dossier BARRIERE ARCHITETTONICHE |
anno 2022 |
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CONDOMINO - EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste il principio di solidarietà condominiale
nell'abbattimento delle barriere architettoniche.
Secondo il
principio di solidarietà condominiale, la coesistenza di più
unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé
il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di
quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali,
di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello
delle persone disabili all’eliminazione delle barriere
architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che
prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro,
degli edifici interessati.
Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo
approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è
sufficiente, peraltro, che lo stesso produca, comunque, un
risultato conforme alle finalità della legge, attenuando
sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del
bene primario dell'abitazione..
In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in
via di principio, l’operatività, anche riguardo
all'ascensore, del principio secondo cui negli edifici
condominiali l'utilizzazione delle parti comuni con impianto
a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il
rispetto delle regole dettate dall'art. 1102 c.c.,
comportanti il divieto di alterare la destinazione della
cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l'osservanza
delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la
violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni
immobiliari di loro esclusiva proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi
dell'installazione di impianti che devono considerarsi
indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell'appartamento, intesa nel senso di una condizione
abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali
dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema
di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad
evitare danni alle unità immobiliari altrui.
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17. Per le ulteriori
questioni proposte dai ricorrenti con riguardo alla ritenuta
violazione delle norme civilistiche sulle distanze da luci e
vedute il Tribunale ritiene sufficiente il richiamo alla
sentenza della Corte di Cassazione, Sez. II, n. 30838 del
26.11.2019, che ha ribadito che il principio di solidarietà
condominiale impone di facilitare l’abbattimento delle
barriere architettoniche anche derogando alle norme sulle
distanze comuni.
Si è infatti affermato che “i lavori per la installazione
dell’ascensore erano dichiaratamente volti alla eliminazione
delle barriere architettoniche, ai sensi della L. n. 13 del
1989.
In particolare, la Corte territoriale non sembra avere
adeguatamente apprezzato che, nella valutazione del
legislatore, quale si desume dalla citata L. n. 13 del 1989,
art. 1 (operante a prescindere dalla effettiva utilizzazione
degli edifici considerati da parte di persone portatrici di
handicap: Corte Cost. n. 167 del 1999), l’installazione
dell’ascensore o di altri congegni, con le caratteristiche
richieste dalla normativa tecnica, idonei ad assicurare
l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli
edifici, costituisce elemento che deve essere
necessariamente previsto dai progetti relativi alla
costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione
di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia
residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata,
presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della legge.
Da tale indicazione si desume agevolmente che, nella
valutazione del legislatore, e contrariamente a quanto
affermato dalla sentenza impugnata, l’ascensore o i congegni
similari costituiscono dotazione imprescindibile per
l'approvazione dei relativi progetti edilizi; in altri
termini, l’esistenza dell'ascensore può senz'altro definirsi
funzionale ad assicurare la vivibilità dell’appartamento,
cioè assimilabile, quanto ai principi volti a garantirne la
installazione, agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e
similari.
Vero è che tale qualificazione è dal legislatore imposta per
i nuovi edifici o per la ristrutturazione di interi edifici,
mentre per gli edifici privati esistenti valgono le
disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, art. 2;
tuttavia, la assolutezza della previsione di cui all’art. 1
non può non costituire un criterio di interpretazione anche
per la soluzione dei potenziali conflitti che dovessero
verificarsi con riferimento alla necessità di adattamento
degli edifici esistenti alla prescrizioni dell’art. 2.
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati (Cass. n. 18334 del
2012).
Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo
approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è
sufficiente, peraltro, che lo stesso produca, comunque, un
risultato conforme alle finalità della legge, attenuando
sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del
bene primario dell'abitazione (Cass. n. 18147 del 2013).
In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in
via di principio, come ha fatto la Corte di appello,
l’operatività, anche riguardo all'ascensore, del principio
secondo cui negli edifici condominiali l'utilizzazione delle
parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un
appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate
dall'art. 1102 c.c., comportanti il divieto di alterare la
destinazione della cosa comune e di impedire agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto,
ma anche l'osservanza delle norme del codice in tema di
distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri
condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva
proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi
dell'installazione di impianti che devono considerarsi
indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell'appartamento, intesa nel senso di una condizione
abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali
dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema
di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad
evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. n. 7752
del 1995; Cass. n. 6885 del 1991; Cass. n. 11695 del 1990)”
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 25.02.2022 n. 135 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2020 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Barriere, è più facile dire addio. Per
l’uso del bene comune non serve il consenso altrui. Gli
effetti del dl semplificazioni. Le innovazioni non sono
ritenute di carattere voluttuario.
Condomini sempre più vivibili per
disabili e soggetti con ridotte capacità motorie.
Con l'art. 10, comma 3, del cosiddetto decreto
semplificazioni, il dl n. 76/2020, pubblicato nel
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 16
luglio scorso, sono state infatti apportare una serie di
modifiche alla legge n. 13/1989, rendendo più semplice
l'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche.
Si tratta di principi in parte anticipati dalla
giurisprudenza in questi ultimi anni, ma che la previsione
normativa rende sicuramente più stabili, e in parte
innovativi.
La nuova disposizione normativa.
L'art. 10, comma 3, del dl n. 76/2020 dispone in via
generale che ciascun partecipante alla comunione o al
condominio può realizzare a proprie spese ogni opera di cui
agli articoli 2 della legge n. 13/1989 e n. 119 del n.
34/2020 (si tratta del cosiddetto decreto rilancio, che ha
introdotto anche il tanto atteso bonus al 110%), anche
servendosi della cosa comune nel rispetto dei limiti di cui
all'art. 1102 c.c.. Alla legge n. 13/1989 sono quindi state
apportate specifiche modifiche.
In particolare, all'art. 2, comma 1, sono stati aggiunti due
nuovi periodi, in base ai quali le innovazioni in tal modo
realizzate dai condomini non sono considerate in alcun caso
di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, comma
1, c.c. e per la loro realizzazione resta fermo unicamente
il divieto di interventi che possano recare pregiudizio alla
stabilità o alla sicurezza del fabbricato, come previsto dal
quarto comma dell'art. 1120 c.c..
Più facile eliminare le barriere
architettoniche con il ricorso al principio di cui all'art.
1102 c.c.. Come si
diceva, il nuovo testo normativo recepisce un aspetto che la
giurisprudenza ha ormai acquisito da qualche anno ma, data
la rilevanza del principio, appare più che mai opportuna la
sua trasposizione in legge. I giudici fanno infatti ampia
applicazione del disposto di cui all'art. 1102 c.c., in base
al quale ciascun comproprietario del bene può usarne a suo
piacimento, purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri partecipanti di farne pari uso.
L'utilizzo del bene comune per il soddisfacimento di
interessi personali anche di un singolo condomino, purché
alle condizioni di cui sopra, può avvenire senza alcuna
necessità del consenso degli altri comproprietari, perché in
casi del genere le spese delle attività necessarie a trarre
un maggiore giovamento dalle parti comuni rimangono a carico
del singolo. Ecco quindi che ciascun condomino, nel rispetto
del pari uso delle cose comuni, potrà autonomamente
installare nelle parti condominiali un ascensore, un
montascale, ecc., a proprie spese e senza il necessario
coinvolgimento (e benestare) degli altri condomini, quindi
senza alcuna previa deliberazione assembleare. La nuova
norma di legge non fa altro che specificare questo
principio.
Il condomino disabile o con difficoltà di deambulazione che
intenda operare l'abbattimento di barriere architettoniche
presenti nel proprio condominio potrà quindi anche procedere
in piena autonomia, utilizzando in maniera esclusiva
l'eventuale nuovo manufatto e sostenendone integralmente il
costo.
Le deliberazioni assembleari e lo scoglio
della natura innovativa degli interventi.
Laddove, invece, il condomino che abbia necessità di
facilitare l'accesso al proprio appartamento intenda
ottenere la collaborazione degli altri condomini e
suddividere con essi i costi legati all'intervento sulle
parti comuni, si dovrà necessariamente passare
dall'assemblea condominiale e ottenere una deliberazione in
tal senso (che obbligherà tutti i condomini a compartecipare
alla relativa spesa).
La legge n. 13/1989, per evidenti finalità solidaristiche, e
la successiva riforma del condominio del 2012, peraltro con
alcune incongruenze più volte segnalate, hanno inteso
diminuire i quorum necessari per ottenere la maggioranza in
assemblea, proprio per facilitare iniziative di questo
genere.
