tutela del 2004 (e al regolamento di semplificazione di cui al d.P.R. n.
31 del 2017).
Inoltre, nello studio di incidenza presentato ai sensi
dell’articolo 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, si afferma “gli interventi per
cui viene valutata l’incidenza vertono perlopiù sull’attività di ordinaria
coltivazione di soprassuoli boschivi all’interno del sito di interesse
comunitario” (pag. 5).
Nel medesimo studio di incidenza risultano solo
citate le misure di conservazione contenute nel piano paesaggistico della
Regione Toscana, in particolare rispetto all’Ambito di Paesaggio 18 ovvero
“Maremma Grossetana” (pagg. 49 -53), ma -in disparte la considerazione che
ogni valutazione di tutela paesaggistica avrebbe dovuto essere acquisita
presso gli organi competenti e nell’ambito delle procedure appropriate e non
avrebbe potuto comunque essere utilmente svolta nello studio di incidenza-
il suddetto documento si è limitato in proposito a una mera riproduzione
testuale della relativa scheda di piano paesaggistico, con annesse
“Criticità” e “Obiettivi di qualità e direttive - Obiettivo 4”, senza alcuna
aggiunta o considerazione sulla compatibilità degli interventi.
Nella pag.
149 vi è poi un breve paragrafo intitolato “Incidenza degli interventi
proposti rispetto al piano paesaggistico” del seguente tenore: “Nella parte
inerente gli Obiettivi di qualità e direttive si legge al punto 4:
Salvaguardare e valorizzare i rilievi dell’entroterra e l’alto valore
iconografico e naturalistico dei ripiani tufacei, reintegrare le relazioni ecosistemiche, morfologiche, funzionali e visuali con le piane costiere 1.13
- tutelare l’elevato grado di panoramicità del sistema costiero e le
relazioni visuali con il mare e con le aree retrostanti. Gli interventi
previsti sono volti alla conservazione dell’ambiente pineta così come appare
oggi, grazie ad azioni selvicolturali volte alla lotta contro gli incendi
boschivi. Incidenza Positiva”.
La disamina ora compiuta del modo in cui i
profili paesaggistici sono stati presi in considerazione nei documenti di
piano dimostra, ad avviso della Sezione, la fondatezza della censura di
insufficienza istruttoria e motivazionale su tali, pur essenziali, profili
di tutela.
12. Con il terzo motivo di ricorso le associazioni ricorrenti hanno
lamentato che la Regione Toscana avrebbe condotto l’istruttoria in modo
carente, ostacolando la partecipazione delle associazioni e dei cittadini
interessati alla tutela delle aree in questione, comprimendo i tempi procedimentali per consentire l’accesso ai finanziamenti comunitari e
trascurando l’istruttoria relativa ai vincoli ambientale, paesaggistico e
idrogeologico.
Sarebbero state sottovalutate la reale consistenza del
monumento naturale in questione, l’insistenza sul medesimo di domini
collettivi ai sensi della legge n. 168 del 2017 e l’eventuale presenza di
piante monumentali previste dall’articolo 7 della legge n. 10 del 2013 per
il rilascio di esemplari vetusti e di ricovero.
In sostanza, con il mezzo di
censura in esame, corroborato e integrato con i numerosi rilievi puntuali
svolti nel paragrafo del ricorso introduttivo denominato “Conclusioni
tecnico-scientifiche”, le associazioni ricorrenti denunciano una complessiva
carenza istruttoria, che si sarebbe tradotta in una sostanziale
sottovalutazione e non adeguata considerazione dei vincoli ambientali e
paesaggistici esistenti sulla pineta del Tombolo.
Rinviando ai paragrafi precedenti per gli aspetti paesaggistici, già ivi
trattati, occorre qui esaminare l’adeguatezza istruttoria e motivazionale
del piano specifico impugnato relativamente ai profili di tutela ambientale,
segnatamente quelli legati alla inclusione di parti delle aree interessate
dal piano AIB in ambiti ricomprese nel sistema Natura 2000.
12.1. Fermo restando che, come chiarito supra al par. 10, nella fattispecie
non era necessaria la VAS, risultano tuttavia dagli atti significativi
elementi che depongono nel senso dell’inadeguatezza istruttoria e
motivazionale della valutazione d’incidenza svolta dalla Regione Toscana.
Ed invero dall’esame dell’atto di autorizzazione regionale emerge che si
risolve in un riscontro piuttosto formalistico di corrispondenza degli
interventi, singolarmente considerati, ad alcune voci tipologiche desunte
dalla modulistica di settore, senza un’adeguata valutazione d’insieme –con
conseguente difetto di motivazione– della reale dimensione degli impatti
del piano.
12.2. Nello studio di incidenza, nel capitolo intitolato “Fase 2.
Valutazione "appropriata": Stima degli effetti degli interventi proposti”,
compaiono alcune indicazioni di “incidenza negativa” (evidenziate in rosso)
e numerose indicazioni di “incidenza non significativa” (in verde) o
“positiva” (in colore scuro).
Nella parte dedicata alla incidenza sulla
fauna (pagg. 150 ss.) figura una sola ipotesi di incidenza negativa sugli
insetti (per la specie Chalcophora detrita, pag. 151) e nessuna incidenza
negativa sugli uccelli (riguardo ai quali ricorre, invece, sistematicamente,
la valutazione di incidenza positiva degli interventi, con la ripetitiva
motivazione per cui “Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie
troverà beneficio, in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno
salvaguardati dalla distruzione - Incidenza Positiva”). Per i mammiferi
ricorre una sola incidenza negativa (pag. 160, per il topo quercino).
In senso opposto le associazioni ricorrenti hanno sottolineato come la
previsione del taglio del 70% dei pini (con eliminazione progressiva dei
pini marittimi, molti dei quali molto vetusti e di ricovero per molte specie
animali) e dell’80% del sottobosco (habitat elettivo di numerose specie di
insetti, di rettili, di uccelli e di mammiferi), nonché l’ampio ricorso al
cosiddetto “fuoco prescritto”, non possono realisticamente essere valutati
pressoché tutti e interamente con “incidenza non significativa” o
“positiva”, con pochissime eccezioni di “incidenza negativa”, come si è
visto sopra.
Ritiene il Collegio che, escluso in questa sede ogni inammissibile giudizio
di merito che spetta all’amministrazione effettuare e che non può essere qui
compiuto, la valutazione svolta, in ragione dell’entità degli interventi
programmati, non sia adeguatamente motivata.
Ad esempio la frase ricorrente
–“Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie troverà beneficio,
in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno salvaguardati dalla
distruzione - Incidenza Positiva"– avrebbe meritato un maggiore
approfondimento perché, per un verso, è certo che con la lotta agli incendi
boschivi la fauna ne ricaverà beneficio ma, fermo tale punto, per altro
verso, non è chiarito se ciò rimane vero –ed eventualmente in che termini–
anche a seguito del diradamento degli alberi e delle altre misure
contemplate.
12.3. Conseguenziale e specularmente aderente alla prospettazione molto
favorevole contenuta nello studio di incidenza si rivela la trattazione
fattane dall’amministrazione regionale in sede di “autorizzazione VINCA”
(doc. n. 4 allegato alla produzione regionale).
Questo provvedimento,
riscontrando “l'istanza in oggetto, acclarata con Prot. n. 31847 del
23.01.2019, per la quale lo scrivente Settore ha ricevuto dagli Uffici
Regionali la modulistica e lo studio di incidenza per la realizzazione di un
Piano di prevenzione AIB dei punti strategici nelle pinete litoranee dei
comuni di Grosseto e Castiglione della Pescaia”, prende atto “dello Studio
di incidenza e della modulistica presentata, in cui si analizza
compiutamente l’opera proponendo misure di mitigazione” e, viste le misure
di conservazione mediante interventi selvicolturali individuate per
l’habitat “2270 - Dune con foreste di Pinus pinea e Pinus pinaster” dalla
delibera regionale n. 1223/2015, ritenuto che “gli interventi risultano
coerenti con le misure di conservazione vigenti e le incidenze negative
rilevate risultano essere non significative per la loro transitorietà ed
estensione”, che, anzi, “gli interventi previsti determineranno anche
incidenze positive per la conservazione attiva dell'habitat 2270 a medio
termine e quindi delle specie di interesse conservazionistico che utilizzano
tale habitat”, che “la realizzazione degli interventi previsti seguendo le
prescrizioni indicate nella parte dispositiva del presente provvedimento non
determinerà effetti negativi sugli obiettivi di conservazione, sulla
disponibilità di siti per la nidificazione e/o il rifugio della fauna, sulla
complessità delle reti alimentari ivi presenti, sulla struttura e funzioni
necessarie alla conservazione a lungo termine degli habitat e delle specie
tutelati presenti nei siti Natura 2000 in oggetto”, ha espresso una
valutazione positiva “in base alle informazioni fornite”.
È mancata dunque la necessaria considerazione e valutazione unitaria
dell’impatto delle attività proposte sugli habitat oggetto di protezione
che, si ripete ancora una volta, spettava all’amministrazione compiere e non
certo a questo Decidente
12.3.3. Anche le prescrizioni —riassumibili in sintesi nei seguenti quattro
punti:
1) salvaguardare i periodi di nidificazione (eseguire dunque gli
interventi possibilmente tra il 1 ottobre ed il 28 febbraio di ogni anno,
salvo estensioni e deroghe motivate, con alcuni accorgimenti);
2) evitare la
perdita di lubrificanti e carburante e limitare l’emissione di gas di
scarico e di rumori durante l’esecuzione dei lavori;
3) avvisare il Servizio
regionale competente qualora siano rinvenuti, durante l’esecuzione
dell'intervento, nidi o cavità sulle piante da abbattere;
4) verificare la
sussistenza sull’area delle condizioni indicate dal progetto per applicare
la tecnica del “fuoco prescritto”, facendo attenzione a monitorare durante
l’esecuzione i parametri più importanti per l’utilizzo di questa tecnica,
quali il vento, la temperatura, l’umidità, etc.— avrebbero meritato
maggiore attenzione, e comunque migliore motivazione, perché, lungi dal
costituire “specifiche prescrizioni” come affermato nella memoria difensiva
regionale, non sembrano avere alcun contenuto prescrittivo autonomo rispetto
a quelle che sono le comuni buone regole tecniche minimali già implicite
negli interventi antincendio boschivo presi in considerazione.
Si tratta,
quindi, di mere raccomandazioni generiche di eseguire a regola d’arte i
lavori che non aggiungono e non tolgono alcunché a quanto già previsto nel
piano. Anche sotto tale aspetto è necessario che, coerentemente alla regola
generale, sia fornita una migliore motivazione della scelta fatta.
13. L’enucleazione, svolta nei precedenti paragrafi, dei rilevati vizi di
carenza istruttoria e motivazionale, tradottisi in una sostanziale
sottovalutazione dei profili paesaggistici e ambientali degli interventi
antincendio programmati, fa emergere anche un ulteriore profilo,
diffusamente proposto nel ricorso introduttivo, concernente la mancata
partecipazione al percorso elaborativo delle associazioni di tutela
ambientale, le quali pure avevano più volte chiesto di essere ascoltate e di
poter contribuire al procedimento.
Se è vero che non si rinvengono nel panorama normativo (nazionale e
regionale) specifiche previsioni che impongano tale partecipazione -sicché
deve escludersi la sussistenza di puntuali vizi di violazione di legge sotto
questo profilo- è altrettanto vero che non è conforme a criteri generali di
buona amministrazione non prendere in considerazione i possibili contributi
delle associazioni ambientaliste che abbiano chiesto di essere sentite o che
abbiano prodotto memorie e documenti.
Si ricordi, a tale riguardo che, ai sensi dell’articolo 9 l. 07.08.1990,
n. 241, qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati,
nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o
comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà
di intervenire nel procedimento e che è loro riconosciuto, giusta il
disposto del successivo articolo 10, il diritto di presentare memorie
scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove
siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Ciò peraltro risponde ai canoni di buona amministrazione sanciti
dall’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
che, come è noto, ai sensi dell’articolo 6 TUE, ha lo stesso valore
giuridico dei trattati.
Fermo restando che l’amministrazione ha il dovere di procedere, anche
celermente quando necessario, in vicende come queste sarebbe stato utile
garantire la possibilità di ascolto e di presa in considerazione dei punti
di vista diversi da quelli dell’amministrazione quando ciò non si traduce
esclusivamente in ostacoli al compimento del procedimento amministrativo.
14. In conclusione, per tutte le esposte ragioni il ricorso deve giudicarsi
fondato e merita pertanto accoglimento, con conseguente annullamento della
delibera di giunta regionale n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso “Piano
Specifico di Prevenzione AIB” per il comprensorio territoriale delle pinete
litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, nella parte in cui
considera erroneamente come paesaggisticamente irrilevanti -e perciò
sottratti alla preventiva autorizzazione paesaggistica- tutti gli
interventi previsti nel piano, omettendo un’adeguata analisi e valutazione
dell’impatto paesaggistico di tali interventi, nonché nella parte in cui si
fonda su una valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000
interessati dalle misure rivelatasi carente nell’istruttoria e nelle
motivazioni, oltre che corredata da mere raccomandazioni di buona esecuzione
degli interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
15. L’annullamento della delibera n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso
piano si riverbera sulla delibera n. 564 del 23.04.2019 (di approvazione
del piano AIB 2019-2021) nella sola parte in cui tale ultima delibera
recepisca, approvi, ratifichi o comunque faccia propri i contenuti della
delibera n. 355 del 2019 e dell’annesso piano specifico AIB.
16. La Regione Toscana ha più volte sottolineato, nella sua memoria
difensiva, l’estrema urgenza di eseguire interventi AIB a tutela della
pubblica incolumità e della sicurezza di persone e cose seriamente
minacciate dal rischio sempre più urgente e pressante di devastanti incendi
boschivi, molto probabili (se non, pare di capire, inevitabili) a causa del
mutamento climatico, non senza evocare scenari tragici, quali quelli di
recente verificatisi in Grecia, in Spagna e in Portogallo (per guardare solo
alle aree mediterranee e per non parlare della California o dell’Australia).
Scrive, ad esempio, la Regione Toscana (pag. 6 della memoria in data 29.11.2019): “È evidente che in tali condizioni, eventuali decisioni di
rinuncia agli interventi di prevenzione comportano l'assunzione di
responsabilità in merito alle conseguenze di eventi che dovessero accadere”
e, ancora (ivi): “Nel corso del 2017 un incendio ad alta intensità e di
limitata superficie (3,5 ha) ha danneggiato case e veicoli in località
Marina di Grosseto, mentre a Castiglione della Pescaia si è verificato un
incendio boschivo di 75,9 ettari che ha raggiunto una velocità di
propagazione di 20 metri/minuto”, sicché le delibere impugnate e il piano
specifico di prevenzione AIB delle pinete litoranee di Grosseto e
Castiglione della Pescaia “sono volti ad assicurare la salvaguardia
dell'incolumità di residenti e turisti; una loro mancata attuazione
esporrebbe al permanere delle condizioni di rischio come sopra evidenziate”
(pag. 7).
16.1. A fronte di tali impegnative affermazioni dell’Amministrazione
regionale, il Collegio deve porsi la questione di come poter in qualche modo
bilanciare le contrapposte esigenze di tutela giurisdizionale degli
interessi dei ricorrenti (e di ripristino della legittimità dell’azione
amministrativa) con quelle di tutela della pubblica incolumità e della
sicurezza delle persone e dei beni patrimoniali delle concentrazioni
antropiche che insistono nella (o in prossimità della) pineta oggetto del
piano AIB impugnato.
In particolare, il Collegio non può sottrarsi alla responsabilità di
esplorare a fondo la possibilità, per le suddette finalità, di graduare
l’effetto caducatorio degli atti impugnati discendente dal disposto
annullamento, in modo da scongiurare effetti di paralisi, che potrebbero
rivelarsi dannosi per gli stessi interessi ambientali fatti valere dalle
Associazioni ricorrenti.
Soccorre all’uopo, ad avviso del Collegio,
la possibilità di calibrare
l’effetto di annullamento, al fine di consentire alla Regione Toscana di
disporre di un congruo lasso di tempo per rivedere ed emendare, in linea con
i precetti regolativi desumibili dalla presente decisione, il piano
specifico AIB oggetto della presente pronuncia di annullamento,
consentendone, nelle more, interventi di messa in sicurezza o che si
presentino come particolarmente urgenti e ineludibili.
16.2. Com’è noto, la facoltà di modulare gli effetti demolitori delle
sentenze di annullamento è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato con la
sentenza 10.05.2011, n. 2755. In quella sede, la Sezione VI, accertata
l’illegittimità del piano faunistico venatorio della regione Puglia a
cagione dell’omesso svolgimento del procedimento di valutazione ambientale
strategica (VAS), accoglieva il ricorso e dichiarava la perdurante efficacia
dell’atto impugnato nelle more dell’adozione di un nuovo provvedimento
programmatorio sostitutivo.
A tali conclusioni il Collegio giudicante perveniva non soltanto sul rilievo
della potenziale compromissione degli equilibri ambientali derivante
dall’eliminazione degli effetti del piano originariamente approvato, ma
anche in ragione del contenuto delle pretese fatte valere dalla parte
ricorrente. In quella sede si sosteneva infatti che il principio di
effettività della tutela giurisdizionale, nella declinazione desumibile
tanto dalle fonti sovranazionali (articoli 6 e 13 della CEDU), quanto da
quelle interne (articoli 24 e 113 della Costituzione), imponeva una
modulazione temporale dell’efficacia tipica del dictum giudiziale, in vista
della necessità di assicurare una soddisfazione non meramente formale
dell’interesse fatto valere con la domanda.
La Sezione VI osservava altresì che il riconoscimento di deroghe alla
naturale retroattività degli effetti caducatori non incontrerebbe alcuna
preclusione nelle norme sostanziali e processuali, laddove rispettivamente
disciplinano l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi
(articolo 21-nonies, legge n. 241 del 1990) ed i contenuti delle sentenze
che dispongono l’eliminazione dalla realtà giuridica del provvedimento
impugnato (articolo 34, comma 1, lettera a), c.p.a.).
Parimenti, i poteri
valutativi esercitabili dal giudice in ordine all’efficacia del contratto
stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima (articoli 121-122,
c.p.a.) costituirebbero un ulteriore indice normativo a sostegno della
compatibilità sistematica di pronunce che, accertata la difformità dell’atto
a contenuto generale rispetto al parametro legale, escludono la produzione
di effetti caducatori sino all’adozione del nuovo provvedimento da parte
dell’Amministrazione.
In virtù dell’ascrivibilità della disciplina ambientale al novero delle
competenze concorrenti fra gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione
europea, questo Consiglio affermava inoltre che gli interessi fatti valere
in tale ambito materiale dovessero essere tutelati dai giudici nazionali
secondo livelli di garanzia non inferiori rispetto a quelli assicurati dal
diritto eurounitario. In tal senso, le disposizioni di cui all’articolo 264
del TFUE, specie nella parte in cui affidano alla Corte di giustizia la
facoltà di precisare “gli effetti dell'atto annullato che devono essere
considerati definitivi” (paragrafo 2), troverebbero ingresso
nell’ordinamento interno in qualità di principi idonei a garantire una
“tutela piena ed effettiva” delle situazioni giuridiche soggettive dedotte
in giudizio (articolo 1, c.p.a.).
16.3. Giova osservare come, sulla base degli argomenti posti a fondamento
della sentenza 10.05.2011, n. 2755, l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato abbia ammesso la configurabilità di deroghe all’efficacia retroattiva
delle pronunce con cui il giudice della nomofilachia modifica orientamenti
giurisprudenziali consolidati (Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Se il contenuto di un siffatto richiamo vale indubbiamente a rafforzare
l’apparato argomentativo della citata decisione del 2017, non può tuttavia
omettersi di precisare come il cosiddetto prospective overruling non
condivida con la graduazione della portata caducatoria delle sentenze di
annullamento null’altro che la comune riconducibilità alle tecniche di
governo dell’efficacia delle pronunce giurisdizionali.
L’elaborazione di principi di diritto innovativi rispetto all’orientamento
precedentemente consolidato, in quanto formulati in sentenze dichiarative di
interpretazione intese a rendere manifesto il significato dell’originario
dato normativo, esprime una naturale tendenza alla retroazione dei nuovi
canoni esegetici. Tuttavia, a fronte della potenziale lesione di
controinteressi di rango costituzionale, l’operatività del revirement
giurisprudenziale può essere limitata alle sole fattispecie che vengano in
rilievo posteriormente alla pubblicazione della nuova decisione.
Muovendo dalla risalente tradizione pretoria della Corte suprema
statunitense, la giurisprudenza non ha tuttavia mancato di delimitare
puntualmente le condizioni di praticabilità del prospective overruling. Sin
dalla sentenza 11.07.2011, n. 15144, il Giudice di legittimità ha
costantemente sostenuto che l’ammissibilità di interventi nomofilattici con
efficacia ex nunc sia subordinata alla cumulativa presenza dei seguenti
requisiti:
a) la nuova interpretazione incida su norme processuali;
b) il mutamento giurisprudenziale sia stato imprevedibile e sopravvenga ad
un distinto orientamento consolidato nel tempo, in modo da indurre la parte
ad un ragionevole affidamento sulla perdurante validità dell’indirizzo
anteriore;
c) l’overruling precluda l’esercizio del diritto di azione o di difesa delle
parti (da ultimo, cfr. Cass. civ., Sez. II, ordinanza 10.05.2018, n.
11300; Cass. civ., Sez. un., sentenza 03.10.2018, n. 24133; Cass. civ.,
Sez. un., sentenza 12.02.2019, n. 4135; Cass. civ., Sez. lav.,
ordinanza 13.01.2020, n. 403).
Ad analoga definizione dei presupposti fondativi dell’istituto in esame è
pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Ad. plen., 02.11.2015, n. 9; Cons. St., Sez. III, ordinanza
07.11.2017, n.
5138). E in applicazione delle medesime condizioni questo Consiglio ha
recentemente escluso la differibilità nel tempo dei principi di diritto
enunciati in tema di riapertura delle graduatorie ad esaurimento (Cons. St.,
Ad. plen., 27.02.2019, n. 4; Cons. St., Sez. VI, sentenza 08.04.2019, n. 2266), nonché di superamento della pregiudiziale amministrativa
nella domanda di risarcimento del danno (Cons. St., Sez. III, sentenza 22.02.2019, n. 1230; Cons. St., Sez. IV, sentenza 28.06.2018, n.
3977).
Rispetto a tale assetto giurisprudenziale si distingue invece la citata
sentenza n. 13 del 2017, con la quale l’Adunanza plenaria, accogliendo la
tesi della cosiddetta “discontinuità” dell’efficacia del vincolo preliminare
nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico
anteriori all’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, giunge ad
estendere la portata del prospective overruling anche all’esegesi di norme a
contenuto sostanziale.
Conoscendo di una fattispecie rientrante nella sfera
di vincolatività dei principi di diritto formulati dall’Adunanza plenaria n.
13 del 2017, la Sezione VI del Consiglio di Stato, con sentenza 03.12.2018, n. 6858, ha parimenti sostenuto che “anche nell’ambito del
procedimento amministrativo (nel caso in esame, di conclusione del
procedimento di vincolo), come in ambito processuale, la modifica del
precedente orientamento non può che comportare che la parte (nella specie,
l’Amministrazione) incorra in decadenze fino allora non prevedibili”.
In altri termini, giova in questa sede evidenziare con forza che
il potere
di disporre la decorrenza ex nunc degli effetti delle sentenze a contenuto
interpretativo non possa assimilarsi alle tecniche di modulazione della
portata caducatoria delle pronunce costitutive di annullamento degli atti
illegittimi. Queste ultime, lungi dall’incidere sulla stabilità di
precedenti giurisprudenziali consolidati, contengono indefettibilmente un
accertamento circa la legittimità/illegittimità del provvedimento
amministrativo impugnato in vista della soddisfazione di un interesse
protetto dall’ordinamento sostanziale. Le prime, invece, individuano il
momento a partire dal quale il nuovo orientamento interpretativo deve essere
applicato.
Deve in conclusione ritenersi che l’indagine sulla graduazione degli effetti
dell’annullamento non possa che essere condotta sulla base di criteri
distinti rispetto a quelli cui la giurisprudenza ordinaria e amministrativa
ricorre per giustificare la praticabilità del prospective overruling.
16.4. La Sezione è consapevole dei rilievi critici mossi da una parte della
dottrina avverso la graduazione degli effetti caducatori delle sentenze di
annullamento.
Si è osservato, in primo luogo, come nel sistema della giustizia
amministrativa il contenuto tipico dell’azione di annullamento, consistente
nell’eliminazione del provvedimento illegittimo dalla realtà giuridica,
sarebbe violato dalle decisioni con cui il giudice dispone il mantenimento
dell’efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’ulteriore esercizio del
potere. Le conseguenze caducatorie dell’accoglimento della domanda, benché
non puntualmente desumibili dalla disciplina processuale, sarebbero imposte
dalla natura costitutiva della sentenza di annullamento, dei cui effetti
demolitori dovrebbe dunque predicarsi la radicale indisponibilità.
Con un secondo argomento critico si è inoltre ritenuto che le tesi sostenute
dalla Sezione VI del Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 2755 del
2011 presenterebbero profili di contrasto con l’articolo 113, comma 3 della
Costituzione, ai sensi del quale “la legge determina quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei
casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. La necessaria
intermediazione legislativa nella definizione dei poteri di annullamento
osterebbe infatti all’autonoma gestione giudiziaria dell’efficacia delle
pronunce costitutive, dal momento che la produzione del risultato demolitorio potrebbe essere legittimamente escluso nelle sole ipotesi
predeterminate dalla fonte primaria.
Una terza censura di matrice dottrinale è stata avanzata in relazione alla
pretesa violazione del carattere dispositivo del processo amministrativo. Il
principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112,
c.p.c.) non consentirebbe al giudice di modulare il contenuto del decisum in
senso difforme rispetto alla pretesa annullatoria fatta valere con la
domanda di parte.
Anche gli argomenti di diritto positivo posti a fondamento del percorso
motivazionale della sentenza n. 2755 del 2011 non hanno mancato di suscitare
la disapprovazione di alcuni esponenti della dottrina.
Non persuasivo è ritenuto il riferimento ai poteri esercitabili della Corte
di giustizia nel giudizio sulla legittimità degli atti delle istituzioni
eurounitarie (articolo 264, paragrafo 2, TFUE). Né il richiamo ai principi
di derivazione europea, previsto dall’articolo 1 del codice del processo
amministrativo, consentirebbe per ciò solo di trasporre nell’ordinamento
interno gli istituti tipici di un distinto sistema processuale. Sulla base
delle norme di matrice eurounitaria non potrebbe infatti imporsi ai giudici
nazionali la temporanea conservazione dell’efficacia di atti illegittimi in
vista della necessaria protezione di controinteressi meritevoli di tutela.
Quanto alla disciplina speciale di cui agli articoli 121-122 del codice del
processo amministrativo, la previsione di una deroga espressa
all’inefficacia retroattiva del contratto stipulato sulla base di
un’aggiudicazione illegittima costituirebbe un significativo indice
dell’eccezionalità del rimedio pretorio in esame, non invece la
esplicitazione settoriale di un generale potere di valutazione circa la
perduranza o meno degli effetti del provvedimento annullato.
Da ultimo, la radicale distinzione tra le funzioni giurisdizionali e quelle
di amministrazione attiva precluderebbe l’assimilazione tra la rimozione in
autotutela degli atti illegittimi (articolo 21-nonies, legge n. 241 del
1990) e le sentenza costitutive di annullamento.
16.5. La Sezione ritiene che tali rilievi critici non debbano essere
condivisi.
16.5.1 Con riguardo alla pretesa violazione del contenuto tipico delle
pronunce costitutive di annullamento, occorre osservare quanto segue.
In esito al complesso percorso evolutivo che ha visto la pretesa alla
soddisfazione del bene della vita progressivamente acquisire una valenza
centrale entro la struttura dell’interesse legittimo, la disciplina
processuale delle azioni esperibili a fronte dell’esercizio del potere
richiede un costante adeguamento interpretativo alle esigenze di effettività
imposte dalla cognizione di una posizione giuridica soggettiva sostanziale.
È noto che il modello rimediale pluralistico originariamente accolto dalla
bozza del codice del processo amministrativo licenziata l’08.02.2010
dalla Commissione insediata presso il Consiglio di Stato sia stato solo
parzialmente recepito nella versione definitiva del testo legislativo. Ove
tuttavia si ritenesse che il riferimento alle azioni di annullamento
(articolo 29, c.p.a.) e di condanna (articolo 30, c.p.a.), nonché a quelle
in materia di silenzio-inadempimento (articolo 31, commi 1-3, c.p.a.) e di
nullità (articolo 31, comma 4, c.p.a.), sia espressivo di un sistema di
tutela tipico e conchiuso, dovrebbe al contempo ammettersi la validità di
una configurazione meramente processuale dell’interesse legittimo.
Per converso, e in modo più condivisibile, la considerazione del moderno
schema dei rapporti di diritto pubblico, nel quale il bene della vita inciso
dall’esercizio del potere diviene l’elemento costitutivo di una situazione
giuridica soggettiva sostanziale, esige la costruzione di un apparato
rimediale idoneo ad assicurare a quest’ultima una protezione adeguata alla
sua intrinseca natura.
In forza dei criteri direttivi di cui all’articolo 44 della legge 18.06.2009, n. 69, nonché del richiamo ai principi costituzionali e comunitari
previsto dall’articolo 1 del codice del processo amministrativo, deve dunque
ritenersi che il canone di effettività della tutela giurisdizionale si ponga
a fondamento di un sistema atipico di azioni, la cui esperibilità garantisce
la soddisfazione di interessi giuridicamente rilevanti mediante strumenti
processuali non necessariamente coincidenti con quelli espressamente
previsti dalla legge.
Con specifico riguardo all’azione generale di accertamento, l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 29.07.2011, n. 15, ha
infatti autorevolmente sostenuto che “nell’ambito di un quadro normativo
sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse
legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la
mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’azione
generale di accertamento non preclude la praticabilità di una tecnica di
tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al
fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in
modo adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme
immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di
garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo (articoli
24, 103 e 113).
Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel
processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone
di riconoscere l'esperibilità dell'azione di accertamento autonomo, con
particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da
impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione
concreta della pretesa sostanziale del ricorrente”.
Così delineato il quadro dei mezzi di tutela esperibili nell’attuale sistema
di giustizia amministrativa, deve ulteriormente osservarsi come l’atipicità
dell’apparato rimediale possa presentare anche una declinazione di tipo
contenutistico, nella misura in cui la decisione del giudice esprime una
sintesi degli interessi in conflitto non astrattamente predeterminabile dal
legislatore.
Ed in specie, l’estensione dell’oggetto della cognizione al rapporto
giuridico controverso, al di là dei confini imposti dal mero scrutinio di
legittimità dell’atto impugnato, può giustificare il riconoscimento di
poteri valutativi in ordine alla perduranza degli effetti dell’atto
illegittimo, nell’ottica del bilanciamento fra le esigenze di tutela fatte
valere dalla parte ricorrente ed i controinteressi generali e particolari
rilevanti nel caso concreto.
Il governo degli effetti delle sentenze costitutive di annullamento appare
dunque ammissibile nel quadro di atipicità rimediale e contenutistica che
permea la moderna struttura del processo amministrativo.
Del resto -come è stato notato- sotto il profilo dell’azione proposta, la
domanda di annullamento contiene sempre il quid minus della domanda di mero
accertamento dell'illegittimità con effetti non retroattivi o non
eliminatori e, sotto il profilo dei poteri del giudice, l'attribuzione del
potere di decidere quando annullare l'atto illegittimo implica (rectius: può
implicare) anche il potere, meno incisivo, di stabilire da quando far
decorrere la portata della sentenza di annullamento dell'atto.
16.5.2 Con il secondo degli esaminati rilievi critici si sostiene che i
poteri di modulazione riconosciuti dalla sentenza n. 2755 del 2011
configurerebbero una violazione della riserva di legge prevista
dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui affida
all’intermediazione legislativa la determinazione dei casi e degli effetti
dell’annullamento giurisdizionale.
Anche la suddetta censura di matrice dottrinale non appare persuasiva.
Deve in primo luogo osservarsi che nessuna norma di diritto sostanziale o
processuale espressamente preclude l’individuazione di deroghe alla portata
retroattiva delle pronunce a contenuto demolitorio.
In secondo luogo il vigente assetto processuale, oltre a rimettere al
giudice la valutazione circa la necessità dell’annullamento dell’atto
illegittimo (articolo 34, comma 3, c.p.a.), accentua il carattere
conformativo delle decisioni adottabili. A questo proposito giova infatti
ricordare che il combinato disposto dell’articolo 30, comma 1 e
dell’articolo 34, comma 1, lettera c), primo periodo del codice del processo
amministrativo consente la proposizione di domande atipiche di condanna, le
quali, se formulate contestualmente ad altra azione, possono condurre alla
pronuncia di sentenze di accoglimento che obbligano l’Amministrazione
“all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica
soggettiva dedotta in giudizio”.
Lungi dall’integrare una violazione della riserva di legge prevista
dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, la dichiarazione di efficacia
dell’atto illegittimo sino al nuovo esercizio del potere da parte
dell’Amministrazione rinviene quindi nella disciplina processuale di rango
primario un fondamento normativo.
16.5.3 Il terzo profilo di criticità interpretativa contestato da una parte
della dottrina attiene all’asserita incompatibilità fra le tecniche di
modulazione degli effetti demolitori e il principio di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato (articolo 112, c.p.c.).
Anche tale argomento va superato.
L’oggetto dell’azione di annullamento comprende indefettibilmente la domanda
di accertamento circa l’illegittimità dell’atto impugnato. La pronuncia con
cui il giudice, pur dichiarando la sussistenza di profili di contrasto
rispetto al parametro legale, sospende provvisoriamente la produzione
dell’effetto eliminatorio della sentenza, o stabilisce che l’atto
illegittimo sia annullato senza far retroagire gli effetti della caducazione,
non può ritenersi difforme rispetto ai contenuti del petitum.
Né, in senso diverso, possono ricavarsi argomenti da una sentenza
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che –statuendo in ordine ad
una controversia nella quale si discuteva della possibilità di sostituire
l’annullamento degli atti di una procedura concorsuale con il “semplice”
risarcimento dei danni– è giunta a formulare il seguente principio di
diritto: “sulla base del principio della domanda che regola il processo
amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del
ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’Amministrazione al
risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché
procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda
dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la
pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il
lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il
mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita” (Cons. St., Ad.
plen., sentenza 13.04.2015, n. 4).
Proprio dalle motivazioni della citata sentenza del giudice della
nomofilachia si desume peraltro che la condivisibile preclusione alla
sostituzione officiosa delle forme di tutela richieste dalla parte
ricorrente (risarcimento al posto dell’annullamento) non può in alcun modo
estendersi alla modulazione degli effetti caducatori delle pronunce di
annullamento, con la quale il giudice amministrativo assicura una protezione
effettiva alle pretese dedotte in giudizio, senza travalicare i limiti
imposti dall’oggetto e dalle ragioni della domanda (cfr. paragrafo n. 7
delle motivazioni in diritto).
In chiave sistematica, poi, le deroghe alla retroattività delle sentenze di
annullamento del contratto, previste dagli articoli 1443 e 1445 del codice
civile rispettivamente a tutela dell’incapace e del terzo subacquirente,
confermano la validità dell’orientamento che ammette la modulazione degli
effetti delle pronunce demolitorie, ove tale soluzione sia imposta dalla
necessità di proteggere adeguatamente gli interessi dedotti in giudizio.
Per
il giudice ordinario, infatti, in materia di annullamento del contratto,
l'art. 1445 c.c., escludendo gli effetti dell'annullamento nei confronti dei
terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso, sancisce
implicitamente l'efficacia dell'annullamento nei confronti degli acquirenti
rispetto ai quali non ricorra tale requisito soggettivo (Cass. civile, sez.
II, 10.09.2019, n. 22585), così confermando che gli effetti possono
essere calibrati in ragione degli interessi coinvolti.
Si tratta, peraltro,
di soluzione immanente all’ordinamento giuridico, come confermato da una non
recente decisione: "La disposizione dell'articolo 2652, n. 6, c.c.,
riguardante l'onere della trascrizione delle domande dirette a far
dichiarare la nullità o far pronunziare l'annullamento di atti soggetti a
trascrizione, ha lo scopo di limitare l'efficacia retroattiva e l'opponibilità
della pronuncia dichiarativa della nullità, in quanto fa salvi i diritti che
i terzi di buona fede abbiano acquistato in base ad un atto trascritto
anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità, qualora quest'ultima
sia stata trascritta dopo decorsi cinque anni dalla trascrizione dell'atto
impugnato. Il verificarsi del duplice presupposto della trascrizione del
titolo di acquisto e dell'omissione della trascrizione della domanda di
dichiarazione di nullità entro il quinquennio attribuisce pertanto sia al
primo acquirente sia ad ogni altro successivo avente causa una posizione di
piena tutela nei confronti della pretesa di invalidità del titolo del dante
causa" (Cass. civ., Sez. I, sentenza 20.05.1967, n. 1095).
16.6. La soluzione inaugurata dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n.
2755/2011, con tutta evidenza, trae fondamento nell'evoluzione del sindacato
del giudice che si è trasformato da giudizio di mera conformità dell’atto ad
un determinato parametro normativo a giudizio sul legittimo esercizio della
funzione amministrativa con riferimento al rapporto.
Nella prospettiva tradizionale –e ormai superata perché incentrata
esclusivamente sulla legittimità/illegittimità dell’atto– la posizione di sovraordinazione, propria dell’amministrazione, impediva di individuare
vincoli in capo all’ente nel rapporto con il privato (prima suddito e poi
cittadino) e conseguentemente nessuno spazio vi era per una “relazione
giuridica in senso proprio”. Come affermato dalla dottrina, “l’ordinamento
giuridico poteva anche disciplinare il potere dell’amministrazione con norme
volte ad orientare l’attività della medesima nell’interesse della stessa
amministrazione (norme d’azione), ma senza che si instaurasse una relazione
giuridica in senso proprio”.
Con l’affermarsi dello Stato di diritto –e poi con alcune rilevanti
modifiche normative (possibilità di risarcire i danni cagionati da lesioni
agli interessi legittimi, impugnazione di atti connessi con l’istituto dei
motivi aggiunti, possibilità di valutare la fondatezza della pretesa e non
annullabilità degli atti illegittimi che non potevano avere un contenuto
diverso da quello in concreto adottato)– l’interesse legittimo ha assunto
un’indiscutibile valenza sostanziale consentendo di ricostruire “i termini
dialettici … di una relazione giuridica bilaterale” in cui è essenziale
penetrare nel rapporto tra amministrazione e cittadino per saggiarne la
reale consistenza. Emblematico in tal senso è la disposizione che esclude
l’annullamento dell’atto illegittimo quando il contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Altra dottrina –dopo aver distinto il “rapporto dinamico (procedimento) e
quello statico (provvedimento), poiché nella dinamica procedimentale il
privato, parte del rapporto, interagisce col responsabile del procedimento,
mentre nel provvedimento è solo destinatario rispetto all'assetto degli
interessi”– ha insistito per la costruzione di un più maturo quadro di
tutele che, ad avviso della Sezione, non può che passare per un ampliamento
degli schemi consolidati.
Anche la giurisprudenza ha rilevato che “l'interesse legittimo non rileva
come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione
per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in
un mero interesse alla legittimità dell'azione amministrativa in sé intesa,
ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo
e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della
vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a
seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può
concretizzare un pregiudizio”; conseguentemente si aprono le porte ad un
“giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la
fondatezza della pretesa sostanziale azionata” (Cons. St., a.p., 23.03.2011, n. 3).
È bene precisare però che quanto sino ad ora affermato non deve mai
travalicare i confini del merito amministrativo, se non nei rari casi
previsti dalla legge (articolo 134 c.p.a).
16.7. Non può inoltre omettersi di osservare come l’impostazione accolta in
questa sede si ponga in continuità con l’indirizzo accolto dalla
giurisprudenza eurounitaria.
La Corte di Giustizia, prima in applicazione dell’articolo 231 Trattato CE,
poi in ossequio a quanto stabilito dall’articolo 264 TFUE, ritiene di poter
decidere, di volta in volta, sugli effetti dell’annullamento nel caso di
riscontrata invalidità di un regolamento e “anche nei casi di impugnazione
delle decisioni, delle direttive e di ogni altro atto generale”.
A tale riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 264 TFUE, se il
ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo
e non avvenuto l'atto impugnato. Viene altresì precisato che, ove lo reputi
necessario, la Corte precisa gli effetti dell'atto annullato che devono
essere considerati definitivi.
Con la sentenza 10.01.2006, in causa C-178/03, la Corte, richiamando
l’articolo 231, secondo comma, allora vigente, ha mantenuto gli effetti
dell’atto annullato “sino all’adozione, entro un termine ragionevole, di un
nuovo regolamento basato su fondamenti normativi adeguati”.
Con altra sentenza, sempre la Corte di Giustizia, ha mantenuto gli effetti
dell’atto impugnato “per un periodo non eccedente i tre mesi”, a decorrere
dalla data di pronuncia della sentenza, sul presupposto che l'annullamento
con effetto immediato avrebbe potuto “arrecare un pregiudizio grave ed
irreversibile all'efficacia delle misure” imposte dall’atto caducato (Corte
di giustizia, sentenza 03.09.2008, in cause riunite C‑402/05 P e
C‑415/05 P).
Di particolare interesse è altra pronuncia con la quale la Corte di
Giustizia, dopo aver riscontrato l’illegittimità di una decisione, ha
sospeso “gli effetti della constatazione d’invalidità”, per un periodo non
superiore a due mesi, stabilendo altresì alcune eccezioni in considerazione
della particolare posizione di determinati ricorrenti (Corte di giustizia,
sentenza 22.12.2008, in causa C-333/07).
Parimenti, l’analisi delle tradizioni giurisprudenziali straniere (in specie
francese) dimostra il diffuso riconoscimento di deroghe alla retroattività
delle sentenze di annullamento.
In particolare, il Conseil d'Etat, in data 11.05.2004, Association Ac ed
Autres, ha ritenuto che “Se l'annullamento di un atto amministrativo implica
in linea di principio che tale atto non si considera mai avvenuto, quando le
conseguenze di un annullamento retroattivo sarebbero manifestamente
eccessive per gli interessi pubblici e privati coinvolti, il giudice può, in
via eccezionale, modulare nel tempo gli effetti dell’annullamento che
pronuncia”.
16.8. La Sezione non ignora che le tesi sostenute con la citata sentenza n.
2755 del 2011 siano state solo occasionalmente accolte dalla giurisprudenza
amministrativa di primo grado (cfr. TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.12.2011, n. 700; TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza
09.04.2014, n. 3838; TAR Molise, sentenza 21.11.2014, n. 637).
E ciò ancorché ancora recentemente la Sezione VI del Consiglio di Stato, con
sentenza 06.04.2018, n. 2133, ha affermato che “il giudice amministrativo
-anche in sede di cognizione- può comunque determinare se, nel caso di
fondatezza delle censure poste a base di una domanda di annullamento,
sussistano i presupposti per applicare il principio generale per il quale
l’atto illegittimo vada rimosso con effetti ex tunc, oppure vada rimosso con
effetti ex nunc, ovvero l’atto stesso non vada rimosso, ma debba o possa
essere sostituito, con un ulteriore provvedimento, a sua volta se del caso
avente effetti ex nunc (cfr. Cons. St., Sez. VI, sentenza 10.05.2011, n.
2755; Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Anche in considerazione del principio di effettività della tutela del
ricorrente vittorioso (richiamato dall’articolo 1 del codice del processo
amministrativo), in rapporto alla consistenza dei poteri comunque
esercitabili dall’Amministrazione a seguito della rilevata illegittimità del
suo provvedimento, il giudice amministrativo -con la sentenza di cognizione
o d’ottemperanza- nell’esercizio dei propri poteri conformativi e se del
caso di merito può determinare quale sia la regola più giusta, che regoli il
caso concreto.
Tale ampio potere del giudice amministrativo deve però tenere conto della
normativa applicabile nella materia in questione e non deve condurre a
conseguenze incongrue o asistematiche”.
In effetti il giudice amministrativo fa un uso molto avveduto del potere in
esame, limitandolo alle sole ipotesi in cui un temperamento alla regola
della caducazione retroattiva degli atti illegittimi si renda strettamente
necessario per la tutela degli interessi rilevanti nel caso concreto, così
come s’è visto accade oltralpe.
16.9.
In conclusione reputa la Sezione che risponda meglio al principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale la possibilità di “modulare”
gli effetti dell’annullamento.
Tale potere, tuttavia, dovrà essere utilizzato in modo accorto e solo nelle
ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi
fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati
coinvolti.
E ciò anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della tutela
trasmodino
–com’è stato giustamente paventato-
in situazioni di incertezza
giuridica o amministrativa.
In particolare
tale possibilità soccorrerà allorché
-come nel caso in esame-
occorre evitare che l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa
generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio (in caso di
annullamento di atti normativi o generali), tale da determinare effetti
peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di
pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato
aspira a conseguire o mantenere.
Sotto questo profilo, il caso qui all’odierno esame della Sezione appare
paradigmatico: l’annullamento del piano specifico AIB potrebbe indurre
indirettamente un effetto di paralisi dell’azione amministrativa di
prevenzione incendi, impedire dunque anche quegli interventi urgenti,
necessari a mitigare il rischio di incendi boschivi e, con l’approssimarsi
della stagione estiva, aumentare di fatto ancor di più il rischio di
devastanti incendi, difficilmente controllabili, con il risultato
paradossale che l’accoglimento del ricorso proposto dalle associazioni
ambientaliste per garantire più elevati livelli di tutela del paesaggio
tutelato e delle aree naturali protette che ospitano specie vegetali e
animali nel sistema Rete Natura 2000 potrebbe finire per (con)causare
indirettamente la distruzione definitiva di quei paesaggi e di quegli
habitat naturali.
16.10. Per le considerazioni sino a qui espresse, quindi,
il Consiglio
esprime parere nel senso che il ricorso vada accolto, disponendo
l'annullamento degli atti impugnati, nei limiti delle censure accolte e solo
a decorrere dall'approvazione del nuovo piano AIB, approvazione che dovrà
avvenire nel rispetto dei principi affermati con la presente decisione nel
termine di 180 giorni dalla comunicazione del decreto che decide il ricorso.
Per garantire la piena tutela degli interessi fatti valere col ricorso e
degli interessi pubblici coinvolti, dunque, il piano qui annullato rimane in
vigore durante il predetto periodo di 180 giorni. Resta chiaro che le
Autorità competenti, in tale lasso temporale, hanno l’obbligo di adottare
tutte le misure e le azioni, eventualmente anche in attuazione parziale del
piano qui annullato, per mettere in sicurezza il sito nonché per
fronteggiare gli interventi improcrastinabili e indifferibili relativi ad
aree -soprattutto vicine ad insediamenti antropici- che presentano rischi
elevati secondo la prudente e responsabile valutazione delle amministrazioni
che certamente non compete a questo Decidente.
Decorso il predetto termine, il piano oggetto del ricorso rimane
definitivamente annullato e privo di effetti con la conseguenza che, qualora
l’amministrazione non dovesse ottemperare alla decisione, parte ricorrente
potrà agire in sede di ottemperanza secondo il costante orientamento della
giurisprudenza (ex multis, Cons. St., ad. plen., 05.06.2012, n. 18; Cons.
St., ad. plen., 06.05.2013, n. 9; Cons. St., ad. plen., 14.07.2015,
n. 7).
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto esclusivamente nei
limiti e con le prescrizioni indicati in motivazione. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Amministrazione
trasparente: le sezioni sono obbligatorie?
Domanda
Sulla base del gestionale informatico che è stato acquistato di recente,
abbiamo notato che nella sezione Amministrazione trasparente, compare anche
la sotto-sezione "Strutture sanitarie private accreditate".
Essendo un ente locale (comune sotto 10.000 abitanti) è possibile eliminare
la sotto-sezione dall’Albero?
Risposta
Come previsto nell’articolo 48, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013,
n. 33, modificato dall’articolo 39 del d.lgs. 97/2016, all’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC) viene demandato il compito di definire i
criteri, i modelli e gli schemi standard per l’organizzazione, la
codificazione e la rappresentazione dei documenti, delle informazioni e dei
dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, ai sensi della normativa
vigente, nonché relativamente all’organizzazione della sezione
«Amministrazione trasparente».
L’ANAC ha provveduto, da ultimo, a svolgere il compito assegnatole dal
legislatore nazionale, mediante l’adozione dell’Allegato “1” alla delibera
n. 1310 del 28.12.2016, dove sono state previste n. 26 sotto-sezioni di
Livello 1, tra le quali, figura tutt’ora la sotto-sezione “Strutture
sanitarie private accreditate” a cui si fa riferimento nel quesito.
Come ben specificato nel comma 4, dell’articolo 41, del d.lgs. 33/2013,
l’obbligo riguarda la pubblicazione annuale dell’elenco delle strutture
sanitarie private accreditate. Devono essere, inoltre, pubblicati gli
accordi con esse intercorsi.
L’articolo 41, del decreto Trasparenza è, appunto, rubricato “Trasparenza
del servizio sanitario nazionale”.
Tra i svariati compiti e funzioni riservati ai comuni dalle leggi nazionali
e regionali non compare la competenza per l’accreditamento delle strutture
sanitarie, compito che, come sappiamo, è svolto dalle regioni.
Chiarito, pertanto, che i comuni non sono soggetti a nessuna pubblicazione
nella sotto-sezione in parola, resta da definire se è possibile eliminare la
sotto-sezione dall’alberatura.
A parere di chi scrive, la risposta è negativa dal momento che il d.lgs.
33/2013, all’art. 48, comma 4, prevede che gli standard e i modelli
dell’Alberto della Trasparenza debbano assicurare “la soddisfazione delle
esigenze di uniformità delle modalità di codifica e di rappresentazione
delle informazioni e dei dati pubblici”.
In aggiunta, si ricorda che l’Allegato A, del d.lgs. 33/2013, ben specifica
che le sotto-sezioni devono essere denominate esattamente come indicato in
Tabella 1, lasciando chiaramente intendere che la struttura di
Amministrazione trasparente non è modificabile a piacere dai singoli enti.
La stessa ANAC, a conferma di quanto sopra, suggerisce che non è
consigliabile lasciare le sotto sezioni vuote. L’Autorità considera questi
casi specifici, infatti, come omessa pubblicazione. Meglio inserire una
dicitura (o un documento) che dia conto delle motivazioni della mancanza dei
contenuti. Nel caso del vostro comune la dicitura che si consiglia di
inserire è la seguente: “Disposizione non applicabile al comune. La
sezione è di esclusiva competenza delle amministrazioni facenti capo al
Servizio Sanitario Nazionale”.
Chiudiamo con un piccola curiosità.
Per formulare la presente risposta ci è capitato di consultare numerosi siti
web, sezione Amministrazione trasparente di alcune pubbliche
amministrazioni. Tra queste, per esempio, il sito della presidenza del
Consiglio dei ministri, il Ministero della Salute, Ministero Interno,
Giustizia, MIT, MIUR, Esteri e Ministero dello sviluppo economico (MISE).
Oppure, restando ai comuni, quelli di Milano, Bologna, Roma e Napoli. Come
verifica finale abbiamo pensato di andare a consultare l’Albero della
Trasparenza di ANAC (se non lo sanno loro…)
Ebbene, in nessuno di questi siti, nella sezione Amministrazione
Trasparente, compare il link “Strutture sanitarie private accreditate”,
che risulta presente, invece, nei siti web del Garante privacy italiano,
CNEL, ANCI (Ass. Comuni Italiani), Ministero della Difesa, AGID-Agenzia per
l’Italia Digitale, Corte dei Conti, comune Trento, comune Catanzaro, Camera
Commercio Padova, Le Gallerie degli Uffizi, eccetera eccetera.
Quindi, la risposta, revisionata, al quesito diventa la seguente “fate
come volete”
(30.06.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Diffusione
nominativi defunti covid-19 e tutela dei dati personali.
Domanda
Nel nostro Comune, da molti giorni non si registrano più nuovi contagi, ma
il bollettino delle vittime purtroppo è stato elevato.
In occasione della cerimonia per festa del Patrono, il sindaco avrebbe
intenzione di ricordare pubblicamente i nostri concittadini deceduti in
conseguenza del COVID-19, ma vorremmo sapere se ci sono problemi di privacy.
Risposta
Il quesito posto richiede una premessa relativa al trattamento dei dati
personali delle persone decedute.
Il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del
27.04.2016 (GDPR), non contempla una disciplina specifica in merito,
rinviando alla legislazione degli Stati membri. La clausola di salvaguardia
contenuta nel Considerando 27, prevede che il presente regolamento non si
applica ai dati personali delle persone decedute. Gli Stati membri possono
prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle persone
decedute?
Il decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 (Codice Privacy italiano), come
ampiamente modificato dal decreto legislativo 10.08.2018, n. 101,
disciplina, all’art. 2-terdecies, i diritti riguardanti le persone decedute,
disponendo, al comma 1, che i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del
Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono
essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela
dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari
meritevoli di protezione. Da ciò deduce che i dati personali del defunto
meritano tutela sia nell’interesse del defunto stesso che dei suoi
familiari.
Sul punto si espresso chiaramente il Garante per la protezione dei dati
personali (Garante Privacy italiano)
il 10.02.2019, con riferimento ad un diniego di accesso da parte
di una azienda sanitaria al percorso clinico di un paziente, affermando che
“ai dati personali concernenti le persone decedute continuano ad
applicarsi le tutele previste dalla disciplina in materia di protezione dei
dati personali”.
Nel caso di specie occorre, peraltro, tener conto della circostanza che si
tratta di persone decedute per contagio da COVID-19.
Come noto il Garante privacy, sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, ha
ritenuto ammissibili le limitazioni del diritto alla privacy soltanto se
giustificate dall’esigenza di contenere il contagio e dunque nella misura
strettamente necessaria alla tutela del diritto alla salute della
collettività
Il Comune detiene i nominativi dei soggetti colpiti da COVID-19 per finalità
connesse alla gestione dell’emergenza e non può farne un uso diverso.
Inoltre, la diffusione di dati relativi alla salute è vietata espressamente
dall’art. art. 2-septies, comma 8 del Codice Privacy.
Il Garante Privacy ha ricevuto segnalazioni e reclami con i quali viene
lamentata, da parte dei familiari, la diffusione sui canali social e sugli
organi di stampa, anche on-line, di dati personali riguardanti soggetti
risultati positivi al Covid 19. Nello stigmatizzare questo comportamento
degli organi di stampa,
il Garante precisa che l’obbligo di rispettare la dignità e la
riservatezza dei malati vige anche per gli utenti dei social, a cominciare
da alcuni amministratori locali, che spesso diffondono dati personali di
persone decedute o contagiate senza valutarne interamente le conseguenze per
gli interessati e per i loro famigliari.
Seppure l’iniziativa del comune finalizzata semplicemente a celebrare la
memoria dei propri concittadini, considerate le circostanze della malattia e
del decesso, è possibile che i parenti delle vittime vogliano mantenere il
silenzio. A fronte di tale iniziativa, pertanto, non si può escludere il
rischio di denunce nei confronti del comune per cui si consiglia, quanto
meno, di acquisire il consenso dei familiari (23.06.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Indicizzazione
dei dati: quando è vietata.
Domanda
Il nostro Nucleo di Valutazione ci ha fatto notare che nell’attestazione da
compilare per la rilevazione di quest’anno sugli obblighi di pubblicazione
in Amministrazione Trasparente, c’è una novità riferita alle modalità
adottate dall’ente per indicizzare o meno i dati pubblicati.
Cosa riguarda? Cosa dobbiamo fare?
Risposta
Il principale riferimento normativo rispetto a quanto l’Autorità Nazionale
Anti Corruzione (ANAC) chiede di dichiarare nel documento di attestazione, a
cura degli Organismi Indipendenti di Valutazione –OIV– (o dei Nucleo di
Valutazione), in occasione della rilevazione 2020 sulle pubblicazioni di
Amministrazione Trasparente, è il cosiddetto decreto Milleproroghe (n. 162
del 30.12.2019), che prevede lo slittamento di una serie di termini
legislativi in materia finanziaria, di organizzazione di pubbliche
amministrazioni e magistrature.
Tra le varie disposizioni sostanziali, il Milleproroghe, l’articolo 1, comma
7-ter, nel testo introdotto dalle legge di conversione n. 8 del 28.02.2020,
stabilisce che “non è comunque consentita l’indicizzazione dei dati e
delle informazioni oggetto del regolamento di cui al comma 7”,
diversamente da quanto dispone in merito il decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) che evidenzia, invece, l’obbligo di indicizzazione in due
specifiche norme:
• all’articolo 9, comma 1;
• articolo 7-bis, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016.
Il regolamento interministeriale citato con riguardo ai dati non
indicizzabili, non è ancora stato adottato (lo sarà entro il 31.12.2020,
salvo proroghe) e si riferisce, in particolare, ai dati e alle informazioni
relativi ai titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre
ai dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali, così
come evidenziati dall’articolo 14, comma 1, del d.lgs. 33/2013, come
modificato dal d.lgs. 97/2016. Tale regolamento, avrà lo scopo di
individuare con precisione i dati e le informazioni –riguardanti i soggetti
citati– che saranno oggetto di pubblicazione nella sezione di
Amministrazione Trasparente del sito web istituzionale, sulla base di
determinati criteri, secondo il (giusto) principio della “graduazione
dell’obbligo”.
Pertanto, possiamo rappresentare il quadro normativo nel modo seguente:
1. il decreto Trasparenza prevede l’obbligo generale di indicizzare
i dati, evitando di disporre filtri o altre soluzioni tecnico–informatiche
che impediscono ai motori di ricerca di rintracciare dati e informazioni
pubblicate nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione
Trasparente, permettendo, quindi, il loro riutilizzo nel rispetto dei
principi sul trattamento dei dati personali;
2. il decreto Milleproroghe introduce una misura di tutela
disponendo, invece, che non siano indicizzabili i soli dati relativi ai
titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre ai
dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
È importante evidenziare che fino al 31.12.2020 –data ultima in cui il
regolamento interministeriale dovrà essere adottato– risultano sospese le
sanzioni disposte dal decreto Trasparenza (articoli 46 e 47) per la mancata
pubblicazione dei dati e delle informazioni citate sopra al punto 2), nelle
more dell’adozione di provvedimenti che chiariscano la questione sollevata
dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 23.01.2020.
Comunque, gli obblighi di pubblicazione di tali dati continuano a permanere!
È stata temporaneamente sospesa solamente l’applicazione delle sanzioni.
Tornando a quanto riportato sul documento di attestazione, che deve essere
compilato dall’Organismo Indipendente di Valutazione –OIV– (o dal Nucleo di
Valutazione) in occasione della rilevazione 2020 sull’adempimento degli
obblighi di pubblicazione in Amministrazione Trasparente, l’ente deve
dichiarare, quindi, di essersi o meno già allineato alla normativa,
comunicando all’OIV (o al Nucleo) se ha o meno adottato filtri e/o altre
soluzioni tecniche, allo scopo di impedire ai motori di ricerca web di
indicizzare ed effettuare ricerche che abbiano per oggetto i dati e le
informazioni che il legislatore ha individuato come non rintracciabili (16.06.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso a documenti
amministrativi è riconosciuto a chiunque abbia un interesse diretto,
concreto e attuale, che corrisponde ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso, non essendo
pertanto necessaria l'instaurazione di un giudizio bensì sufficiente la
dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva
l'interesse ostensivo, pertanto la legittimazione all'accesso agli atti
della P.A. va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti
oggetto dell'accesso hanno prodotto o possano produrre effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione
giuridica.
---------------
L’art. 24 L. 241/1990 -dopo aver previsto,
al comma 1, le fattispecie nelle quali il diritto di accesso è escluso- al
comma successivo affida alle singole amministrazioni il compito di
individuare “le categorie di documenti da esse formati o comunque
rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma
1”.
L’ANAC, nel dare attuazione a tali disposizioni con il Regolamento del
24.10.2018, non si è limitata a indicare (all’art. 22) i documenti esclusi
dall’accesso per motivi di riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese
e (all’art. 23) i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti la
sicurezza e le relazioni internazionali, ma ha previsto (all’art. 24)
un’ulteriore categoria di documenti sottratti all’accesso “per motivi di
segretezza e riservatezza dell’Autorità”, che comprende:
“a) le note, gli
appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra elaborazione con funzione di
studio e di preparazione del contenuto di atti o provvedimenti ad eccezione
delle parti che costituiscono motivazione per relationem dell’atto o
provvedimento, opportunamente oscurate nel rispetto della normativa sulla
riservatezza;
b) i pareri legali relativi a controversie in atto o
potenziali e la inerente corrispondenza, salvo che gli stessi costituiscano
presupposto logico giuridico di provvedimenti assunti dall’Autorità e siano
in questi ultimi richiamati;
c) gli atti e la corrispondenza inerenti la
difesa dell’Autorità nella fase precontenziosa e contenziosa e i rapporti
rivolti alla magistratura contabile e penale;
d) i verbali delle riunioni
del Consiglio nelle parti riguardanti atti, documenti ed informazioni
sottratti all’accesso o di rilievo puramente interno; e) i documenti
inerenti l’attività relativa all'informazione, alla consultazione e alla
concertazione e alla contrattazione sindacale, fermi restando i diritti
sindacali previsti anche dai protocolli sindacali”.
Tale ulteriore categoria, che non trova un immediato e diretto riscontro
nell’art. 24 L. 241/1990, deve comunque essere interpretata alla luce della
disciplina generale del diritto di accesso posta dagli articoli 22 e ss.
della predetta legge.
Ne consegue, per quanto qui di interesse, che la
disposizione dell’art. 24, comma 1, lett. a), relativa a “le note, gli
appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra elaborazione con funzione di
studio e di preparazione del contenuto di atti o provvedimenti” non può
trovare applicazione laddove i suddetti atti vadano ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di veri e propri atti
endoprocedimentali.
Ne consegue, altresì, che le disposizioni dell’art. 24, comma 1, lett. a),
devono essere interpretate sia alla luce dell’art. 22, comma 1, lett. d),
della legge n. 241/1990, che assoggetta al diritto di accesso anche gli atti
interni al procedimento, sia alla luce del già richiamato art. 24, comma 1,
della legge n. 241/1990, che indica i documenti sottratti all’accesso.
Ciò comporta che la predetta disposizione, nella parte in cui sottrae
all’accesso “le note, gli appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra
elaborazione con funzione di studio e di preparazione del contenuto di atti
o provvedimenti” risulterebbe in palese contrasto con l’art. 22, comma 1,
lett. d), della legge n. 241/1990 se fosse interpretata nel senso di
escludere tout court tali atti dal diritto di accesso, cioè anche nel caso
in cui assumano la valenza di veri e propri atti endoprocedimentali.
Anche laddove si trattasse di annotazioni, appunti o bozze preliminari, deve
rammentarsi che, secondo la giurisprudenza più risalente, solo le c.d.
minute (intese come semplici appunti finalizzati alla redazione di documenti
veri e propri) e gli scritti informali privi di firma o di sigla non
costituiscono documenti amministrativi in senso proprio (ancorché presenti
nel fascicolo di ufficio).
Peraltro, tale orientamento è stato di recente rivisto, in una vicenda
riguardante l’accesso agli atti dell’AGCM, nel senso che "ogni “atto interno”
afferente al momento decisorio … in quanto tale, rientra nel perimetro
oggettivo dell’accesso documentale”, purché tale atto sia materialmente
esistente e detenuto dall’amministrazione.
---------------
5. Sempre in via preliminare si osserva che sussiste un interesse della
parte ricorrente ad accedere agli atti richiesti.
Come chiarito da giurisprudenza consolidata (per tutte: TAR Lazio, Roma,
Sez. II-bis, 31.10.2019, n. 12541) “il diritto di accesso a documenti
amministrativi è riconosciuto a chiunque abbia un interesse diretto,
concreto e attuale, che corrisponde ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso, non essendo
pertanto necessaria l'instaurazione di un giudizio bensì sufficiente la
dimostrazione del grado di protezione al bene della vita dal quale deriva
l'interesse ostensivo, pertanto la legittimazione all'accesso agli atti
della P.A. va riconosciuta a chi è in grado di dimostrare che gli atti
oggetto dell'accesso hanno prodotto o possano produrre effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione
giuridica”.
Nel caso di specie la parte ricorrente ha esplicitato di riservare eventuali
iniziative giudiziarie, che non necessariamente devono ritenersi
circoscritte all’impugnazione della delibera ANAC n. 780 del 04.09.2019.
Ciò posto va rilevata, fin d’ora, la fondatezza del motivo con il quale la
ricorrente censura i provvedimenti impugnati in quanto accomunati da
un’erronea interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione delle cause
di esclusione del diritto di accesso previste dell’art. 24 del Regolamento
dell’Autorità del 24.10.2018, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Innanzitutto si rammenta che l’art. 24 L. 241/1990 -dopo aver previsto,
al comma 1, le fattispecie nelle quali il diritto di accesso è escluso- al
comma successivo affida alle singole amministrazioni il compito di
individuare “le categorie di documenti da esse formati o comunque
rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma
1”.
L’ANAC, nel dare attuazione a tali disposizioni con il Regolamento del
24.10.2018, non si è limitata a indicare (all’art. 22) i documenti esclusi
dall’accesso per motivi di riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese
e (all’art. 23) i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti la
sicurezza e le relazioni internazionali, ma ha previsto (all’art. 24)
un’ulteriore categoria di documenti sottratti all’accesso “per motivi di
segretezza e riservatezza dell’Autorità”, che comprende:
“a) le note, gli
appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra elaborazione con funzione di
studio e di preparazione del contenuto di atti o provvedimenti ad eccezione
delle parti che costituiscono motivazione per relationem dell’atto o
provvedimento, opportunamente oscurate nel rispetto della normativa sulla
riservatezza;
b) i pareri legali relativi a controversie in atto o
potenziali e la inerente corrispondenza, salvo che gli stessi costituiscano
presupposto logico giuridico di provvedimenti assunti dall’Autorità e siano
in questi ultimi richiamati;
c) gli atti e la corrispondenza inerenti la
difesa dell’Autorità nella fase precontenziosa e contenziosa e i rapporti
rivolti alla magistratura contabile e penale;
d) i verbali delle riunioni
del Consiglio nelle parti riguardanti atti, documenti ed informazioni
sottratti all’accesso o di rilievo puramente interno; e) i documenti
inerenti l’attività relativa all'informazione, alla consultazione e alla
concertazione e alla contrattazione sindacale, fermi restando i diritti
sindacali previsti anche dai protocolli sindacali”.
Tale ulteriore categoria, che non trova un immediato e diretto riscontro
nell’art. 24 L. 241/1990, deve comunque essere interpretata alla luce della
disciplina generale del diritto di accesso posta dagli articoli 22 e ss.
della predetta legge.
Ne consegue, per quanto qui di interesse, che la
disposizione dell’art. 24, comma 1, lett. a), relativa a “le note, gli
appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra elaborazione con funzione di
studio e di preparazione del contenuto di atti o provvedimenti” non può
trovare applicazione laddove i suddetti atti vadano ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di veri e propri atti
endoprocedimentali.
Ne consegue, altresì, che le disposizioni dell’art. 24, comma 1, lett. a),
devono essere interpretate sia alla luce dell’art. 22, comma 1, lett. d),
della legge n. 241/1990, che assoggetta al diritto di accesso anche gli atti
interni al procedimento, sia alla luce del già richiamato art. 24, comma 1,
della legge n. 241/1990, che indica i documenti sottratti all’accesso.
Ciò comporta che la predetta disposizione, nella parte in cui sottrae
all’accesso “le note, gli appunti, le proposte degli uffici ed ogni altra
elaborazione con funzione di studio e di preparazione del contenuto di atti
o provvedimenti” risulterebbe in palese contrasto con l’art. 22, comma 1,
lett. d), della legge n. 241/1990 se fosse interpretata nel senso di
escludere tout court tali atti dal diritto di accesso, cioè anche nel caso
in cui assumano la valenza di veri e propri atti endoprocedimentali (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2015, n. 4481).
Anche laddove si trattasse di annotazioni, appunti o bozze preliminari, deve
rammentarsi che, secondo la giurisprudenza più risalente, solo le c.d.
minute (intese come semplici appunti finalizzati alla redazione di documenti
veri e propri) e gli scritti informali privi di firma o di sigla non
costituiscono documenti amministrativi in senso proprio (ancorché presenti
nel fascicolo di ufficio) (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 23.02.2015, n. 3068).
Peraltro, tale orientamento è stato di recente rivisto, in una vicenda
riguardante l’accesso agli atti dell’AGCM, nel senso che "ogni “atto interno”
afferente al momento decisorio … in quanto tale, rientra nel perimetro
oggettivo dell’accesso documentale” (Cons. Stato, Sez. VI, ord. n. 6340 del
23.09.2019), purché tale atto sia materialmente esistente e detenuto
dall’amministrazione (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 29.05.2920, n.
5736; id. ord. 13.05.2020, n. 5023).
Nel caso di specie gli atti di interesse della parte ricorrente, per come
individuati dall’amministrazione, sono invece veri e propri documenti
amministrativi endoprocedimentali, firmati e muniti di data e protocollo
interno, dunque senz’altro accessibili se non rientranti nell’ambito di
applicazione degli articoli 22 e 23 del Regolamento.
Conclusivamente, per quanto precede, il ricorso per motivi aggiunti deve
essere accolto dovendo l’ANAC consentire l’accesso agli atti richiesti come
innanzi individuati, con eventuale oscuramento di parti sensibili nel
rispetto della normativa sulla riservatezza
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 11.06.2020 n. 6457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Come
osservato dalla giurisprudenza, “nel processo amministrativo impugnatorio la
regola generale è che il ricorso abbia ad
oggetto un solo provvedimento e che i vizi-motivi si correlino strettamente a quest'ultimo,
salvo che tra gli atti impugnati esista una
connessione procedimentale o funzionale (da
accertarsi in modo rigoroso onde evitare la
confusione di controversie con conseguente
aggravio dei tempi del processo, ovvero
l'abuso dello strumento processuale per
eludere le disposizioni fiscali in materia
di contributo unificato), tale da
giustificare la proposizione di un ricorso
cumulativo”.
Nel processo amministrativo, quindi, il
ricorso cumulativo, pur non essendo precluso
in astratto ha, comunque, carattere
eccezionale, che si giustifica se ricorre
una connessione oggettiva tra gli atti
impugnati, in quanto riferibili ad una
stessa ed unica sequenza procedimentale o
iscrivibili all'interno della medesima
azione amministrativa.
Si ritiene, quindi, che la cumulabilità
delle impugnative imponga che tra gli atti
gravati debba potersi rintracciare una
ragione comune per cui, anche se
appartengono a procedimenti diversi, sono
fra loro comunque collegati in un rapporto
di presupposizione o di consequenzialità o
comunque di connessione.
In sostanza, il cumulo delle
cause, richiede un collegamento tra gli atti
di tipo procedimentale tanto da determinare
un quadro unitariamente lesivo degli
interessi del ricorrente (come nel caso
dell’impugnazione congiunta dell’atto
presupposto e di quello conseguenziale),
ovvero è possibile quando gli atti si
fondano su identici presupposti e le censure
proposte implicano la soluzione di identiche
questioni (come, ad esempio, nel caso di
impugnazione di diversi dinieghi in materia
urbanistica fondati sull’interpretazione
delle stesse norme del piano regolatore
generale). Devono ritenersi invece preclusi
i ricorsi cumulativi quando danno origine a
controversie del tutto differenti, prive di
qualunque collegamento tra loro.
---------------
Con specifico riferimento alle gare
pubbliche la giurisprudenza amministrativa
ritiene che, nel caso di presentazione di
offerte per più lotti, l'impugnazione possa
essere proposta con ricorso cumulativo solo
se vengono dedotti identici motivi di
ricorso avverso lo stesso atto.
Si tratta di un orientamento che
viene, in sostanza, “codificato” nella
previsione di cui all’articolo 120, comma
11-bis, c.p.a, introdotto dall'articolo 204,
comma 1, lettera i), del D.Lgs. 18.04.2016,
n. 50.
Secondo
tale orientamento “l'ammissibilità del
ricorso cumulativo degli atti di gara
pubblica resta subordinata
all'articolazione, nel gravame, di censure
idonee ad inficiare segmenti procedurali
comuni (ad esempio il bando, il disciplinare
di gara, la composizione della Commissione
giudicatrice, la determinazione di criteri
di valutazione delle offerte tecniche ecc.)
alle differenti e successive fasi di scelta
delle imprese affidatarie dei diversi lotti
e, quindi, a caducare le pertinenti
aggiudicazioni; in questa situazione,
infatti, si verifica una identità di causa
petendi e una articolazione del petitum che
risulta giustificata dalla riferibilità
delle diverse domande di annullamento alle
medesime ragioni fondanti la pretesa
demolitoria che, a sua volta, ne legittima
la trattazione congiunta”.
Il cumulo di azioni è, quindi,
ammissibile solo a condizione che le domande
si basino sugli stessi presupposti di fatto
o di diritto e/o siano riconducibili
nell'ambito del medesimo rapporto o di
un'unica sequenza procedimentale.
In quest’ultimo caso, infatti, si
ricade nell’ipotesi generale nella quale gli
atti –sebbene formalmente distinti– si
fondano sui medesimi presupposti e le
censure dedotte nei loro confronti sono le
stesse: in tale situazione, infatti, la
diversità degli atti è meramente
nominalistica in quanto hanno tutti il
medesimo contenuto dispositivo, fondandosi
sui medesimi presupposti.
La ricostruzione operata dalla
giurisprudenza sin qui richiamata non pone,
inoltre, problemi di compatibilità del
diritto interno con il diritto dell’Unione
europea.
Infatti, la Corte di Giustizia
dell’Unione europea
afferma: “l’articolo 1 della direttiva
89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative
relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture e lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché i principi di
equivalenza ed effettività devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a
una normativa nazionale che impone il
versamento di tributi giudiziari, come il
contributo unificato oggetto del
procedimento principale, all’atto di
proposizione di un ricorso in materia di
appalti pubblici dinanzi ai giudici
amministrativi”.