Spesso però questa tipologia di interventi costituisce una
innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c., ovvero comporta
una modificazione delle parti comuni. Ecco allora che, per
quanto i quorum assembleari siano comunque diminuiti, si è
sempre ritenuto che dovessero essere rispettati anche i più
stringenti limiti previsti in casi del genere - ovvero la
tutela della stabilità, della sicurezza, del decoro
architettonico dell'edificio e della garanzia che ciascuno
possa continuare a servirsi del bene comune, oltre che
garantire la posizione dei condomini dissenzienti, per
quanto limitatamente alle innovazioni molto gravose da un
punto di vista economico oppure di carattere voluttuario
rispetto alle condizioni e all'importanza dell'edificio
(art. 1121 c.c.).
In questi casi il condomino dissenziente ha infatti la
possibilità di dissociarsi dall'utilizzo dell'opera e quindi
dalla relativa spesa oppure, ove non ne sia possibile un uso
separato, può addirittura esercitare una sorta di veto,
superabile soltanto dall'accollo dell'intera spesa da parte
dei condomini interessati alla sua realizzazione.
Le novità del cosiddetto decreto
semplificazioni.
Proprio su questo punto è intervenuto il cosiddetto decreto
semplificazioni.
In primo luogo la nuova norma di legge stabilisce che gli
interventi volti all'abbattimento delle cosiddette barriere
architettoniche non possono essere mai considerati
voluttuari ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1121
c.c.. In effetti, tenuto conto dei notevoli sviluppi
giurisprudenziali almeno dell'ultimo decennio, volti a una
sempre maggiore valorizzazione del principio solidaristico
in ambito condominiale, con particolare riferimento
all'accessibilità degli edifici, risultava davvero come una
nota stonata il fatto che i condomini riuniti in assemblea
potessero appellarsi al carattere voluttuario
dell'intervento innovativo richiesto da un disabile per il
superamento di una barriera architettonica.
Resta, invece, l'altra misura individuata dall'art. 1121
c.c. a tutela dei condomini dissenzienti, ovvero quello
della gravosità dell'intervento. Si tratta di un'ipotesi che
può ricorrere frequentemente in caso di abbattimento delle
barriere architettoniche (si pensi al caso classico
dell'installazione dell'impianto di ascensore). In questi
casi, come anticipato, i condomini che ritengano
eccessivamente costoso l'intervento assentito dall'assemblea
possono dissociarsi da esso, impegnandosi a non utilizzare
l'impianto e non sostenendo le relative spese.
Ciò è ovviamente possibile soltanto ove l'intervento sulle
parti comuni si sia tradotto in un'opera che possa essere
effettivamente utilizzata in maniera separata dai condomini.
Il caso di scuola è nuovamente quello dell'ascensore,
laddove una soluzione tecnica che consenta l'accesso alla
cabina soltanto con una chiave o un codice digitale può ad
esempio consentirne un utilizzo separato.
In caso contrario, la realizzazione dell'intervento non è
possibile, nemmeno con eventuali maggioranze più elevate, a
meno che i condomini favorevoli si impegnino a sostenerne
integralmente le spese (un po' come avviene nell'ipotesi
delineata dall'art. 1102 c.c. per il singolo condomino). In
questo caso il condomino che si sia sottratto alle spese
comuni potrà comunque utilizzare l'impianto o il manufatto
realizzato per abbattere la barriera architettonica, proprio
perché realizzato su una parte comune di cui il medesimo ha
l'insopprimibile diritto di servirsi.
L'art. 10, comma 3, del dl n. 76/2020 ha infine previsto che
per la realizzazione delle opere di superamento delle
barriere architettoniche resti fermo unicamente il divieto
di interventi che possano recare pregiudizio alla stabilità
o alla sicurezza del fabbricato, come previsto dal quarto
comma dell'art. 1120 c.c.. Nessun cenno viene fatto al
divieto di lesione del decoro architettonico dell'edificio,
pure previsto dal quarto comma dell'art. 1120 c.c..
Questa circostanza, se considerata alla luce dell'utilizzo
dell'avverbio «unicamente», dovrebbe portare a
concludere che anche in questo caso sia stato operato un
ulteriore alleggerimento della disciplina di favore di cui
alla legge n. 13/1989. Tuttavia il dubbio resta, perché
l'attuale quarto comma dell'art. 1120 c.c. prevede anche un
ulteriore limite, quello del divieto di rendere inservibili
le parti comuni all'uso o al godimento anche di un solo
condomino, che non pare possa essere messo in discussione.
Inoltre, per un probabile difetto di coordinamento, ci si è
dimenticati del comma 3 dell'art. 2 della legge n. 13/1989,
il quale rimanda proprio ai divieti di cui al comma 2
dell'art. 1120 c.c. (che corrisponde sostanzialmente al
quarto comma dell'attuale disposizione, come modificata a
seguito della legge n. 220/2012 di riforma del condominio).
Forse questi aspetti potranno essere migliorati in sede di
conversione in legge del dl n. 76/2020 (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.08.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento
barriere architettoniche.
Per l’abbattimento della barriera architettonica
esistente e cioè la scala interna, si operato in due sensi diversi:
● per un verso, si realizza
il citato ascensore, il che appare compatibile, come sopra detto, con la
ratio legis;
●
per altro verso, le scale preesistenti vengono spostate
all’esterno dell’edificio, con recupero degli spazi interni e contestuale
ampliamento degli spazi abitabili.
Questa seconda fase realizzativa appare
del tutto ultronea e non collegata con la prima.
Infatti, la mera traslazione di una barriera da un luogo fisico ad un altro
non concretizza l’eliminazione voluta dalla legge (anche quando questo
concetto venga interpretato nel senso ampliativo che permette
che la rimozione degli ostacoli avvenga con un’opera aggiunta a quella
esistente), per l’evidente ragione che gli ostacoli permangono, seppur
diversamente localizzati, perpetuando la situazione avversata dal
legislatore.
Sicché, mentre può sicuramente concordarsi col TAR in relazione
all’inquadramento tra le opere di cui alla legge 09.01.1989, n. 13 del
citato ascensore, deve invece escludersi che la scala nuova
esterna (in luogo di quella interna) possa essere considerata opera di
abbattimento di barriere architettoniche.
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Occorre ricordare come il permesso di costruire in deroga di cui all'art.
14, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia un istituto di carattere eccezionale
rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un
potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di
natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale.
In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una
comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione
urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo e, come
ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della
realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento
urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui
l'amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua
sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti
dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti.
L’esistenza di una così particolare articolazione procedimentale evidenzia
una incompatibilità funzionale e strutturale con l’ordinario sistema della
sanatoria edilizia di cui all'art. 36 del t.u. dell'edilizia approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che richiede la conformità dell'intervento da
assentire non solo allo strumento urbanistico vigente all'epoca
dell'edificazione sine titulo, ma anche a quello vigente al tempo in
cui è domandata la sanatoria.
Infatti, in primo luogo, va valorizzato la necessaria previa deliberazione
del consiglio comunale, che contempla anche le specifiche garanzie
partecipative per i soggetti interessati. Quindi, la considerazione dei
contrapposti interessi dei soggetti che potrebbero subire pregiudizio dal
rilascio del titolo e un simile iter procedimentale sono evidentemente
incompatibili con una valutazione postuma di tali dati. Per altro verso, il
titolo sanante ai sensi dell'art. 36 è rilasciato all’esito di un diverso
procedimento collegato alla sussistenza del requisito della doppia
conformità delle opere sia al momento della realizzazione dell'intervento
senza titolo, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Pertanto, è ben condivisibile l’affermazione del principio secondo il quale
il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di
carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze
straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina
urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i
limiti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e
mediante la specifica procedura.
Ciò porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria"
dopo l'esecuzione delle opere e che, anzi, sia “esclusa, pertanto, nel
vigente ordinamento l'esistenza di poteri di sanatoria in deroga”.
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... per la riforma della
sentenza 27.03.2018 n. 809
del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, resa tra le parti;
...
1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di
seguito precisati.
2. - La disamina della vicenda deve necessariamente partire dall’esame delle
opere realizzate e dalla loro corretta sussunzione all’interno delle
categorie giuridiche dell’edilizia.
La questione in esame attiene infatti due diversi manufatti: il primo è un
ascensore esterno al perimetro dell’edificio; il secondo è un vano scala,
realizzato in sostituzione delle scale originariamente interne e posto
parimenti all’esterno della sagoma dell’immobile, contornando il citato
ascensore.