Inoltre, secondo la Corte,
“l’articolo 1 della direttiva 89/665, come
modificata dalla direttiva 2007/66, nonché i
principi di equivalenza ed effettività non
ostano né alla riscossione di tributi
giudiziari multipli nei confronti di un
amministrato che introduca diversi ricorsi
giurisdizionali relativi alla medesima
aggiudicazione di appalti pubblici”. Tale
insegnamento della Corte risulta valevole
anche nel caso all’attenzione del Collegio
in quanto la decisione risulta fondata sui
medesimi principi su cui il legislatore
europeo codifica le direttive in materia di
appalti attualmente vigenti.
---------------
19. Prima
di procedere alla disamina nel merito di
tale motivo si deve verificare, tuttavia, la
fondatezza dell’eccezione in ordine al
ricorso per motivi aggiunti ove sono
articolate una serie di censure relative
alle offerte tecniche della controinteressata presentate in relazione ai
lotti 1, 2 e 3.
19.1. Sul punto il Collegio ritiene
opportuno, prima di procedere
all’interpretazione della previsione di cui
all’articolo 120, comma 11-bis, c.p.a.,
richiamare i principi costantemente
affermati dalla giurisprudenza
amministrativa in tema di ricorso
cumulativo.
19.2. Come osservato dalla giurisprudenza,
“nel processo amministrativo impugnatorio la
regola generale è che il ricorso abbia ad
oggetto un solo provvedimento e che i vizi-motivi si correlino strettamente a quest'ultimo,
salvo che tra gli atti impugnati esista una
connessione procedimentale o funzionale (da
accertarsi in modo rigoroso onde evitare la
confusione di controversie con conseguente
aggravio dei tempi del processo, ovvero
l'abuso dello strumento processuale per
eludere le disposizioni fiscali in materia
di contributo unificato), tale da
giustificare la proposizione di un ricorso
cumulativo (Consiglio di Stato, Ad. plen.,
27.04.2015, n. 5; altresì, IV, 26.08.2014, n. 4277; V, 27.01.2014, n. 398;
V, 14.12.2011, n. 6537)” (Consiglio di
Stato, Sez. III, 03.07.2019, n. 4569).
Nel processo amministrativo, quindi, il
ricorso cumulativo, pur non essendo precluso
in astratto ha, comunque, carattere
eccezionale, che si giustifica se ricorre
una connessione oggettiva tra gli atti
impugnati, in quanto riferibili ad una
stessa ed unica sequenza procedimentale o
iscrivibili all'interno della medesima
azione amministrativa (Consiglio di Stato,
Sez. VI, 16.04.2019, n. 2481; Consiglio
di Stato, Sez. III, 07.12.2015 n. 5547;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.03.2010
n. 1617).
Si ritiene, quindi, che la cumulabilità delle impugnative imponga che
tra gli atti gravati debba potersi
rintracciare una ragione comune per cui,
anche se appartengono a procedimenti
diversi, sono fra loro comunque collegati in
un rapporto di presupposizione o di
consequenzialità o comunque di connessione
(Consiglio di Stato, Sez. V, 14.03.2019,
n. 1687).
In sostanza, il cumulo delle
cause, richiede un collegamento tra gli atti
di tipo procedimentale tanto da determinare
un quadro unitariamente lesivo degli
interessi del ricorrente (come nel caso
dell’impugnazione congiunta dell’atto
presupposto e di quello conseguenziale),
ovvero è possibile quando gli atti si
fondano su identici presupposti e le censure
proposte implicano la soluzione di identiche
questioni (come, ad esempio, nel caso di
impugnazione di diversi dinieghi in materia
urbanistica fondati sull’interpretazione
delle stesse norme del piano regolatore
generale). Devono ritenersi invece preclusi
i ricorsi cumulativi quando danno origine a
controversie del tutto differenti, prive di
qualunque collegamento tra loro.
19.3. Con specifico riferimento alle gare
pubbliche la giurisprudenza amministrativa
ritiene che, nel caso di presentazione di
offerte per più lotti, l'impugnazione possa
essere proposta con ricorso cumulativo solo
se vengono dedotti identici motivi di
ricorso avverso lo stesso atto (Consiglio di
Stato, Sez. V, 08.02.2019, n. 948;
Consiglio di Stato, Sez. III, 17.09.2018, n. 5434).
19.4. Si tratta di un orientamento che
viene, in sostanza, “codificato” nella
previsione di cui all’articolo 120, comma
11-bis, c.p.a, introdotto dall'articolo 204,
comma 1, lettera i), del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, (Consiglio di Stato, Sez. III,
04.02.2016, n. 449; Consiglio di Stato, Sez. V, 26.06.2015, n. 3241).
Secondo
tale orientamento “l'ammissibilità del
ricorso cumulativo degli atti di gara
pubblica resta subordinata
all'articolazione, nel gravame, di censure
idonee ad inficiare segmenti procedurali
comuni (ad esempio il bando, il disciplinare
di gara, la composizione della Commissione
giudicatrice, la determinazione di criteri
di valutazione delle offerte tecniche ecc.)
alle differenti e successive fasi di scelta
delle imprese affidatarie dei diversi lotti
e, quindi, a caducare le pertinenti
aggiudicazioni; in questa situazione,
infatti, si verifica una identità di causa
petendi e una articolazione del petitum che
risulta giustificata dalla riferibilità
delle diverse domande di annullamento alle
medesime ragioni fondanti la pretesa
demolitoria che, a sua volta, ne legittima
la trattazione congiunta” (Consiglio di
Stato, Sez. III, 03.07.2019, n. 4569).
19.5. Il cumulo di azioni è, quindi,
ammissibile solo a condizione che le domande
si basino sugli stessi presupposti di fatto
o di diritto e/o siano riconducibili
nell'ambito del medesimo rapporto o di
un'unica sequenza procedimentale (Consiglio
di Stato, Sez. III, 15.05.2018, n.
2892).
In quest’ultimo caso, infatti, si
ricade nell’ipotesi generale nella quale gli
atti –sebbene formalmente distinti– si
fondano sui medesimi presupposti e le
censure dedotte nei loro confronti sono le
stesse: in tale situazione, infatti, la
diversità degli atti è meramente
nominalistica in quanto hanno tutti il
medesimo contenuto dispositivo, fondandosi
sui medesimi presupposti.
19.6. La ricostruzione operata dalla
giurisprudenza sin qui richiamata non pone,
inoltre, problemi di compatibilità del
diritto interno con il diritto dell’Unione
europea. Infatti, la Corte di Giustizia
dell’Unione europea, con la sentenza 06.10.2015 resa nella causa C-61/14,
afferma: “l’articolo 1 della direttiva
89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative
relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture e lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché i principi di
equivalenza ed effettività devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a
una normativa nazionale che impone il
versamento di tributi giudiziari, come il
contributo unificato oggetto del
procedimento principale, all’atto di
proposizione di un ricorso in materia di
appalti pubblici dinanzi ai giudici
amministrativi”.
Inoltre, secondo la Corte,
“l’articolo 1 della direttiva 89/665, come
modificata dalla direttiva 2007/66, nonché i
principi di equivalenza ed effettività non
ostano né alla riscossione di tributi
giudiziari multipli nei confronti di un
amministrato che introduca diversi ricorsi
giurisdizionali relativi alla medesima
aggiudicazione di appalti pubblici”. Tale
insegnamento della Corte risulta valevole
anche nel caso all’attenzione del Collegio
in quanto la decisione risulta fondata sui
medesimi principi su cui il legislatore
europeo codifica le direttive in materia di
appalti attualmente vigenti (cfr., Consiglio
di Stato, Sez. III, 03.07.2019, n. 4569) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.06.2020 n. 1046 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Verbalizzazione
delle attività espletate da un organo collegiale e forma scritta dei
relativi atti.
---------------
●
Atto amministrativo – Atto collegiale – Verbalizzazione – Natura.
●
Atto amministrativo – Forma – Atto collegiale – Forma scritta – Necessità –
Esclusione.
●
La verbalizzazione delle attività espletate da un organo amministrativo
costituisce un atto necessario, in quanto consente la verifica della
regolarità delle operazioni medesime (1).
●
Gli atti adottati da un organo collegiale non devono
necessariamente avere forma scritta (1).
---------------
(1) Ha affermato la
Sezione che secondo la dottrina in materia di studio sugli atti
amministrativi, il verbale può definirsi quale atto giuridico, appartenente
alla categoria delle certificazioni, quale documento avente lo scopo di
descrivere atti o fatti rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di
un funzionario verbalizzante cui è stata attribuita detta funzione.
La verbalizzazione, pertanto, ha l’obiettivo di assicurare e dare conto
della certezza
Un primo carattere importante degli atti verbali consiste nella
documentazione di quanto si è verificato in relazione ad un determinato
accadimento della vita e, nella sua qualità di atto amministrativo, deve
essere distinto rispetto agli atti ed ai fatti che vengono rappresentati e
descritti proprio nelle verbalizzazioni.
Ne è un esempio la deliberazione adottata ad esempio da parte di un certo
organo collegiale che esiste a prescindere dall’atto verbale che ne
riferisce i contenuti.
In relazione alla forma dell’atto amministrativo consistente nel verbale,
occorre aggiungere che, in generale, il diritto amministrativo sancisce un
principio (seppur temperato) di libertà della forma salvo che non sussistono
del diritto positivo delle specifiche norme giuridiche che dispongono invece
una determinata forma richiesta per l’esistenza dell’atto cd. ad substantiam.
Detto principio di libertà della forma, in ogni caso, è relativo alla
possibilità di redazione di un atto in forma scritta senza il rispetto di
particolari metodi solenni.
In sostanza la forma è un elemento che si lega alla dichiarazione,
determinato per legge. Nel diritto amministrativo la forma degli atti è
tendenzialmente libera, potendo l'atto amministrativo rivestire sia la forma
scritta (es. un verbale) sia la forma orale (es. un atto iussivo) sia la
forma simbolica o per immagini (es. un segnale stradale).
In genere è la legge che stabilisce quale forma l'atto debba assumere, in
ossequio ai principi di tipicità e nominatività degli atti. In difetto,
occorre valutare il grado di incidenza dell'atto sulle situazioni giuridiche
dei destinatari e la natura degli interessi in gioco, richiedendosi
preferibilmente la forma scritta nel caso di provvedimenti limitativi della
sfera giuridica altrui.
Se la forma è essenziale, la sua violazione comporta, di regola,
l'annullabilità dell'atto ed il relativo vizio è quello della violazione di
legge.
Se si ritiene, peraltro, che la forma sia un elemento costitutivo all'atto,
la sua mancanza comporta la nullità dell'atto. Se invece la violazione
attiene ad un aspetto meramente formale, che non incide sugli elementi
essenziali, allora il vizio può essere sanato mediante autocorrezione (es.,
in caso di mera irregolarità) ovvero mediante il principio del
raggiungimento dello scopo.
Resta da chiarire che, in ogni caso, la forma dell’atto si distingue
necessariamente rispetto alla documentazione nell’ambito della quale vengono
trascritti gli accadimenti dei fatti occorsi.
Con ciò si afferma, pertanto, che, nel prescindere da un’essenziale esigenza
di forma scritta per la sostanza dell’atto amministrativo, quest’ultimo è
necessariamente documentabile mediante la scrittura od altro strumento da
cui possa trarsi la verificabilità dell’atto o dei fatti avvenuti.
Si tenga inoltre conto che l’art. 22, l. n. 241 del 1990 offre una
definizione di documento amministrativo e cioè ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico
procedimento, detenuti da una Pubblica amministrazione e concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina sostanziale.
Detta disposizione conferma la distinzione ontologica, adottata dallo stesso
diritto positivo, tra atto amministrativo e sua documentazione.
(2) Ha chiarito la Sezione che nello specifico degli atti degli
organi collegiali, di norma la forma scritta non qualifica le decisioni
adottate dagli stessi, potendosi le stesse manifestare mediante forme anche
diverse dallo scritto, come per le votazioni e proclamazione delle stesse.
Successivamente rispetto alle votazioni espresse nell’ambito di un collegio,
si procede a stilare l’atto di deliberazione che, in pratica, riproduce un
atto già di per se valido ed efficace.
In tal caso il documento amministrativo contenente le manifestazioni di
volontà del consesso e ha la funzione di conservare alla memoria la
deliberazione così come è stata adottata.
Pertanto nell’ambito degli organi collegiali, la volontà viene manifestata
mediante formalità che possono essere anche differenti dall’atto scritto.
La documentazione dell’atto, ovvero le deliberazioni, trova la sua fonte
nella verbalizzazione di quanto viene manifestato all’interno della seduta
del consesso.
Detto verbale forma la memoria conservativa rispetto a quanto è accaduto
nell’ambito delle decisioni intraprese dall’assemblea e va a costituire la
documentazione amministrativa necessaria ai fini amministrativi.
Tale verbalizzazione può avvenire, in certi casi, anche nella seduta
successiva, in cui viene dato atto della deliberazione adottata (già
adottata e perfezionata, quindi), nella seduta precedente.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (11 dicembre 2001, n.
6208), infatti, il verbale ha il compito di attestare il compimento dei
fatti svoltisi in modo tale che sia sempre verificabile la regolarità
dell’iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il
controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria una indicazione
minuta delle singole attività che sono state compiute e le singole opinioni
espresse.
Pertanto, distinguendo tra atto documentato e verbale ed anche tra documento
e verbale in cui si conserva l’atto già valido, l’iter logico seguito per
l’adozione di una deliberazione da parte di un organo collegiale deve
risultare dalla delibera stessa e non dal verbale della seduta poiché il
verbale ha l’esclusivo compito di certificare fatti storici già accaduti e
di assicurare certezza a delle determinazioni che sono già state adottate e
che sono già entrate a fare parte del mondo giuridico dal momento della loro
adozione: la mancanza o il difetto di verbalizzazione non comportano,
quindi, l’inesistenza dell’atto amministrativo, poiché a determinazione di
volontà da parte dell’organo è distinta inequivocabilmente dalla sua
proiezione formale.
Il difetto di verbalizzazione, in sintesi, non comporta l’inesistenza
dell’atto amministrativo, dato che la determinazione volitiva dell’organo è
ben distinta dalla sua proiezione formale (Cons.
St., sez. IV, 18.07.2018, n. 4373), confermandosi, così, la
distinzione tra atto deliberato e sua verbalizzazione.
Dal punto di vista contenutistico, di conseguenza, l’atto di verbalizzazione,
ha una funzione di certificazione pubblica, contiene e rappresenta i fatti e
gli atti giuridicamente rilevanti che è necessario siano conservati per le
esigenze probatorie con fede privilegiata - dal momento che sono redatti da
un pubblico ufficiale - che si sostanzia essenzialmente nella attendibilità
in merito alla provenienza dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al
pubblico ufficiale ed ai fatti innanzi a lui accaduti (Cass., sez. I, 3
dicembre 2002, n. 17106).
Infine, deve rammentarsi, che, secondo la maggioritaria giurisprudenza
amministrativa, con la quale si concorda pienamente, il verbale non deve
essere necessariamente prodotto ed approvato in contemporaneità con la
seduta dell’organo collegiale, ma può essere prodotto anche in un momento
successivo al provvedimento deliberativo adottato durante la seduta (Cons.
St. n. 1189 del 2001).
Peraltro, la non ascrivibilità del verbale agli atti collegiali comporta che
la sottoscrizione di tutti i componenti del collegio non è essenziale per la
sua esistenza e validità, che possono essere incise solo dalla mancanza
della sottoscrizione del pubblico ufficiale redattore, ovvero dalla mancata
indicazione delle persone intervenute
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 04.06.2020 n. 3544 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo
noti principi, il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza
automatica dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo illegittimo, essendo necessario che il danneggiato alleghi e
provi non solo la lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall'ordinamento, ma anche la sussistenza di un danno ingiusto, il nesso
causale tra condotta ed evento, nonché la colpa o il dolo della pubblica
amministrazione.
In particolare, il risarcimento del danno “da ritardo”, relativo ad un
interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione
concernente la spettanza del bene della vita e deve essere subordinato, tra
l'altro, anche alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene
sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
Dunque, il mero ritardo nell'adozione del provvedimento non giustifica, di
per sé, il riconoscimento di un danno risarcibile.
---------------
3.1. Giova premettere che, secondo noti principi, il risarcimento del danno
non costituisce una conseguenza automatica dell'annullamento giurisdizionale
di un provvedimento amministrativo illegittimo, essendo necessario che il
danneggiato alleghi e provi non solo la lesione della situazione soggettiva
di interesse tutelata dall'ordinamento, ma anche la sussistenza di un danno
ingiusto, il nesso causale tra condotta ed evento, nonché la colpa o il dolo
della pubblica amministrazione.
In particolare, il risarcimento del danno “da ritardo”, relativo ad
un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione
concernente la spettanza del bene della vita e deve essere subordinato, tra
l'altro, anche alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene
sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
Dunque, il mero ritardo nell'adozione del provvedimento non giustifica, di
per sé, il riconoscimento di un danno risarcibile (Consiglio di Stato, sez.
IV, 15/07/2019, n. 4951)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.06.2020 n. 429 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
principio di buon andamento impegna la P.A. ad adottare gli atti il più
possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizza quindi anche il
riesame degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze sopravvenute
ovvero da un diverso apprezzamento della situazione preesistente; il potere di autotutela decisoria in
capo all'Amministrazione non ha in verità come unica finalità il mero
ripristino della legalità, costituendo una potestà discrezionale che deve
contemplare la verifica di determinate condizioni, previste dall'ordinamento
e concernenti l'opportunità di correggere l'azione amministrativa svoltasi
illegittimamente.
Anche i provvedimenti di annullamento in autotutela in
materia di governo del territorio sono attratti all'alveo normativo dell'art. 21-nonies
della Legge n. 241 del 1990 che, per effetto delle riforme introdotte dal
Legislatore, ha riconfigurato il relativo potere attribuendo
all'Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si esprime
attraverso la valutazione dell'interesse pubblico in comparazione con
l'affidamento del destinatario dell'atto; in particolare, in applicazione
dei principi espressi anche dall'Adunanza plenaria, i
presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli
edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento e
dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal
mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
L'esercizio del potere di autotutela è dunque, anche in materia di governo
del territorio, espressione di una rilevante discrezionalità che non esime
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza
dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere
conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in
materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che
possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli
contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del
privato che ha indotto in errore l'Amministrazione; quanto appena richiamato in termini di principio, va
all'evidenza esteso a quella peculiare tipologia di titoli edilizi derivanti
da sanatorie speciali.
---------------
Rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo
grado) adottati anteriormente all'attuale versione dell'art. 21-nonies della
Legge n. 241/1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a
decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, fatta
salva, comunque, l'operatività del “termine ragionevole” già previsto
dall’originaria versione del medesimo art. 21-nonies.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che,
assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine
“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di
secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento
dell’adozione – momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che
essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento
autorizzativo (di primo grado).
E’ bene aggiungere che il Decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto
idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con
modificazioni, dalla Legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno
sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, rappresentato
da «diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici»; a prescindere
dall’applicabilità ratione temporis, detta disposizione in ogni caso rileva
ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi
rilevanti.
---------------
4. Il Collegio ritiene che la causa sia fondata e meriti
accoglimento nei termini che seguono.
In definitiva parte ricorrente lamenta l’esercizio del potere di autotutela
in violazione della Legge n. 124/2015 e del principio di affidamento, nonché
l’erroneità dell’istruttoria nella parte in cui si è ritenuto che l’istanza
di sanatoria fosse stata presentata oltre il termine di novanta giorni
dall’adozione dell’ordinanza di demolizione, quando dunque era già maturato
l’effetto acquisitivo in capo al Comune di Aversa.
Così sinteticamente riassunte le questioni oggetto di contenzioso, appare
opportuno richiamare in questa sede le coordinate ermeneutiche elaborate
dalla giurisprudenza in materia.
4.1 In via preliminare va evidenziato che il principio di buon andamento
impegna la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai fini da
conseguire ed autorizza quindi anche il riesame degli atti adottati, ove
reso opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso
apprezzamento della situazione preesistente (TAR Calabria, Reggio
Calabria, 24.10.2007, n. 1077; Cons. Stato, V, n. 508/1999; n. 1263/96; VI,
29.03.1996, n. 518; 30.04.1994, n. 652); il potere di autotutela decisoria in
capo all'Amministrazione non ha in verità come unica finalità il mero
ripristino della legalità, costituendo una potestà discrezionale che deve
contemplare la verifica di determinate condizioni, previste dall'ordinamento
e concernenti l'opportunità di correggere l'azione amministrativa svoltasi
illegittimamente.
Anche i provvedimenti di annullamento in autotutela in
materia di governo del territorio sono attratti all'alveo normativo dell'art. 21-nonies
della Legge n. 241 del 1990 che, per effetto delle riforme introdotte dal
Legislatore, ha riconfigurato il relativo potere attribuendo
all'Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si esprime
attraverso la valutazione dell'interesse pubblico in comparazione con
l'affidamento del destinatario dell'atto; in particolare, in applicazione
dei principi espressi anche dall'Adunanza plenaria (17.10.2017, n. 8), i
presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli
edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento e
dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal
mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
L'esercizio del potere di autotutela è dunque, anche in materia di governo
del territorio, espressione di una rilevante discrezionalità che non esime
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza
dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere
conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in
materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che
possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli
contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del
privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, IV,
07.09.2018, n. 5277); quanto appena richiamato in termini di principio, va
all'evidenza esteso a quella peculiare tipologia di titoli edilizi derivanti
da sanatorie speciali.
4.2 Ora parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 della Legge n. 124/2015
(cd. “Legge Madia”) allorché il Permesso di costruire in sanatoria del
25/09/2006 è stato oggetto di autotutela con l’impugnato provvedimento del
27/12/2018, ma il Collegio ritiene più correttamente di chiarire che
l'annullamento è stato connotato dall’art. 21-nonies, come appunto modificato
con Legge entrata in vigore il 28.08.2015, in termini di rinnovata
manifestazione, entro un termine ragionevole, della funzione amministrativa;
proprio con riguardo all’art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 come appunto
innovato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1 della Legge n. 124/2015
(“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20”), la Sezione ritiene che -nella disamina della sussistenza dei
presupposti per l'esercizio delle prerogative di autotutela- vada per prima
cosa esaminato l’aspetto riguardante la tempistica.
In proposito si
ribadisce (cfr. sentenze n. 5648 del 29.11.2019; n. 6325 del 29.10.2018 alla
cui ampia motivazione e alla giurisprudenza richiamata si rinvia, ai sensi
dell'art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a., per la preliminare e sintetica
ricostruzione del quadro normativo di riferimento riguardante la
tempestività dell’intervenuto annullamento) che, rispetto ai provvedimenti
illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all'attuale versione
dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, il termine dei diciotto mesi non
può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova
disposizione, fatta salva, comunque, l'operatività del “termine ragionevole”
già previsto dall’originaria versione del medesimo art. 21-nonies (Cons.
Stato, VI, 08.05.2019, n. 2974; V, 19.01.2017, n. 250; VI, 13.7.2017, n. 3462).
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che,
assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine
“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di
secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento
dell’adozione – momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che
essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento
autorizzativo (di primo grado).
E’ bene aggiungere (Cons. Stato, VI, 10.12.2015, n. 5625) che il
Decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto
idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con
modificazioni, dalla Legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno
sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, rappresentato
da «diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici»; a prescindere
dall’applicabilità ratione temporis, detta disposizione in ogni caso rileva
ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.05.2020 n. 2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Adempimenti approvazione PTPCT.
Domanda
È possibile conoscere quali adempimenti dobbiamo svolgere dopo che la Giunta
del nostro comune ha approvato il Piano Triennale Anticorruzione? Il Piano
va spedito alla Funzione pubblica e all’ANAC?
Risposta
La legge anticorruzione (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 8,
prevede che le pubbliche amministrazioni, entro il 31 gennaio di ogni anno,
debbano approvare il Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e ne curano la trasmissione all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC).
L’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd:
decreto Trasparenza) prevede che ogni amministrazione ha l’obbligo di
pubblicare sul proprio sito istituzionale nella sezione: “Amministrazione
trasparente”, il Piano Anticorruzione.
L’ANAC, in vari suoi documenti e da ultimo nel Piano Nazionale
Anticorruzione 2019, approvato con delibera n. 1064 del 13.11.2019
(Paragrafo 6), ha specificato che nessun piano –contrariamente a quanto
previsto nella legge Severino– deve essere inviato all’ANAC.
Per non disattendere completamente la disposizione legislativa, l’Autorità,
in collaborazione con due università italiane, ha sviluppato una piattaforma
on-line sul sito web istituzionale. La piattaforma è attiva dal 01.07.2019
ed è finalizzata alla rilevazione delle informazioni sulla predisposizione
dei PTPCT e sulla loro attuazione.
Al momento, la piattaforma ha carattere sperimentale e, nella prima fase, è
stata delimitata l’operatività della stessa unicamente alle amministrazioni
pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (quindi, anche
agli enti locali), agli enti pubblici economici, agli ordini professionali e
alle società in controllo pubblico.
Con un comunicato datato 22.04.2020 –pubblicato nel sito web dell’ANAC il
04.05.2020– l’Autorità ha chiarito che l’acquisizione dei dati sui PTPCT,
tramite la piattaforma, avviene esclusivamente mediante la compilazione di
specifici moduli predisposti dall’Autorità e mai attraverso l’invio o il
caricamento di documenti. In aggiunta, viene specificato che i dati sui
PTPCT riferiti al triennio 2020-2022, non vanno ancora inseriti sulla
piattaforma. L’Autorità fornirà, prossimamente, sul sito istituzionale
specifiche informazioni in merito alle modalità di acquisizione di tali
dati.
Chiarito il quadro complessivo, si risponde allo specifico quesito,
illustrando che:
a) Il PTPCT 2020/2022 deve essere pubblicato, entro un mese
dall’adozione (sostiene l’ANAC, ma non la legge) nel sito web dell’ente,
nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione
della corruzione. Il Piano va pubblicato anche nella sottosezione
Disposizioni generali > Piano Triennale per la prevenzione della corruzione
e trasparenza, dove, per evitare inutili duplicazioni, è possibile inserire
un link che apra la prima sottosezione;
b) è opportuno, ma non previsto da alcuna disposizione, che il
Piano, approvato con deliberazione della Giunta, venga altresì trasmesso: al
Responsabile Anticorruzione dell’ente e ai suoi referenti; ai dirigenti o
posizioni organizzative (figure apicali), ai componenti dell’OIV o Nucleo di
Valutazione.
Il PTPCT comunale, dunque, NON va trasmesso all’ANAC, né al dipartimento
della Funzione pubblica, come previsto, invece, per le (sole) pubbliche
amministrazioni centrali (art. 1, comma 5, legge 190/2012). Per il
caricamento dei dati riferiti al Piano 2020/2022 nella Piattaforma ANAC
occorre attendere le ulteriori disposizioni che l’Autorità emanerà (19.05.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sospensione
dei termini in materia di accesso.
Domanda
L’amministrazione deve ancora dare riscontro ad una richiesta di accesso
civico generalizzato, pervenuta in data 12.02.2020.
È possibile applicare l’articolo 103, del decreto Cura Italia o esiste una
diversa disposizione in merito ai termini del procedimento per l’accesso?
Quale è precisamente il termine entro cui deve rispondere l’amministrazione?
Risposta
Il comma 1, dell’articolo 103, del decreto- legge 18/2020, detta una
disposizione di carattere generale, che si applica a tutti i procedimenti
amministrativi, sia ad istanza di parte che d’ufficio, pendenti alla data
del 23.02.2020 o iniziati successivamente a tale data, in relazione ai quali
dispone che, ai fini del computo dei termini, non si tiene conto del periodo
compreso tra tale data e il 15.04.2020. L’art. 37, comma 1, del decreto
legge 08.04.2020, n. 23, ha prorogato tale termine al 15.05.2020.
Le uniche eccezioni all’applicazione della sospensione dei termini sono
quelle previste dai commi 3 e 4, del medesimo articolo 103, del d.l. 18/2020
[1].
Considerato che il comma 3, esclude l’applicazione di tale disposizione nel
caso di termini stabiliti da specifiche disposizioni dello stesso
decreto-legge, occorre verificare che non vi sia una norma speciale
concernente i termini del procedimento di accesso generalizzato.
Con una interpretazione evidentemente bizzarra, qualche commentatore ha
ritenuto che il comma 3, dell’articolo 67, potesse consentire una
sospensione fino al 31.05.2020.
Tale norma prevede che “Sono, altresì, sospese, dall’8 marzo al
31.05.2020 … le risposte alle istanze formulate ai sensi dell’articolo 22
della legge 07.08.1990, n. 241, e dell’articolo 5 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33”, ma si inserisce nella disciplina speciale
concernente la “sospensione dei termini relativi all’attività degli
uffici degli enti impositori”. Essa, dunque, si applica soltanto ai
procedimenti di accesso del settore dell’amministrazione fiscale, come
precisato dal Dipartimento della Funzione Pubblica, in apposito
Comunicato del 3 aprile.
Si richiamano anche i due Comunicati del 3 aprile e del 9 aprile pubblicati
sul sito del Centro nazionale di competenza FOIA (istituito presso il
Dipartimento della Funzione Pubblica). È certo, pertanto, che “La
sospensione dei termini, data la sua portata generale, interessa anche i
procedimenti in materia di accesso, incluso l’accesso civico generalizzato.
Pertanto, ove nel periodo compreso tra il 23 febbraio e il 15.05.2020 siano
pendenti richieste di accesso civico generalizzato (o di altro tipo), le
amministrazioni possono avvalersi della sospensione del termine di
conclusione dei relativi procedimenti per il periodo indicato (23
febbraio-15.05.2020)”.
Ad una lettura attenta, anche il Comunicato del 9 aprile dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC) concernente “Indicazioni in merito
all’attuazione delle misure di trasparenza di cui alla legge 06.11.2012, n.
190, e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella fase dell’emergenza
epidemiologica da Covid-19 e all’attività di vigilanza e consultiva dell’ANAC”,
nel menzionare i diversi termini di sospensione del comma 3, dell’art. 67,
ricorda che essi valgono per i soli enti impositori.
In merito al computo del nuovo termine a disposizione dell’amministrazione,
trattandosi di sospensione e non di interruzione, occorre tener conto
soltanto del tempo residuo, da aggiungere al termine della sospensione (15
maggio).
Rispondendo nello specifico al quesito, considerato che la richiesta di
accesso è pervenuta il 12 febbraio –e dunque, al momento della sospensione
(23 febbraio) erano decorsi 10 giorni,– restano da aggiungere 20 giorni,
pertanto il nuovo termine scadrà il 04.06.2020.
È auspicabile, tuttavia, che l’amministrazione, in applicazione dei principi
di buona amministrazione, proceda il più celermente possibile a dare
riscontro all’istanza. L’art. 103, opportunamente precisa che “Le
pubbliche amministrazioni adottano ogni misura organizzativa idonea ad
assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei
procedimenti, con priorità per quelli da considerare urgenti, anche sulla
base di motivate istanze degli interessati.”.
---------------
[1] 3. Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano ai
termini stabiliti da specifiche disposizioni del presente decreto e dei
decreti-legge 23.02.2020, n. 6, 02.03.2020, n. 9 e 08.03.2020, n. 11, nonché
dei relativi decreti di attuazione.
4. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai pagamenti di
stipendi, pensioni, retribuzioni per lavoro autonomo, emolumenti per
prestazioni di lavoro o di opere, servizi e forniture a qualsiasi titolo,
indennità di disoccupazione e altre indennità da ammortizzatori sociali o da
prestazioni assistenziali o sociali, comunque denominate nonché di
contributi, sovvenzioni e agevolazioni alle imprese comunque denominati
(05.05.2020 - link a www.publika.it). |
aprile 2020 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
COVID-19: sospensione dei termini amministrativi e possibilità di provvedere
nelle more. Esiste la possibilità per le amministrazioni di dar
corso a procedimenti amministrativi e adottare provvedimenti pur in pendenza
del periodo di sospensione disposto dall'art. 103 del d.l. n. 18/2020?
(23.04.2020 - link a www.dirittopa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La pubblicazione delle ordinanze del sindaco per l’emergenza sanitaria da
COVID-19.
Domanda
Nell’ambito dell’emergenza sanitaria da COVID-19, il sindaco ha emesso
numerose ordinanze di carattere contingibile e urgente.
Dove si devono pubblicare tali atti ai fini della trasparenza?
Risposta
La potestà del sindaco di emettere ordinanze contingibili ed urgenti, in
caso di emergenze sanitari o di igiene pubblica, è rinvenibile nell’art. 50,
comma 5, del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, laddove vengono elencate le competenze del
sindaco, in qualità di capo dell’amministrazione.
Analoga facoltà è contenuta anche nell’articolo 32, comma 3, della legge
23.12.1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale.
In relazione alla eccessiva creatività e senso spiccatamente pirotecnico di
alcuni sindaci, sprigionato in modo irrefrenabile, soprattutto nella prima
fase di contagio, il Governo è stato costretto ad intervenire, con somma
urgenza, inserendo una specifica clausola nel decreto-legge 25.03.2020, n.
19, laddove all’articolo 3, comma 2, si specifica che: "2. I Sindaci non
possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti
dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né
eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1.".
Chiarito il percorso normativo che precede l’adozione di una ordinanza
sindacale, è possibile rispondere al quesito richiamando il contenuto
dell’articolo 42, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cosiddetto:
decreto Trasparenza), il quale prevede che le pubbliche amministrazioni che
adottano provvedimenti contingibili e urgenti e in generale provvedimenti di
carattere straordinario in caso di calamità naturali o di altre emergenze,
ivi comprese quelle relative ai compiti di Protezione civile, sono tenute a
pubblicare:
a) i provvedimenti adottati, con la indicazione espressa delle
norme di legge eventualmente derogate e dei motivi della deroga, nonché
l’indicazione di eventuali atti amministrativi o giurisdizionali
intervenuti;
b) i termini temporali eventualmente fissati per l’esercizio dei
poteri di adozione dei provvedimenti straordinari;
c) il costo previsto degli interventi e il costo effettivo
sostenuto dall’amministrazione.
Tali informazioni vanno pubblicate nella sezione Amministrazione
trasparente > Interventi straordinari e di emergenza, in formato tabellare
aperto, con aggiornamento tempestivo e per la durata di cinque anni, contati
dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello di pubblicazione, per effetto
dell’art. 8 del d.lgs. 33/2013 (14.04.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Provvedimento
di annullamento in autotutela: il TAR ne stabilisce la “scadenza”.
Quando scatta l’illegittimità per il provvedimento in
autotutela che è andato oltre i tempi “ragionevoli”? Ecco il
parere del TAR Sicilia.
Provvedimento di annullamento in autotutela: il TAR si
pronuncia in merito ai suoi termini di scadenza.
Nel caso in esame un consorzio d’ambito territoriale ha
disposto l’annullamento di una delibera, relativa al
conferimento di un incarico professionale, dopo ben 4 anni.
Per questo termine così temporalmente dilatato la decisione
è stata portata di fronte ai giudici amministrativi, che
hanno espresso il loro parere in merito.
Provvedimento di annullamento in autotutela: il TAR ne
stabilisce la “scadenza”
L’autotutela amministrativa può essere definita come quel
complesso di attività con cui ogni Pubblica Amministrazione
risolve i conflitti potenziali o attuali, relativi ai suoi
provvedimenti o alla sue pretese. In questi casi essa
interviene con i mezzi amministrativi a sua disposizione,
tutelando autonomamente la propria sfera d’azione.
Secondo il TAR Scilia-Catania - Sez. III,
sentenza 10.04.2020 n. 776, tuttavia, i
provvedimenti emessi in autotutela hanno una scadenza, e non
possono essere emessi arbitrariamente.
I giudici si sono appellati alla modifica dell’articolo
21-nonies della legge 241/1990, introdotta dall’articolo 6
della legge 124/2015, la quale ha previsto un termine di 18
mesi per l’annullamento.
Secondo i giudici, inoltre, la deliberazione impugnata non
sarebbe sorretta da alcuna motivazione sull’interesse del
professionista. Infatti egli comunque avrebbe completamente
eseguito l’incarico senza osservazioni o contestazioni da
parte del Consorzio.
Inoltre i riferimenti all’interesse pubblico travolto
dall’annullamento sono meramente formali, richiamando un
presunto interesse pubblico all’annullamento. Mentre al
contrario il piano per la sicurezza costituisce elemento
indispensabile per la definizione della procedura di
approvazione del progetto.
Per questo annullare e dunque non utilizzare un piano di
sicurezza già predisposto dal ricorrente risulta contrario a
qualsiasi principio di economicità, efficacia ed efficienza,
nonché non aggravamento dell’azione amministrativa (commento
tratto da www.lentepubblica.it).
---------------
SENTENZA
Il ricorso è fondato.
Risulta infatti fondata, ogni diverso motivo o censura
assorbiti, la censura, contenuta nel secondo motivo di
ricorso, secondo cui sarebbe stata violata la previsione di
adottare il provvedimento di autotutela entro un termine
ragionevole.
Occorre muovere, sul punto, dalle norme applicabili
all’ipotesi di annullamento in autotutela applicabili al
caso di specie ratione temporis.
La norma generale è contenuta nell’art. 21-nonies, comma 1,
della legge 241/1990, che, nel testo vigente ratione
temporis, prevedeva: «Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge».