Il giudice di prime cure ha considerato i due detti manufatti in maniera
unitaria, inquadrandoli entrambi nell’area di applicazione della
legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche, sulla base di
una doppia considerazione.
In primo luogo, ha ripreso la nozione di barriere architettoniche, contenuta
nell'art. 2, lett. A), punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236, rubricato “Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione
delle barriere architettoniche", che le definisce “gli ostacoli
fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in
particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea", ovvero "gli
ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura
utilizzazione di parti, attrezzature e componenti".
In secondo luogo, ha affermato che “Appare pertanto evidente che fra tali
ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non
affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o
comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a
causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di
compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che
l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere
architettoniche.”
La detta affermazione, in relazione alla prima delle due opere de qua,
appare del tutto condivisibile, proprio per le ragioni espresse (e già
scrutinate da questo giudice d’appello, Cons. Stato, VI, 05.03.2014, n.
1032) che rimarcano come l’utilizzo di un ascensore, in sostituzione delle
scale, elimini gli ostacoli determinati dalle scale.
Meno condivisibile e, anzi, del tutto perplesso, è l’inquadramento, peraltro
non motivato, nella stessa categoria concettuale anche delle scale esterne,
ossia delle opere che determinano l’attuale contenzioso (atteso che, come
evidenzia l’appello –pag. 9– “è proprio la parte esterna della scala
–larga 1,50 metri– a trovarsi illegittimamente ed illecitamente ex DM LL PP
02.04.1968 nella fascia dei 10 metri dalla parete finestrata dell’edificio
della società ricorrente”).
A tal proposito, occorre ricordare che la finalità della legge 09.01.1989,
n. 13 "Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici privati" è quella di permettere,
come recita l’art. 2, “le innovazioni da attuare negli edifici privati
dirette ad eliminare le barriere architettoniche” e, a questo fine,
introduce una serie di agevolazioni ai fini autorizzatori. Pertanto, la
norma è teleologicamente diretta ad eliminare le barriere e solo in funzione
di tale obiettivo possono avere spazio le dette agevolazioni.
Nel caso in esame, per l’abbattimento della barriera architettonica, ossia
la scala interna, si opera in due sensi diversi: per un verso, si realizza
il citato ascensore, il che appare compatibile, come sopra detto, con la
ratio legis; per altro verso, le scale preesistenti vengono spostate
all’esterno dell’edificio, con recupero degli spazi interni e contestuale
ampliamento degli spazi abitabili.
Questa seconda fase realizzativa appare
del tutto ultronea e non collegata con la prima.
Infatti, la mera traslazione di una barriera da un luogo fisico ad un altro
non concretizza l’eliminazione voluta dalla legge (anche quando questo
concetto venga interpretato nel senso ampliativo sopra indicato che permette
che la rimozione degli ostacoli avvenga con un’opera aggiunta a quella
esistente), per l’evidente ragione che gli ostacoli permangono, seppur
diversamente localizzati, perpetuando la situazione avversata dal
legislatore.
Conclusivamente, mentre può sicuramente concordarsi col TAR in relazione
all’inquadramento tra le opere di cui alla legge 09.01.1989, n. 13 del
citato ascensore, deve invece escludersi che la scala esterna qui in
scrutinio possa essere considerata opera di abbattimento di barriere
architettoniche.
Una volta meglio inquadrata la problematica in esame, appaiono facilmente
scrutinabili le doglianze proposte.
3. - Con il primo motivo di diritto, viene lamentato come il TAR
Lombardia ha omesso di pronunciarsi sul primo motivo, con cui è stata
dedotta l’illegittimità dell’atto impugnato perché la deroga edilizia non
può essere concessa in sanatoria.
3.1. - La censura è fondata e va accolta.
Occorre ricordare come il permesso di costruire in deroga di cui all'art.
14, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia un istituto di carattere eccezionale
rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un
potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di
natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale.
In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una
comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione
urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo e, come
ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della
realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento
urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui
l'amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua
sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti
dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti (da
ultimo, Cons. Stato, IV, 24.10.2019, n. 7228).
L’esistenza di una così particolare articolazione procedimentale evidenzia
una incompatibilità funzionale e strutturale con l’ordinario sistema della
sanatoria edilizia di cui all'art. 36 del t.u. dell'edilizia approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che richiede la conformità dell'intervento da
assentire non solo allo strumento urbanistico vigente all'epoca
dell'edificazione sine titulo, ma anche a quello vigente al tempo in
cui è domandata la sanatoria.
Infatti, in primo luogo, va valorizzato la necessaria previa deliberazione
del consiglio comunale, che contempla anche le specifiche garanzie
partecipative per i soggetti interessati. Quindi, la considerazione dei
contrapposti interessi dei soggetti che potrebbero subire pregiudizio dal
rilascio del titolo e un simile iter procedimentale sono evidentemente
incompatibili con una valutazione postuma di tali dati. Per altro verso, il
titolo sanante ai sensi dell'art. 36 è rilasciato all’esito di un diverso
procedimento collegato alla sussistenza del requisito della doppia
conformità delle opere sia al momento della realizzazione dell'intervento
senza titolo, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Pertanto, è ben condivisibile l’affermazione del principio secondo il quale
il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di
carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze
straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina
urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i
limiti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e
mediante la specifica procedura.
Ciò porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria"
dopo l'esecuzione delle opere e che, anzi, sia “esclusa, pertanto, nel
vigente ordinamento l'esistenza di poteri di sanatoria in deroga” (Cons.
Stato, V, 30.08.2004, n. 5622; Cass. pen., III, 31.03.2011, n. 16591).
3.2. - Il motivo va quindi respinto e consente di ritenere assorbito il
terzo motivo di appello, dove si lamenta l’erroneità dell’appellata
sentenza laddove ritiene che la delibera consiliare impugnata sia
sufficientemente motivata con richiamo ad un’autonoma valutazione che
avrebbe operato l’organo competente in esecuzione della sentenza intervenuta
tra le parti che aveva annullato per incompetenza il precedente atto
dirigenziale, così convalidandolo.
Vista la necessità della necessaria partecipazione procedimentale sopra
evidenziata, anche il tema della motivazione avrebbe dovuto essere valutato
in funzione di tale esigenza ma resta comunque superato dall’incompatibilità
giuridica di una delibera di autorizzazione in deroga, comunque argomentata,
con il procedimento di sanatoria.
4. - Con il secondo motivo, viene censurata la sentenza appellata
nella parte in cui ha riconosciuto che le nuove opere realizzate siano
assoggettabili alla generale disciplina per il superamento delle barriere
architettoniche, ritenendole –quindi- esonerate dal rispetto delle distanze
legali tra costruzioni ai sensi degli artt. 78 e 79 del DPR 380/2001 e
dall’art. 19 della LR Lombardia 6/1989.
4.1. - Il motivo è fondato in relazione a quanto già evidenziato in
relazione all’inquadramento delle opere de qua.
Si può pertanto fare rinvio in generale a quanto già evidenziato, con una
ulteriore addenda in relazione alla valutazione contenuta in sentenza per
cui il nuovo corpo edilizio realizzato e formato dall’ascensore e dalle
scale esterne costituisca idonea soluzione tecnica migliorativa per
consentire agli utenti l’uscita dall’ascensore direttamente sul pianerottolo
così superando la precedente criticità rappresentata da ostacoli fisici
situati all’uscita dall’ascensore, senza che siano state provate possibili
ulteriori alternative.
In primo luogo, deve notarsi come, secondo il principio dell’onere della
prova, di cui all’art. 2697 cod. civ., la prova del fatto favorevole deve
gravare sulla parte che se ne giova che, in questo caso, è la parte che
voleva conseguire l’autorizzazione in deroga. È pertanto erronea
l’affermazione del TAR per cui sarebbe stata la controparte quella
incaricata di fornire la dimostrazione dell’esistenza di soluzioni
alternative
Per altro verso, va evidenziato come a seguito dell’istruttoria disposta con
ordinanza 18.06.2019 n. 4110, è emerso come fossero comunque
prospettabili soluzioni alternative a quella realizzata, sebbene con costi e
oneri diversi. Il che rende evidente come, anche da questo punto di vista,
la soluzione adottata non fosse necessitata né unica. Ovviamente, è da
considerare il tema dell’onerosità ma questo non è presupposto considerato
dalla normativa e quindi idoneo a mutare l’assetto degli interessi delineato
dal legislatore.