Parallelamente, vigeva, al tempo dell’emanazione
dell’impugnata delibera di annullamento, l’art. 1, comma
136, della legge 30.12.2004, n. 311, recante Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge finanziaria 2005), che prevedeva: «Al fine
di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le
amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto
l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi
illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora
in corso. L'annullamento di cui al primo periodo di
provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o
convenzionali con privati deve tenere indenni i privati
stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e
comunque non può essere adottato oltre tre anni
dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se
la relativa esecuzione sia perdurante».
Ora, è noto che la giurisprudenza ha variamente interpretato
la ragionevolezza del termine, anche ritenendo che esso
potesse essere anche più lungo di quello triennale di cui al
citato art. 1, comma 136 (ex plurimis, TAR
Lazio–Roma, Sez. II, 02.09.2015, n. 11008).
Nell’odierna controversia non occorre tuttavia valutare come
le due diverse norme possano essere fra loro coordinate ai
fini della loro applicabilità al caso di specie (per un
excursus sulla questione, e per richiami di giurisprudenza,
si rinvia a Cons. Stato, Sez. III, 17.11.2015, n. 5259),
atteso che:
a) le stesse difese del Consorzio resistente danno conto che la
delibera impugnata (che omette di indicare le relative
norme) fonda il proprio potere di annullamento sulla
normativa introdotta dalla legge finanziaria per il 2005;
b) il termine appare comunque irragionevolmente lungo, anche
ove si ritenesse applicabile il citato art. 21-nonies.
Sotto il primo profilo, va anzitutto ricordato che il
provvedimento impugnato è stato emanato oltre quattro anni
dopo la determina da esso annullata; ciò importa il pacifico
superamento del termine triennale di cui al citato comma
136.
Sotto il secondo profilo, va ricordato anzitutto come la
modifica dell’art. 21-nonies citato, introdotta dall’art. 6
della legge 124/2015, prevedendo un «…termine
ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi…»,
ha chiuso il dibattito giurisprudenziale in ordine alla
ragionevolezza di periodi più lunghi, quanto meno in
relazione ai provvedimenti di annullamento emanati
successivamente alla data di entrata in vigore della legge
124/2015 (per un
excursus sulla questione, e per richiami di giurisprudenza, si rinvia
a TAR Lazio–Roma, Sez. I, 03.06.2019, n. 7071); in
proposito, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui comunque «…la novella non
può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini
dello scrutinio dell'osservanza della regola di condotta in
questione…» (Cons. Stato, Sez. VI, 08.05.2019, n. 2974).
Tanto premesso, il Collegio ritiene superato anche il
termine ragionevole di cui all’art. 21-nonies, non solo per
il tempo intercorrente fra l’impugnata delibera di
annullamento e la determina da esso annullata, ma anche alla
luce del tempo trascorso fra la consegna degli elaborati
redatti in dipendenza della determina di affidamento
dell’incarico e l’impugnata delibera di annullamento.
Dalla delibera impugnata risulta infatti che il ricorrente,
in data 17.09.2009, ha trasmesso al Consorzio resistente il
piano di sicurezza e coordinamento; da tale data il
Consorzio resistente ha impiegato più di diciotto mesi per
pervenire all’emanazione dell’impugnata delibera di
annullamento, e ciò fermo restando che l’incarico era stato
conferito oltre quattro anni prima dell’annullamento.
E’ poi da ultimo il caso di osservare che, laddove si
ritenesse applicabile l’art. 21-nonies della legge 241/1990
nel testo vigente ratione temporis, che non
quantifica espressamente il termine “ragionevole”, e
laddove si ritenesse che tale termine ragionevole possa
essere più lungo di quello di cui al citato comma 136,
allora comunque non sarebbe stata effettuata la valutazione
degli interessi in gioco prevista dalla norma quale
ulteriore presupposto per l’annullamento. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Anac
«allenta» gli obblighi della trasparenza e rimette la valutazione alle
amministrazioni.
Anac rende noto che la sospensione dei termini fino al 15 maggio è
applicabile anche alla pubblicazione dei dati e rinvia, sempre fino al
prossimo 15 maggio, l'avvio di nuovi procedimenti di vigilanza sul rispetto
delle misure di trasparenza, sia d'ufficio sia su segnalazione.
Questo in sintesi quanto riportato nel
Comunicato
del Presidente 09.04.2020 (Indicazioni in merito
all’attuazione delle misure di trasparenza di cui alla legge 06.11.2012, n.
190, e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella fase dell’emergenza
epidemiologica da Covid-19 e all’attività di vigilanza e consultiva dell’ANAC) dove
l'Autorità ha fornito indicazioni in merito all'attuazione delle misure di
trasparenza (legge 190/2012 e Dlgs 33/2013) nella fase dell'emergenza
epidemiologica da Covid-19 e all'attività di vigilanza e consultiva dell'Anac.
In proposito, Anac richiama la modifica apportata dall'articolo 37 del Dl
23/2020 (Decreto Liquidità) all'articolo 103 del Dl «Cura Italia», dove si
dispone che la sospensione dei termini relativi ai procedimenti
amministrativi è prorogata alla data del 15.05.2020, in luogo
dell'originaria data fissata al 15 aprile.
L'Autorità ha precisato che la sospensione può essere applicata anche ai
termini per la pubblicazione dei dati previsti dalla legge 190/2012 e dal
decreto legislativo 33/2013, questo nell'ottica di alleviare gli oneri degli
enti e delle amministrazioni impossibilitati a raccogliere i dati che devono
essere oggetto di pubblicazione.
Le amministrazioni e gli enti, dove lo ritengano possibile, continueranno
comunque a pubblicare secondo le consuete modalità e in base a quanto
previsto dalla legge 190/2012, dal Dlgs 33/2013 e dai propri piani triennali
di prevenzione della corruzione e della trasparenza (Ptpct), in pratica Anac
rimette alle singole amministrazioni, fino al 15 maggio, la valutazione
sugli obblighi pubblicitari.
Anac precisa poi che la sospensione dei termini per la pubblicazione dei
dati di cui alla legge 190/2012 e al decreto trasparenza 33/2013 non incide
sulle specifiche disposizioni contenute negli articoli 67 e 99 del Decreto
Cura Italia.
In particolare, l'articolo 67, al comma 3, sospende, per i soli
enti impositori, a far data dall'8 marzo al 31.05.2020, anche la
trattazione delle istanze di accesso documentale (accesso agli atti di cui
all'articolo 22 della legge 241/1990) e delle istanze di accesso civico e
generalizzato (accessi secondo l'articolo 5 del decreto legislativo
33/2013). Mentre l'articolo 99, al comma 5, introduce per le amministrazioni
beneficiarie l'obbligo di pubblicare sul proprio sito internet o, in
assenza, su altro idoneo sito internet, al termine dello stato di emergenza
sanitaria, l'apposita rendicontazione separata per le erogazioni liberali
ricevute a sostegno del contrasto all'emergenza del Coronavirus, per
garantire la trasparenza della fonte e dell'impiego delle liberalità.
Inoltre, Anac, sempre nel Comunicato, afferma di rinviare fino alla data del
15.05.2020 l'avvio di nuovi procedimenti di vigilanza sul rispetto delle
misure di trasparenza, sia d'ufficio che su segnalazione, l'attività di
vigilanza riprenderà dal 15 maggio con modalità graduale, tenendo conto
delle dimensioni organizzative delle amministrazioni e degli enti.
Resta ferma l'attività consultiva esercitata dall'Autorità in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza, ricordando che per la
presentazione delle richieste di parere si possono utilizzare i moduli
allegati al Regolamento del 07.12.2018 da trasmettere all'indirizzo
protocollo@pec.anticorruzione.it (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.04.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione
dati personali per possesso arma da fuoco.
Domanda
Un Agente della Polizia locale chiede la rimozione di un decreto del
Sindaco, adottato nell’anno 2016 e tutt’ora pubblicato nel sito web del
comune nella sezione Albo Pretorio on-line, per la disciplina
dell’assegnazione dell’arma da fuoco, ai componenti del comando di Polizia
locale.
Dobbiamo accogliere la richiesta?
Risposta
Ai sensi della disciplina in materia –articolo 4, Paragrafo 1, n. 1, del
Regolamento UE 2016/679, in materia di privacy– si considera “dato
personale” qualsiasi informazione riguardante una persona fisica
identificata o identificabile (“interessato”). Inoltre, “si
considera identificabile la persona fisica che può essere identificata,
direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un
identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi
all’ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi
caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica,
economica, culturale o sociale”.
Sulla base del su indicato enunciato, il trattamento dei dati personali deve
avvenire nel rispetto dei principi indicati nell’articolo 5, del Regolamento
UE, fra cui viene menzionato quello di “minimizzazione dei dati”,
secondo il quale i dati personali devono essere “adeguati, pertinenti e
limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono
trattati” (Paragrafo 1, lettera c).
Il regolamento UE 2016/679, in aggiunta, al Capo III, Sezione I, articoli da
15 a 21 prevede, in capo agli interessati, alcuni diritti, tra i quali
(articolo 17), il Diritto alla cancellazione, che si sostanzia
nell’ottenere, senza ingiustificato ritardo, la cancellazione dei dati
personali che lo riguardano, nei casi previsti dal Regolamento UE.
Dalla consultazione del documento comunale, effettuata direttamente nel sito
web, è emerso che:
• sono presenti i nominativi di tutti gli Agenti a cui viene
affidata un’arma da fuoco;
• viene riportato, per ciascuno di essi, la data e il luogo di
nascita, nonché l’indirizzo di residenza;
• vengono riportati i dati del decreto Prefettizio che attribuisce,
a ciascuno di loro, la qualifica di Agente di Pubblica sicurezza.
Per quanto sopra, si consiglia, di provvedere con urgenza:
a) ad accogliere la richiesta del dipendente, rimuovendo il decreto
del sindaco, che, tra l’altro, è dell’anno 2016;
b) evitare, per il futuro, di pubblicare simili decreti, dal
momento che è sufficiente la loro notifica agli interessati, indicando
l’autorità e il termine entro cui è possibile presentare ricorso (art. 3,
comma 4, legge 241/1990);
c) non si rinviene alcuna norma di legge che obbliga le P.A. a
pubblicare nel sito web, tali documenti, completi di tutti dati personali,
sopra meglio elencati;
d) verificare se esiste una norma di regolamento (Regolamento del
Corpo di Polizia Locale?) che prevede l’obbligo di pubblicazione del decreto
del sindaco ed eventualmente modificarlo, sopprimendo l’obbligo;
e) assicurarsi che dopo l’eliminazione, il documento non sia più
consultabile in rete, né con i normali motori di ricerca, né con quelli
propri del sito web dell’ente;
f) applicare, per tutti i documenti che vengono pubblicati via web,
all’albo pretorio e/o nella sezione Amministrazione trasparente, il
principio di pertinenza e non eccedenza, in applicazione delle richiamate
disposizioni del Regolamento UE 2016/679 e del documento del Garante privacy
italiano, datato 15.05.2014, recante “Linee guida in materia di
trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti
amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web
da soggetti pubblici e da altri enti obbligati” (07.04.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
giurisprudenza pacifica, malgrado il mero ripristino della presunta legalità
violata non possa di per sé sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha
tuttavia luogo ogni qualvolta la posizione del destinatario del
provvedimento rimosso si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla
sua legittimità, essendo in tale caso l'esercizio del potere di secondo
grado subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale all'annullamento, prevalente su quello del privato alla
conservazione del titolo legittimo.
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie,
l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece
necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua
comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi,
l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa”.
---------------
In
base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c. 2, L. n. 241/1990, “è fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico” che, nel caso di specie,
risultano tuttavia assenti, sia in ragione della palese violazione dell’art.
6-bis L. n. 241/1990, e del sotteso interesse pubblico di rango
costituzionale al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione
amministrativa, che del breve lasso di tempo intercorso tra il provvedimento
e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della
discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere,
non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza
dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale.
---------------
III.1) Con il secondo motivo, l’istante lamenta la mancanza di un
concreto interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela, ciò che
ne renderebbe illegittimo l’esercizio.
Il motivo è infondato considerato che, per giurisprudenza pacifica, malgrado
il mero ripristino della presunta legalità violata non possa di per sé
sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha tuttavia luogo ogni qualvolta la
posizione del destinatario del provvedimento rimosso si sia consolidata,
suscitando un affidamento sulla sua legittimità, essendo in tale caso
l'esercizio del potere di secondo grado subordinato alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento, prevalente su quello
del privato alla conservazione del titolo legittimo (TAR Liguria, Sez. I,
26.07.2017, n. 687).
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie,
l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece
necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua
comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi,
l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa” (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 23.10.2019, n. 2215, TAR Lazio, Roma, Sez. II,
07.03.2017, n. 3204).
...
IV) Con il terzo motivo,
l’istante lamenta il mancato esercizio del potere di convalida, essendo
pacifico, a suo dire, il suo possesso dei requisiti necessari ad ottenere
l’assegnazione dell’incarico annullato dal provvedimento impugnato.
Osserva il Collegio che, in base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c.
2, L. n. 241/1990, “è fatta salva la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico”,
che come detto, nel caso di specie, risultano tuttavia assenti, sia in
ragione della palese violazione dell’art. 6-bis L. n. 241/1990, e del
sotteso interesse pubblico di rango costituzionale al buon andamento ed
all’imparzialità dell’azione amministrativa, che del breve lasso di tempo
intercorso tra il provvedimento e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della
discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere,
non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza
dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale (TAR Campania,
Napoli, Sez. V, 01.02.2016, n. 607) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.04.2020 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Istanza di accesso formulata
in modo generico o cumulativo – Pubblica amministrazione –
Esame dell’istanza – Titolo dell’accesso – Accesso civico
generalizzato – Accesso documentale.
La pubblica amministrazione ha il
potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e
ai documenti pubblici, formulata in modo generico o
cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una
specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina
dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato
non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento
alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa
dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai
profili della l. n. 241 del 1990, senza che il giudice
amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa
mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria
istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica
amministrazione all’esito del procedimento (Consiglio
di Stato, A.P,.
sentenza 02.04.2020 n. 10 - link a www.ambientediritto.it). |
marzo 2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Come evidenziato dalla più recente giurisprudenza amministrativa che questo
Collegio condivide, «l’emanazione di un’ordinanza contingibile e urgente
emanata ai sensi degli artt. 50 o 54 t.u.e.l., indifferentemente, presuppone
l’esistenza di una situazione eccezionale e imprevedibile: tale presupposto,
tuttavia, va interpretato nel senso che rileva non la circostanza
(estrinseca) che il pericolo sia correlato ad una situazione preesistente
ovvero a un evento nuovo e imprevedibile, ma la sussistenza (intrinseca)
della necessità e dell’urgenza attuale di intervenire a difesa degli
interessi pubblici da tutelare, a prescindere sia dalla prevedibilità, che,
soprattutto, dall’imputabilità se del caso perfino all’Amministrazione
stessa della situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a
rimuovere. In definitiva, quindi, il decorso del tempo non consuma il potere
di ordinanza, perché ciò che rileva è esclusivamente la dimostrazione
dell’attualità del pericolo e della idoneità del provvedimento a porvi
rimedio, sicché l’immediatezza dell’intervento urgente del Sindaco va
rapportata all’effettiva esistenza di una situazione di pericolo al momento
di adozione dell’ordinanza. Cosicché, la circostanza che la situazione di
pericolo perduri da tempo può addirittura aggravare la situazione di
pericolo».
Ribadisce pertanto la giurisprudenza che il fondamento del potere di
ordinanza ex art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 possa rinvenirsi sia nella
necessità di fronteggiare situazioni imprevedibili e eccezionali sia qualora
sussista l’immediata e necessità di provvedere a tutela della pubblica
incolumità.
---------------
... per l’annullamento dell'ordinanza sindacale n. 89 del 13.10.2015 con cui
il Sindaco del Comune di Castellana Sicula intimava di “rimuovere una gru
a torre installata da qualche anno nel termine di giorni 30, con
l'avvertimento che, decorso detto termine, si provvederà in via sostitutiva
con spese ed oneri a carico delle parti interessate, restando salva ogni
eventuale azione amministrativa o penale”.
...
Il motivo di doglianza è infondato.
Il provvedimento amministrativo impugnato è stato emesso
dall’amministrazione resistente a fronte di un manufatto precario servente
un cantiere edile, la cui funzione era cessata da oltre un decennio poiché
la relativa concessione edilizia era scaduta il 30.07.2004.
A fondamento di tale determinazione il Comune resistente ha addotto un
potenziale pericolo per la pubblica incolumità e un effettivo pregiudizio
del decoro urbano così come delineato dall’art. 55 e 56 del Regolamento
edilizio comunale.
A fondamento della valutazione di pericolosità, nel provvedimento impugnato,
è stato richiamato il sopralluogo dei vigili del fuoco che in data
15.09.2015 ne hanno accertato lo stato di abbandono nonché la condizione di
vetustà che ove trascurati, in ragione degli agenti atmosferici, avrebbero
potuto comportare serio pericolo per le persone e le cose.
Onde smentire tale presupposto di fatto, parte ricorrente ha depositato una
perizia redatta dal Perito industriale An.Bl. il 28.10.2015 che si limita a
concludere in ordine al potenziale periodo residuo di utilizzo della gru,
chiarendo però che tale valutazione fosse da considerarsi puramente teorica
e non tenendo conto dell’insorgenza di possibili anomalie derivanti da
difetti del materiale o strutturali.
In altre parole, tale perizia prospetta solamente la durata teorica del
ciclo di vita della gru, ma non confuta i profili di potenziale rischio di
cedimento della struttura.
Come evidenziato dalla più recente giurisprudenza amministrativa che questo
Collegio condivide «l’emanazione di un’ordinanza contingibile e urgente
emanata ai sensi degli artt. 50 o 54 t.u.e.l., indifferentemente, presuppone
l’esistenza di una situazione eccezionale e imprevedibile: tale presupposto,
tuttavia, va interpretato nel senso che rileva non la circostanza
(estrinseca) che il pericolo sia correlato ad una situazione preesistente
ovvero a un evento nuovo e imprevedibile, ma la sussistenza (intrinseca)
della necessità e dell’urgenza attuale di intervenire a difesa degli
interessi pubblici da tutelare, a prescindere sia dalla prevedibilità, che,
soprattutto, dall’imputabilità se del caso perfino all’Amministrazione
stessa della situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a
rimuovere. In definitiva, quindi, il decorso del tempo non consuma il potere
di ordinanza, perché ciò che rileva è esclusivamente la dimostrazione
dell’attualità del pericolo e della idoneità del provvedimento a porvi
rimedio, sicché l’immediatezza dell’intervento urgente del Sindaco va
rapportata all’effettiva esistenza di una situazione di pericolo al momento
di adozione dell’ordinanza. Cosicché, la circostanza che la situazione di
pericolo perduri da tempo può addirittura aggravare la situazione di
pericolo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. II, 22/07/2019 n. 5150)» (TAR
Lazio, Roma, Sez. II-bis, 04.12.2019, n. 13898).
Ribadisce pertanto la giurisprudenza che il fondamento del potere di
ordinanza ex art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 possa rinvenirsi sia nella
necessità di fronteggiare situazioni imprevedibili e eccezionali sia qualora
sussista l’immediata e necessità di provvedere a tutela della pubblica
incolumità (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 01.08.2019, n. 4231).
Deve, pertanto, rigettarsi il motivo di ricorso secondo cui il provvedimento
sarebbe stato adottato per carenza dei presupposti, sussistendo
indubbiamente l’urgenza di provvedere in relazione a un pericolo imminente
di cedimento strutturale che non necessariamente deve essere prossimo, ossia
temporalmente vicino, ma incombente, ossia in grado di prodursi
repentinamente senza preavviso
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 23.03.2020 n. 683 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Adempimenti
per le griglie della trasparenza.
Domanda
Ci hanno detto che l’ANAC ha pubblicato la solita delibera annuale per la
verifica delle griglie della trasparenza, con scadenza 30.03.2020. Diteci,
per favore, che non è vero.
Risposta
Purtroppo, dobbiamo confermare la notizia. L’ANAC ha adottato la delibera n.
213 del 04.03.2020 –depositata presso la segretaria del Consiglio il
10.03.2020– composta da dodici pagine e undici allegati, per imporre ai
soggetti che vi devono provvedere, la verifica annuale in merito
all’attestazione sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione previsti
dall’articolo 14, comma 4, lettera g), del decreto legislativo 27.10.2009,
n. 150.
Le attestazioni, come di consueto, devono essere predisposte dagli Organismi
di Valutazione (OIV) o altri organismi con funzioni analoghe – negli enti
locali, di norma, si tratta dei Nuclei di Valutazione.
Tali organismi sono tenuti ad attestare le avvenute pubblicazioni entro il
31.03.2020 e l’attestazione va affissa, da parte degli enti, nella sezione “Amministrazione
trasparente” entro il 30.04.2020. Per le pubbliche amministrazioni le
sotto-sezioni da investigare (allegato 2.1 della delibera) sono:
1. Consulenti e collaboratori;
2. Bandi di concorso;
3. Attività e procedimenti;
4. Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici;
5. Servizi erogati;
6. Informazioni ambientali.
Il 12.03.2020, qualche misterioso informatore, deve aver avvisato i “marziani”
dell’ANAC che in Italia c’era una epidemia in corso, con un trecento morti
al giorno.
Il Presidente, facente funzioni, dell’ANAC, con un comunicato del 12 marzo,
di conseguenza, ha spostato i termini di verifica e di pubblicazione delle “griglie”
rispettivamente al 30 giugno e 31.07.2020 (17.03.2020 -
link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, previsto
dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali unici
presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un termine
ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza” dell’atto
amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica amministrazione, in
presenza di un atto annullabile per illegittimità, ritenga con una propria
determinazione volitiva, anziché di procedere al ritiro mediante
l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che lo inficiano.
Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela conservativa,
destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di atti già
adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in modo da
assumere autonoma efficacia abilitativa.
Afferma il TAR Veneto che il requisito dell’interesse pubblico nella
convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida trova
la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative
dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della
legalità».
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida,
anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare
nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti
sottesi alla codifica del relativo istituto.
---------------
16. Ritiene infine la Sezione di poter trattare congiuntamente gli ultimi
due motivi di gravame, in quanto riproduttivi delle doglianze esposte nei
motivi aggiunti con specifico riguardo alla reiterazione del provvedimento
quale “convalida” del precedente, emendato dei vizi paventati
nell’ordinanza cautelare n. 878/2005: in essa, dunque, non si sarebbe dato
debito conto delle osservazioni della parte, con ciò depauperandone la
disposta partecipazione al procedimento, e di fatto omettendo di valutare le
aporie ed incongruenze ampiamente descritte nei paragrafi precedenti.
Il potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo,
previsto dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali
unici presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un
termine ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza”
dell’atto amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica
amministrazione, in presenza di un atto annullabile per illegittimità,
ritenga con una propria determinazione volitiva, anziché di procedere al
ritiro mediante l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che
lo inficiano. Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela
conservativa, destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di
atti già adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in
modo da assumere autonoma efficacia abilitativa (Cons. Stato, sez. V, sez.
V, 18.12.2017, n. 5928; id., 07.07.2015, n. 3340).
Afferma il TAR per il Veneto
(Sez. II,
sentenza 12.12.2012 n. 1540) che il requisito dell’interesse pubblico nella
convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida
trova la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative
dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della
legalità».
Nella specie, si è in presenza di un provvedimento nuovo (il decreto di
convalida del 14.02.2007), ma che si collega all’atto convalidato (permesso
di costruire in sanatoria del 06.11.2003), al fine di mantenerne fermi gli
effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc),
con il preciso scopo di operare una sanatoria dell’atto viziato nel momento
storico di avvenuta instaurazione della controversia giudiziaria, senza che
in ciò possa rinvenirsi una qualsiasi volontà di riesercizio di un’attività
discrezionale e/o di amministrazione attiva esercitata per la prima volta.
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida,
anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare
nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti
sottesi alla codifica del relativo istituto: preso atto della assentibilità
dell’istanza, ontologicamente volta ad incidere su un intervento già
realizzato, comunque l’effetto sanante avrebbe dovuto incidere sullo stato
di fatto per come prospettato al momento della presentazione dell’istanza.
Ciò a maggior ragione avuto riguardo alla tipologia di vizio che il Comune
di Venezia, in via del tutto tuzioristica, ha inteso sanare in adesione alle
indicazioni del giudice di prime cure ed evitando ulteriore pregiudizio,
riveniente dall’accentuata situazione di incertezza, per il richiedente il
titolo, ovvero il mancato preventivo coinvolgimento di un soggetto che, agli
esiti dell’odierno giudizio, non aveva alcun titolo a prendere parte al
relativo procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 16.03.2020 n. 1889 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’esecuzione
spontanea di un’ordinanza contingibile e urgente (in specie riguardante la
messa in sicurezza di manufatti accessori al capannone principale) non può
spiegare alcun effetto sull’individuazione del soggetto passivo e, quindi,
sulla legittimazione passiva rispetto ad un’altra successiva ordinanza
contingibile e urgente, riguardante altri beni ed altri oneri.
La mancata impugnazione del precedente provvedimento, cui si è prestata
acquiescenza, non rende inammissibile il ricorso contro il provvedimento
successivo che non sia di mera conferma –come ritenuto con la decisione di
primo grado di rigetto della corrispondente eccezione della difesa comunale-
allo stesso modo detta acquiescenza, esaurendo i suoi effetti con riguardo
al singolo provvedimento (anche se in ipotesi illegittimo), non può certo
valere come rinuncia preventiva all’impugnazione di futuri provvedimenti.
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L’obbligo di rimozione della copertura di cemento-amianto del capannone
industriale, così come imposto con l’ordinanza contingibile e urgente qui impugnata,
è illegittimo poiché quest'ultima è stata adottata non in presenza dei
presupposti legittimanti, previa adeguata istruttoria.
Invero:
- l’obbligo di rimozione è stato imposto al curatore fallimentare,
esclusivamente a titolo di responsabilità di posizione, in luogo ed in
sostituzione del proprietario tenuto all’eliminazione del vizio strutturale;
- l'ordinanza impugnata, pur essendo stata adottata ai sensi
dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, che conferisce al sindaco
il potere di far fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze
sanitarie o di igiene pubblica", non dà atto della ricorrenza di tali
fattispecie legittimanti;
- né dal provvedimento risulta che sia stata accertata l’urgente
necessità degli interventi imposti alla curatela, come fatto palese sia dal
testo della nota allegata all’ordinanza, in cui si rappresenta “la
presenza di una copertura che … potrebbe contenere amianto”, sia dal
tempo trascorso dall’accertamento ispettivo, effettuato nei mesi di
maggio-giugno 2014, senza alcun seguito;
- infine, manca anche l’indicazione di una situazione di
eccezionalità non fronteggiabile con gli strumenti giuridici ordinari
previsti dall’ordinamento, tra cui rilevano, nel caso di specie, i rimedi
individuati dalla normativa speciale in materia di amianto, da interpretarsi
nei termini sopra detti.
---------------
... per la riforma della sentenza n. 467/2015 del Tribunale Amministrativo
Regionale per le Marche, Sez. I, resa tra le parti.
...
1. La curatela del Fallimento Be. s.r.l., nella persona del curatore, ha
impugnato l’ordinanza contingibile e urgente n. 31 del 22.07.2014 (nonché la
successiva ordinanza confermativa n. 34 del 07.08.2014 e il provvedimento
con cui l’amministrazione ha ritenuto di non annullare in autotutela i
suddetti provvedimenti), limitatamente alla parte con la quale il sindaco
del Comune di Maltignano ha imposto al curatore l’esecuzione del seguente
intervento, dichiaratamente finalizzato a prevenire possibili rischi per la
salute e l’incolumità pubbliche:
- adottare tutti gli adempimenti necessari ed urgenti per la
messa in sicurezza delle parti della copertura danneggiate, oltre ai
restanti adempimenti di cui alla relazione ispettiva del 03.06.2014
(richiamata a formare parte integrante del provvedimento).
Gli adempimenti predetti riguardano la manutenzione e la bonifica di
materiali contenenti amianto presenti nella struttura edilizia di copertura
di un capannone industriale, ricadente alla via ... n. 2 del territorio di
Maltignano, nel quale la fallita società Be. aveva svolto la propria
attività d’impresa fino al 2001 e per il quale -dopo la dichiarazione di
fallimento intervenuta nel 2007 ed in pendenza di un’esecuzione individuale,
intrapresa da un creditore fondiario nel 2010, avente ad oggetto il medesimo
compendio immobiliare- l’organo tecnico competente aveva rilevato il rischio
di “potenziale dispersione di fibre cancerogene nell’ambiente circostante”
(come da relazione dell’ASUR del 03.06.2014).
...
3. Col primo motivo si censura la sentenza nella parte in cui, in
riferimento all’acquiescenza prestata dalla curatela all’ordinanza del 2013,
ha affermato che ciò “costituisce un primo elemento a sfavore della tesi
di parte ricorrente, non potendosi ritenere che la legittimazione passiva
rispetto ad un provvedimento del tenore di quello impugnato sia legata
all’entità della spesa necessaria ad adempire l’ordine di bonifica […]”.
3.1. Il motivo è fondato laddove sostiene che l’esecuzione spontanea di
un’ordinanza contingibile e urgente (in specie, quella del 04.06.2013
riguardante la messa in sicurezza di manufatti accessori al capannone
principale, oggetto invece delle ordinanze qui impugnate) non può spiegare
alcun effetto sull’individuazione del soggetto passivo e quindi sulla
legittimazione passiva rispetto ad un’altra successiva ordinanza
contingibile e urgente (in specie, quella del 22.07.2014), riguardante altri
beni ed altri oneri.
3.2. Così come la mancata impugnazione del precedente provvedimento, cui si
è prestata acquiescenza, non rende inammissibile il ricorso contro il
provvedimento successivo che non sia di mera conferma –come ritenuto con la
decisione di primo grado di rigetto della corrispondente eccezione della
difesa comunale- allo stesso modo detta acquiescenza, esaurendo i suoi
effetti con riguardo al singolo provvedimento (anche se in ipotesi
illegittimo), non può certo valere come rinuncia preventiva all’impugnazione
di futuri provvedimenti (cfr. Cons. Stato, IV, 22.11.2013, n. 5557).
...
10. Occorre pertanto verificare se sia riconducibile a tale ultima
fattispecie l’obbligo di rimozione della copertura interna di
cemento-amianto del capannone industriale, così come imposto con l’ordinanza
contingibile e urgente qui impugnata, e se questa e gli atti successivi (di
conferma e di diniego di autotutela) siano stati adottati in presenza dei
presupposti legittimanti, previa adeguata istruttoria, di cui si sia dato
conto in motivazione.
10.1. La risposta è negativa, come dedotto con i su riportati motivi di
appello, atteso che:
- l’obbligo di rimozione è stato imposto al curatore,
esclusivamente a titolo di responsabilità di posizione, in luogo ed in
sostituzione del proprietario tenuto all’eliminazione del vizio strutturale;
- l'ordinanza impugnata, pur essendo stata adottata ai sensi
dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, che conferisce al sindaco
il potere di far fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze
sanitarie o di igiene pubblica", non dà atto della ricorrenza di tali
fattispecie legittimanti;
- né dal provvedimento risulta che sia stata accertata l’urgente
necessità degli interventi imposti alla curatela, come fatto palese sia dal
testo della nota allegata all’ordinanza, in cui si rappresenta “la
presenza di una copertura che … potrebbe contenere amianto”, sia dal
tempo trascorso dall’accertamento ispettivo, effettuato nei mesi di
maggio-giugno 2014, senza alcun seguito;
- infine, manca anche l’indicazione di una situazione di
eccezionalità non fronteggiabile con gli strumenti giuridici ordinari
previsti dall’ordinamento, tra cui rilevano, nel caso di specie, i rimedi
individuati dalla normativa speciale in materia di amianto, da interpretarsi
nei termini sopra detti.
11. L’appello va quindi accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza
di primo grado, va accolto il ricorso proposto dal Fallimento Be. s.r.l. e
vanno annullati gli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.03.2020 n. 1759 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso civico generalizzato per i contributi economici.
Domanda
In una istanza di accesso civico generalizzato, un cittadino ci ha chiesto
di fornire un riepilogo di tutti i contributi erogati dal comune negli
ultimi tre anni, con la specificazione dei contributi erogati per ragioni di
salute o per disagio socio-economico.
Come ci dobbiamo comportare?
Risposta
L’accesso civico generalizzato, noto anche con l’acronico inglese di FOIA (Freedom
Of Information Act), è disciplinato dall’articolo 5, comma 2 e seguenti
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo introdotto
dall’articolo 6, comma 1, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97.
In pratica, con la nuova disposizione, si stabilisce che qualsiasi cittadino
ha il diritto di accedere ai dati e documenti detenuti da una pubblica
amministrazione, ulteriori a quelli che risultano già oggetto di
pubblicazione obbligatoria nel sito web dell’ente nella sezione
Amministrazione trasparente. Tale nuova forma di accesso, però, incontra
delle esclusioni e dei limiti, disciplinati nell’articolo 5-bis, del citato
d.lgs. 33/2013, nel testo inserito dall’articolo 6, comma 2, d.lgs. 97/2016.
Chiarito l’ambito applicativo in cui ci si muove è possibile affermare che:
• l’elenco dei contributi erogati dal comune, rappresenta già un
obbligo disciplinato dall’articolo 27, comma 2, del d.lgs. 33/2013, laddove
si prevede che gli enti devono organizzare annualmente, in un unico elenco,
in formato tabellare aperto, tutti i contributi erogati nell’anno
precedente, di importo superiore a 1.000 euro;
• per quanto riguarda, invece, la pubblicazione dei dati di coloro
che hanno beneficiato di un contributo pubblico, per ragioni riferite allo
stato di salute e/o per situazione di disagio economico-sociale, l’articolo
26, comma 4, del d.lgs. 33/2013, prevede un vero e proprio divieto,
escludendo la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche
interessate;
• con la richiesta di accesso generalizzato possono essere
richiesti i documenti, dati e informazioni in possesso dell’amministrazione.
Ciò significa che:
1. il comune non è tenuto a raccogliere informazioni che non sono
in suo possesso per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato, ma
deve limitarsi a rispondere sulla base dei documenti e delle informazioni
che detiene;
2. l’amministrazione non è tenuta a rielaborare informazioni in suo
possesso, ma deve consentire l’accesso ai documenti, ai dati e dalle
informazioni, così come sono già detenuti, organizzati, gestiti e fruiti;
3. sono ammissibili, invece, le operazioni di elaborazione che
consistono nell’oscuramento dei dati personali presenti nel documento o
nell’informazione richiesta, e più in generale nella loro anonimizzazione,
qualora ciò sia funzionale a rendere possibile l’accesso;
4. la richiesta di accesso generalizzato deve identificare i
documenti e i dati richiesti. Ciò significa:
– che la richiesta deve indicare, con precisione, i documenti o i dati
richiesti, ovvero
– che la richiesta deve consentire all’amministrazione di identificare
agevolmente i documenti o i dati richiesti.
Dovranno essere ritenute inammissibili, pertanto, le richieste formulate in
modo così vago da non permettere all’amministrazione di identificare i
documenti o le informazioni richieste. In questi casi, l’amministrazione
destinataria della domanda dovrebbe chiedere di precisare l’oggetto della
richiesta.
Premesso quanto sopra, si consiglia di rispondere all’istanza chiarendo che:
• le informazioni richieste si trovano già a disposizione di tutti,
pubblicate nel sito web su Amministrazione trasparente > Sovvenzioni,
contributi, sussidi, vantaggi economici > Atti di concessione, con i dati
riferiti agli ultimi cinque anni, inserendo nella risposta il link di
accesso;
• la richiesta di accesso generalizzato, pertanto, non può essere
presa in considerazione in quanto è riferita a documenti per i quali esiste
già l’obbligo di pubblicazione (cfr. art. 5, comma 5, d.lgs. 33/2013);
• qualora i dati non siano (tutti) pubblicati, il richiedente potrà
presentare istanza, indirizzata al responsabile della trasparenza dell’ente,
ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 33/2013, attivando l’istituto
dell’accesso civico semplice;
• i dati riferiti allo stato di salute e a situazioni di disagio
socio-economico, di persone fisiche a cui il comune ha erogato un contributo
non sono ostensibili, per espressa previsione di legge (articolo 26, comma
4, d.lgs. 33/2013) e sono tutelati dal Regolamento (UE) 2016/679,
all’articolo 9, essendo annoverati tra i dati “particolari” (ex
sensibili) (10.03.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
domanda di risarcimento del danno proposta direttamente nei confronti del
funzionario pubblico.
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Risarcimento danni – Pubblico impiego – Azione direttamente posta nei
confronti del funzionario – Per l’attività svolta nell’esercizio delle sue
funzioni – Inammissibilità.
É inammissibile la domanda di condanna al
risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa,
direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta
nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo
delle Sezioni unite della Corte di cassazione (1).
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(1) Cass. civ., S.U., ord. 03.10.2016, n. 19677
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.03.2020 n. 1686 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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6.1. Parimenti inammissibile è, poi, la domanda di condanna al risarcimento
del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente
nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio
delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni
unite della Corte di cassazione (cfr., fra le tante, ord. 03.10.2016, n.
19677).
7. Per scrupolo motivazionale, comunque, il Collegio osserva nel merito -nei
limiti di quanto evincibile dall’atto di appello- quanto segue.