Anche il secondo motivo di diritto deve quindi essere accolto.
6. - L’appello va quindi accolto, con le precisazioni sopra indicate in
relazione alla diversità delle opere realizzate. Tutti gli argomenti di
doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non
rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una
conclusione di tipo diverso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.08.2020 n. 4898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Barriere
architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina
indirettamente il consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta»
contro il consigliere disabile se non rimuove le barriere
architettoniche che gli impediscono di accedere "in via
autonoma" alla sala consiliare. L'ente locale è tenuto a
risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo
in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno
dell'aiuto di terzi, per quanto messi a disposizione
dall'ente stesso. E, la successiva installazione di
un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che
sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di
responsabilità aquiliana.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico
del Comune- il risarcimento del danno, quantificato in via
equitativa, in favore del consigliere penalizzato dalla
mancata predisposizione di modifiche architettoniche o di
sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi
pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di
disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del
personale comunale di servizio il Comune avesse anche deciso
di tenere le assemblee consiliari nella palestra elementare
proprio per favorire il consigliere in difficoltà. Si
tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a
norma del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che
non è mirata contro una singola persona concretamente
danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva per la sua
potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla
situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica
persona non fa venir meno la violazione dei diritti
costituzionalmente garantiti ai portatori di handicap
fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione
volontaria o colpevole di arrecare un danno, ma la
negligenza e la mera inerzia del soggetto chiamato ad
adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche
per consentire il corrispondente esercizio del diritto
all'accessibilità. Come dice la Cassazione la
discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti
neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di
responsabilità aquiliana, la mancata predisposizione di
mezzi tesi a migliorare l'accesso dei disabili agli edifici
già costruiti, in attesa di interventi definitivi
maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo
diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il
ragionamento dei giudici di appello che avevano respinto la
lamentela del Comune sul proprio obbligo di risarcire, in
quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino") che
seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del
disabile dimostrava l'intenzione di superamento delle
barriere architettoniche. Invece, nelle more dell'intervento
edilizio risolutivo sussiste la responsabilità anche per la
misura provvisoria inadeguata allo scopo. Ovviamente tale
qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale
piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non
ridiscutibile in sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via
equitativa facendo rilevare il proprio sforzo di
contemperare i limiti fisici di un edificio anni '50 con
l'esigenza di accedere da parte del consigliere disabile. La
Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa
in campo a tutela della persona disabile a determinare il
vulnus risarcibile. In questo caso si è trattato della
predisposizione di un mezzo insicuro e non utilizzabile in
via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è
insindacabile il giudizio del giudice di merito che ravvisa
i presupposti del risarcimento in via equitativa, mentre
deve essere percepibile e quindi ricorribile in Cassazione
l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2020).
-----------------
MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non
fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove
pretende di attribuire natura programmatica alle norme che
impongono l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già
affermato che l'esistenza di "ampia
definizione legislativa e regolamentare di barriere
architettoniche e di accessibilità rende la normativa
sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto
alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente
precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia
legittima giustificazione la discriminazione o la situazione
di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime",
consentendo loro "il ricorso alla tutela
antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o
limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una
norma regolamentare apposita che attribuisca la
qualificazione di barriera architettonica ad un determinato
stato dei luoghi"
(così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n.
18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del
tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa
suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è
vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza
costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas»
essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova
costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza
dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere
collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile
ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle
persone affette da handicap fisici"
(così, Corte cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso
senso, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari, si è sottolineato come "il
superamento delle barriere architettoniche -tra le quali
rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del
d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o
impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di
spazi, attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1
dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la
vita di relazione» delle persone disabili", evidenziandosi
che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale
salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e
trovano base costituzionale nella garanzia della dignità
della persona e del fondamentale diritto alla salute degli
interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio
dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica
oltre che fisica"
(così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile
laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere
di apportare all'edificio municipale "tutti quegli
accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte
dei disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino",
lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art.
1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla
portata applicativa dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc.
civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui "il
vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di
un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento
impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge e implica necessariamente un problema interpretativo
della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa"
-che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che
ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia
stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità
dell'edificio municipale in attesa dell'installazione
dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta
interpretazione della norma e inerisce alla tipica
valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di
legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez.
1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass.
Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione
dell'art. 2 della legge n. 67 del 2006, giacché la censura è
basata sull'assunto che esso Comune si sarebbe
tempestivamente attivato per l'installazione dell'ascensore,
ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede,
essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con
cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di
legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti
operata dal giudice di merito, così da realizzare una
surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un
nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da
ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv.
643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non
fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la
sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto "la
valutazione dell'elemento soggettivo dell'azione del Comune
volta al superamento della barriera architettonica", e
ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il
riconoscimento del carattere discriminatorio di "una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o
un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone
la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed
oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043
cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista
dall'art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006" (cfr.
Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.)- che tale
censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella
richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino"
a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non
consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la
determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato
-nel senso, questa volta, della non fondatezza- come quello
previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di
liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui
"l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale
conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa
non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità",
purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che "la
motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso
di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo
seguito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n.
24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent.
15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso
che "al fine di evitare che la relativa decisione si
presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo",
occorre che il giudice indichi, anche solo "sommariamente
e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è
proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del
danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in
ordine al «quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n.
2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia "tenuto a
fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di
un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di
ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno
liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia
scaturito da un esame della situazione processuale
globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent.
10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la
quantificazione, ha dichiarato di aver "tenuto conto
della destinazione d'uso del fabbricato interessato, della
qualifica rivestita all'epoca dall'istante, nonché del
periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione
di inadempienza dell'ente territoriale", così indicando
i criteri seguiti nella determinazione del "quantum". |
EDILIZIA PRIVATA: Tutela
degli immobili di interesse storico e architettonico e applicazione delle
norme per l'abbattimento delle barriere architettoniche.
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Edilizia – Barriere architettoniche – Opere volte alla loro eliminazione
– Immobili di interesse storico e architettonico - Diniego – Condizione.
Ai sensi dell’art. 4, l. 09.01.1989, n. 13,
l’amministrazione può negare l’autorizzazione per realizzare opere edilizie
volte all’abbattimento di barriere architettoniche in immobili di interesse
storico e architettonico nella sola ipotesi in cui le opere in questione
arrechino grave e serio pregiudizio all’intero fabbricato (1).
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(1) Ha ricordato la Sezione che la speciale disciplina di favore
contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13 si applica anche a beneficio di persone
anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie,
soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie (Cass. civ., sez.
II, 28.03.2017, n. 7938).
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente
orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone
affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella
costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli
preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente
dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone
disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (Corte
cost. 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non
già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di
concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ.,
sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l.
n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena
visto” (Cons.
St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge
stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche
previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le
condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si
possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e
la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio
pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il
diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui
l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente
prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori
presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art.
32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità
adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e
ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente
intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona
svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico,
a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (Cons.
St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824; id. 07.03.2016, n. 705; id.
28.12.2015, n. 5845; id.
12.02.2014, n. 682)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.01.2020 n. 355 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
3.3. Venendo ora al merito di causa, a ragione il giudice di primo grado ha
accolto i due ricorsi proposti dal condominio.
Va opportunamente premesso in proposito che, come anche affermato ad esempio
da Cass. civ., Sez. II, 28.03.2017, n. 7938, la speciale disciplina di
favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13, si applica anche a beneficio di
persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e
proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente
orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone
affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella
costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli
preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente
dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone
disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (così Corte
Cost., 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., Sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e
non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di
concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ.,
Sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l.
n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena
visto” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI,
18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge
stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche
previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le
condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si
possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e
la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio
pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il
diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui
l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente
prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori
presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art.
32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità
adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e
ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente
intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona
svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico,
a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali
(così, puntualmente, la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4824
del 2017; nonché id., 07.03.2016, n. 705, 28.12.2015, n. 5845, e 12.02.2014,
n. 682).
Del tutto fondatamente, pertanto, il giudice di primo grado ha evidenziato
che nel caso di specie il sopradescritto e alquanto rigoroso onere
motivazionale non è stato adempiuto, posto che:
1) nel parere del 28.01.1999, la Commissione edilizia integrata si
è limitata ad affermare, in via del tutto generica, che mediante la
realizzazione dei due ballatoi “si configurerebbe un’ulteriore
alterazione della facciata laterale dello stabile”;
2) nel precedente parere del 21.10.1996, la stessa Commissione
aveva espresso parere negativo senza peraltro esprimersi in ordine
all’asserito pregiudizio per l’estetica della facciata dello stabile,
limitandosi unicamente a prospettare la soluzione alternativa
dell’installazione di un “opportuno mezzo meccanico posto all’interno”;
3) in modo ancor più breviloquente la Soprintendenza per i Beni
architettonici e artistici di Napoli, nella propria nota del 30.05.1997, ha
aderito alla già di per sé carente motivazione espressa dalla Commissione
edilizia integrata limitandosi ad affermare che la stessa era comunque
congruente rispetto ad una “migliore tutela del sito”.
Puntualmente il giudice di primo grado ha colto l’intrinseco difetto
motivazionale di tutti e tre tali atti rispetto all’anzidetto precetto di
legge, posto che in nessuno di essi è stato enunciato un qualsivoglia
riferimento a quanto esplicitamente e puntualmente chiesto dalla
disposizione di legge, ossia –giova ribadire- la compiuta enunciazione della
“natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto
al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le
alternative eventualmente prospettate dall'interessato”; né in tutti e
tre tali atti sono contenuti rilievi in ordine alla criticità, rilevata dal
condominio, della proposta installazione del mezzo meccanico rispetto alla
presenza delle volte a botte e a crociera presenti all’interno dello stesso
stabile e parimenti assoggettate a tutela.
Risulta ben evidente, quindi, che tali innegabili carenze che si riscontrano
nelle pronunce da parte dei soggetti competenti ad esprimersi sotto il
profilo della compatibilità del progetto con il vincolo insistente
sull’immobile dispiegano i propri effetti vizianti sul provvedimento di
diniego dell’accertamento di conformità il quale, a sua volta, non può che
refluire altrettanto negativamente sulla susseguente ingiunzione a demolire
susseguentemente emanata dallo stesso Comune, parimenti impugnata dal
condominio e che risulta pertanto illegittima in via derivata rispetto al
presupposto provvedimento di diniego: il tutto, con conseguente assorbimento
di ogni altra censura dedotta e salvi e riservati restando gli ulteriori
provvedimenti che l’Amministrazione comunale adotterà nella riedizione
dell’azione amministrativa di propria competenza.
Invero soltanto nel corso di causa, segnatamente nel primo grado di
giudizio, la difesa del Comune aveva fatto cenno ad un’interlocuzione
intervenuta nelle vie brevi in sede di istruttoria della pratica, nel corso
della quale l’amministrazione comunale avrebbe rappresentato al condominio
che “il mezzo meccanico suggerito era da installarsi lungo la parete del
rampante perché in tal modo non avrebbe interferito con le volte a botte ed
a crociera della stessa”.
Tale circostanza, tuttavia, non trova un qualsivoglia riscontro negli atti
dei procedimenti da cui è scaturita la presente causa, e può quindi essere
-al più- ricondotta ad un’ipotesi di integrazione postuma della motivazione
del provvedimento impugnato nella susseguente sede di contraddittorio
giudiziale: fattispecie, questa che -come è ben noto- risulta comunque ex
se illegittima (cfr. sul punto, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez.
III, 18.06.2019, n. 4119). |
anno 2019 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per
apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente
intesa.
---------------
Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad
hoc di competenza ministeriale.
---------------
Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva
che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente
allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente
ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA
presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto
a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato
dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario
per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione
strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134;
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi
di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto
mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle
dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della
deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto
controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze
di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella”
nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abbattimento delle barriere architettoniche
e distanze.
Ai sensi del combinato
disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R.
n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere
architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste
dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali
casi la previsione di cui all’articolo 9 del
D.M. 1444/1968, atteso che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’articolo
79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere
la deroga delle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi (dettate
nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli
atti di normazione primaria, con il
corollario di dover limitare al dato
testuale il richiamo all’articolo 873 c.c.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.07.2019 n. 1659 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Fr.Ru.
impugna:
a) il provvedimento a firma del Dirigente S.U.E. del comune di
Milano in data 15.12.2017 PG n. 578406/2017, con il quale si sospendono le
opere in corso presso la proprietà dello stesso, ubicata in Milano, via ...
n. 3;
b) l’articolo 86, comma 4, del Regolamento Edilizio del comune di
Milano;
c) la determina dirigenziale 13.12.2017 citata nel provvedimento
impugnato.
2. In punto di fatto, il ricorrente deduce:
a) di essere invalido del lavoro
con percentuale del 35%, di avere 73 anni e di risiedere con la moglie
settantenne al quarto piano della palazzina posta in via ...;
b) di
presentare la S.C.I.A. del 16.11.2017 relativa a lavori di
realizzazione di un ascensore esterno che serva l’intero stabile e
garantisca una più agevole accessibilità al proprio appartamento;
c) di
voler realizzare l’impianto di sollevamento nel rispetto delle prescrizioni
tecniche di cui al D.M. 236 del 14.06.1989, garantendo l’eliminazione
delle barriere architettoniche per l’accesso all’abitazione;
d) di intendere
realizzare un servoscala per garantire l’accesso all’abitazione stante
l’impossibilità per ragioni tecniche di far fermare l’ascensore ai piani.
2.1. L’Amministrazione ordina la sospensione dei lavori e preannuncia
l’emanazione della revoca del titolo abilitativo evidenziando il contrasto
della S.C.I.A. con la previsione di cui all’articolo 86.4 del Regolamento
Edilizio e la non accessibilità dell’ascensore ai livelli di piano.
...
13. Passando al ricorso per motivi aggiunti,
il Collegio osserva come lo stesso sia
fondato.
13.1. Il punto di partenza per
un’interpretazione della normativa vigente
che tenga conto dei valori involti è
costituito dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 251 del 04.07.2008, che
chiarisce come: “in relazione al contenuto
dei diritti costituzionalmente riconosciuti
ai disabili, si deve ritenere […] che la
legislazione in loro favore (specie LL. 09.01.1989 n. 13 e
05.02.1992 n.
104), oltre ad innalzare il livello di
tutela personale, ha segnato un radicale
mutamento di prospettiva rispetto al modo
stesso di affrontare i problemi degli
handicappati, assunti come nodi dell'intera
collettività, per esempio a proposito della
costruzione di nuovi edifici e della
ristrutturazione di quelli preesistenti,
intese ad eliminare comunque le barriere
architettoniche, indipendentemente dal più o
meno probabile utilizzo da parte
dell'invalido”.
13.2. Secondo la costante giurisprudenza
“l’installazione di un ascensore rientra fra
le opere dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, di cui all’art. 27, comma
1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384 […] (Cass. Sez. 2, Sentenza n.
28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 14384 del 29/07/2004)”
(Cassazione civile, sez. VI, 09.03.2017,
n. 6129).
Del resto, secondo la normativa
nazionale, si intendono per barriere
architettoniche (ai sensi dell'articolo 2,
lettera A), punti a) e b), D.M. 14.06.1989 n. 236) “gli ostacoli fisici che sono
fonte di disagio per la mobilità di chiunque
ed in particolare di coloro che, per
qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita, in forma permanente o
temporanea”, ovvero “gli ostacoli che
limitano o impediscono a chiunque la comoda
e sicura utilizzazione di parti,
attrezzature e componenti”.
Tra tali
ostacoli devono, quindi, annoverarsi “le
scale dei palazzi a più piani, non
affrontabili in assoluto da soggetti
deambulanti con sussidi ortopedici, o
comunque fonte di affaticamento -e, dunque,
di "disagio"- per chiunque, a causa
dell'età o di patologie di varia natura,
abbia ridotte capacità di compiere sforzi
fisici. Invero, non può ragionevolmente
negarsi che l'installazione di ascensori
costituisca anche rimozione di barriere
architettoniche” (Consiglio di Stato, sez.
VI, 05.03.2014, n. 102).
13.3. Inoltre, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R.
n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere
architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste
dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile. Non risulta,
dunque, applicabile in tali casi la
previsione di cui all’articolo 9 del D.M.
1444/1968.