7.1. Non si è verificata alcuna effettiva e concreta lesione delle
prerogative procedimentali del ricorrente, posto che l’Amministrazione lo ha
messo in condizione di interloquire, con espressa riserva, all’esito, di
un’eventuale modifica del decisum, la cui applicazione, nelle more
della rinnovata fase procedimentale, era stata, per di più, unilateralmente
sospesa.
7.1.1. Sul punto, il Collegio conviene con l’esegesi sostanzialistica
propugnata dal Tribunale.
7.1.2. Invero, la partecipazione al procedimento è un valore sostanziale cui
le forme dell’azione amministrativa sono meramente serventi: pertanto, la
violazione delle forme attinge la soglia dell’illegittimità solo e nei
limiti in cui ne sia conseguito un concreto ed effettivo vulnus alle facoltà
di partecipazione dell’interessato.
7.1.3. Nella specie, di contro, il De. è stato messo nella condizione di
interloquire con l’Amministrazione, di presentare memorie e documenti e di
accedere a quelli in possesso dell’Amministrazione entro un termine prima
facie congruo (30 giorni), riservandosi l’Amministrazione, all’esito di
tale segmento procedimentale, una nuova valutazione dei fatti.
7.1.4. In tal modo, è stato pienamente assicurato il valore (appunto,
sostanziale) della partecipazione procedimentale con un’intensità,
un’ampiezza ed una pienezza del tutto analoga a quella che il ricorrente
avrebbe ottenuto mediante la riedizione del procedimento.
7.1.5. A fortiori, la violazione di forme del procedimento non
determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi
eccezionali enucleati nell’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (cfr., ex
multis, Cass. civ., Sez. un., 05.03.2018, n. 5097 e 03.10.2016, n.
19682; Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2016, n. 2202). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
illegittima l'ordinanza contingibile e urgente di
sgombero dei locali posti a piano terra e interrati “fino al ripristino delle condizioni
igienico-sanitarie e all’adeguamento dell’impianto idrico fognante alle
norme di legge”.
Invero, l’impugnato provvedimento è carente dei presupposti normativi
che legittimino l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente ai sensi
dell’art. 54 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (disposizione
espressamente richiamata dalla censurata ordinanza e su di essa fondata),
tenuto conto che il Comune avrebbe dovuto far ricorso agli
strumenti ordinari (i.e. ordinanza in materia di rimozione dei rifiuti e di
bonifica ambientale ex art. 192, comma 3, del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, ovvero potere del sindaco ex art. 222 del regio decreto
27.07.1934, n. 1265, di dichiarare inabitabili una casa o parte di essa per
ragioni di igiene e di ordinarne lo sgombero), in relazione ad una
situazione conosciuta ormai da tempo e quindi prevedibile.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’ordinanza n.
-OMISSIS- del Commissario straordinario del Comune di Manfredonia, trasmessa
alla società ricorrente via pec con nota prot. n. 24862 del 02.07.2019 ed
avente ad oggetto “lo sgombero dei locali posti a piano terra e interrati
dell’unità immobiliare denominata “-OMISSIS-” ubicata in via -OMISSIS- in
-OMISSIS-”, con cui si imponeva alla stessa società di eseguire, “entro
15 giorni dalla data di notifica” dell’ordinanza medesima, lo sgombero
dei suddetti locali “fino al ripristino delle condizioni
igienico-sanitarie e all’adeguamento dell’impianto idrico fognante alle
norme di legge”, nonché di espletare le “opportune verifiche statiche”
e di trasmettere la relativa documentazione alla stessa Amministrazione, “prima
dell’utilizzo degli immobili”;
...
1. - Con l’atto introduttivo del presente giudizio la società istante
-OMISSIS- s.r.l. in liquidazione (proprietaria dell’immobile denominato
“-OMISSIS-” sito in Manfredonia in via -OMISSIS- “-OMISSIS-”) impugnava
l’ordinanza commissariale contingibile e urgente in epigrafe indicata di
sgombero dei locali posti a piano terra e interrati di detta unità
immobiliare.
Deduceva un’unica censura così riassumibile:
- violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000 per mancanza dei presupposti da esso
richiesti per l’esercizio del potere di ordinanza contingibile e urgente;
eccesso di potere per erronea presupposizione di fatto e di diritto e per
difetto d’istruttoria, illogicità e ingiustizia manifesta; violazione dei
principi generali di efficienza, proporzionalità e adeguatezza dell’azione
amministrativa; violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990.
...
4. - Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Giudice che il ricorso
debba essere accolto in quanto fondato.
Invero, sono condivisibili le argomentazioni svolte dalla parte ricorrente.
L’impugnato provvedimento commissariale è carente dei presupposti normativi
che legittimino l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente ai sensi
dell’art. 54 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (disposizione
espressamente richiamata dalla censurata ordinanza e su di essa fondata),
tenuto conto che il Comune di Manfredonia avrebbe dovuto far ricorso agli
strumenti ordinari (i.e. ordinanza in materia di rimozione dei
rifiuti e di bonifica ambientale ex art. 192, comma 3, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, ovvero potere del sindaco ex art. 222 del
regio decreto 27.07.1934, n. 1265, di dichiarare inabitabili una casa o
parte di essa per ragioni di igiene e di ordinarne lo sgombero), in
relazione ad una situazione conosciuta ormai da tempo e quindi prevedibile
(v. segnalazione della Prefettura di Foggia del 23.01.2019 e relazione di
servizio dell’UTC del 20.02.2019, atti entrambi menzionati nelle premesse
della censurata ordinanza del 02.07.2019).
Con riferimento al carattere extra ordinem delle ordinanze in
questione, da emettere solo allorquando siano preclusi gli strumenti
ordinari, si richiama la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV,
12.06.2014, n. 3001; mentre in relazione all’impossibilità di utilizzare
detto strumento eccezionale per fronteggiare situazioni prevedibili e
permanenti si richiama la decisione del Consiglio di Stato, sez. V,
21.02.2017, n. 774.
Va, altresì, evidenziato che l’immobile per cui è causa risulta essere stato
concesso in locazione al Comune di Foggia in forza di contratto del
12.07.2007, con la conseguenza che l’ordine di messa in sicurezza sarebbe
dovuto essere indirizzato al responsabile della situazione di fatto (vale a
dire lo stesso Comune di Foggia), tenuto altresì conto delle possibili
problematicità insite nel realizzare lo sgombero di un immobile occupato da
altri soggetti, implicando ciò, se del caso, l’intervento della forza
pubblica.
5. - Dalle argomentazioni espresse in precedenza discende l’accoglimento del
ricorso e, per l’effetto, l’annullamento dell’ordinanza n. -OMISSIS- del
Commissario straordinario del Comune di Manfredonia
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.03.2020 n. 366 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
stato di abbandono consolidato di un cantiere non legittima l'ordinanza
contingibile ed urgente del sindaco.
È illegittima, per carenza dei presupposti, l’ordinanza
sindacale extra ordinem finalizzata all’esecuzione di lavori riguardanti la
messa in sicurezza di un cantiere il cui stato di abbandono si sia
consolidato negli anni, non costituendo un fatto eccezionale da rimuovere
con urgenza.
Invero, il potere del sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti
presuppone la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a
situazioni di natura eccezionale e imprevedibile, cui sia impossibile far
fronte con strumenti ordinari, nonché l'esistenza di una situazione di
pericolo quale ragionevole probabilità che accada un evento dannoso nel caso
in cui l'amministrazione non intervenga prontamente.
---------------
I. Parte ricorrente impugna,
unitamente al provvedimento di rigetto di accoglimento dell’istanza in
autotutela, l’ordinanza contingibile ed urgente con la quale il Sindaco le
ha ordinato, in concorso con la società fallita, titolare dei titoli edilizi
e proprietaria in quota parte delle aree di cantiere, originariamente
oggetto di permuta (cfr. nota Comando P.M. prot. n. 4774 del 04.05.2018),
l’esecuzione di alcuni lavori di messa in sicurezza nell’ambito delle aree
distinte in catasto al foglio n. 7, p.lle nn. 5345, 5348 e 5463 (asseritamente
assorbite nella particella n. 5678, cfr. nota comunale del 04.10.2018, prot.
n. 12806).
II. A sostegno del gravame deduce i seguenti motivi di diritto:
a) violazione degli artt. 50, 54 e 107 del d.lgs. n. 267/2000 in
relazione all’art. 3 della l. n. 241/1990;
b) eccesso di potere per difetto assoluto del presupposto e di
istruttoria;
c) incompetenza.
III. Si è costituito, tramite l’Avvocatura distrettuale, il Sindaco nella
sua qualità di ufficiale di governo, eccependo preliminarmente
l’inammissibilità del ricorso, in quanto asseritamente notificato
esclusivamente alla difesa erariale e non anche presso gli uffici comunali e
concludendo in subordine per il rigetto del gravame.
IV. All’udienza pubblica del 17.12.2019, fissata per la trattazione, la
causa è stata introitata per la decisione.
V. Va, in primo luogo, disattesa l’eccezione in rito.
V.1. Sostiene la difesa erariale che la notificazione del ricorso sarebbe
nulla in quanto non poteva essere effettuata presso l’Avvocatura dello Stato
ma andava effettuata presso la Casa Comunale.
Le ordinanze contingibili e urgenti adottate dal Sindaco quale ufficiale di
Governo, sebbene soggette a regole diverse da quelle ordinariamente
applicabili agli atti del Sindaco come capo dell’amministrazione comunale,
sarebbero pur sempre atti redatti e decisi dagli uffici comunali.
Sussisterebbe pertanto la legittimazione del Comune a resistere nel giudizio
in caso di controversia sulla legittimità dell’ordinanza sindacale (cfr.
Cons. St., sez. IV, 28.03.1994, n. 291): essendo i provvedimenti emessi dal
Sindaco quale ufficiale di governo pur sempre imputabili al Comune, di cui
il Sindaco stesso è organo, il ricorso proposto contro il Sindaco, che abbia
agito nell’anzidetta qualità, dovrebbe essere pertanto notificato presso la
sede del Comune anziché presso l’Avvocatura dello Stato (cfr. Cons. St.,
sez. V, 07.11.2007, n. 4718).
V.1.1. Ritiene opportuno il Collegio, in primo luogo, richiamare consolidato
e condiviso orientamento giurisprudenziale secondo il quale:
a) vero è che di norma, “nelle ipotesi di impugnazione delle
ordinanze adottate dal sindaco ex art. 54 T.u.e.l., adottato con d.lgs., 18.08.2000 n. 267, sussiste non solo la legittimazione passiva in capo al
Comune, ma anche il difetto di legittimazione passiva di altre
amministrazioni statali nelle stesse ipotesi, atteso che l'imputazione
giuridica allo Stato degli effetti dell'atto dell'organo del Comune ha una
natura meramente formale, nel senso che non per questo il Sindaco diventa
organo di un'amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso
organizzativo dell'ente locale, senza che il suo status sia modificato” (Cons.
di St. sez. IV, 29.04.2014 n. 2221);
b) l’estromissione ovvero l’inammissibilità del ricorso per
notifica alla sola Amministrazione centrale, tuttavia, va disposta
esclusivamente qualora il ricorso sia stato proposto per l'annullamento di
atti, "mentre deve essere ritenuto diversamente nel caso di contemporanea o
successiva azione risarcitoria, affinché lo Stato non venga chiamato a
rispondere dei danni senza aver potuto tempestivamente difendersi; invero, è
applicabile il principio che lo Stato (e non il Comune) sia l'unico soggetto
legittimato passivo dell'azione risarcitoria proposta per il ristoro dei
danni derivanti dall'esecuzione delle ordinanze contingibili e urgenti
adottate dal Sindaco” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 03.08.2016, n.
4013 e sez. V, 30.05.2017, n. 2902).
Ed invero, “Il potere di ordinanza spettante al Sindaco per l'emanazione dei
provvedimenti contingibili ed urgenti a fini di pubblico interesse
appartiene allo Stato, ancorché nel provvedimento siano coinvolti interessi
locali, poiché il Sindaco agisce quale ufficiale del Governo. Ne consegue
che, sia per le azioni risarcitorie, sia per le azioni di pagamento diverse,
fondate su responsabilità per atto lecito, sussiste la legittimazione
passiva dell'amministrazione statale competente ancorché ai Comuni siano
state assegnate le somme necessarie per pagare le relative indennità”
(Cassazione civile, sez. I, 28.02.2019, n. 5970).
V.2. Tanto precisato e a prescindere dalla possibile azione risarcitoria, la
censura è infondata in fatto.
Invero, il ricorso in oggetto è stato notificato:
a) a mezzo pec:
- al Sindaco del Comune di Santa Maria a Vico –
nella qualità di Ufficiale di Governo, elettivamente domiciliato ope legis
presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli;
– al Fallimento Società A.R.G. Costruzioni S.R.L.
– in persona del Curatore p.t. Dott. El.Co.;
b) ma anche a mezzo posta:
- al Comune di Santa Maria a Vico –in persona del
legale rappresentante p.t.– domiciliato per la carica presso la Casa
Comunale;
- al Sindaco del Comune di Santa Maria a Vico
–nella qualità di Ufficiale di Governo- domiciliato per la carica presso la
Casa Comunale.
In altri termini, la notifica al Sindaco di Santa Maria a Vico, nella
qualità di Ufficiale di Governo, è stata effettuata sia a mezzo pec (presso
l’Avvocatura) che a mezzo posta (presso la Casa Comunale): muovendo da tali
presupposti è evidente la manifesta infondatezza dell’eccezione opposta.
VI. Ciò posto, il ricorso è fondato nei termini di seguito esplicati.
VI.1. Orbene, la gravata ordinanza risulta essere stata adottata sulla base
dei seguenti presupposti:
“La recinzione provvisionale atta ad evitare l'accesso al cantiere è
inefficiente, poco stabile e necessita di un urgente intervento di
ripristino. A breve distanza dal marciapiede permane uno scavo aperto con
parete verticale, d'altezza di circa 2 metri priva di qualunque elemento di
sostegno, avente una dimensione planimetrica di circa 28 M x 2 m, che in
caso d'instabilità potrebbe causare dissesti all'adiacente proprietà
pubblica; L'area di cantiere è abbandonata ed oggetto di degrado e possibile
focolaio di problemi di carattere igienico-sanitario;
VISTO che il titolo edilizio è intestato alla società AR.CO. S.RL.
in stato di fallimento, con sede in Sant’Antimo alla via ... s.n.c.,
e sottoposto alla curatela fallimentare;
VISTO che l'area è intestata ai germani DE LU. ”…Tanto premesso si ordina
al dott. CO.El., nella sua qualità di Curatore Fallimentare della
ditta AR.CO. e ai proprietari del fondo “di procedere con estrema
urgenza all'esecuzione dei lavori di sostituzione della recinzione di
cantiere con altra recitazione stabilmente ancorata al suolo, invalicabile e
di altezza dal marciapiede almeno pari a 2m” nonché alla “messa in sicurezza
dello scavo prospiciente il marciapiede di via ... mediante puntellatura
delle pareti delle scavo onde garantirne la stabilità (si faccia riferimento
all’art. 119 del D.Lvo 81/2008) o in caso di non immediata ripresa dei
lavori, di reinterro del fosso”, unitamente alla “Eliminazione dell'erbe
Infestanti ed esportazione degli eventuali rifiuti giacenti nell’area”.
VI.2. Il provvedimento di rigetto del riesame è, poi, motivato nei termini
che seguono: “le particelle indicate nell'ordinanza sono quelle riferite al
permesso di costruire in forza del quale sono stati avviati i lavori e sono
state assorbite nella particella 5678; …negli atti urbanistici si rileva la
presenza di una permuta, come confermato dalla documentazione trasmessa, per
effetto della quale risulta ancora un titolo, in capo ai germani De Lucia,
sulla proprietà dalla quale proviene il degrado ed il pericolo ed oggetto di
ordinanza; … la contingibilità ed urgenza per l'emissione dell'ordinanza
sindacale sono dettate dalla situazione di pericolo e degrado in un'area
centrale densamente abitata e frequentata”.
VII. Con il terzo motivo di ricorso, assorbente, parte ricorrente lamenta la
violazione degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000 dolendosi dell’assenza
dei requisiti legittimanti l’adozione di un’ordinanza contingibile ed
urgente extra ordinem.
VII.1. Richiama, la medesima parte, consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “presupposto indefettibile per l’adozione
delle ordinanze sindacali, ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n.
267/2000 (Testo Unico Enti Locali) è la necessità di intervenire
urgentemente con misure eccezionali ed imprevedibili di carattere
“provvisorio”, non fronteggiabili con gli ordinari mezzi previsti
dall’ordinamento giuridico e a condizione della “temporaneità dei loro
effetti” (Cons. di Stato, Sez. VI, del 31.10.2013 n. 5276).
VII.1.1. I suddetti requisiti, nella specie, sarebbero carenti, esistendo la
contestata recinzione e lo scavo prospiciente il marciapiede da anni, non
essendo, conseguentemente, configurabile alcun fatto eccezionale, quale
causa da rimuovere con urgenza.
Il lungo lasso temporale intercorso dal consolidarsi della situazione di
fatto, peraltro, evidente, tanto da essere stata la condizione dei luoghi
segnalata nel tempo da comuni cittadini, come tale, conosciuta o conoscibile
dall’Amministrazione intimata, avrebbe consentito alla medesima di
fronteggiare l’evenienza con gli ordinari mezzi previsti dall’ordinamento
giuridico.
VII.2. La censura è fondata.
VII.2.1. Per legittimare l’adozione dei poteri di cui agli artt. 50 e 54 del
D.Lgs. n. 267/2000 devono, infatti, ricorrere i seguenti diversi e
concorrenti presupposti:
a) la necessità di intervenire in alcune materie espressamente
previste, quali, ad esempio, la sanità, l’igiene, l’edilizia e la Polizia
Locale;
b) necessità dell’intervento nell’attualità e/o nell’imminenza di
un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza;
c) il previo accertamento, da parte degli organi competenti, della
situazione di pericolo o di danno che si intende fronteggiare;
d) la mancanza di strumenti alternativi previsti dall’ordinamento,
stante il carattere extra ordinem del potere sindacale di ordinanza.
VII.2.2. Orbene, ora, come già affermato anche da questa stessa sezione, “le
ordinanze contingibili ed urgenti costituiscono provvedimenti extra ordinem,
in quanto dotate di capacità derogatoria dell'ordinamento giuridico, al fine
di consentire alla P.A., in deroga al principio di tipicità dei
provvedimenti amministrativi, di sopperire a situazioni straordinarie ed
urgenti non fronteggiabili con l'uso dei poteri ordinari.
Presupposti indefettibili delle ordinanze contingibili ed urgenti sono
costituiti:
a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in
relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo
incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra
ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con
mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge” (TAR Campania,
Napoli, sez. V, 09.11.2016 n. 5162 e 17.02.2016 n. 860; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016 n. 69; Cons. di St., sez. V, 26.07.2016 n. 3369).
Non ultronea appare, altresì, la precisazione che “tali provvedimenti
costituiscono strumenti atipici per quanto attiene al contenuto, fissando la
legge unicamente i presupposti per l'esercizio del potere di ordinanza,
atteso che l'atipicità è conseguenza della funzione dell'istituto,
considerato che le situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono
prevedibili a priori” (TAR Veneto, Venezia, sez. I, 21.09.2016 n.
1055).
Ed invero, “le ordinanze contingibili ed urgenti sono consentite
esclusivamente per far fronte a straordinarie ed imprevedibili esigenze —a
cui non è possibile ovviare facendo ricorso agli ordinari strumenti
tipizzati dalla legge— per il tempo strettamente necessario affinché
l'amministrazione possa intervenire in via ordinaria” (TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 26.09.2016 n. 2268).
Solo “in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons. di St., sez. V, 22.03.2016 n. 1189).
In definitiva, quindi, “il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili ed urgenti presuppone la necessità di provvedere con
immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile,
cui sia impossibile far fronte con gli strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento, nonché l'esistenza e l'indicazione nel provvedimento
impugnato di una situazione di pericolo, quale ragionevole probabilità che
accada un evento dannoso nel caso in cui l'Amministrazione non intervenga
prontamente” (Cons. Stato Sez. II, 22.01.2020, n. 538).
VII.2.3. Orbene, nel caso all’esame, lo stato di pericolo per la pubblica e
privata incolumità risulta solo asserito e l’ordinanza difetta, comunque,
come dedotto dalla parte ricorrente, del requisito della contingibilità
intesa come eccezionalità ed imprevedibilità dell’evento (trattasi, invero,
della cattiva manutenzione della delimitazione della zona di cantiere in
stato di abbandono) cui non possa farsi fronte con gli strumenti ordinari
previsti dall’ordinamento.
Invero, secondo quanto relazionato dal geometra incaricato a seguito del
sopralluogo eseguito in data 27.04.2018, con riferimento al “marciapiede di
che trattasi, confinante con la proprietà della Società "AR.Co. s.r.l," con sede in Sant'Antimo, al momento non si evidenziano cedimenti, ma
comunque il fondo confinante è abbisognevole di messa in sicurezza”, nelle
forme poi dettagliatamente descritte. A tal proposito lo stesso tecnico
meramente attesta, quanto al tratto della recinzione prospiciente il
marciapiede, che “la stessa al momento non efficiente” (specificandosi, solo
per il 4° tratto che “la stessa al momento risulta del tutto caduta, e
pericolosa per i residenti del posto”) e, quanto alla parete di terreno
confinante con il medesimo marciapiede, meramente che “la stessa è
sprovvista di qualsiasi sostegno per cui potrebbe causare danno al
marciapiede stesso con possibilità di pericolo, per la pubblica e privata
incolumità”.
Manca altresì, come sostenuto, l’ulteriore presupposto indefettibile per
l'adozione di siffatte ordinanze ovvero la necessità di intervenire
urgentemente con misure eccezionali ed imprevedibili di carattere
"provvisorio", non fronteggiabili, come detto, con gli "ordinari" mezzi
previsti dall'ordinamento giuridico e a condizione della "temporaneità dei
loro effetti" (cfr. Corte Costituzionale, sentenze del 07.04.2011 n. 115 e
del 01.07.2009 n. 196).
Ed invero l’ordinanza gravata è stata adottata il 23.05.2018, a distanza di
circa un mese dall’avvenuto sopralluogo, accertante, in data 27.04.2018, le
descritte criticità, tanto da potersi escludere qualsiasi carattere di
urgenza e di imminente e concreto pericolo per la pubblica igiene e
incolumità.
La medesima ordinanza sindacale impugnata, peraltro, non indica alcun
termine finale presentando un'efficacia sine die, o meglio, produce effetti
sino alla contestata eliminazione del pericolo senza che residui alcuno
spazio per l’esercizio dei poteri ordinari, aspetto, questo, che contrasta
proprio con il carattere eccezionale e temporaneo tipico del provvedimento
di carattere straordinario.
VII.2.4. Devono allora ritenersi fondate le censure dedotte da parte
ricorrente, quanto agli eventuali interventi per il ripristino delle
condizioni di sicurezza, essendo discutibile l’imprescindibilità del ricorso
ai poteri extra ordinem per l’asserita impossibilità di un efficace utilizzo
degli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento, a fronte, di contro, del
protrarsi dello stato di abbandono proprio per l’omessa e reiterata assenza
di manutenzione nella delimitazione del cantiere (recinzione e scavo
prospiciente il marciapiede) ad opera della società affidataria dei lavori,
intestataria della licenza edilizia, che, invero, si è andato aggravando nel
tempo con conseguenze tutt’altro che imprevedibili.
VIII. Sulla base delle precedenti considerazioni, il ricorso, assorbite le
ulteriori censure dedotte, va comunque accolto, nei termini di cui in
motivazione, per carenza dei requisiti legittimanti tanto l’adozione di una
ordinanza contingibile ed urgente quanto il conseguente diniego di riesame (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 02.03.2020 n. 971 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
febbraio 2020 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
richiesta di accesso all'elenco delle autorizzazioni paesaggistiche
rilasciate ex art. 146, comma 13, d.lgs. n. 42/2004 – Richiesta di accesso
formulata in modo poco chiaro – Sostanziale esercizio del diritto di cui
all’art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013 – Obbligo, a carico dell’amministrazione,
di interpretazione quale istanza di accesso civico generalizzato.
Nel caso di istanza di accesso formulata dal in modo poco
chiaro (nella fattispecie non recante riferimenti all’accesso civico
generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma
13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative
all’accesso documentale) il comune deve interpretare l’istanza, tenuto conto
che il cittadino può anche non possedere particolari conoscenze giuridiche e
che sussiste un dovere di soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una
istanza di accesso civico generalizzato.
Questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal rilievo che
appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare interesse alla
conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne la
qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e
facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13,
d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di
istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile
a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto
dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto
dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere
i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”;
In questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire
prontamente al ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una
propria inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico
aggiornamento dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia
affermato da un lato l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e
dall’altro affermato che il ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso
civico ai documenti (in pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non per il mero riferimento formale
all’accesso civico generalizzato a quella già presentata);
Questo modo di operare appare espressione di una concezione
burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in
chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono
l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo
economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento
amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la
rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in
questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe
stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in
realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la
legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e
che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza
necessità di farne esplicita richiesta al comune).
---------------
Espone il ricorrente di aver presentato al comune di Solopaca in data
17.09.2019 una istanza di accesso con cui chiedeva –avendo notato la
realizzazione di lavori edili su un immobile appartenente alla
controinteressata– l’accesso all’autorizzazione paesaggistica, se esistente,
e all’elenco delle autorizzazioni paesaggistiche previsto dall’articolo 146,
comma 13, d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il successivo 23.10.2019 il responsabile dell’ufficio tecnica dava riscontro
all’istanza con una nota in cui faceva presente che: a) “per i
provvedimenti finali di autorizzazione e concessione …. non sussiste un
obbligo di pubblicazione trattandosi di atti già soggetti ad accesso civico”;
b) che “resta ferma la possibilità di esercitare il diritto di accesso
civico generalizzato …. ai sensi degli articoli 5, co. 2 e 5-bis del d.lgs.
33/2013”; c) sarebbe comunque stato in “corso di predisposizione”
la pubblicazione sul sito web comunale dell’elenco nella sezione dedicata
alla trasparenza.
Di qui il ricorso all’esame, notificato il 19.11.2019 e depositato il
26.11.2019 con cui il ricorrente denuncia che la nota in questione è
illegittima per violazione dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. 22.01.2004,
n. 42, dell’articolo 5 d.lgs. 14.03.2013, n. 33 e degli articoli 22, 24 e 25
della legge 07.08.1990, n. 241.
Né il comune di Solopaca né la controinteressata si sono costituiti in
giudizio.
Il ricorso è fondato e va accolto, ritenendo il collegio che sussista la
violazione della normativa in materia di accesso civico generalizzato.
Va premesso che l’istanza di accesso è stata formulata dal ricorrente in
modo poco chiaro, dato che essa non reca riferimenti all’accesso civico
generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma
13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative
all’accesso documentale.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, il comune avrebbe potuto e dovuto
interpretare l’istanza, tenuto conto che il cittadino può anche non
possedere particolari conoscenze giuridiche e che sussiste un dovere di
soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una istanza di accesso civico
generalizzato; questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal
rilievo che appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare
interesse alla conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne
la qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e
facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13,
d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di
istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile
a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto
dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto
dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere
i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”; in
questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire prontamente al
ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una propria
inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico aggiornamento
dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia affermato da un lato
l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e dall’altro affermato che il
ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso civico ai documenti (in
pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non
per il mero riferimento formale all’accesso civico generalizzato a quella
già presentata); questo modo di operare appare espressione di una concezione
burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in
chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono
l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo
economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento
amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la
rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in
questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe
stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in
realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la
legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e
che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza
necessità di farne esplicita richiesta al comune).
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente ordine al comune di
Solopaca di fornire al ricorrente la documentazione che ha richiesto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 28.02.2020 n. 928 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Contributi
e finanziamenti pubblici, illegittimi senza criteri trasparenti. Il problema
delle graduatorie per la concessione di un finanziamento pubblico non
accompagnate da criteri oggettivi di valutazione.
In materia di concessione di contributi pubblici, è
necessario che i criteri seguiti per formare la graduatoria siano
individuati da appositi atti dell’amministrazione, in mancanza la
graduatoria si presenta priva di motivazione.
Ai sensi dell’art. 12, comma 2, della l. 241/1990, l’amministrazione ha il
dovere di indicare, con il provvedimento attributivo di vantaggi economici,
i criteri e le modalità osservate nella ripartizione di essi.
In via più generale, l’art. 3 della stessa legge prevede l’obbligo di
motivare i provvedimenti amministrativi: “Ogni provvedimento
amministrativo (…) deve essere motivato (…) La motivazione deve indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria”.
Sulla base del combinato disposto di queste disposizioni, il TAR Lazio ha
annullato per difetto di motivazione una graduatoria perché né l’atto
impugnato, né ulteriori documenti ad esso allegati, o comunque resi
disponibili dall’amministrazione, avevano indicato quali criteri erano stati
seguiti per la sua formazione.
Il dovere di motivazione nella procedura di concessione di
un finanziamento pubblico
In via generale il combinato disposto dell’art. 3 della l. 241/1990 sul
dovere di motivazione e del sopra citato art. 12, sull’obbligo di
individuare i criteri nell’attribuzione di vantaggi economici, impone una
previa determinazione dei criteri per la formazione di una graduatoria
finalizzata alla concessione di contributi pubblici.
In particolare una tale determinazione è necessaria ai fini di assolvere
all’obbligo motivazionale mediante punteggio numerico (Cons. Stato, sez. III,
n. 2725 del 2019).
Tali criteri sono tesi ad evitare arbitrii lesivi del principio di
imparzialità dell’agire amministrativo.
Ciò detto, ammettono i giudici amministrativi capitolini, sarebbe anche
possibile che tali criteri emergano da altro atto diverso ma richiamato, o
siano persino resi noti successivamente su istanza di accesso.
Inoltre, l’amministrazione in difetto di criteri potrebbe invocare a sua
difesa l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, nei casi in cui l’atto
sia vincolato e quindi il suo contenuto non possa essere differente (fermo
restano che il dovere di motivazione si riferisce anche agli atti vincolati,
e che è solo la sua inosservanza a consentire l’applicazione di tale regola,
ove ne ricorrano i presupposti, tra cui il carattere palese del dato
acquisito).
L’atto privo di motivazione non è nullo, ma annullabile
Quanto ad una possibile declaratoria di nullità dell’atto per assenza di
motivazione, e dunque carenza di un elemento essenziale (cd. “nullità
strutturale”: art. 21-septies legge n. 241 del 1990), la sentenza
chiarisce che il difetto di motivazione (e anche la sua totale assenza)
rifluisce nel vizio di violazione di legge, e comporta annullabilità (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 25.02.2020 n.
2483 - commento tratto da
www.giurdanella.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: È
illegittima l’erogazione di contributi se la graduatoria non indica i
criteri di valutazione delle domande
È illegittima la concessione di contributi pubblici nel
caso in cui la graduatoria dei beneficiari sia priva di motivazione, ossia
non indichi i criteri seguiti per formarla, né faccia rinvio ad altro
documento esplicativo con riguardo alla procedura di valutazione eseguita
dalla Pa.
Questo il principio affermato dal
TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la
sentenza 25.02.2020 n.
2483, per
effetto del corollario desunto dal combinato disposto degli articoli 3
(obbligo di motivazione dell'atto amministrativo) e 12 (provvedimenti
attributivi di vantaggi economici) della legge 241/1990.
La pronuncia è degna di interesse anche per il fatto che in genere gli enti,
pur dotati formalmente del regolamento prescritto dal suddetto articolo 12,
non sempre procedono all'erogazione di sussidi sulla base di criteri e
modalità ispirati ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza.
La decisione
La vicenda riguarda un ricorso proposto contro un decreto del ministero dei
Beni e delle attività culturali che, in attuazione della legge 220/2016 e
del Dpcm 04.08.2017, ha disposto la concessione di contributi pubblici per
supportare la diffusione e l'ammodernamento delle sale cinematografiche,
dando fondo alla distribuzione di risorse per un importo di poco superiore a
5 milioni di euro.
La parte ricorrente si era classificata al nono posto tra i soggetti ammessi
a contributo, ma non aveva ricevuto fondi per esaurimento delle risorse
disponibili, che erano state assegnate solo ai primi sette della
graduatoria.
Di qui il gravame dinanzi al Tar contro il decreto del ministero, con la
conseguente richiesta di annullamento dell'atto per difetto di motivazione,
violazione di legge ed eccesso di potere.
I giudici hanno accolto il ricorso censurando l'operato del ministero, che
ora dovrà ripartire da zero con una nuova valutazione delle domande delle
sale cinematografiche, previa individuazione dei criteri di riparto delle
risorse in palio, dandone comunicazione ai soggetti interessati.
Come si è detto, i giudici hanno fondato la pronuncia di annullamento del
decreto ministeriale sull'obbligo della Pa di motivare gli atti che incidono
sulla sfera giuridica dei terzi, dando applicazione ai criteri di
trasparenza, di pubblicità e di imparzialità nel distribuire le risorse
pubbliche.
I giudici hanno riscontrato che «il decreto censurato ha approvato la
graduatoria senza alcun riferimento ai criteri seguiti per formarla, e senza
rinviare ad altro documento esplicativo».
Si noti, per inciso, che il decreto in questione recava un'apposita sezione
con la tabella dei punteggi assegnati alle domande, ma era carente di
motivazione in ordine alla procedura di valutazione eseguita per giungere al
risultato degli ammessi.
Quel che mancava, in sostanza, era la griglia predeterminata dei criteri ai
fini della ripartizione dei fondi, non bastando il mero esito esplicativo
dell'attività svolta.
La mancata dimostrazione del rapporto tra attribuzione del punteggio e
parametri di valutazione è risultata dirimente ai fini della declaratoria di
illegittimità, stante il contrasto della fattispecie con il principio di
buon andamento cui deve sempre uniformarsi l'azione della Pa.
I precedenti giurisprudenziali
È il caso di ricordare come la giurisprudenza amministrativa e contabile
abbia più volte ribadito l'esigenza di dare corso con particolare cautela
all'impiego di risorse pubbliche nei confronti dei terzi, tenuto conto del
fatto che la mancata osservanza delle regole in materia può costituire fonte
di danno erariale.
In particolare, il Consiglio di Stato, con la sentenza 7845/2019 ha
osservato che l'onere di subordinare la concessione di vantaggi economici a
soggetti terzi alla predeterminazione di criteri e modalità cui attenersi «è
espressione di un principio generale per il quale l'erogazione di somme di
denaro da parte dell'amministrazione pubblica, in qualsiasi forma avvenga,
non può considerarsi completamente libera, essendo, invece, necessario che
la discrezionalità che connota tale attività sia incanalata mediante la
preventiva predisposizione di criteri e modalità di scelta del progetto o
dell'attività da beneficiare».
Di qui la necessità che l'erogazione di contributi pubblici venga
circoscritta con cura e subordinata all'osservanza di criteri
predeterminati, secondo un'apposita istruttoria da riportare volta per volta
nella motivazione dei provvedimenti adottati
(articolo Scuola24 del 16.04.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Illegittima
l'erogazione di contributi se la graduatoria non indica i criteri di
valutazione delle domande.
È illegittima la concessione di contributi pubblici nel
caso in cui la graduatoria dei beneficiari sia priva di motivazione, ossia
non indichi i criteri seguiti per formarla, né faccia rinvio ad altro
documento esplicativo con riguardo alla procedura di valutazione eseguita
dalla Pa.
Questo il principio affermato dal
TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la
sentenza 25.02.2020 n.
2483
per
effetto del corollario desunto dal combinato disposto degli articoli 3
(obbligo di motivazione dell'atto amministrativo) e 12 (provvedimenti
attributivi di vantaggi economici) della legge 241/1990.
La pronuncia è degna di interesse anche per il fatto che in genere gli enti,
pur dotati formalmente del regolamento prescritto dal suddetto articolo 12,
non sempre procedono all'erogazione di sussidi sulla base di criteri e
modalità ispirati ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza.
Si noti, per inciso, che il decreto in questione recava un'apposita sezione
con la tabella dei punteggi assegnati alle domande, ma era carente di
motivazione in ordine alla procedura di valutazione eseguita per giungere al
risultato degli ammessi. Quel che mancava, in sostanza, era la griglia
predeterminata dei criteri ai fini della ripartizione dei fondi, non
bastando il mero esito esplicativo dell'attività svolta
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.04.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
ai documenti amministrativi e detenzione degli atti di cui si chiede
l’ostensione.
L’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai
documenti amministrativi, è tenuta unicamente a rendere gli atti di cui
abbia la disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere
un’attività di ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti
pubblici, ciò al fine di coniugare il diritto alla trasparenza con
l’esigenza di non pregiudicare, attraverso l'esercizio del diritto di
accesso, il buon andamento dell’Amministrazione, non potendosi azionare il
rimedio di cui all’art. 25 della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su
quest’ultima l’onere di reperire la documentazione richiesta bensì
esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già in
possesso della stessa.