Ed è, invero, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle
norme sulle distanze previste dai
regolamenti edilizi (dettate nel comma 1
dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di
dover limitare al dato testuale il richiamo
all’articolo 873 c.c. (cfr. TAR per il
Lazio, sede di Latina, 22.09.2014, n.
726).
13.4. Nel caso di specie, la funzione di
abbattimento delle barriere è comunque
assolta dall’ascensore che la parte
ricorrente intende realizzare atteso che lo
stesso preserva lo stesso dal disagio,
connesso all’età e alla pur parziale
invalidità, di dover percorrere quattro
piani di scale.
Come evidente dalle
indicazioni offerte dalla Corte
Costituzionale, la disciplina della l. 13
del 1989 rappresenta un modello di
riferimento per conformare tutti gli spazi
secondo caratteristiche che ne consentano
l’utilizzo anche da parte di soggetti
disabili senza necessità che l’intervento
edilizio de quo sia subordinato
all’effettiva e comprovata fruizione da
parte di un portatore di handicap.
Inoltre,
la circostanza che, allo stato, l’ascensore
realizzi l’accessibilità al solo quarto
piano non pare poter precludere la
realizzazione dell’opera tenuto conto della
funzione comunque assolta dalla stessa e
della possibilità di realizzare in futuro
meccanismi per l’integrale accessibilità a
tutti i piani dell’edificio.
13.5. In definitiva, il ricorso per motivi
aggiunti deve essere accolto. |
anno 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla realizzazione,
in facciata comune dell’edificio, di un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento.
Secondo
il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione
di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il
permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un
volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
---------------
Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare
le barriere architettoniche negli edifici privati è
necessario il voto favorevole di tanti condomini che
rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr.
art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136
c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che
le controinteressate siano comproprietarie della metà
dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e
soprattutto non emerge con certezza e in maniera
inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in
capo ad almeno una di esse per l’applicazione della
normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio,
oltre a non essere stato rilasciato da una struttura
sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della
condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso
nella documentazione prodotta in occasione della
presentazione della d.i.a..
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016.
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche avrebbe
richiesto agli Uffici comunali un supplemento di
istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata
dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione
dell’ascensore.
---------------
... per l'annullamento, quanto al ricorso per motivi
aggiunti:
- della nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e
ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore
d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di
Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data
22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 –
realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in
Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida
ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio
delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001,
inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel
territorio comunale” non è stata ravvisata “la
sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della
vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori
relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de
quo agitur”;
...
I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento sito al
piano terra del predetto immobile, mentre le
controinteressate -OMISSIS- sono comproprietarie del primo
piano e del sottotetto, situati sempre nel medesimo
fabbricato; queste ultime hanno realizzato sulla facciata
comune dell’edificio, prospetto nord, un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento, da cui sarebbe derivato il totale accecamento
di una finestra al servizio dell’atrio comune e la sensibile
diminuzione dell’aerazione e dell’illuminazione della scala
comune.
Tale intervento edilizio, avviato con una d.i.a. del 2004 e
seguito da due istanze di sanatoria nel 2012 e nel 2016, a
giudizio dei ricorrenti sarebbe privo dei presupposti di
legge, in quanto realizzato in assenza di idoneo titolo
edilizio oltre che del consenso dei predetti ricorrenti,
quali comproprietari delle parti comuni del fabbricato cui
afferisce l’ascensore esterno.
Con una diffida datata 22.02.2016, il legale dei ricorrenti
ha invitato il Comune ad intervenire per annullare il titolo
edilizio, rigettare la richiesta di sanatoria e disporre la
riduzione in pristino di quanto realizzato illegittimamente.
Con atto datato 04.10.2016, il Comune di Lecco ha
riscontrato tale diffida, evidenziando come “dall’esame
della originaria pratica edilizia –Denuncia di inizio
attività in data 12/07/2004, prot. n. 29757– non risulta che
l’intervento effettuato abbia previsto <<il totale
accecamento di una finestra a servizio dell’atrio comune>>
essendo invece rappresentata la realizzazione del nuovo vano
ascensore sul fronte nord–ovest previo ampliamento delle
finestre esistenti su tale facciata”; è stato altresì
affermato che “la denuncia -titolo edilizio da ritenersi
idoneo per la realizzazione dell’intervento essendo
inquadrabile nella fattispecie dell’art. 22, comma 3, lett.
a), del D.P.R. 380/2001– risultava corredata dalla
dichiarazione di proprietà resa ai sensi dell’art. 47 del
D.P.R. 445/2000”; infine, è stata fatta riserva di “valutare
i presupposti per procedere all’annullamento in autotutela
della SCIA in data 24/02/2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche sopra citate e
relativamente alla sussistenza o meno del titolo giuridico
di disponibilità ex art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 da
valutarsi anche con riferimento alla necessità o meno di
consenso di tutti i proprietari per la realizzazione di
interventi volti alla eliminazione di barriere
architettoniche a favore di soggetti portatori di
minorazioni fisiche”.
...
2. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data
23.05.2017 e depositato il 19 giugno successivo, i
ricorrenti hanno altresì impugnato la nota prot. n. 15283/16
datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il
28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del
Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad
oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente
pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore
esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di
significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”,
con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate
dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza
sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale”
non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali
da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione
di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione
dell’ascensore esterno de quo agitur”.
A sostegno del ricorso sono stati dedotti, in primo luogo,
vizi di invalidità derivata rispetto alla nota dirigenziale
del 04.10.2016, già impugnata con il ricorso introduttivo.
Successivamente –sulla natura di “volume tecnico” e/o
“privo di autonomia funzionale” dell’ascensore
esterno realizzato dalle controinteressate e sulla
possibilità di soluzioni alternative e meno
impattanti/invasive (ad es. montascale interno)– sono stati
dedotti la violazione e/o falsa applicazione dei principi
normativi ed urbanistico-edilizi generali in tema di “volume
tecnico”, in particolare degli artt. 3, 6, comma 1,
lett. b, e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 in tema di edilizia
libera, della vigente disciplina in tema di abbattimento
delle barriere architettoniche e in particolare degli artt.
2, 3, 7 e 8 della legge n. 13 del 1989, dell’art. 24 della
legge n. 104 del 1992, degli artt. 11, commi 1-3, e 23,
comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 3 della legge
n. 241 del 1990 e degli artt. 1102, 1120 e 1121 cod. civ.
Inoltre –con riguardo al titolo edilizio necessario per
l’intervento de quo e sulla non configurabilità nella
fattispecie di un intervento di “manutenzione
straordinaria”– sono stati dedotti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 3, comma 1, lett. b e d, 10,
comma 1, lett. c, e 22, comma 3, lett. a, del D.P.R. n. 380
del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31,
comma 1, lett. c, della legge n. 457 del 1978, la violazione
dell’art. 11, comma 1, e/o dell’art. 23, comma 1, del D.P.R.
n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti, per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria e per difetto assoluto di motivazione.
Con riferimento all’impossibilità di assentire l’intervento
in mancanza del consenso di tutti i comproprietari del bene
immobile interessato (facciata ed atrio condominiale), alla
grave limitazione dell’uso delle parti comuni, alla
sussistenza dei presupposti fattuali e legali per procedere
all’annullamento in autotutela ex art. 19 della legge n. 241
del 1990 e ss.mm.ii. e/o ex art. 27 del D.P.R. n. 380 del
2001 della s.c.i.a. datata 24.02.2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche effettuate, alla
insussistenza del titolo giuridico di disponibilità ex artt.
11-27 del D.P.R. n. 380 del 2001, alla necessità di consenso
di tutti i proprietari per la realizzazione degli interventi
edilizi de quibus, anche laddove asseritamente volti
alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di
soggetti portatori di minorazioni fisiche, sono stati
eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso
di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27
del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dell’art. 11,
commi 1 e 3, e dell’art 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del
2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102
cod. civ., la violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della
legge n. 241 del 1990, la violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 6, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011,
convertito in legge n. 148 del 2011, in tema di s.c.i.a.,
dell’art. 19, commi 4 e 6-ter, e degli artt. 21 e 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, della legge n. 13 del 1989 e
del D.M. n. 236 del 1989, l’eccesso di potere per difetto
assoluto di istruttoria, il difetto e/o perplessità della
motivazione, il travisamento dei fatti e degli atti del
procedimento, il difetto e/o erroneo apprezzamento dei
presupposti legittimanti, illogicità e contraddittorietà
manifesta.
Quanto alla s.c.i.a. in sanatoria del 24.02.2016, prot.