---------------
Il ricorso non è meritevole di accoglimento risultando dagli atti di causa
che, come rappresentato in atti dall’Ateneo resistente, il competente
ufficio dell’Area Risorse Umane dell’Università abbia già l’08.08.2019
consentito al legale di parte ricorrente di accedere al fascicolo personale
del ricorrente e di estrarne copia di tutta la documentazione ivi contenuta,
per un totale di “374 fogli”, come da relativo verbale redatto in
pari data, richiamato anche nella contestata nota del 15.11.2019, in cui,
con riferimento a “l’ulteriore richiesta di acquisizione atti …inerente
l’attività assistenziale del Prof. Vi.Al. nella sua qualità di docente
medico strutturato presso l’Azienda Ospedaliera Policlinico Umberto I”,
si evidenziava “la necessità di rivolgere analoga richiesta ai competenti
Uffici dell’A.O.U. Policlinico Umberto I”.
Ne discende come risulti incontestato che l’Ateneo intimato, già nel
riscontrare la prima richiesta di accesso avanzata dal ricorrente, abbia già
messo a disposizione del ricorrente tutta la documentazione di cui dispone e
che è tenuta a detenere, residuando rispetto ad essa i soli atti relativi
all’attività assistenziale da costui svolta presso un diverso ente
(l’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I) -avente autonoma
personalità giuridica ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 517/1999- al quale
egli afferma di aver, tra l’altro, già avanzato la relativa richiesta.
La giurisprudenza amministrativa è, infatti, consolidata nell’affermare come
l’Amministrazione, in sede di istanza di accesso ai documenti
amministrativi, sia tenuta unicamente a rendere gli atti di cui abbia la
disponibilità giuridica e materiale e non anche a compiere un’attività di
ricerca degli stessi presso terzi, anche se soggetti pubblici, ciò al fine
di coniugare il diritto alla trasparenza con l’esigenza di non pregiudicare,
attraverso l'esercizio del diritto di accesso, il buon andamento
dell’Amministrazione, non potendosi azionare il rimedio di cui all’art. 25
della l. n. 241/1990 allo scopo di riversare su quest’ultima l’onere di
reperire la documentazione richiesta bensì esclusivamente al fine di
ottenere il rilascio di copie di documenti già in possesso della stessa (in
tal senso, ex multis, questo TAR Lazio, Roma, Sezione I, n.
4695/2018, e Sezione III, n. 11291/2017) (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 19.02.2020 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A
fronte di verifiche antimafia "positive" (con riscontro di interdittive)
questa Amministrazione statale operante nella pubblica sicurezza procede a
adottare i conseguenti provvedimenti di autotutela o cautelari.
Spesso gli interessati contestano che le informazioni antimafia siano state
emesse senza contraddittorio o avvio del procedimento e ne chiedono
l’annullamento.
Vi sono margini per accogliere queste lamentele?
La disciplina delle "informazioni antimafia") è contenuta nel D.Lgs.
06.09.2011, n. 159 il quale delinea un procedimento peculiare (rispetto agli
ordinari procedimenti amministrativi), di natura cautelare e urgente che
deroga, secondo la costante e consolidata giurisprudenza, alla disciplina
della L. 07.08.1990, n. 241.
Infatti si sottolinea in modo costante come "Ai fini delle informazioni
antimafia non occorre la comunicazione di avvio del procedimento, previsto
dall'art. 7 della L. n. 241 e il preavviso di rigetto, previsto dall'art.
10-bis della stessa legge. L'informazione antimafia non richiede la
necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente
eventuale in questa materia ai sensi dell'art. 93, comma 7, del D.Lgs. n.
159 del 2011". Ciò in quanto procedimento "intrinsecamente
caratterizzato da profili di urgenza".
Ciò detto, se non è possibile dare rilievo a eventuali osservazioni
concernenti le modalità di rilascio dell’informativa antimafia
l’amministrazione procedente deve tuttavia valutare la necessità,
nell’ambito del proprio procedimento (es. concessione di contributi, appalti
ecc..) di procedere comunque tramite le garanzie previste dalla L.
07.08.1990, n. 241 in quanto, nel caso concreto, potrebbero non sussistere
le ragioni di urgenza che legittimano l’omissione del contraddittorio.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L.
07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 93
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III,
31.01.2020, n. 820 - TAR Piemonte-Torino Sez. I, 18.11.2019, n. 1152 - TAR
Campania-Napoli Sez. I, 07.11.2018, n. 6465 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
20.08.2018, n. 1718 - Cons. Stato Sez. III Sent., 27.03.2017, n. 1378 -
Cons. Stato Sez. III Sent., 28.10.2016, n. 4555 - Cons. Stato Sez. III Sent.,
28.10.2016, n. 4550 - Cons. Stato Sez. III, 01.09.2014, n. 4447
(19.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
presupposto necessario perché sia ammissibile l'istanza di accesso civico
generalizzato è che sia strumentale alla tutela di un interesse generale.
Uno solo è il presupposto imprescindibile di
ammissibilità dell'istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua
strumentalità alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza,
dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse generale della
collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel
caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato
ed individuale.
Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo per evidenti ed
esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale
dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso
concreto, a singoli individui od enti associativi particolari: al riguardo,
il giudice amministrativo è tenuto a verificare in concreto l'effettività di
ciò, a nulla rilevando tanto meno in termini presuntivi- la
circostanza che tali soggetti eventualmente auto-dichiarino di agire quali
enti esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.
Pertanto, sebbene il legislatore non chieda all'interessato di formalmente
motivare la richiesta di accesso generalizzato, la stessa vada disattesa,
ove non risulti in modo chiaro ed inequivoco l'esclusiva rispondenza di
detta richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza
pubblica, essendo del tutto estraneo al perimetro normativo della
fattispecie la strumentalità (anche solo concorrente) ad un bisogno
conoscitivo privato.
In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un
onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto
agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1121 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come
responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al
giudice ordinario.
Considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta
responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti
in violazione dei diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il
giudice amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari
materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che la
pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come
responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al
giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la circostanza della
avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché la connessione non
fa derogare alla giurisdizione.
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste
di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di
immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno
e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la
persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al
più, è con lui solidamente obbligata).
---------------
4. Va in limine esaminato il terzo motivo di appello, con cui la
società Ni.Ga. ha contestato le statuizioni di prime cure nella parte in cui
hanno dichiarato inammissibile, perché proposta dinanzi al giudice privo di
giurisdizione, la domanda risarcitoria nei confronti dei RUP
dell’Amministrazione appellata.
Per l’appellante si verte nella specie in un’ipotesi di giurisdizione
amministrativa esclusiva: la domanda risarcitoria è stata, infatti,
formulata nei confronti dei funzionari dell’ente pubblico in quanto
anch’essi responsabili dell’inadempimento agli obblighi assunti con
l’accordo ex art. 11 l. n. 241 del 1990 di cui al verbale di riunione
sottoscritto il 01.12.2009. Non sarebbe pertanto in sé dirimente la natura
privata del soggetto convenuto.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Bene la sentenza appellata ha rilevato il difetto di giurisdizione
amministrativa in parte qua, ritenendo la giurisdizione ordinaria.
Infatti, considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta responsabilità dei
funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti in violazione dei
diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il giudice
amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari
materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che
la pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico,
come responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va
proposta al giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la
circostanza della avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché
la connessione non fa derogare alla giurisdizione (Cass., SS.UU., 05.03.2008
n. 5914, 17.05.2010, n. 11932 e 08.03.2011 n. 5408).
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste
di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di
immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno
e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la
persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al
più, è con lui solidamente obbligata) (Cass., SS.UU., 13.06.2006 n. 13659)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale
dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio
dell’autorizzazione definitiva.
---------------
Secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le
sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere
dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati,
poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione
delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la
cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello
stesso.
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal
suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di
degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio
riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del
relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori
modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento
della situazione ed a perseguirne il possibile recupero.
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché
sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie,
alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente
l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della
permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione
del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela
del bene compendiato nel vincolo.
---------------
Secondo la consolidata
giurisprudenza, in presenza di provvedimenti con
motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli
profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il
conseguente effetto annullatorio dei medesimi.
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui
il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il
giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei
motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne
ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso
sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte
avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui
i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto
implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre
doglianze.
---------------
1. La società ricorrente ha impugnato, assieme a tutti gli atti inerenti e
presupposti, la determina dirigenziale specificata in epigrafe, con la quale
l’amministrazione comunale ha concluso negativamente la conferenza di
servizi indetta in relazione al procedimento di rilascio dell’autorizzazione
ex art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006.
La determinazione conclusiva della conferenza ha fondato il diniego sulla
ritenuta assenza dei requisiti urbanistici e ambientali previsti per la
realizzazione degli impianti di autodemolizione dalla normativa vigente e,
in particolare, dal citato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006 e dal D.Lgs. n.
209/2003.
In fatto, ha dedotto la ricorrente di svolgere attività di autodemolizione
da circa trent’anni in virtù di una serie di autorizzazioni provvisorie,
sempre di volta in volta rinnovate, e di aver presentato vari progetti di
adeguamento in linea con le normative succedutesi nel tempo e a seguito
delle relative richieste da parte dell’amministrazione.
Ha altresì affermato di aver accettato la prefigurata delocalizzazione degli
impianti di autodemolizione, così come era stato previsto nell’ambito
dell’accordo di programma intervenuto tra Comune e Regione, ratificato con
delibera del Consiglio comunale n. 263 del 02.10.1997.
Ha pure sostenuto di aver presentato nel 2004 un apposito progetto di
adeguamento dell’attuale impianto ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n.
209/2003, impianto che risulterebbe idoneo ad ottenere l’autorizzazione
definitiva, titolo che tuttavia non è stato mai rilasciato; che anzi Roma
Capitale, sin dal 2016, ha continuato a pretendere le garanzie fideiussorie
e ha imposto anche la presentazione di un progetto definitivo (la ricorrente
ha presentato un progetto per la delocalizzazione di Casal Selce, località
indicata dal Comune e mai effettivamente assegnata).
Nelle more, l’istante ha svolto la propria attività, come detto, sulla base
di titoli provvisori, rilasciati dapprima dal Commissario Straordinario per
l’emergenza rifiuti a Roma e dalla Provincia e quindi da Roma Capitale (una
volta cessato il regime commissariale del 2013).
Inopinatamente e inaspettatamente -deduce la società esponente in ricorso-
il Dipartimento Tutela Ambientale Direzione Rifiuti Risanamenti e
Inquinamenti – U.O. Rifiuti e Risanamenti ha adottato la determina n.
QL315/2018 dell’01.03.2018, con la quale ha richiesto in tempi brevi la
presentazione di un progetto definitivo di impianto per l’area attuale, ai
fini dell’approvazione ai sensi dell’art. 208 D.Lgs. 152/2006.
...
2. Il ricorso non può essere accolto.
3. Il Collegio ritiene utile, in primo luogo, riepilogare la normativa
applicabile alla fattispecie in esame.
Il più volte citato art. 208 del D.lgs. n. 152/2006, al primo comma, recita
che “I soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di
smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare
apposita domanda alla regione competente per territorio, allegando il
progetto definitivo dell'impianto e la documentazione tecnica prevista per
la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia
urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di
igiene pubblica. Ove l'impianto debba essere sottoposto alla procedura di
valutazione di impatto ambientale ai sensi della normativa vigente, alla
domanda è altresì allegata la comunicazione del progetto all'autorità
competente ai predetti fini (...)”.
Al comma quarto il medesimo articolo stabilisce che “Entro novanta giorni
dalla sua convocazione, la Conferenza di servizi: a) procede alla
valutazione dei progetti; b) acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi
alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall'articolo 177, comma
4; c) acquisisce, ove previsto dalla normativa vigente, la valutazione di
compatibilità ambientale; d) trasmette le proprie conclusioni con i relativi
atti alla regione”.
Con l’art. 6, comma 2, lettere b) e c), della L.R. n. 27/1998 la Regione
Lazio ha delegato ai Comuni “b) l'approvazione dei progetti degli
impianti per lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti provenienti dalla
demolizione degli autoveicoli a motore e rimorchi, dalla rottamazione dei
macchinari e delle apparecchiature deteriorati ed obsoleti e la relativa
autorizzazione alla realizzazione degli impianti, nonché l'approvazione dei
progetti di varianti sostanziali in corso di esercizio e la relativa
autorizzazione alla realizzazione;” e “c) l'autorizzazione
all'esercizio delle attività di smaltimento e recupero dei rifiuti di cui
alle lettere a) e b)”.
Ne discende, pertanto, che nel caso di specie l’amministrazione procedente è
correttamente Roma Capitale.
Occorre, infine, rammentare l’art. 177, comma 4, del D.lgs. n. 152/2006,
richiamato dal su citato art. 208, ai sensi del quale “I rifiuti sono
gestiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o
metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare: a)
senza determinare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, nonché per la fauna
e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori o odori; c) senza
danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse, tutelati in base
alla normativa vigente”.
4. Secondo la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del
D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale
dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio
dell’autorizzazione definitiva.
Nella specie, come emerge dalla parte motiva della determina impugnata,
nell’ambito della conferenza sono stati valutati gli aspetti urbanistici ed
ambientali, le cui risultanze non potevano che condurre ad un esito negativo
per assenza dei predetti requisiti.
4.1. In detto provvedimento viene riportato il parere del Dipartimento PAU,
il quale ha rilevato che il sito ricade in un’area con la seguente
destinazione di PRG: Sistema Insediativo, Citta della Trasformazione, Ambiti
a Pianificazione Particolareggiata definita, di all’art. 62 delle N.T.A. di
P.R.G. vigente, in quanto risulta inserita nel Piano Particolareggiato di
Zona “O” P.P. n. 12- Casalotti Mazzalupo, approvato con Deliberazione di
Giunta Regionale n. 536 del 04/08/2006.
Nell’elaborato Tav. B del P.T.P.R. – Beni paesaggistici del Piano
territoriale Paesistico Regionale, l’area presenta il seguente Bene
Paesaggistico: Protezione dei corsi delle acque pubbliche, di cui all’art.
35 delle N.T.A. di P.T.P.R., denominato “Fosso della Magliana di
Maglianella, di S. Spirito e della Palmarola”. Pertanto, considerata
l’inclusione dell’area nel perimetro del Piano Particolareggiato denominato
“Casalotti Mazzalupo”, avente destinazione a Zona di Conservazione,
Completamento e nuova Edificazione residenziale, non residenziale e Mista, e
minima parte destinata a Verde Pubblico e il contesto edilizio circostante,
si è ritenuto che la localizzazione di un impianto di autodemolizione
risultasse non compatibile.
Il Dipartimento PAU, inoltre, ha evidenziato che non risultava dimostrata la
legittimità della preesistenza dell’impianto.
4.2. Inoltre, l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere ha elaborato un’analisi
di dettaglio, dalla quale si desume che l’impianto ricade all’interno di un
“corridoio ambientale”, per cui viene dichiarato non compatibile con
la pianificazione di bacino, “poiché per la sua tipologia non persegue le
finalità PS5 Piano di Bacino del fiume Tevere – Piano stralcio per il tratto
metropolitano del Tevere da Castel Giubileo alla foce”.
4.3. Quanto agli aspetti ambientali, ARPA Lazio ha evidenziato che il
progetto risulta incompleto degli elementi necessari rispetto a quanto
previsto dalla normativa vigente e, in particolare, dall’art. 208 del D.Lgs.
152/2006 e dal D.Lgs. 209/2003, specificando il dettaglio delle carenze
riscontrate nella documentazione progettuale.
4.4. La Regione Lazio, nel parere relativo alla Valutazione di Impatto
Ambientale ha rilevato la necessità che la documentazione fosse integrata
con elementi fondamentali a valutare l’assoggettabilità a VIA.
4.5. La Città Metropolitana di Roma Capitale ha poi sostenuto che devono
essere sottoposte a trattamento depurativo non soltanto le acque di prima
pioggia, ma tutte le acque meteoriche di dilavamento, così come previsto
dalla Circolare del Ministero dell’Ambiente prot. 4084 del 15/03/2018,
recante “Linee Guida per la gestione Operativa degli Stoccaggi negli
impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”, qualora
vi siano depositi di rifiuti sui piazzali scoperti, concludendo che
l’autorizzazione allo scarico in copro idrico delle sole acque di prima
pioggia rilasciata a favore della Società con D.D. R.U. 4249 del 06/10/2017
non potesse più ritenersi esaustiva.
Per quanto concerne le emissioni in atmosfera, essa ha rilevato la carenza
della documentazione integrativa richiesta alla Società.
5. Deve considerarsi che, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di
proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché
l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione delle
cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la
cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello
stesso (cfr. Consiglio di Stato, VI, 11.06.2012, n. 3401; Consiglio di
Stato, VI, 15.06.2011, n. 3644).
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal
suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di
degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio
riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del
relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori
modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento
della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (cfr. TAR Lazio,
Roma, II-quater, 30.10.2018, n. 10466).
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché
sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie,
alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente
l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della
permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione
del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela
del bene compendiato nel vincolo.
5.1. Il parere nel caso in esame è di segno negativo.
6. In ogni caso occorre evidenziare che il provvedimento gravato è un atto
plurimotivato in quanto basato su molteplici ragioni.
Secondo la consolidata
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, in presenza di provvedimenti con
motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli
profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il
conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr. Cons. St., V, 10.03.2009
n. 1383; Cons. St., V, 28.12.2007, n. 6732; Tar Campania, Napoli, VII,
28.07.2014, n. 4349; Tar Campania, Napoli, VII, 09.12.2013 n. 5632).
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui
il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il
giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei
motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne
ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso
sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte
avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui
i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto
implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre
doglianze (cfr. Cons. St., IV, 05.02.2013, n. 694; Cons. St., IV, 08.06.2007
n. 3020; Tar Campania, Napoli, III, 09.02.2013, n. 844; Tar Campania,
Napoli, II, 15.01.2013, n. 304).
6.1. Fatte queste premesse, deve considerarsi che, come si è evidenziato in
precedenza, il diniego di autorizzazione definitiva relativo all’impianto
gestito dalla ditta ricorrente, in cui si sostanzia la conclusione negativa
del procedimento di autorizzazione ai sensi dell'art. 208 del dlgs 152/2006
e ss.mm.ii. di cui alla determina qui impugnata, si fonda in primo luogo
sull’incompatibilità urbanistica dell’impianto stesso, profilo, che,
all’esito dello scrutinio eseguito in questa sede, è risultato esente da
vizi.
7. Deve poi sottolinearsi che non può ritenersi sussistente alcun tipo di
affidamento in capo alla ricorrente circa la localizzazione dell’impianto,
proprio in quanto la stessa ha sempre operato in forza unicamente di
autorizzazioni provvisorie che non sono idonee a legittimarne l’ubicazione.
Dal che la piena legittimità del provvedimento impugnato.
8. Né può ritenersi un’invalidità dell’atto per effetto dell’inerzia
palesata dalle amministrazioni comunale e regionale nel provvedere alla
delocalizzazione.
8.1. Al riguardo, sotto un primo profilo, deve evidenziarsi come gli stessi
titolari degli impianti di autodemolizione potevano attivarsi al fine di
ottenere l’adempimento dell’accordo di programma e dunque sollecitare nelle
dovute sedi e con gli opportuni strumenti (anche giudiziali) gli enti che
rimanevano inerti.
8.2. Sotto altro profilo, una eventuale responsabilità potrà essere fatta
valere, se del caso e laddove sussistente in tutti i suoi elementi
costitutivi, in altra e separata sede, non potendo tuttavia ridondare
l’inadempimento dell’amministrazione quale motivo di illegittimità
dell’odierno provvedimento.
9. Resta fermo come sia auspicabile la doverosa conclusione del procedimento
di delocalizzazione degli impianti che risultino ubicati in aree
incompatibili, perché aventi una diversa destinazione urbanistica o perché
gravati da vincoli statali di natura paesaggistica o archeologica.
Sia il D.Lgs. 209/2003, sia l’art. 6-bis introdotto dalla LR n. 13/2018
nella LR n. 27/1998, sollecitano una rilocalizzazione degli impianti in
quanto solo in questo modo si può addivenire ad una disciplina di settore
che contemperi le esigenze pubbliche con quelle economiche e produttive
delle attività.
E del resto i principi di efficienza, buon andamento ed efficacia
dell’azione amministrativa inducono ad una celere definizione della annosa
vicenda de qua, la quale paralizza sine die le attività di
trattamento dei veicoli fuori uso e/o di trattamento dei rifiuti metallici
ferrosi e non ferrosi che, seppure private e con finalità di lucro sono
comunque funzionali anche ad esigenze di smaltimento di rifiuti e sanitarie
del territorio metropolitano.
10. Né possono accogliersi le doglianze mosse dal ricorrente, segnatamente
sotto il profilo procedimentale.
11. Quanto alla dedotta violazione del contraddittorio procedimentale (art.
10-bis e 14 ss. Legge 241/1990), si tratta, con tutta evidenza, di mere
irregolarità emendabili ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 2, Legge
241/1990, che non possono condurre a ritenere il contenuto sostanziale
dell’atto illegittimo.
11.1. Peraltro il privato aveva partecipato agli sviluppi della conferenza;
ergo non si può dire che la determina finale sia un sorta di atto “a
sorpresa”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 10.02.2020 n. 1780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1.- Pubblica amministrazione - procedimento amministrativo – art. 17-bis L.
241/1990 – silenzio-assenso “orizzontale” - ratio e finalità.
L’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. legge
Madia) ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di
semplificazione del procedimento amministrativo: si tratta di una
fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra
Amministrazioni Pubbliche, oppure tra Amministrazioni e soggetti gestori di
beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla
specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che
interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come
silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più
amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il
destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più Amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
Amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della
decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un
elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase
decisoria del procedimento.
In sintesi, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt. 16
e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e le
valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del
procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis
della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra Amministrazioni, concerne
invece la fase decisoria(e precisamente quellapre-decisioria) del
procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento
amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi (massima free tratta da
e link a www.giustamm.it - TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 06.02.2020
n. 194).
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SENTENZA
1.- Con il primo motivo, la società deduce l’avvenuto compimento,
nel corso dell’esame della propria istanza, di una fattispecie di
silenzio-assenso c.d. orizzontale tra amministrazioni, motivandone
ampiamente le ragioni in diritto.
Tuttavia, la tesi non può essere condivisa, stante la lettera della
disposizione normativa e la finalità della novella della legge 07.08.1990 n.
241, effettuata ad opera dell’art. 3 della legge 07.08.2015 n. 124 (c.d.
legge Madia), che ha disciplinato, all’art. 17-bis, un nuovo istituto di
semplificazione del procedimento amministrativo.
Si tratta di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso,
che matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e
soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i
limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che
interviene all’interno del modulo procedimentale, oppure anche come
silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più
amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il
destinatario del provvedimento.
Pertanto, l’ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all’emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell’esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l’avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell’emanazione della
decisione finale.
L’obiettivo raggiunto dal legislatore è stato quello di aver introdotto un
elemento di semplificazione, che questa volta interviene nella fase
decisoria del procedimento.
Per meglio dire, mentre gli istituti di semplificazione, previsti dagli artt.
16 e 17 della legge 07.08.1990 n. 241, riguardano i pareri amministrativi e
le valutazioni (pareri) tecnici, da acquisirsi nella fase istruttoria del
procedimento, l’istituto di semplificazione, introdotto dall’art. 17-bis
della legge 07.08.1990 n. 241, del silenzio tra amministrazioni, concerne
invece la fase decisoria (e precisamente quella pre-decisioria) del
procedimento, quando cioè v’è uno schema, o bozza di provvedimento
amministrativo (o di atto normativo) da adottarsi (così: Cons. St., comm.
spec., parere 23.06.2016 n. 1640; Cons. St., sez. III, 20.06.2018 n. 3783).
Tant’è che l’art. 17-bis della legge n. 241 citato prevede che, qualora
debba acquisirsi l’assenso (o concerto, o nulla osta) per l’adozione di
provvedimenti amministrativi (o anche di atti normativi) di competenza di
altre amministrazioni, le amministrazioni interpellate comunicano l’assenso,
ove lo ritengano, entro trenta giorni dal ricevimento di uno schema, già
elaborato, che deve essere corredato dalla relativa documentazione,
evidentemente istruttoria.
Il termine è interrotto qualora l’amministrazione, che deve rendere il
proprio assenso, rappresenti l’esigenza di ulteriore istruttoria, oppure
richieda motivate modifiche dello schema, formulate in modo puntuale. In tal
caso, l’assenso dovrà essere reso nei successivi trenta giorni.
Decorsi i predetti termini, senza che sia stato comunicato l’assenso, lo
stesso si intende acquisito (silenzio-assenso interno). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul diritto all'accesso civico generalizzato.
Il "diritto all'accesso civico generalizzato" riguarda
la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle
pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013. La legittimazione
a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a prescindere da un
particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all'amministrazione di individuare il dato, il
documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste
generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente
irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di
compromettere il buon funzionamento dell'amministrazione, la stessa può
ponderare, da un lato, l'interesse all'accesso ai documenti, dall'altro,
l'interesse al buon andamento dell'attività amministrativa (Linee guida
Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato, par.
4.2).
L'esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lettera a), del d.lgs. n.
33/2013) (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 05.02.2020 n. 3 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Differenza
tra i presupposti dell'accesso normale e quelli dell'accesso civico
generalizzato, in relazione all'impugnativa di un diniego di permesso di
costruire.
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●
Accesso ai documenti – Istanza – Reiterazione – Possibilità – Condizione.
●
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Ambito di applicazione –
Individuazione.
●
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti è ammissibile se
articolata su fatti nuovi non rappresentati nell'originaria istanza ed a
fronte di diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante
(1).
●
Il diritto all'accesso civico generalizzato riguarda la
possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle
Pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33 del 2013; la
legittimazione a esercitare tale diritto è riconosciuta a chiunque, a
prescindere da un particolare requisito di qualificazione (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che tale conclusione discende, nonostante la
qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del
processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve
ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi avente ad oggetto la
medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e sulla quale si era
già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Nel caso di specie (ove dalla conoscenza di alcuni atti -segnatamente il
citato preavviso di diniego– si ritiene scaturire l'esigenza di ulteriori
acquisizioni documentali, senza che possa configurarsi un utilizzo
frazionato e protratto nel tempo dello strumento procedurale e processuale
del diritto di accesso) non viene in rilievo una ripetuta reiterazione delle
istanze di accesso che si rivela di per sé non conforme alle finalità della
normativa in materia, circa la consentita conoscenza di tutta la
documentazione che l'interessato può ritenere utile per l'accertamento di
fatti che lo riguardano.
(2) Ha chiarito il Tar che la richiesta deve consentire
all’amministrazione di individuare il dato, il documento o l'informazione;
sono pertanto ritenute inammissibili richieste generiche. Nel caso di
richiesta relativa a un numero manifestamente irragionevole di documenti,
tale da imporre un carico di lavoro in grado di compromettere il buon
funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato,
l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro, l’interesse al buon
andamento dell’attività amministrativa (Linee guida Autorità Nazionale
Anticorruzione-ANAC n. 1309/2016 su accesso civico generalizzato, paragrafo
4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 33 del
2013) (TAR
Valle d'Aosta,
sentenza 05.02.2020 n. 3 - commento tratto da e link
a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il ricorso in epigrafe, ex art. 166 D.Lgs. 104/2010, il ricorrente,
il Sig.re Gu.Pe., ha impugnato il provvedimento negativo rilasciato dal
Comune di Courmayeur in data 10.06.2019, nell’ambito di un procedimento
avviato presso lo Sportello Unico Enti Locali (la domanda presenta il
04.03.2019; il preavviso di diniego di rilascio di permesso di costruire
emesso il 18.06.2019) per la realizzazione di dortoirs (strutture
ricettive di basso impatto ambientale) ivi asserendosi che l’intervento in
oggetto non è ammissibile in quanto in contrasto con le norme urbanistiche
di cui all’art. 14.4 delle N.T.A. del vigente PRGC, riguardante una zona
specifica la sottozona Ec.
Viene precisato fin da subito che il Comune ha immediatamente rappresentato,
nei colloqui con i tecnici della proprietà e nel parere reso allo Sportello
Unico, che a suo avviso, nelle zone E del Territorio Comunale sarebbe
preclusa l’edificazione; l’opposto da quanto rappresentato dalla famiglia
dell’odierno ricorrente, titolare di una struttura alberghiera nel Comune di
Courmayeur, e che secondo quanto asserito in atti, le aree destinate
all’intervento si trovano in zona E sottozona Ec09 di cui alle N.T.A. del
Piano Regolatore Generale del Comune di Courmayeur, nelle quali, sulla base
dell’art. 14.1 delle stesse, è ammessa la realizzazione di tali strutture.
Infatti, tale norma prevede che nelle zone E entro cui ricade l’area del
ricorrente è ammessa “la realizzazione di [...] bivacchi e posti di tappa
escursionistici o dortoirs, ai sensi di legge ad esclusione delle sottozone
Ed, Ee, Eg, ed Ei”. Ergo, nelle zone Ec quale quella de qua, non
indicate nell’elenco di quelle ove è inibita la realizzazione di dortoirs.
Si è costituito il Comune intimato concludendo per l’inammissibilità ed il
rigetto del ricorso.
Ciò detto, il ricorso è parzialmente fondato e va accolto in parte per le
ragioni e nei limiti (segnatamente temporali ove riferiti alla data della
documentazione richiesta) che seguono, non potendosi condividere le
eccezioni in rito formulate dall’Amministrazione resistente.
Ed, invero, l’eccepita inammissibilità del ricorso per tardività dello
stesso in ragione della mera reiterazione di identiche istanze di accesso
non appare condivisibile nella misura in cui, per un verso, rilevano tra le
stesse significative differenze soggettive ed oggettive; e, per altro verso
e soprattutto, vengono in rilievo sopravvenienze giuridiche e fattuali
(favorevole responso del Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 che ha
ritenuto ammissibile l’istanza avanzata dall’odierno ricorrente; preavviso
di diniego di rilascio di permesso di costruire emesso il 18.06.2019, cui,
da un lato, si correla un’autonoma e ulteriore esigenza
conoscitivo-ostensiva in ragione, da un lato, del conseguente esercizio di
poteri partecipativo-procedimentali in punto di osservazione varianti
progettuali; e, dall’altro, in quanto oggetto di distinto ricorso
giurisdizionale presso questo Tribunale, del conseguente, effettivo
esercizio del diritto di difesa); per altro verso, il nuovo ed odiernamente
impugnato atto di riscontro anche alla prima istanza di accesso (nota del
Comune di Courmayeur 29.08.2019).
La reiterazione di una domanda di accesso agli atti, nel caso di specie
quindi, è ammissibile in quanto articolata su fatti nuovi non rappresentati
nell'originaria istanza ed a fronte di diversa prospettazione dell'interesse
giuridicamente rilevante. Tale conclusione discende, nonostante la
qualificazione dell'accesso come diritto, dalla natura impugnatoria del
processo in materia di accesso ai documenti amministrativi; sicché deve
ritenersi inammissibile il ricorso nella sola ipotesi, qui non verificatasi,
avente ad oggetto la medesima domanda di accesso a suo tempo già proposta e
sulla quale si era già formata una preclusione procedimentale-processuale.
Conclusivamente sul punto, appare sì condivisibile in astratto il principio
di diritto per cui la ripetuta reiterazione delle istanze di accesso si
rivela di per sé non conforme alle finalità della normativa in materia,
circa la consentita conoscenza di tutta la documentazione che l'interessato
può ritenere utile per l'accertamento di fatti che lo riguardano, ma non è
questo il caso che ci occupa.
Invero, in ragione dei fatti che hanno connotato l’origine e il successivo
sviluppo della vicenda in contestazione è ragionevole ritenere che dalla
conoscenza di alcuni atti (segnatamente il citato preavviso di diniego), può
dimostratamente scaturire l'esigenza di ulteriori acquisizioni documentali;
senza che possa configurarsi nella specie un utilizzo frazionato e protratto
nel tempo dello strumento procedurale e processuale del diritto di accesso,
comportamento, questo sì idoneo ad introdurre una sorta di mera indagine
sull’attività amministrativa che certamente non può trovare legittimazione
per l’attivazione della relativa azione giurisdizionale, ipotesi che qui,
appunto, non ricorre.
Così definiti i profili di ammissibilità, nel merito si rileva che
l’interesse che muove la domanda d’accesso agli atti –e che è altresì misura
della genericità o meno dell’istanza ostensiva, rispetto alla quale viene in
rilievo l’ulteriore eccezione in rito dell’amministrazione comunale,
parimenti da disattendere- si concretizza nel presupposto di tutela di
proprie situazioni e interessi giuridici di parte in un procedimento
edilizio, così qualificandosi in termine di interesse diretto, concreto e
attuale: l’istante viene, dunque, in rilievo quale portatore di una
posizione giuridica soggettiva tutelata, qualificata e differenziata;
l’esigenza di tutela non è quindi astratta o meramente ipotetica ed, ancora,
vi sono riflessi attuali del documento sulla posizione giuridica tutelata
(l’interesse non è meramente storico documentativo).
Nel caso di specie, infatti, l’interesse è diretto, in quanto il Sig. Pe. è
il titolare della domanda di permesso di costruire -insieme alla sorella- in
esito alla successione dal padre deceduto il 26.03.2019; è altresì concreto
in quanto non volto a una tutela meramente astratta e ipotetica, ma la
documentazione attiene direttamente le questioni relative alla domanda di
permesso di costruire agli atti; ed infine vi è l’attualità dell’interesse
in quanto rileva al fine di evitare un provvedimento di diniego di titolo
edilizio e far valere le posizioni in sede di procedimento (o in denegata
ipotesi in sede giurisdizionale).
Ciò posto quanto all’interesse all’accesso, per quel che attiene l’oggetto
della richiesta, la domanda attiene documenti riconosciuti come accessibili
anche dalla giurisprudenza di questo Tribunale (Tar Valle d’Aosta, sentenza
n. 12/2017).
Il ricorrente ha infatti evidenziato la possibilità e la disponibilità di
voler e poter apportare delle modifiche al progetto, rispetto alle
prescrizioni impartite, esortando il Comune a rivedere la sua posizione
negatoria e a rilasciare parere positivo. Inoltre, al ricorrente risulta che
nelle zone E, sottozone EC09, del territorio Comunale di cui alle Norme
Tecniche di Attuazione, del Piano Regolatore Generale di Courmayeur,
esistono e sono stati assentiti diversi interventi di edificazione;
pertanto, non risulta preclusa l’oggetto di intervento di domanda di
permesso di costruire. Si fa presente, inoltre per completezza, che i
dortoirs sono a basso impatto ambientale e sono in sostanza rifugi di
montagna, ideati per soste brevi.
Per verificare tali aspetti la famiglia Pe. ha inviato ed invitato l’arch.
Ma., a presentare il 05.03.del 2019, con procura speciale rilasciata dalla
famiglia Pe. prima della morte del padre avvenuta il 26.03.2019, una propria
istanza di accesso agli atti per ottenere i titoli relativi agli interventi
realizzati nelle zone E, con possibilità anche di presa di visione del
registro cronologico relativo alle medesime zone delle relative pratiche
edilizie, al fine di verificare come prevedere l’edificazione dell’area,
motivando l’istanza in relazione alle proprie esigenze professionali,
accludendone parere legale a riprova delle ragioni che legittimavano la sua
richiesta, rimasta senza riscontro.
Allora, il Sig.re Gu.Pe. ha presentato il progetto edilizio presso gli
Uffici comunali il 12.03.2019, difatti, in data 21.03.2019 richiedeva alla
medesima Amministrazione di avere accesso a tutto quanto già detto in
epigrafe del ricorso. È evidente che l’interesse all’accesso, risulta essere
essenziale per la cura dei propri interessi giuridici (ex art. 24, comma 7,
l. n. 241/1990 “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso
ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
E la giurisprudenza è uniformemente orientata nell’affermare che “- è jus
receptum il principio (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 19.04.2017 n. 1832)
per cui, di regola, il diritto di accesso non soffre limitazioni se non
quelle espressamente previste con legge o in base, comunque, a norme
evincibili da ordinamenti di settore” (Cons. Stato, sez. VI, 06.09.2018,
n. 5257).
Ovviamente, tale interesse è rivolto a far valere in sede procedimentale le
ragioni del ricorrente, ragioni per le quali il procedimento di rilascio del
permesso di costruire è, ancora, in corso e in quella sede, si puntualizza
la disponibilità asseveratrice e servizievole del ricorrente medesimo, alla
revisione di alcuni degli aspetti progettuali presentati e valutati in
maniera favorevole anche alle Amministrazioni coinvolte nel Procedimento
Unico in parola, per permettere di apportare con le dovute modifiche “a
compimento” il progetto, in concerto con gli Enti emittenti, previo
rilascio del permesso.
Anche questa richiesta, però, veniva palesemente archiviata e respinta
ritenendola inammissibile, il 12.04.2019 da parte dell’Amministrazione, in
quanto ritenuta “non ammissibile” ai sensi degli artt. 40, c. 2; 41,
c. 2; 43, c. 3 e 4 della Legge Regionale Valle d’Aosta 06.08.2007, n. 19.
A seguito di apposito sollecito presentato dal Sig.re Pe. in data
14.05.2019, il ricorrente il 03.06.2019 invitava ed ammoniva ancora una
volta l’Amministrazione ed pungolava il Difensore Civico della Regione Valle
d’Aosta ad esercitare funzioni d’intervento nei confronti del Comune in
indirizzo, in forza della vigente Convenzione stipulata tra
l’Amministrazione Comunale e il Consiglio regionale il 03.08.2018, in
combinato disposto con l’art. 11, c. 2, della Legge Regionale Valle d’Aosta
n. 17/2001.