14670, e alla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria del 12.11.2012, prot. n. 50781, e alla natura “essenziale”
delle variazioni poste in essere dalle controinteressate e
all’impossibilità di assentire la sanatoria in assenza del
consenso di tutti i proprietari del bene oggetto di
intervento, sono stati eccepiti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e dell’art. 37,
commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 54,
comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, l’eccesso di
potere per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria, per difetto dei presupposti, per difetto di
motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed
estrinseca.
Anche con riguardo al ricorso per motivi aggiunti è stato
chiesto il risarcimento del danno.
...
3. Passando all’esame del merito del ricorso per motivi
aggiunti, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito
specificato.
4. Vanno scrutinate preventivamente la seconda e la terza
censura del ricorso per motivi aggiunti, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, attraverso
le quali si contesta la qualificazione dell’intervento di
costruzione dell’ascensore esterno quale attività di
manutenzione straordinaria, essendo invece richiesto per la
realizzazione di tale attività edilizia il previo rilascio
di un permesso di costruire, che presupporrebbe il consenso
dell’intero condominio, nella fattispecie mai acquisito,
oltre alla dimostrazione della sussistenza di una condizione
di disabilità, mai comprovata da parte delle
controinteressate.
4.1. Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito
specificati.
Va premesso che, secondo il più recente indirizzo
giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore
all’esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume
tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr.
TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia,
Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016,
n. 97).
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni
da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012 (cfr.
di recente in giurisprudenza, Cass. civ., VI, 09.03.2017, n.
6129).
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati è necessario il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto
dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie
della metà dell’immobile su cui è stato realizzato
l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in
maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti
soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione
della normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio
(all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da
una struttura sanitaria accreditata per il formale
riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta
nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in
occasione della presentazione della d.i.a. in data
12.07.2004 (cfr. all. 3 delle controinteressate).
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex
multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV,
06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017,
n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016 (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479).
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche (cfr. Cass.
civ., VI, 09.03.2017, n. 6129) avrebbe richiesto agli Uffici
comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì
la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente
danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.
4.2. Pertanto, la scrutinate doglianze vanno accolte, con la
conseguente declaratoria di illegittimità del provvedimento
comunale del 23.03.2017, non avendo il Comune provveduto
correttamente in ordine alla richiesta dei ricorrenti di
disporre la demolizione dell’ascensore esterno realizzato
senza titolo dalle controinteressate.
4.3. Alla fondatezza delle predette censure, previo
assorbimento delle restanti doglianze, segue l’accoglimento
del ricorso per motivi aggiunti e il conseguente
annullamento del provvedimento comunale del 23.03.2017.
5. Le domande risarcitorie formulate sia con riguardo al
ricorso introduttivo che al ricorso per motivi aggiunti sono
da respingere, in ragione della mancata dimostrazione dei
loro elementi costitutivi.
6. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve
essere accolto, con il conseguente annullamento della nota
comunale del 23.03.2017; le domande di risarcimento del
danno devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.09.2018 n. 2065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento
delle barriere architettoniche e normativa sulle distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli
articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19
della l.r. n. 6/1989, le opere dirette all’abbattimento
delle barriere architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti
edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui
agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, atteso che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma
1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria,
con il corollario di dover limitare al dato testuale il
richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità
della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni
prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento
delle barriere architettoniche, una specifica e automatica
deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli
strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di
valutazioni discrezionali dell’Amministrazione; né
l’applicazione di tale normativa è preclusa per la
realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale,
come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla
giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti
tecnologici”, e come la scala realizzata all’esterno per
assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza
incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini
preesistenti
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale è stata
approvata la deroga alle distanze previste dalla disciplina
urbanistica comunale in relazione ad una variante di
progetto presentata dalle controinteressate per la
realizzazione di un ascensore e di un vano scala all’esterno
della sagoma dell’immobile di loro proprietà in applicazione
della legislazione sull’eliminazione delle barriere
architettoniche.
In seguito a tale approvazione, il progetto si trova a un
confine di 9 metri invece che di 10 rispetto alla
costruzione della ricorrente.
...
Nel merito, il ricorso è infondato, riportandosi,
essenzialmente, il collegio alla costante giurisprudenza del
giudice amministrativo per la quale: “Si intendono per
barriere architettoniche -ai sensi dell'art. 2, lett. A),
punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236 ("Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità,
l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di
edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai
fini del superamento e della eliminazione delle barriere
architettoniche")- "gli ostacoli fisici che sono fonte di
disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di
coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea",
ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque
la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e
componenti". Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli
debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non
affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi
ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di
"disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di
varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi
fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che
l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di
barriere architettoniche” (Cons. Stato, sez. VI ,
05.03.2014, n. 1032).
Alla luce della giurisprudenza succitata, gli interventi
realizzati rientrano nell’ambito di applicazione della
disciplina sul superamento delle barriere architettoniche,
non trattandosi, quindi, come affermato da parte ricorrente,
di opere idonee a migliorare i servizi e il valore
immobiliare dell’edificio.
Ed invero, nella fattispecie in questione l’intervento è
stato realizzato per adeguare l’immobile, costituito da più
di tre livelli fuori terra, alla normativa sull’eliminazione
delle barriere architettoniche. E’ stato, dunque, realizzato
un ascensore, sono state demolite le vecchie scale
condominiali interne, troppo strette per montare il
servoscale, e costruite delle scale esterne.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del
d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della legge
regionale n. 6/89, le opere dirette all’abbattimento delle
barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga
alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi,
salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli
articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque,
applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
E’ stato, invero, affermato che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma
1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria,
con il corollario di dover limitare al dato testuale il
richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità
della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni
prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr. TAR Lazio,
Latina, 22.09.2014, n. 726).
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento
delle barriere architettoniche, una specifica e automatica
deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli
strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di
valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
Né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la
realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale,
come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla
giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti
tecnologici” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2012, n.
6253), e come la scala, nel caso di specie, realizzata
all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti
dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici
costituiti dai gradini preesistenti.
La ricorrente assume, inoltre, che sarebbero state possibili
alternative all’intervento realizzato, ma senza fornire
alcuna prova del proprio assunto, né sono fondate le
considerazioni relative alla assunta creazione di una
ingiusta servitù a carico della ricorrente, atteso che
l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 non esclude il principio di
reciprocità nell’applicazione della normativa in deroga al
regime sulle distanze.
In relazione, poi, all’asserita carenza di motivazione e di
istruttoria della delibera consiliare impugnata, dall’esame
della stessa risulta una, seppur sintetica, motivazione che
dà atto dell’autonoma valutazione effettuata dal Consiglio
comunale, espressosi in esecuzione della sentenza n. 72/2009
di questo Tribunale, che aveva accolto il ricorso per
incompetenza disponendo la “rimessione dell’affare
all’organo consiliare competente”.
Ed invero, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, nel caso di provvedimenti
affetti solo da vizi di carattere formale, come quello di
incompetenza, non è necessaria una particolare, dettagliata
motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da
convalidare e degli atti a questo antecedenti (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863).
E tale orientamento risulta tanto più applicabile nel caso
di determinazione vincolata, come nella fattispecie
all’esame del Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.03.2018 n. 809 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione
delle barriere architettoniche negli edifici privati.
La normativa di favore di cui alla l.
13/1989 si applica anche quando si tratti di persone anziane
le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e
proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà
motorie.
La legge in questione infatti, in base ad un’interpretazione
costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo
il quale i problemi delle persone affette da una qualche
specie invalidità devono essere assunti dall’intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che
nella costruzione di edifici privati e nella
ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere
architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla
effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di
persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti
fondamentali
(massima tratta da https://renatodisa.com).
---------------
... per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sez. II-bis,
05.03.2013 n. 2346, resa fra le parti, che ha accolto il
ricorso n. 484/2013, proposto per l’annullamento:
a) della nota 17.10.2012 prot. n. 16292 del
Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici per
il Comune di Roma, di diniego dell’autorizzazione di cui
all’art. 21, comma 4, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 per la
realizzazione di un ascensore a servizio dell’interno 6,
piani secondo e terzo subalterno 27, nel palazzo situato a
Roma, -OMISSIS- angolo via -OMISSIS-;
b) della nota 30.08.2012 prot. n. 13952 della stessa
Soprintendenza, di preavviso di diniego;
...