A questo punto, il Difensore Civico interpellato il 20.06.2019 ha ritenuto
ammissibile l’istanza avanzata dallo scrivente disponendo che: “le
concessioni edilizie sono atti pubblicati all’Albo Pretorio, non solo, non
si fa luogo, come nel caso di specie, a scrutinio in ordine alla protezione
di dati personali, ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2, lett. a), d.lgs. n.
33/2013”. Non è questo il caso di opporre il diritto alla riservatezza
dei dati, “poiché il titolo abilitativo non attiene alla sfera privata
del titolare, ma ad un atto di gestione del territorio”. Ha riconosciuto
il diritto di accesso del ricorrente, seppure qualificando la posizione come
“accesso civico generalizzato”, trattandosi di atti pubblici esposti
per estratto all’albo.
Sul punto appare utile precisare che il “diritto all'accesso civico
generalizzato” riguarda la possibilità di accedere a dati, documenti e
informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a
quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria previsti dal d.lgs. n. 33/2013.
La legittimazione a esercitare il diritto è riconosciuta a chiunque, a
prescindere da un particolare requisito di qualificazione.
La richiesta deve consentire all’amministrazione di individuare il dato, il
documento o l'informazione; sono pertanto ritenute inammissibili richieste
generiche. Nel caso di richiesta relativa a un numero manifestamente
irragionevole di documenti, tale da imporre un carico di lavoro in grado di
compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può
ponderare, da un lato, l’interesse all’accesso ai documenti, dall’altro,
l’interesse al buon andamento dell’attività amministrativa (Linee guida
Agenzia Nazionale Anticorruzione-ANAC su accesso civico generalizzato,
paragrafo 4.2).
L’esercizio di tale diritto deve svolgersi nel rispetto delle eccezioni e
dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati
giuridicamente rilevanti (articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n.
33/2013).
Nel caso di specie, pur coesistendo diversi livelli di esercizio del diritto
di accesso, non appare necessario procedere in astratto alla perimetrazione
dei rispettivi ambiti di operatività ed ai reciproci rapporti di
interferenza.
Sul punto, come noto, recentemente (Cons. St., sez. III, ord., 16.12.2019,
n. 8501), sono state rimesse al vaglio dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, tre progressive questioni ermeneutiche scaturenti dal complesso
intreccio normativo sulla materia de qua e rispettivamente volte a chiarire,
al di là dello specifico riferimento al settore dei contratti pubblici,
per un verso, se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti
espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di
cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali,
l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto
legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al
richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta
ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso
civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; per altro verso,
se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il
diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina
ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali,
abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del
richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti
dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato.
Nella odierna vicenda, come sopra argomentato e con la precisazione
temporale di cui si dirà, non emerge un problema di previa qualificazione in
ragione della riscontrata sussistenza dei presupposti normativi di
riferimento.
Ed, invero, deve aggiungersi, per questo caso, che, a far data dall’entrata
in vigore della legge 10/1977, che operò la separazione tra diritto di
proprietà e diritto a costruire, o ad edificare, sottratto alla privata
disponibilità in quanto ritenuto afferente a preminente interesse collettivo
(TAR Valle d’Aosta, Sez. I, sent. n. 12/2017), sussiste il diritto di
accedere ai titoli abilitativi rilasciati per atti progettuali
interventistici, risultando per tanto allo stato della controversia attuale
illegittimo il diniego all’ostensione dei documenti. Nel caso di specie, il
difensore civico ha chiaramente rappresentato l’ammissibilità della
richiesta, senza riscontro alcuno del Comune, con ciò contravvenendo al
disposto dell’art. 12, c. II, l.r. 17/2001, in forza del quale “qualora
l'amministrazione non intenda uniformarsi alle osservazioni, deve fornire
adeguata motivazione scritta del dissenso al Difensore civico”. La
domanda d’accesso deve essere evasa alla luce del pronunciamento del
difensore civico, la cui mancata ottemperanza profila l’omissione ai propri
doveri d’ufficio riconosciuti tali dal difensore civico regionale.
Inoltre, al fine di contestare il preavviso di diniego e il provvedimento di
diniego del permesso di costruire, il ricorrente ha necessità della
documentazione richiesta, atteso che riguarda titoli edilizi rilasciati su
aree aventi la medesima destinazione urbanistica di quella del ricorrente e
perché risulta essere essenziale ai fini di un corretto esercizio di difesa
e che sussistono fatti nuovi su cui si fonda.
Non vi è inoltre ragione per pretese difficoltà di reperimento della
documentazione, sia perché si riferisce ad alcune aree specifiche, sia
perché l’accesso potrà essere esercitato progressivamente, senza nessuna
altra procrastinazione.
Deve invece osservarsi, in ciò condividendosi il rilievo comunale, che,
proprio in ragione della complessiva tipologia di bisogno conoscitivo che
sorregge l’istanza ostensiva, non possa consentirsi il suo esercizio con
riferimento all’intero intervallo di tempo richiesto (01.01.2008/31.12.2018,
come da istanza dell’08/07/2019), trattandosi di un’estensione cronologica
della domanda di accesso ultronea rispetto all’interesse fatto valere e che,
come detto, si concentra sulla portata ermeneutica n.t.a. de quibus
(che, non prevedendo indici per le zone E, avrebbero con ciò inteso
precludere interventi su di esse) e ad appurare a tal fine l’orientamento
espresso in precedenza dal medesimo Comune in aree con la stessa
destinazione.
Ne consegue che –posto che, per un verso, il testo definitivo delle N.T.A. è
stato approvato con deliberazione del Consiglio comunale del 22/02/2013, n.
8 ed è divenuto efficace in data 19/03/2013; e, per altro verso, le norme di
carattere generale dettate per le zone di tipo E paragrafo 14.1, lett. e)
confermano “le destinazioni d’uso in atto al 31.03.2012”, ancorché
diverse da quelle previste nelle rispettive sottozone-, l’istanza di accesso
non può operare nei confronti dei titoli rilasciati dopo il 2008 e prima
dell’entrata in vigore delle N.T.A. (19.3.2013), così come per quelli
rilasciati dopo il 2008 e relativi a destinazioni d’uso diverse ma in atto
al 31/03/2012: ed, invero, non potendo le N.T.A. costituire rispetto a tali
atti valido parametro giuridico di riferimento, difetta un interesse
giuridicamente rilevante alla loro acquisizione documentale.
Non appare invece parimenti condivisibile l’ulteriore limitazione tipologica
invocata dal Comune resistente e relativa ad interventi post. 19.03.2013 ed
sottozone diverse dalla Ec: ed, invero, operando per talli interventi
edilizi il medesimo regime tecnico-giuridico, sussiste comunque un
qualificato interesse all’acquisizione della relativa documentazione onde
verificare, sia pure in diverse sottozone, ma assoggettate alla medesima
regula juris, quale ne sia stata l’interpretazione del comune per
differentiam.
Analoghi rilievi, anche in ragione della identità di tipologia edilizia,
concernono la piena ammissibilità dell’istanza di accesso rispetto ai
segnalati ai titoli edilizi rilasciati per le aree relative agli edifici
Rifugio Bertone, Rifugio Elisabetta, Cabane du ombal, Le Randonneur.
In conclusione il ricorso va in parte accolto, ordinando, nei limiti
sopradescritti, l’esibizione ed il rilascio della documentazione richiesta
con riferimento ai titoli successivi al 19.03.2013. |
ATTI AMMINISTRATIVI: All’Adunanza
plenaria l’accessibilità dei documenti reddituali, patrimoniali e finanziari.
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Accesso ai documenti – Imposte e tasse - Documenti reddituali
patrimoniali e reddituali – Accessibilità - Rimessione all’Adunanza
plenaria.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato le questioni:
a) se i documenti reddituali (le dichiarazioni dei redditi e le
certificazioni reddituali), patrimoniali (i contratti di locazione
immobiliare a terzi) e finanziari (gli atti, i dati e le informazioni
contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria e le comunicazioni
provenienti dagli operatori finanziari) siano qualificabili quali documenti
e atti accessibili ai sensi degli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990;
b) in caso positivo, quali siano i rapporti tra la disciplina
generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi ex lege n. 241/1990
e le norme processuali civilistiche previste per l’acquisizione dei
documenti amministrativi al processo (secondo le previsioni generali, ai
sensi degli artt. 210 e 213 c.p.c.; per la ricerca telematica nei
procedimenti in materia di famiglia, ai sensi del combinato disposto di cui
artt. 492-bis c.p.c.me 155-sexies delle disp. att. del cod. proc. civ.);
c) in particolare, se il diritto di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi della l. n. 241 del 1990 sia esercitabile
indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle
menzionate norme processuali civilistiche, o anche –eventualmente-
concorrendo con le stesse;
d) ovvero se -all’opposto- la previsione da parte dell’ordinamento
di determinati metodi di acquisizione, in funzione probatoria di documenti
detenuti dalla Pubblica Amministrazione, escluda o precluda l’azionabilità
del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo la disciplina generale di cui
alla l. n. 241 del 1990;
e) nell’ipotesi in cui si riconosca l’accessibilità agli atti
detenuti dall’Agenzia delle Entrate (dichiarazioni dei redditi,
certificazioni reddituali, contratti di locazione immobiliare a terzi,
comunicazioni provenienti dagli operatori finanziari ed atti, dati e
informazioni contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria), in quali
modalità va consentito l’accesso, e cioè se nella forma della sola visione,
ovvero anche in quella dell’estrazione della copia, ovvero ancora per via
telematica (1).
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(1) Ha chiarito la
Sezione che va stabilito se il diritto di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi dell’art. 22 cit. sia esercitabile indipendentemente
dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle menzionate norme
processuali civilistiche, o anche –eventualmente- concorrendo con le stesse.
Ciò equivarrebbe ad affermare tre principi:
- il primo, che il diritto di accesso ex lege n. 241/1990
potrebbe essere esercitato –come è accaduto nel caso di specie- prima ed
indipendentemente dal fatto che il giudice del procedimento autorizzi la
produzione di determinati documenti del numerato punto 9: l’accesso agli
atti è stato azionato ed in parte consentito prima ancora che si svolgesse
l’udienza di prima comparizione);
- il secondo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe
essere esercitato anche cumulativamente, rispetto alle previsioni sulle
acquisizioni secondo la normativa processualcivilistica;
- il terzo, che l’accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe
essere esercitato anche quando il giudice del procedimento civile non abbia
disposto il deposito della documentazione a carico delle parti o non abbia
autorizzato le istanze istruttorie formulate dalle parti.
All’opposto, se la previsione da parte dell’ordinamento di determinati
metodi di acquisizione in funzione probatoria di documenti detenuti dalla
Pubblica Amministrazione, con l’attribuzione dei relativi poteri istruttori
ad un giudice avente giurisdizione sulla controversia ‘principale’,
escluda o precluda l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi
secondo la disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990.
Ciò equivarrebbe a dire che il privato non potrebbe mai azionare il diritto
di accesso agli atti richiesti, pur se qualificati in senso sostanziale come
atti amministrativi, dovendosi sempre rimettere, per la tutela delle proprie
situazioni giuridiche, all’esercizio dei poteri istruttori del giudice
civile, quando dunque il procedimento civile già pende.
Ciò premesso, la Sezione segnala che, a favore della prima tesi, militano
gli argomenti variamente articolati dalla Sezione nelle sentenze n.
2472/2014, n. 5347/2019 e n. 5910/2019, e che di seguito più o meno
testualmente si riportano.
La disciplina sull’accesso agli atti amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce -ai sensi dell’art. 22, comma 2,
della legge n. 241 del 1990- “principio generale dell'attività
amministrativa”.
La ratio dell’istituto può essere ravvisata sia sull’esigenza di rendere
l’Amministrazione una ‘casa di vetro’ per l’attuazione dei principi
di imparzialità, trasparenza e buon andamento, rilevanti per l’art. 97 della
Costituzione (cfr. Ad. Plen., 18.04.2006, n. 6; Sez. IV, 14.04.2010, n.
2093), sia sull’esigenza di agevolare agli interessati di ottenere gli atti
il cui esame consente di valutare se sia il caso di agire in giudizio, a
tutela di una propria posizione giuridica (cfr. Sez. IV, 12.03.2009, n.
1455), non potendosi ravvisare ‘zone franche’ in cui non rilevino i
principi sopra richiamati (Ad. Plen., 24.06.1999, n. 16).
La specialità che connota la disciplina processualistica non può ritenersi
tale da giustificare la presenza di una deroga, al punto da rimettere alla
(eventuale ed esclusiva) positiva valutazione del giudice –titolare del
potere di decidere la controversia ‘principale’- la reale
conoscibilità di documentazione di rilievo e, per altro verso, la
concretizzazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
L’affermazione del diritto di accesso è estrinsecazione anche della tutela
dei diritti fondamentali dei familiari, in quanto nei procedimenti in
materia di famiglia sono spesso presenti sia gli interessi confliggenti dei
coniugi o dei conviventi, che gli interessi dei figli minorenni, questi
ultimi tutelati dall'art. 5 del settimo Protocollo Addizionale della CEDU e
dagli artt. 29 e 30 della Costituzione.
Il consolidato indirizzo seguito dalla giurisprudenza amministrativa
ammette, senza limitazioni, l’esercizio del diritto di accesso ai documenti
amministrativi e la conseguente applicazione della relativa disciplina
sostanziale e processuale, anche in pendenza dei giudizi civili.
In questo senso, è stato più volte affermato come “non possa ritenersi
che l'accesso ai documenti sia automaticamente precluso dalla pendenza di un
giudizio civile, nella cui sede l'ostensione degli stessi documenti potrebbe
essere disposta dal g.o., mediante ordine istruttorio ex art. 210 c.p.c.
oppure mediante richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c., stante
l'autonomia della posizione sostanziale tutelata con gli artt. 22 e ss. l.
n. 241 cit. rispetto alla posizione che l'interessato intende difendere con
altro giudizio e della relativa azione posta dall'ordinamento a tutela del
diritto di accesso, perché, diversamente opinando, ciò si tradurrebbe in una
illegittima limitazione del diritto di difesa delle parti, con conseguente
lesione del principio dell'effettività della tutela giurisdizionale” (ex
multis, Cons. Stato, sez. VI, 15.11.2018, n. 6444; id., 21.03.2018, n.
1805).
La tutela dei diritti fondamentali non troverebbe eguale garanzia mediante
l’utilizzo degli strumenti previsti dal codice di procedura civile, i quali
rimettono all’apprezzamento del giudice l’ingresso nel giudizio di
documenti, di atti e di informazioni in possesso della Pubblica
Amministrazione.
L'ampliamento delle prerogative del giudice civile nell'acquisizione delle
informazioni e dei documenti patrimoniali e finanziari nei procedimenti in
materia di famiglia, rispetto ai poteri istruttori già previsti dall’art.
210 c.p.c., introdotte dal combinato disposto degli artt. 155-sexies delle
disposizioni di attuazione del cod. proc. civ. e dell'art. 492-bis del cod.
proc. civ., non può costituire un ostacolo all'accesso difensivo,
soprattutto laddove le istanze istruttorie proposte nel giudizio non siano
state accolte.
Dall’ampliamento delle menzionate prerogative non potrebbe trarsi in via
diretta, né desumersi in via indiretta, alcuna ipotesi derogatoria alla
disciplina in materia di accesso alla documentazione contenuta nelle banche
dati della Pubblica Amministrazione.
Diversamente opinando, l’implementazione dei poteri istruttori del giudice
ordinario nell'ambito dei procedimenti in materia di famiglia si tradurrebbe
in un ingiustificato ridimensionamento della disciplina generale
sull’accesso, fuori dei casi e dei modi contemplati dall’ordinamento.
Tra le due discipline non sussisterebbe un rapporto di specialità, nel senso
che la norma speciale derogherebbe a quella generale, escludendone
l’applicazione, bensì di concorrenza e di complementarietà, poiché il
giudice che tratta la vicenda di famiglia può utilizzare i poteri di accesso
ai dati della Pubblica Amministrazione genericamente previsti dall'art. 210
cod. proc. civ., come ampliati dalle nuove norme inserite nel 2014, ma
questa rimane una sua facoltà e non un obbligo.
Deve conservarsi la possibilità, per il privato, di avvalersi degli ordinari
strumenti offerti dalla l. n. 241 del 1990, per ottenere gli stessi dati che
il giudice potrebbe intimare di consegnare all'Amministrazione.
La piena esplicazione del diritto di difesa non potrebbe dipendere dalla
spontanea produzione in giudizio della controparte, né dall’esercizio
discrezionale del potere acquisitivo da parte del giudice. Mentre
l’esercizio dell’accesso non incontrerebbe limiti se non rispetto alla
delibazione dei presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva
e alla verifica dell’inesistenza delle preclusioni di cui all’art. 24 della
l. n. 241/1990, l’ammissibilità dell’acquisizione probatoria
processualcivilistica (ordine di esibizione tradizionale o autorizzazione
alla ricerca telematica) sarebbe soggetta al principio del convincimento del
giudice del procedimento, il quale potrebbe non consentire l’accesso in
ragione della scarsa attendibilità delle allegazioni della parte e dei
documenti probatori offerti a loro sostegno, elidendo così alla radice ogni
prospettiva di piena esplicazione del diritto di difesa.
L’accesso ai documenti, inoltre, potrebbe essere esperito anche prima ed
indipendentemente dalla pendenza del procedimento civile, anche allo scopo
di impedire il verificarsi degli effetti negativi discendenti dal cd.
ricorso “al buio”.
L’ordine di esibizione o l’autorizzazione all’accesso telematico da parte
del giudice del procedimento, infatti, potrebbe rimediare alle eventuali
lacune di allegazione e di prova dei fatti contenute negli atti introduttivi
del giudizio, ma non potrebbe sortire effetti sulla decisione –che spetta
alla parte soltanto- di valutare, a monte, la convenienza o l’opportunità
dell’instaurazione del procedimento.
Come ha già osservato questo Consiglio (Sez. VI, 18.12.1997, n. 1591; Sez.
IV, 06.03.1995, n. 158), «se esercitato ante causam, l’accesso può avere
anche esiti di prevenzione della lite: la conoscenza dei documenti
rilevanti, infatti, o corroborando la legittimità degli atti amministrativi
o comunque ingenerando il convincimento dell’inopportunità
dell’impugnazione, può dissuadere l’amministrato dall’azione giurisdizionale»:
tali considerazioni sono state formulate in fattispecie in cui si è
considerata rilevante l’esigenza degli interessati di accedere agli atti,
per valutare se proporre un ricorso nei confronti di una pubblica
Amministrazione, ma possono essere considerate rilevanti anche per i casi in
cui l’acquisizione degli atti possa indurre a valutare se agire o meno nei
confronti di un soggetto privato, per controversie di ‘natura civilistica’.
È stato anche osservato –ma non riguarda nello specifico il caso di specie,
perché si tratta di soggetti che hanno convissuto di fatto- che il diritto
del richiedente al pieno accesso ai documenti fiscali del coniuge in
pendenza del giudizio di separazione o di divorzio, ed indipendentemente
dall’esercizio discrezionale del potere di ammissione o di autorizzazione
probatoria da parte del giudice civile, si pone anche in sintonia con le
recenti tendenze della giurisprudenza civile sviluppatesi in ordine alla
tematica della individuazione dei criteri di determinazione dell’assegno
divorzile, sempre più vicine ad ammettere la funzione sia assistenziale, che
equilibratrice, che perequativo-compensativa (Cass. civ., Sez. un.,
11.07.2018, n. 18827).
Indipendentemente dal caso specifico della strumentalità dell’accesso agli
atti ai fini della quantificazione dell’assegno di separazione o di
divorzio, l’accesso pieno ed integrale alla condizione reddituale,
patrimoniale ed economico-finanziaria delle parti processuali -siano essi
coniugi o conviventi di fatto- sarebbe da considerare precondizione
necessaria per l’uguale trattamento giuridico nell’ambito di tutti i
procedimenti di famiglia.
Sono oramai pacificamente acquisiti a livello legislativo e
giurisprudenziale i principi sulla pari dignità e sull’uguaglianza
sostanziale di tutti i nuclei familiari, sia quelli fondati sul matrimonio,
che quelli consistenti in rapporti di convivenza di fatto, soprattutto a
tutela e a garanzia dei figli minorenni o di quelli maggiorenni
economicamente non indipendenti.
Ai fini dell’accertamento della complessiva situazione
economico-patrimoniale, non avrebbe senso la distinzione, operata
dall’Agenzia, tra i documenti immediatamente accessibili (quelli reddituali
e patrimoniali) e quelli che necessitano della previa autorizzazione del
giudice competente (quelli finanziari): sia perché potrebbe difettare, nei
singoli casi, la pendenza di una controversia civile; sia perché i documenti
finanziari consentirebbero di ricostruire fedelmente le condizioni
economico-patrimoniali in cui versano le parti -soprattutto a garanzia dei
figli minorenni- perché provenienti, il più delle volte, da terzi estranei,
quali gli operatori finanziari.
L’istituto dell’accesso rivestirebbe anche una posizione di assoluta
rilevanza al fine di consentire la massima trasparenza, tra le parti ed a
tutela soprattutto dei figli minorenni, delle condizioni economiche nel
momento della crisi delle relazioni familiari.
L’ordinamento nel suo complesso aspirerebbe alla massima protezione
possibile delle situazioni giuridiche soggettive, a prescindere dalla loro
consistenza (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) e dalla loro
natura (a seconda che si tratti, cioè, di una situazione finale o di una
situazione strumentale), secondo i principi generali dell’unitarietà, della
concorrenza e della complementarietà delle tutele.
In base all’ordinamento medesimo, non vi sarebbe dubbio sul fatto che le
comunicazioni relative ai rapporti finanziari, stando alla terminologia
propria della disciplina sull’accesso di cui all'art. 22, comma 1, lett. d)
della l. n. 241 del 1990 e all'art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.R.
28.12.2000, n. 445, costituiscono “documenti”, in quanto l’Amministrazione
finanziaria, sebbene non sia essa a formarli, può utilizzarli per
l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, come previsto nel
dettaglio dall’art. 7 del d.P.R. 29.09.1973, n. 605.
Sussisterebbe l’interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
stato richiesto l’accesso, ai sensi dell’art. 22 l. n. 241/1990, attesa la
pendenza del giudizio di volontaria giurisdizione.
Il divieto contenuto nella circolare dell’Agenzia delle entrate del
10.10.2017, relativo all’accesso alle “risultanze derivanti dall’Archivio
dei rapporti finanziari”, in assenza dell’autorizzazione del Tribunale,
non troverebbe fondamento normativo, in mancanza di espressa previsione
rinvenibile in tal senso.
L’art. 7 del d.P.R. n. 605 del 1973 (come modificato dal d.l. 04.07.2006, n.
223, convertito con modificazioni dalla legge 04.08.2006, n. 248) ha
previsto l'obbligo per ogni operatore finanziario di comunicare, in
un'apposita sezione dell'Anagrafe tributaria denominata “Archivio dei
rapporti finanziari”, l'esistenza e la relativa natura dei rapporti
finanziari intrattenuti con qualsiasi soggetto. L’art. 7 non ha previsto che
queste informazioni, una volta riversate nell'Archivio dei rapporti
finanziari da parte delle banche e degli operatori finanziari, possano
essere utilizzate "unicamente" dall'Amministrazione finanziaria e
dalla Guardia di Finanza, ma si è limitato a precisare che si tratta di atti
certamente utilizzabili da tali soggetti per l'azione di contrasto
all'evasione fiscale, senza affrontare per nulla il tema della loro
ostensibilità e dell’eventuale conflitto con il diritto alla riservatezza
del soggetto cui gli atti afferiscono.
La questione andrebbe risolta facendo applicazione dell’art. 24, comma 7,
della legge n. 241 del 1990: "Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso
di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito
nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti
dall'art. 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale".
Il bilanciamento degli interessi contrapposti andrebbe effettuato e risolto
in applicazione del D.M. 29.10.1996, nr. 603, recante "Regolamento per la
disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso in
attuazione dell'art. 24, comma 2, della L. 07.08.1990, n. 241". L'art.
5, lettera a) del decreto menziona la "documentazione finanziaria,
economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi,
imprese e associazioni comunque acquisita ai fini dell'attività
amministrativa"; la sottrae all'accesso inteso come diritto alla copia,
ma garantisce "la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa degli interessi
giuridicamente rilevanti propri di coloro che ne fanno motivata richiesta”.
Con riguardo al rapporto tra accesso e privacy, rileverebbe il combinato
disposto degli artt. 59 e 60 del D.lgs. 30.06.2003, n. 196 (cd. Codice della
privacy), e delle disposizioni di cui alla l. n. 241 del 1990, dal quale
deriva un sistema connotato da tre livelli di protezione dei dati dei terzi
e, in maniera corrispondente, tre gradi di intensità della situazione
giuridica che il richiedente intende tutelare con la richiesta di accesso.
Il bilanciamento investirebbe il diritto alla riservatezza previsto dalla
normativa vigente in materia di accesso ai documenti “sensibili”
dell’ex convivente e, dall’altro, la cura e la tutela degli interessi
economici e della serenità dell'assetto familiare, soprattutto nei riguardi
del figlio minorenne, presente nella controversia in questione.
Occorrerebbe, infine, affrontare gli argomenti finora esposti, al lume del
complessivo e vigente quadro normativo all’interno del quale si inserisce la
previsione di cui all’art. 492-bis del cod. proc. civ., e dal quale
sembrerebbe emergere -oltre alla forte discrezionalità del potere
istruttorio del giudice civile, sopra evidenziata- anche la obiettiva
difficoltà incontrata dalle parti processuali nel sollecitare la supplenza
istruttoria del giudice.
Le lacune istruttorie spesso si verificano –come nel caso di specie- a causa
del comportamento processuale di una parte a danno dell’altra,
inottemperante o parzialmente ottemperante agli obblighi di deposito, ed il
superamento delle medesime postula l’utilizzo di tecniche di indagine molto
invasive, soprattutto per la sfera giuridica dei terzi estranei (es. le
indagini fiscali e tributarie), con notevole dispiegamento dell’energia
della forza pubblica (es. Guardia di Finanza).
Tali indagini –peraltro- difficilmente sono autorizzate dal giudice civile,
in assenza di puntuali, specifici e ben motivati elementi conoscitivi (ex
multis, Cass. civ., sez. I, 06.06.2013, n. 14336; Id., sez. I,
20.09.2013, n. 21603; Id., sez. VI, 15.11.2016, n. 23263; Id., sez. I,
04.04.2019, n. 9535).
L’accesso agli atti, dunque, sotto quest’angolo prospettico, consentirebbe
di conoscere in anticipo le informazioni utili alla difesa dei propri
interessi; di acquisire le informazioni senza dispiegamento della forza
pubblica; di non gravare eccessivamente l’Amministrazione finanziaria,
attraverso l’eventuale autonomo accesso telematico alle banche dati;
comunque sia, nel bilanciamento degli interessi, di gravare l’Agenzia delle
Entrate -che per sua funzione istituzionale è l’ente depositario di tutti
questi atti- rispetto alla polizia fiscale e tributaria, deputata allo
svolgimento di altre funzioni istituzionali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 04.02.2020 n. 888 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente avente ad oggetto
“sgombero e contenimento numero animali da affezione detenuti in abitazione
privata in territorio comunale” tenuto conto che nella motivazione non si dà
conto della sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza
sindacale: non vi è alcun riferimento a una situazione contingibile –intesa
come accadimento di un evento eccezionale e imprevedibile che devi dalla
catena regolare degli avvenimento e richieda l’esercizio di un potere
atipico e residuale per farvi fronte– né a una situazione di urgenza –intesa
come pericolo attuale non fronteggiabile con gli ordinari strumenti.
Anzi, lo stesso ordine di riduzione graduale del numero di animali e
l’assenza di un termine per provvedere all’ordine, a ben vedere, si pongono
in contrasto con l’ipotetica (comunque non dichiarata) esistenza di una
situazione di urgenza.
Inoltre, dalla motivazione dell’ordinanza non è possibile evincere il
percorso logico-argomentativo che ha condotto il sindaco, tra più soluzioni
possibili, a privilegiare quella adottata.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza n. -OMISSIS- adottata il -OMISSIS- dal
Sindaco di -OMISSIS-, notificata il successivo 18 marzo avente ad oggetto “sgombero
e contenimento numero animali da affezione detenuti in abitazione privata in
territorio comunale”;
- nonché per l’annullamento degli atti tutti antecedenti,
preordinati, consequenziali e connessi del relativo procedimento, ivi
compreso, occorrendo, l’art. 30 del Regolamento comunale di -OMISSIS-
approvato con delibera -OMISSIS-;
...
1. La ricorrente contesta –con il primo motivo– la sussistenza dei
requisiti di contingibilità e urgenza per l’adozione di ordinanze extra
ordinem da parte del Sindaco.
Con gli altri motivi di censura (da 2 a 4), si contesta invece l’erronea
applicazione e interpretazione della normativa regolamentare circa il numero
di animali che sia possibile detenere nelle pertinenze di un’abitazione.
2. Il primo motivo di ricorso è fondato ed assorbente rispetto agli
altri motivi, attinenti al merito della decisione sindacale.
Come dedotto dalla ricorrente, nella motivazione del provvedimento non si dà
conto della sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza
sindacale: non vi è alcun riferimento a una situazione contingibile –intesa
come accadimento di un evento eccezionale e imprevedibile che devi dalla
catena regolare degli avvenimento e richieda l’esercizio di un potere
atipico e residuale per farvi fronte (cfr., ex plurimis, Cons. Stato,
Sez. V, 20.02.2012, n. 904)– né a una situazione di urgenza –intesa come
pericolo attuale non fronteggiabile con gli ordinari strumenti.
Anzi, lo stesso ordine di riduzione graduale del numero di animali e
l’assenza di un termine per provvedere all’ordine, a ben vedere, si pongono
in contrasto con l’ipotetica (comunque non dichiarata) esistenza di una
situazione di urgenza.
Inoltre, dalla motivazione dell’ordinanza non è possibile evincere il
percorso logico-argomentativo che ha condotto il sindaco, tra più soluzioni
possibili, a privilegiare quella adottata; ciò vale a maggior ragione se si
tenga presente che la stessa -OMISSIS- la quale ha accertato la detenzione
degli animali in condizioni non idonee –era dotata di poteri sanzionatori
per garantire l’adempimento alle prescrizioni poste, ai sensi dell’art. 15
della L.R. 26.07.1993 n. -OMISSIS-.
3. Stante la fondatezza del primo motivo, il ricorso deve essere accolto,
con annullamento dell’ordinanza sindacale
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 04.02.2020 n. 102 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
gennaio 2020 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Non
è impugnabile un atto comunale recante una mera “diffida”.
Secondo la pacifica giurisprudenza, è inammissibile, per carenza del
requisito della lesività, il ricorso proposto per l’annullamento
giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida”, trattandosi,
infatti, di un atto che assume carattere meramente preparatorio, a rigore
nemmeno necessario, rispetto all’adozione della successiva ordinanza
contingibile e urgente, la quale costituisce il provvedimento conclusivo del
procedimento.
Alla luce delle superiori considerazioni va pertanto ribadita
l’inammissibilità dell’impugnativa del verbale di diffida, in quanto atto
endoprocedimentale, al più valevole come comunicazione di avvio del
procedimento finalizzato all’adozione della successiva ordinanza.
---------------
1. Con il presente ricorso, ritualmente notificato e depositato, è
contestata la legittimità del Verbale di Diffida del 24.05.2016, notificato
il successivo 08.06.2016, con il quale il Servizio Autonomo di Polizia
Locale dell’Ente ha intimato alla ricorrente, in qualità di comproprietaria
al 50% dell’immobile sito in Napoli, alla piazza ... n. 92, di “non
praticare i luoghi pericolanti”, e “di far eseguire con urgenza i
lavori di riparazione necessari”, essendo stato l’immobile danneggiato
dagli eventi sismici del occorsi nel 1980.
2. Dopo aver rimarcato in punto di fatto che l’immobile danneggiato dal
terremoto del 1980 era incluso tra quelli che avrebbero dovuto essere
riattati dal Comune di Napoli, la ricorrente ha dedotto a sostegno della
domanda di annullamento del verbale di diffida, un articolato motivo di
diritto, con cui lamenta la violazione e falsa applicazione della normativa
di settore (L. del 22.12.1980 n. 874; L. del 14.05.1981 n. 219, D.LGS. n.
76/1990 art. 9, comma 1, lettera d), e dell’Ordinanza Commissariale del
06.01.1981; eccesso di potere per contraddittorietà, errata istruttoria,
travisamento dei fatti.
...
5. Il ricorso è inammissibile.
5.1 Come anche rimarcato dalla difesa della resistente amministrazione, non
costituendo la mera diffida dell’ente pubblico un atto immediatamente lesivo
della sfera giuridica del soggetto intimato, non può dirsi integrato
l’interesse a ricorrere come invece accade nell’ipotesi, del tutto diversa,
dell’ordinanza amministrativa emanata dall’ente.
Secondo la pacifica giurisprudenza, anche di questa Sezione, è
inammissibile, per carenza del requisito della lesività, il ricorso proposto
per l’annullamento giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida”,
trattandosi, infatti, di un atto che assume carattere meramente
preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto all’adozione della
successiva ordinanza contingibile e urgente, la quale costituisce il
provvedimento conclusivo del procedimento (cfr. ex multis, Consiglio
di Stato, sez. V, 20.08.2015 n. 3955, Tar Campania Napoli, sez. V,
26.05.2016, n. 2719; Tar Campania, Sez. V, 15.12.2016 n. 5782).
5.2 Alla luce delle superiori considerazioni va pertanto ribadita
l’inammissibilità dell’impugnativa del verbale di diffida meglio precisato
in epigrafe, in quanto atto endoprocedimentale, al più valevole come
comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’adozione della
successiva ordinanza (cfr. Tar Campania, Sez. V, Sent. 4285/2018)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 31.01.2020 n. 463 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nuovamente
alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze derivanti dalla
dichiarazione mendace.
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Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà
– Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 –
Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. –
Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per
violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di
cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art.
75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo
legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato
e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera (1).
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(1) Analoga
rimessione è stata disposta dalla Sezione con
ordinanza 24.10.2018 n. 1544;
23.10.2018 n. 1531;
25.10.2018 n. 1552 e
17.09.2018 n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che la granitica giurisprudenza formatasi in
subiecta materia, con riferimento ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione,
ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 “si
inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul
possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui
il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili
penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della
disciplina dettata dalla l. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il
raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta
la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio (ex
plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o
non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo
ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sez. V,
cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della
disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva
sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di
Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore
circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa
alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento
soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il
fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di
dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000,
in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo
cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n.
445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva
sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti
con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n.
9699)” (TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che
tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr.
ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sez. I, 14.06.2017, n. 534;
in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.08.2019, n. 5761; Consiglio di
Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039; Consiglio di Stato,
Sez. V, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato, Sez. V, 15.03.2017, n.
1172).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da
assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile
per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente
conforme”):
- l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta
l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non
residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di
discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo
(d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della
(oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del
dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non
veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il
complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
- parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai
benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni
non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di
specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento
dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo
di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le
argomentazioni opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente
giudizio di legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della
Corte Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza
formatasi con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione
(quali, ad esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità
sottoscritto e del “curriculum” formativo/professionale con
dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 17.01.2018, n.
257, che ha sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel
caso ivi in esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del
bando): ciò in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata
omissione, sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000,
concreta un vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente
formale dell’autodichiarazione, non veritiera al riguardo.
Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla
stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico
automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella
sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al
Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della
Costituzione.
Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il
ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si
svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto
alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende
perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente
sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre
il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie
e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente
assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un
tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto,……,
le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse,
sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi
valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene,
piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che
debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti
in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale,
22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
- per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di
legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità,
rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di
ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 01.06.1995, n.
220);
- per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di
razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle
limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n.
1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità
sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione
(pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica
il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica),
solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine,
la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed
effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da
una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola)
valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da
cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa
idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge
sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare,
anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a
valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica,
teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta
irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del
2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir
così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale
inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango
costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui
all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto
vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di
incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della
Costituzione.
Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in alcun
modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu”
sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e,
“a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai
sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale
irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di
proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il
principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico
automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e
l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato)
impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la
decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a
prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le
fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del
tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia
per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con
tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di
oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno
le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima
rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio),
con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle
relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75
del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti
irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo
-la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero -ovvero colpa, grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente)
della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e
contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A.
lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere
superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che
trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex
plurimis”, Consiglio di Stato, Sez. V, cit., n. 2447/2012), nel
principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna
l’affermazione dell’autoresponsabilità -“oggettiva”- del dichiarante, in
uno -anche- all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra
P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba
qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è
sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione
dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a
garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in
volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del
quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio,
al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al
diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art.
38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di
specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi
costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle
relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in
gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti
costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”)
del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”),
come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha
disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e
utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi
della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati
e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui
agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre
ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente
certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in
definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a
presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”,
la semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un
verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico
dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a
campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro
verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti
dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n.
445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000-,
nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione
giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità
costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa
appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto
vivente”) e non manifestamente infondata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
ordinanza 30.01.2020 n. 92 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
6. - Le predette considerazioni fondano la rilevanza decisiva, nella
fattispecie concreta in esame, dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, sicché
-risultando, ad avviso di questa Sezione, non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
(per le ragioni nel prosieguo illustrate)- l’intervento del Giudice delle
Leggi appare assolutamente necessario nella presente controversia, non
potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e logicamente
pregiudiziale) di tale questione ai fini della decisione del presente
giudizio.
Infatti, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
dovesse essere dichiarato incostituzionale, verrebbe meno il presupposto
normativo decisivo posto, sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del
gravato diniego; nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe
infondato, alla stregua delle censure formulate dalla parte ricorrente.
7. - A questo punto, osserva il Collegio che
la granitica giurisprudenza
formatasi “in subiecta materia”, con riferimento (come nella
fattispecie “de qua”) ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione,
ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 <<si
inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul
possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui
il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili
penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della
disciplina dettata dalla L. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il
raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta
la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio>> (ex
plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 09.04.2013, n. 1933).
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o
non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo
ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione
Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la
ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa,
facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante”
(Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni
eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in
quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza
dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di
compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico
di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del
2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo
scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n.
1933/2013).
Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n.
445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva
sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti
con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)”
(TAR Lazio, Roma, Sezione Terza ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che
tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr.
ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sezione Prima, 14.06.2017, n.
534; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 20.08.2019, n. 5761;
Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 09.12.2019, n. 1039;
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 03.02.2016, n. 404; Consiglio di Stato,
Sezione Quinta, 15.03.2017, n. 1172).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da
assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile
per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente
conforme”):
- l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta
l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non
residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di
discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo
(d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della
(oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del
dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non
veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il
complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
- parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai
benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni
non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di
specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento
dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo
di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le argomentazioni
opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente giudizio di
legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della Corte
Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza formatasi
con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione (quali, ad
esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità sottoscritto
e del “curriculum” formativo/professionale con dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 17.01.2018, n. 257, che ha
sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel caso ivi in
esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del bando): ciò
in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata omissione,
sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, concreta un
vizio -con ogni evidenza- sostanziale e non già meramente formale dell’autodichiarazione,
non veritiera al riguardo.
8. - Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla
stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo
legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua
assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al
Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della
Costituzione.
9. - Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il
ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si
svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto
alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende
perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente
sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre
il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie
e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente
assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un
tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza.
Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni
strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento
argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di
legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo
le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del
giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione”
(Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
- per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge
deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità,
rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di
ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale,
01.06.1995, n.
220);
- per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di
razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle
limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n.
1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico-deduttiva e logico-formale, laddove (invece) la ragione
(pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica
il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica),
solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine,
la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti
sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una
regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola)
valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da
cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa
idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge
sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare,
anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori
di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica
…. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità
o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>>
(Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir
così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale
inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango
costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
10. - Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui
all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto
vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di
incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della
Costituzione.
10.1 - Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in
alcun modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu”
sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e,
“a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del
citato
art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e
incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla
base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza
sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico
automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e
l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato)
impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal
beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere
dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui
la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale
rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle
quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse,
riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva
diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le
ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima
rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio),
con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle
relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
10.2 - Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa
dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente
(parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento
soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero- ovvero
colpa -grave o meno- nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o
negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera,
nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o
anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio
penale).
10.3 - Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano
essere superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che
trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex plurimis”,
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio
generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione
dell’autoresponsabilità - “oggettiva” - del dichiarante, in uno -anche-
all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra P.A. e cittadino).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba
qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è
sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione
dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a
garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in
volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del
quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio,
al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al
diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art.
38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di
specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi
costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle
relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in
gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti
costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del
D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come
modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha
disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica
amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e
utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi
della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati
e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui
agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai
soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente
certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in
definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a
presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la
semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella
(sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione
Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi
dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva
(considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale
dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
11. - Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n.
445/2000-, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione
giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità
costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa
appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del
“diritto vivente”) e non manifestamente infondata.
12. - Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione
di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi di
ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui all’art. 3, comma 2
della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, sia
rilevante (sussistendo, appunto, il nesso di assoluta pregiudizialità tra la
soluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale e la
decisione del presente giudizio) e non manifestamente infondata, e debba,
conseguentemente, essere rimessa all’esame della Corte Costituzionale,
mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della
Consulta.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza,
pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, sospende il
giudizio e solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto
con l’art. 3, comma 2, della Costituzione, nei sensi e termini di cui in
motivazione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata
alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, e
comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della
Repubblica. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Individuazione
del destinatario delle ordinanze contingibili e urgenti.
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Ordinanze contingibili e urgenti – Destinatari – Individuazione.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex
art. 54, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, con riguardo all’individuazione del
destinatario dell’ordine di eseguire i lavori indispensabili per eliminare
il pericolo, presupposto indispensabile è la disponibilità del bene in capo
a tale soggetto, che costituisce condizione logica e materiale
indispensabile per l’esecuzione dell’ordine impartito (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che in presenza di una conclamata
condizione di pericolo per l’incolumità pubblica, per la legittimità
dell’ordine è sufficiente che il Comune provveda ad individuarne i
destinatari in base alla situazione di fatto che si presenta nell’immediato,
indipendentemente da ogni laboriosa e puntuale ripartizione, di fronte a più
soggetti eventualmente obbligati, dei rispettivi oneri di concorso
all’eliminazione dell’accertata situazione di pericolo.
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato
al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia
impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile
e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei
costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2020 n. 536 -
commento tratto da e link a ww.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
1. - E’ appellata la sentenza con la quale il giudice di primo grado ha
accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza sindacale con cui
l’amministratore del condominio in epigrafe era stato diffidato ad eseguire
tutte le opere di assicurazione strettamente necessarie ad eliminare lo
stato di pericolo derivante dal “distacco d’intonaco dalla scala di
collegamento tra le rampe che formano Via del Parco Grifeo, accosto al
civico 30/M con caduta sul sottostante terrazzino …, con accesso da Via del
Parco Grifeo n. 30/M”.
2. - Il TAR ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione
dell’amministratore del condominio ricorrente per non essere stato
autorizzato ad agire in giudizio con regolare delibera dell’assemblea
condominiale, rilevando, in senso contrario, che egli era stato autorizzato
alla lite giudiziaria con delibera condominiale del 19.06.2008.
Nel merito, ha accolto l’unico motivo di censura proposto, nei limiti del
difetto di istruttoria e di motivazione, “in mancanza da parte del Comune di
adeguata dimostrazione della proprietà condominiale della scala di
collegamento ritenuta versare in stato di pericoloso dissesto, quale
presupposto necessario e sufficiente per imporre al Condominio ed al suo
amministratore, gli obblighi di messa in sicurezza della scala predetta”
(pag. 11 della sentenza appellata).
...
5. – Col secondo motivo di appello il Comune ripropone, in termini critici,
le questioni relative alla sufficienza dell’istruttoria condotta, in
relazione al fatto che il giudice di primo grado, riscontrando che nessuno
degli argomenti addotti dalle parti risultava decisivo per stabilire se la
proprietà delle scale fosse condominiale o comunale, ha annullato il
provvedimento impugnato per una pretesa carenza di istruttoria, assumendo
che lo stesso dovesse essere preceduto da un rigoroso accertamento della
proprietà della scala di collegamento ritenuta versare in stato di
pericoloso dissesto.
Il motivo di appello è fondato.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, d.lgs. n.
267/2000, con riguardo all’individuazione del destinatario dell’ordine di
eseguire i lavori indispensabili per eliminare il pericolo, presupposto
indispensabile è la disponibilità del bene in capo a tale soggetto, che
costituisce condizione logica e materiale indispensabile per l’esecuzione
dell’ordine impartito (cfr. TAR Sardegna, sez. I,
03.10.2018, n. 817; id., sez. II, 05.06.2017, n. 375; TAR Liguria, sez. I, 19.04.2013,
n. 702; TAR Lazio, sez. II ter, 17.10.2016, n. 10344).
Pertanto, in presenza di una conclamata condizione di pericolo per
l’incolumità pubblica, per la legittimità dell’ordine è sufficiente che il
Comune provveda ad individuarne i destinatari in base alla situazione di
fatto che si presenta nell’immediato, indipendentemente da ogni laboriosa e
puntuale ripartizione, di fronte a più soggetti eventualmente obbligati, dei
rispettivi oneri di concorso all’eliminazione dell’accertata situazione di
pericolo (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 12.11.2008, n. 5310;
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.12.2001, n. 2493; TAR Campania,
Napoli, 03.02.2004 n. 166).
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato
al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia
impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile
e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei
costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili.
Pertanto, l’Amministrazione comunale appellante non era tenuta a
un’approfondita istruttoria in ordine alla proprietà del bene, essendo
sufficiente che ne fosse accertata la disponibilità in capo al condominio.
Non essendo contestato che il condominio avesse la disponibilità e l’uso
della rampa di scale in questione, il motivo di appello va, di conseguenza,
accolto.
6. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere accolto e per
l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinto il ricorso di primo
grado. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Corte di Giustizia la mancanza della fase del contraddittorio prima
dell’emissione dell’informativa antimafia interdittiva.
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Informativa antimafia – Comunicazione di avvio del procedimento -
Esclusione – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
E’ rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea la questione se gli artt. 91, 92 e 93, d.lgs. 06.09.2011, n. 159,
nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endoprocedimentale in
favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di
rilasciare una informativa antimafia interdittiva, siano compatibili con il
principio del contraddittorio ex art. 7, l. 07.08.1990, m. 241, così come
ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione (1).
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(1) La Sezione non condivide l’assunto della natura cautelare
dell’informativa antimafia interdittiva, poiché non si tratta di misura
provvisoria e strumentale, adottata in vista di un provvedimento che
definisca, con caratteristiche di stabilità e inoppugnabilità, il rapporto
giuridico controverso, bensì di atto conclusivo del procedimento
amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del
rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel
tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili, se si
considera che alla citata interdittiva antimafia segue il ritiro di un
titolo pubblico o il recesso o la risoluzione contrattuale, nonché la
sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che, da quel
momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei
rapporti con la P.A. dal quale sono stati estromessi.
L’informazione antimafia interdittiva non fa pertanto parte dei
provvedimenti interinali e cautelari in relazione ai quali il legislatore
nazionale consente di escludere, in via generale, l’applicazione della
partecipazione al procedimento amministrativo (art. 7, l. 07.08.1990, n.
241).
La stessa partecipazione al procedimento amministrativo, garantita
attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del provvedimento
interdittivo antimafia, non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui
riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto
strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al
provvedimento conclusivo.
Ha aggiunto il Tar che il procedimento amministrativo che culmina nel
rilascio della informazione antimafia interdittiva, pur in presenza di
considerevoli effetti negativi nella sfera giuridica del destinatario, non
prevede alcuna forma di contraddittorio con il destinatario medesimo, se non
nella ipotesi disciplinata dall’art. 93, d.lgs. n. 159 del 2011, in cui “Il
prefetto emette, entro quindici giorni dall’acquisizione della relazione del
gruppo interforze, l’informazione interdittiva, previa eventuale audizione
dell’interessato secondo le modalità individuate dal successivo comma 7”.
Anche nel caso ora esaminato, si tratta di audizione con finalità
istruttoria la quale consente un contraddittorio meramente eventuale, non di
garanzia effettiva di partecipazione al procedimento, atteso che
l’eventualità che il contraddittorio si instauri è discrezionalmente
valutata dall’Autorità prefettizia che procede, in base alle proprie
esigenze istruttorie.
La garanzia partecipativa assume speciale rilievo e importanza nel
procedimento in esame in relazione ad almeno tre circostanze:
1) le valutazioni del Prefetto possono fondarsi su una serie di
elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (ex art. 84,
comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011; si pensi ai cosiddetti delitti-spia),
mentre altri elementi fattuali, cosiddetti “a condotta libera”, sono
lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’Autorità
amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai
sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di
condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle
organizzazioni criminali ovvero anche solo da elementi da cui risulti che
l’attività di impresa «possa, anche in modo indiretto, agevolare le
attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (Cons.
Stato, sez. III, 30.01.2019, n. 758);
2) tale ultima ipotesi di “condizionamento indiretto”
dell’impresa da parte della mafia comprende un numero di casi davvero molto
significativo e appare di difficile distinzione rispetto a quella dei casi
di imprese che subiscono le pressioni mafiose, essendone le vittime;
3) il Giudice amministrativo chiamato a valutare la gravità del
quadro indiziario posto a base della valutazione prefettizia, in ordine al
pericolo di infiltrazione mafiosa, possiede un sindacato giurisdizionale
estrinseco sull'esercizio del potere prefettizio, la qual cosa comporta un
pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo di sindacare
l'esistenza o meno di questi fatti, ma non possiede un vero e proprio
sindacato ab intrinseco che vada oltre l’apprezzamento della
ragionevolezza e della proporzionalità della prognosi inferenziale che
l'Autorità amministrativa trae da quei fatti (cfr., ex multis:
Cons. Stato, sez. III, 05.09.2019, n. 6105; id.
30.01.2019, n. 758); ne discende che il contraddittorio tra il
Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero
rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa la
quale potrebbe offrire al Prefetto prove e argomenti convincenti per
ottenere un’informazione liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi
sfavorevoli, mentre è più difficile che il Giudice amministrativo
sostituisca il proprio convincimento a quello dell’Autorità, una volta che
quest’ultima abbia adottato l’interdittiva antimafia.
Il Tar ha infine ricordato che il diritto dell’Unione riconosce la
sussistenza di un principio del contraddittorio di carattere
endoprocedimentale, da far valere al di fuori del diritto di difesa nel
processo giurisdizionale e da intendere nel senso che “ogni qualvolta
l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un
atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente
sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare
utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali
l’Amministrazione intende fondare la sua decisione; il principio del
contraddittorio endoprocedimentale è enunciato in maniera precisa, in quanto
sono chiariti con sufficienza gli elementi che ne fanno parte e in maniera
incondizionata, trattandosi di principio capace di autoaffermarsi nei
rapporti del cittadino con l’Amministrazione; il principio del
contraddittorio, quale espressione fondamentale di civiltà giuridica
europea, appartiene, oltretutto, al catalogo dei principi generali del
Diritto dell’Unione in base all’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione
Europea, a mente del quale “i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali”
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
ordinanza
13.01.2020 n. 28 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo
giurisprudenza consolidata, i
presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti contingibili e
urgenti sono costituiti, da un lato, dall’esistenza di una situazione di
pericolo concreto e attuale che rende impossibilità differire l'intervento
ad altro momento in relazione alla ragionevole previsione di danno
incombente (da cui il carattere dell'urgenza); dall'altro,
dall'impossibilità di fronteggiare la situazione di pericolo con gli
ordinari mezzi offerti dall’ordinamento giuridico (da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai provvedimenti volti a prevenire/eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, si è anche
precisato che la circostanza che la situazione di pericolo sia protratta nel
tempo non rende illegittima l'ordinanza dal momento che in determinate
situazioni il trascorrere del tempo non elimina il pericolo, ma può,
eventualmente, aggravarlo e che stante l'indispensabile celerità che
caratterizza l'intervento, si può anche prescindere dalla verifica della
responsabilità di un determinato evento dannoso provocato dal privato
interessato, facendo comunque salva la necessità di individuare in un
momento successivo il soggetto effettivamente responsabile della situazione
abusiva.
E’, tuttavia, indispensabile che, pur a fronte della necessaria sommarietà
degli accertamenti che ne precedono l'emissione, le ordinanze contingibili e
urgenti siano adeguatamente motivate almeno in relazione alla concreta
situazione di fatto che è necessario fronteggiare e alle ragioni di “urgenza”
tali da non consentire il tempestivo utilizzo dei rimedi ordinari offerti
dall'ordinamento, poiché solo la contestuale presenza dei presupposti sopra
richiamati giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi.
---------------
Con ordinanza contingibile e urgente indicata in epigrafe e adottata ai
sensi degli artt. 50 e 54 del D.lgs. 267/2000, il Sindaco del Comune di San
Gregorio di Catania ha ordinato alle signore D’An.Sa. e Ro.Ma. la
realizzazione, in solido, dei lavori di messa in sicurezza del muro di
confine tra le due proprietà, già interessato da crolli risalenti nel tempo,
ed oggetto di una precedente ordinanza di messa in sicurezza (n. 2/2006),
nonché di un contenzioso tra l’ente e la signora D’An. in sede civile presso
il Tribunale di Catania (r.g. 12570/2015), nell’ambito del quale è stata
emanata l’ordinanza del 27.11.2015 -mai eseguita- recante condanna del Sa.Gr. di Ca. “(…), di eseguire con urgenza –dandovi avvio entro e non
oltre giorni trenta dalla notifica (a cura di parte) della presente
ordinanza, e portandole a compimento nel rispetto dei tempi tecnici
strettamente necessari– le opere di messa in sicurezza del muro di sostegno
di cui in atti dettagliatamente elencate nel computo metrico estimativo
allegato alla relazione di CTU in atti, a firma dell’ing. Sa.Ne., depositata
in cancelleria addì 21.11.2015 (…)”.
Con il ricorso in esame la signora d’An. -dopo aver premesso alcuni fatti e
circostanze concernenti la vicenda (realizzazione da parte della signora Ma.
di un edificio, in parte abusivo, sul terreno confinante e di un muro di
contenimento; acquisizione gratuita dell’immobile Ma. da parte dell’ente poi
annullata con sentenza CGA n. 916/2019; ripetuti episodi di crolli del muro
con conseguente intervento dei VV.FF)- ha chiesto l’annullamento, per quanto
di interesse, dell’ordinanza contingibile e urgente per i seguenti motivi:
...
Il ricorso è fondato sotto il profilo dell'insussistenza dei requisiti
legittimanti l'esercizio del potere extra ordinem del Sindaco e in
particolare per l'assenza di una concreta situazione di grave pericolo per
l'incolumità pubblica.
Ed invero, secondo giurisprudenza consolidata (cfr., tra le tante: Corte Cost.,
07.04.2011, n. 115 Cons. Stato, Sez. VI, 31.05.2013, n. 3007; Sez. V,
19.09.2012, n. 4968 e 20.02.2012, n. 904; Sez. VI, 09.02.2010, n. 642) i
presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti contingibili e
urgenti sono costituiti, da un lato, dall’esistenza di una situazione di
pericolo concreto e attuale che rende impossibilità differire l'intervento
ad altro momento in relazione alla ragionevole previsione di danno
incombente (da cui il carattere dell'urgenza); dall'altro,
dall'impossibilità di fronteggiare la situazione di pericolo con gli
ordinari mezzi offerti dall’ordinamento giuridico (da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai provvedimenti volti a prevenire/eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, si è anche
precisato che la circostanza che la situazione di pericolo sia protratta nel
tempo non rende illegittima l'ordinanza dal momento che in determinate
situazioni il trascorrere del tempo non elimina il pericolo, ma può,
eventualmente, aggravarlo (Cons. St., Sez. V, 25.05.2012, n. 3077; Id.,
12.10.2010, n. 7411) e che stante l'indispensabile celerità che caratterizza
l'intervento, si può anche prescindere dalla verifica della responsabilità
di un determinato evento dannoso provocato dal privato interessato, facendo
comunque salva la necessità di individuare in un momento successivo il
soggetto effettivamente responsabile della situazione abusiva (Cons. Stato,
Sez. V, 26.05.2015, n. 2610).
E’, tuttavia, indispensabile che, pur a fronte della necessaria sommarietà
degli accertamenti che ne precedono l'emissione, le ordinanze contingibili e
urgenti siano adeguatamente motivate almeno in relazione alla concreta
situazione di fatto che è necessario fronteggiare e alle ragioni di “urgenza”
tali da non consentire il tempestivo utilizzo dei rimedi ordinari offerti
dall'ordinamento, poiché solo la contestuale presenza dei presupposti sopra
richiamati giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi.
Alla stregua di tali principi l'ordinanza per cui è causa appare illegittima
giacché:
- in primo luogo è insussistente qualsiasi profilo di tutela della
“pubblica incolumità”, posto che il provvedimento, al di là del mero
generico richiamo alle disposizioni degli artt. 50 e 54 del D.lgs. 267/2000,
non è correlata ad un evento straordinario, né all’aggravamento
deterioramento della situazione già esistente sin dal 2006; anche sotto
questo profilo l’impugnata ordinanza si limita a richiamare fatti pregressi,
ma non rappresenta l’attuale situazione e grado di pericolo;
-non appare nemmeno configurabile il requisito della contingibilità,
tenuto conto che l'ordinanza gravata non reca alcuna motivazione in ordine
all'impossibilità, per il Comune -nei limiti della propria competenza- di
utilizzare gli ordinari strumenti in materia di vigilanza edilizia e uso del
territorio;
- essa si riconnette, per contro, ad esigenze prevedibili e
permanenti ed è diretta a definire i problemi di staticità del muro di
confine posto tra le proprietà Ma. e D’An., risalenti nel tempo e conosciuti
dall’ente che –sebbene destinatario, sin dal 2015, di un preciso ordine di
esecuzione dei lavori di messa in sicurezza da parte del giudice civile- ha
preferito attendere l’esito del giudizio amministrativo, palesando l’assenza
di un pericolo concreto e attuale per la pubblica incolumità che giustifichi
l'uso di poteri eccezionali;
- si tratta, di contro, di una situazione di pericolo ormai
consolidata che -salvo eventuali situazioni di effettivo pericolo concreto
ed attuale (che, invece, allo stato non sono adeguatamente rappresentate)-
può trovare soluzione in mezzi ordinari forniti dall'ordinamento giuridico,
anche mediante attivazione dei poteri di vigilanza sull’attività edilizia
realizzata dalle parti, mentre eventuali emergenze tali da giustificare un
intervento contingibile e urgente non possono prescindere dalla valutazione
specifica del pericolo per la incolumità dei cittadini (e non solo dei
soggetti occupanti gli immobili in questione).
Per le ragioni che precedono e assorbita ogni ulteriore questione, il
ricorso è fondato e va accolto e, per l'effetto va annullata, per quanto di
interesse, l’impugnata ordinanza, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’amministrazione comunale
(TAR Scilia-Catania, Sez. II,
sentenza 10.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto
endoprocedimentale non è, di regola, impugnabile se non unitamente all’atto
che conclude il procedimento amministrativo.
Nel caso di specie, trattandosi di di un mero atto
endoprocedimentale la natura provvedimentale è esclusa dall’assenza di
idoneità ad incidere in modo definitivo sulla posizione soggettiva del
ricorrente. E deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto
procedimentale di qualunque genere.
Sul punto, è sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in
materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di
procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è
impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non
sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e
diretti in quanto meramente endoprocedimentale”, ove in particolare si è
precisato che “la regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è
autonomamente impugnabile -la lesione della sfera giuridica dell'interessato
provenendo in tal caso solo dall'atto conclusivo del procedimento
amministrativo- trova eccezione solo nei casi in cui dall'atto
procedimentale consegua un effetto preclusivo del successivo sviluppo del
procedimento e, quindi, solo in caso di:
a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali
ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale
capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento
dell'interesse pretensivo prospettato;
c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed
incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi,
determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato.
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato
con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca
all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla
possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente,
si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento
impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi
espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente
lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di
effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro
condizionarne l'esito (…)”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio
di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8
del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”,
ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico
che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione
dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente
definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e,
dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente sulla
situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può
ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una
particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto
alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti
dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che
non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere
considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di
autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura
meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale.
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di
regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento
amministrativo.
---------------
E' consolidato il principio per cui “Ai sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e
14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto conclusivo dei lavori della
conferenza di servizi si concreta in un atto istruttorio endoprocedimentale
a contenuto consultivo, perché l’atto conclusivo del procedimento è il
provvedimento finale a rilevanza esterna con cui l’Amministrazione c.d.
“procedente” decide a seguito di una valutazione complessiva, ed è contro di
esso, in quanto atto direttamente e immediatamente lesivo, che deve
dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli altri atti o hanno carattere
meramente endoprocedimentale o non risultano impugnabili, se non unitamente
al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi”.
---------------
Come noto, l’art. 7 l. 241/1990 esonera la P.A. procedente dalla
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della
medesima legge quando “sussistano ragioni di impedimento derivanti da
particolari esigenze di celerità del procedimento”.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul
procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del
provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico
dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale
questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde
evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella
consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del
privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile
interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà
gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento
non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre
la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del
provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si
lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile”.
---------------
Per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento d'ufficio che
intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile,
quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è
soggetto a un obbligo di motivazione attenuato.
Si tratta di un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale
l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua
dinamicità temporale, né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la
comparazione con l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di
tale circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo
può considerarsi in re ipsa”.
---------------
Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene il ricorso inammissibile per carenza
di interesse e, in ogni caso, infondato nel merito.
Sul piano argomentativo e motivazionale, i motivi di gravame di cui al
ricorso introduttivo sono suscettivi di trattazione unitaria, facendo tutti
leva sul medesimo ordine di argomentazioni di massima.
In primo luogo, è fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso
formulata dal Comune di Manfredonia.
Invero, come emerge dalla ricostruzione in fatto, la società En. S.p.A.
impugnava il provvedimento di annullamento d’ufficio dalla Direzione
Generale presso il M.I.B.A.C., reso nel corso della sessione conferenziale e
giustificato dall’esigenza di acquisire puntuali integrazioni documentali in
ordine alle opere in progetto indispensabili per il successivo sviluppo
procedimentale, stante l’introduzione del nuovo P.P.T.R. della Regione
Puglia.
Risulta evidente che di tale atto non è in alcun modo predicabile la natura
provvedimentale o di arresto procedimentale idonea a radicare l’interesse
all’impugnazione.
Essendo invero un mero atto endoprocedimentale, la natura provvedimentale,
in particolare, è esclusa dall’assenza di idoneità ad incidere in modo
definitivo sulla posizione soggettiva del ricorrente.
Deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto procedimentale di
qualunque genere.
Sul punto, sarà sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in
materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di
procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è
impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non
sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e
diretti in quanto meramente endoprocedimentale” (cfr. Cass., Sez. UU,
Sentenza 19.04.2016, n. 7702), ove in particolare si è precisato che “la
regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile
-la lesione della sfera giuridica dell'interessato provenendo in tal caso
solo dall'atto conclusivo del procedimento amministrativo- trova eccezione
solo nei casi in cui dall'atto procedimentale consegua un effetto preclusivo
del successivo sviluppo del procedimento e, quindi, solo in caso di:
a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali
ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale
capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento
dell'interesse pretensivo prospettato;
c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed
incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi,
determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato (cfr. ex multis,
Cons. Stato, 28.03.2012, n. 1829).
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato
con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca
all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla
possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente,
si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento
impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi
espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente
lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di
effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro
condizionarne l'esito (…)”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio
di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8
del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”,
ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico
che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione
dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente
definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e,
dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente
sulla situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può
ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una
particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto
alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti
dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che
non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere
considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di
autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura
meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale (Cons.
Stato, 27.05.2014, n. 2742; Cons. Stato, Sez. V, 03.05.2012, n. 2530).
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di
regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento
amministrativo.
Come visto supra, le relative eccezioni sono costituite dagli atti di
natura vincolata idonei a determinare in via inderogabile il contenuto
dell’atto conclusivo del procedimento, ovvero dagli atti interlocutori che
comportino un arresto procedimentale (Cons. Stato, 13.02.2017, n. 602): la
natura eccezionale di tale impugnabilità consiglia una rigorosa
interpretazione dell’atto amministrativo, pur sempre da svolgersi
nell’ambito dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 1362 c.c. e s.s. (Cons.
Stato, 09.10.2015, n. 4648; id., 27.11.2014, n. 5877).
Nel caso di specie, il Collegio ritiene che l’atto impugnato, stante il suo
carattere evidentemente interlocutorio, non rechi in sé alcuna autonoma
idoneità lesiva della posizione giuridica della ricorrente, in quanto non
determina di per sé alcun autonomo effetto preclusivo del successivo
sviluppo procedimentale, poiché reso nell’ambito della conferenza di servizi
indetta dal M.I.S.E. ai fini del rilascio dell’Autorizzazione Unica, per la
quale gli artt. 14-ter e s.s. della L. n. 241/1990 prevedono, come è noto,
specifiche modalità di superamento del dissenso espresso dalle
Amministrazioni coinvolte, ove tale dissenso si ritenga di dover superare.
In siffatto contesto, invero, è consolidato il principio per cui “Ai
sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto
conclusivo dei lavori della conferenza di servizi si concreta in un atto
istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, perché l’atto
conclusivo del procedimento è il provvedimento finale a rilevanza esterna
con cui l’Amministrazione c.d. “procedente” decide a seguito di una
valutazione complessiva, ed è contro di esso, in quanto atto direttamente e
immediatamente lesivo, che deve dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli
altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale o non risultano
impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non
immediatamente lesivi” (cfr. TAR Torino, Piemonte, sez. I, 28.11.2018,
n. 1314, TAR Lazio, Latina, sez. I, 06.06.2018, n. 312; Consiglio di Stato,
sez. IV, 10.04.2014, n. 178).
Di conseguenza, ove pure, per ipotesi, la Soprintendenza dovesse esprimere
-a seguito del prescritto approfondimento istruttorio- parere
definitivamente sfavorevole alla realizzazione dell’impianto progettato
dalla società En., ciò non sarebbe di per sé sufficiente a precludere la
positiva conclusione della conferenza di servizi in corso.
Né, tanto meno, nella fattispecie de qua è dato riscontrare un “blocco
procedimentale”, così come sostenuto da parte ricorrente, trattandosi di
un semplice differimento del termine di conclusione del procedimento per
ritenute esigenze di approfondimento istruttorio.
Ne deriva, dunque, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse
all’azione, non vantando, la società in epigrafe, alcuna concreta
possibilità di perseguire il bene della vita richiesto attraverso l’odierno
giudizio, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell’interesse
protetto, a norma dell'art. 100 c.p.c..
Ad abundantiam il ricorso è da ritenersi, altresì, infondato nel
merito.
Con primo motivo di doglianza, la società ricorrente censura l’illegittima
omissione, ad opera dell’Amministrazione procedente, della formale
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della legge
n. 241/1990, la quale avrebbe precluso alla società attrice la possibilità
di fornire il proprio contributo documentale a sostegno della compatibilità
ambientale dell’impianto in questione.
Tale rilievo non è, tuttavia, suscettibile di positivo apprezzamento.
Come noto, infatti, l’art. 7 del disposto normativo richiamato esonera la
P.A. procedente dalla comunicazione anzidetta quando “sussistano ragioni
di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento”, esigenze ravvisabili nel caso di specie, in cui il celere
esercizio del potere di annullamento in autotutela ad opera della Direzione
Generale presso il M.I.B.A.C., risulta giustificato dalla necessità di
salvaguardare un interesse pubblico superiore, in virtù del potere di
controllo sugli atti del proprio ufficio alla stessa attribuito dall’art.
17, comma 1, lettera d), del D.lgs. n. 165/2001.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul
procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del
provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico
dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale
questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde
evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella
consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del
privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile
interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà
gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento
non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre
la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del
provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si
lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile” (cfr. TAR Veneto,
Venezia, Sez. III, 12.04.2018, n. 391).
Ne deriva, dunque, l’infondatezza di tale censura anche alla luce
dell’omessa allegazione, da parte della società in epigrafe, dei presunti
elementi che, qualora tempestivamente sottoposti al vaglio della P.A.
procedente, avrebbero potuto determinare un differente esito
dell’istruttoria.
Da ultimo, non coglie nel segno il profilo di asserita illegittimità
dell’impugnato provvedimento di annullamento in autotutela per carenza dei
presupposti di cui all’art. 21-nonies, posto che lo stesso risulta
adeguatamente motivato in ordine al pubblico e prevalente interesse sotteso
al disposto annullamento e che il legittimo affidamento del privato risulta
adeguatamente tutelato mediante il celere esercizio di tale potere, il cui
termine ragionevole è fissato dalla legge in diciotto mesi.
Invero, per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento
d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento
annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano
consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato. Si tratta di
un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale
l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua
dinamicità temporale” (cfr. TAR Roma, Lazio, sez. III, 21/12/2018, n.
12485), né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la comparazione con
l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di tale
circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo può
considerarsi in re ipsa” (cfr. TAR Venezia, Veneto, sez. I, 07/01/2019,
n. 22).
In conclusione, l’accoglimento dell’eccezione preliminare di rito supra
esaminata è di per sé idoneo e sufficiente a supportare la declaratoria di
inammissibilità del ricorso in epigrafe, di per sé comunque, altresì,
infondato nel merito.
Quanto al resto, le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a
norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di
corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla
giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti,
Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti,
Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663; sez. I, 27.12.2013 n. 28663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal
Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei
a supportare una conclusione di tipo diverso
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 03.01.2020 n. 5 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Collegio intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale:
- la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1,
lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’
‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla
natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero
compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia
un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel
documento;
- l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto
previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la
richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare
comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con
avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano
consentito tale forma di comunicazione”;
- se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti,
l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà
essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il
rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il
silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede
procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà
onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun
controinteressato;
- qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni
di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non
sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il
giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di
controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini
dell’integrazione del contraddittorio;
- dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in
sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per
l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando
l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la
partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati
dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica
di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in
tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è
tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte
controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio
processuale.
---------------
In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel
soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del
provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a
quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al
mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte
di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa- suscettibile
di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza di
accoglimento del ricorso.
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti
amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione
del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
- dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o
facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza;
- dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso
civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa
all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza
della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del
singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento
oggetto di accesso;
- dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di
appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito
dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o
commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza
amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di
accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della
posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del
regime giuridico di accesso concretamente rilevante– in ogni caso, deve riconoscersi una
posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati
personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere
disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento
dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera
giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel
relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da
un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia
dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un
soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una
situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata
allo specifico documento oggetto di accesso.
---------------
1. In via pregiudiziale, attenendo alla corretta instaurazione del
contraddittorio processuale -presupposto di validità del giudizio,
necessario per poter esaminare il merito della controversia– occorre
pronunciare sul capo di sentenza con cui il Tar, escludendo che il Ci.
rivestisse la qualità di contoininteressato, ha (implicitamente) ritenuto
ammissibile il ricorso di prime cure: trattasi di statuizione censurata sia
dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca con il primo
motivo di appello, sia dal Ci. con il primo motivo di opposizione di
terzo, valevole altresì come atto di intervento ex art. 109, comma 2, c.p.a.
In subiecta materia, anche ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), del
codice del processo amministrativo, il Collegio intende dare continuità
all’indirizzo giurisprudenziale (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV,
04.0.2019, n. 6719), in forza del quale:
- la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1,
lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’
‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla
natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero
compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia
un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel
documento;
- l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto
previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la
richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare
comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con
avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano
consentito tale forma di comunicazione”;
- se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti,
l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà
essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il
rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il
silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede
procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà
onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun
controinteressato;
- qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni
di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non
sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il
giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di
controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini
dell’integrazione del contraddittorio;
- dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in
sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per
l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando
l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la
partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati
dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica
di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in
tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è
tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte
controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio
processuale.
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, preliminarmente, occorre
verificare se nella specie sia corretta la decisione del Tar di non ritenere
il Ci. parte controinteressata nel presente giudizio; in caso di
riscontrata erroneità della relativa statuizione, sarà necessario verificare
se l’omessa evocazione in primo grado del Ci. abbia comportato
l’inammissibilità del ricorso, come dedotto dal Miur e dal Ci., ovvero
abbia determinato la violazione del contraddittorio processuale, fattispecie
rilevante ai fini della rimessione della causa al primo giudice ai sensi
dell’art. 105 c.p.a.
2. Con riferimento al primo profilo di indagine, il Collegio ritiene che il
Ci. sia da considerare parte controinteressata in relazione al ricorso ex
art. 116 c.p.a. proposto in prime cure.
In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel
soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del
provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a
quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al
mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte
di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa-
suscettibile di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza
di accoglimento del ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 06.06.2019,
n. 3911).
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti
amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione
del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
- dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o
facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza;
- dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso
civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa
all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza
della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del
singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento
oggetto di accesso;
- dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di
appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito
dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o
commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza
amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di
accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della
posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del
regime giuridico di accesso concretamente rilevante (nella specie, la parte
appellata ha comunque fatto riferimento, in primo grado, sia all’accesso
documentale ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990, sia all’accesso civico ex art. 5
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33)– in ogni caso, deve riconoscersi una
posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati
personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere
disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento
dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera
giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel
relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da
un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia
dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un
soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una
situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata
allo specifico documento oggetto di accesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.01.2020 n. 30 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
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