FATTO
La ricorrente appellata è proprietaria di un appartamento
situato a Roma, in -OMISSIS-, all’angolo con via -OMISSIS-,
nello storico palazzo Salomoni Alberteschi, sottoposto a
vincolo di particolare interesse culturale come da decreto
24.05.1955 (doc. 4 in I grado ricorrente appellata,
copia del decreto di vincolo) e con propria istanza del
giorno 31.07.2012, ha chiesto alla competente
Soprintendenza di essere autorizzata a realizzarvi un
ascensore, situato nel cortile interno del palazzo stesso,
“in relazione alla legge 13/1989” sul superamento delle
barriere architettoniche, data la propria età avanzata (doc.
5 in I grado ricorrente appellata, copia istanza).
Con il provvedimento 17.10.2012 meglio indicato in
epigrafe (doc. 1 in I grado ricorrente appellata, copia di
esso), motivato con riferimento al preavviso di diniego, la
Soprintendenza ha respinto il progetto, ritenendo che “le
opere progettate non siano compatibili con i criteri della
tutela monumentale dell’edificio in quanto l’inserimento
della progettata torre di elevazione nel cortile… anche se
temporaneo, verrebbe ad alterare gravemente le valenze
storiche, artistiche, architettoniche e tipologiche di un
cortile che, contrariamente a quanto ritenuto nella
relazione tecnica storica allegata, presenta caratteri
stilistici e di pregio dell’ambiente edilizio romano” (doc.
2 in I grado, copia prediniego).
Contro tale diniego, la ricorrente appellata ha proposto
ricorso in primo grado, e ne ha sostenuto l’illegittimità,
chiedendo che esso fosse annullato e che “il Giudice
amministrativo, ove ritenuto opportuno” volesse “ammettere CTU per accertare se la realizzazione dell’ascensore … possa
comportare un serio pregiudizio per l’immobile sottoposto a
tutela” (ricorso di primo grado, p. 13 in fine).
Con la sentenza meglio indicata in premesse, il TAR ha
accolto il ricorso; in motivazione ha in particolare
sostenuto che il diniego sarebbe stato immotivato per
contrasto con un precedente diniego pressoché identico,
anche se riferito ad un progetto di maggiore impatto, nonché
per contrasto con una nota 18.06.1976 prot. n. 8960 (doc.
19 ricorrente in I grado, copia di essa) della
Soprintendenza, che avrebbe escluso uno specifico interesse
architettonico del cortile e per l’inerzia della
Soprintendenza di fronte a sette unità di condizionamento
aria ivi già collocate, e di ben maggiore impatto visivo.
Ciò posto, il TAR ha condannato la Soprintendenza a
rilasciare “senza ulteriore indugio” il provvedimento di
autorizzazione.
Contro tale sentenza, il Ministero per i beni e le attività
culturali - MIBAC ha proposto impugnazione, con appello
contenente due motivi, il secondo subordinato alla reiezione
del primo:
- con il primo motivo, deduce difetto di motivazione della
sentenza impugnata sotto ciascuno dei tre profili da essa
valorizzati per annullare il diniego. Sotto il profilo delle
vicende del precedente diniego, deduce che esse si sarebbero
svolte diversamente. Infatti, il defunto marito della
ricorrente appellata ebbe ad ottenere due sentenze del TAR
Lazio, la prima del 21.01.2009 n. 478, che aveva
annullato per difetto di motivazione il diniego opposto ad
un primo progetto; la seconda del 23.11.2009 n. 11154,
che aveva imposto di provvedere a fronte di un silenzio
rifiuto.
Peraltro, il ricorso contro il nuovo diniego
successivamente emesso era stato respinto con sentenza dello
stesso TAR 04.02.2011 n. 1045. Sotto il profilo della
nota 8960/1976, deduce che l’amministrazione ben avrebbe
potuto mutare opinione, e sotto il profilo dell’esistenza di
impianti di condizionamento altrettanto lesivi del bene, ma
tollerati, deduce in sintesi che l’eventuale tolleranza non
darebbe diritto a commettere un ulteriore abuso;
- con il secondo motivo, deduce eccesso di potere
giurisdizionale, quanto alla parte della decisione che ha
imposto l’emanazione del provvedimento, potere al giudice
non spettante.
Ha resistito la ricorrente con memoria 23.07.2013, in
cui:
- in via preliminare, deduce la inammissibilità del ricorso
in quanto proposto dal Ministero e non dal suo organo
periferico autore del provvedimento;
- nel merito, chiede che il ricorso sia respinto, difendendo
la motivazione della sentenza di primo grado. In
particolare, quanto al secondo motivo di appello, sostiene
di avere in sostanza chiesto con il proprio ricorso anche la
condanna all’emanazione del provvedimento;
- in via incidentale, ripropone il secondo motivo di primo
grado, dichiarato assorbito, e deduce illegittimità per
violazione dell’art. 4 della l. 09.01.1989 n. 13, che
consente di denegare l’autorizzazione in esame solo in caso
di “serio pregiudizio” del bene tutelato, che nella specie
non sussisterebbe.
Con ordinanza 31.07.2013 n. 2371, la Sezione ha accolto
la domanda cautelare, ritenendo di dover dar prevalenza
all’interesse a non alterare lo stato dei luoghi fino alla
decisione di merito.
Con memorie 14.07.2017 per l’amministrazione e 26.07.2017 per la ricorrente appellata, nonché con replica
04.09.2017 per quest’ultima, le parti hanno ribadito le
rispettive difese, sottolineando l’amministrazione
l’unitarietà del MIBAC come parte processuale.
All’udienza del giorno 28.09.2017, la Sezione ha
trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. Sono fondati tanto l’appello principale, quanto l’appello
incidentale, e ciò comporta l’accoglimento del ricorso
originario nei termini che seguono.
2. E’ anzitutto infondata l’eccezione di inammissibilità
proposta in via preliminare dall’appellante incidentale:
come è notorio, e come risulta già dal provvedimento che lo
ha istituito, d.lgs. 20.10.1998 n. 368, l’attuale
Ministero per i beni e le attività culturali è configurato
come un plesso amministrativo unitario, nel quale le
Soprintendenze sono organi periferici, per i quali non è
prevista alcuna legittimazione esclusiva a proporre azioni
in giudizio, legittimazione che spetta in generale al
Ministero per tutte le materie di sua competenza.
3. Nel merito, i due motivi di appello principale vanno
esaminati congiuntamente, in quanto connessi fra loro, e
risultano entrambi fondati.
Infatti, i tre profili valorizzati dal Giudice di primo
grado per fondare la decisione risultano non pertinenti.
4. Sotto il primo di essi, considerato nella prima parte del
primo motivo, non è contestato in fatto che il precedente
progetto per un’installazione analoga, sul quale la
Soprintendenza ebbe ad esprimersi nei termini ricordati in
premesse, non portò al rilascio di alcuna autorizzazione. A
parte ogni altro rilievo sulla possibile diversità fra tale
progetto e quello attuale per cui è causa, è quindi certo
che l’amministrazione in proposito non si era in alcun modo
vincolata in positivo.
5. Sotto il secondo profilo, considerato nella seconda parte
del secondo motivo, basta ricordare il costante insegnamento
giurisprudenziale per cui il legittimo operato
dell’amministrazione non è inficiato dall’eventuale
illegittimità della sua precedente condotta con riguardo a
situazioni analoghe. L’eccesso di potere per disparità di
trattamento si può infatti configurare solo sul presupposto,
di cui l’interessato deve dare la prova rigorosa,
dell’identità assoluta della situazione considerata: così
fra le molte C.d.S. sez. VI 11.06.2012 n. 3401.
6. Sotto il terzo profilo, oggetto del secondo motivo di
appello, è senz’altro vero che la possibilità di condannare
l’amministrazione al rilascio di un provvedimento è prevista
in modo espresso dall’art. 34, comma 1, lettera c), c.p.a. La
stessa norma però prevede che ciò avvenga soltanto “nei
limiti di cui all'articolo 31, comma 3”, ovvero “solo quando
si tratta di attività vincolata o quando risulta che non
residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti dall'amministrazione”, fermo il
limite di carattere generale dell’art. 34, comma 2, per cui
“In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a
poteri amministrativi non ancora esercitati”.
Nel caso di specie, la pronuncia adottata dal Giudice di
primo grado, che è consistita in un annullamento,
essenzialmente, per difetto di motivazione, supera i limiti
indicati, se non altro perché è stata adottata senza
un’esplicita considerazione del progetto presentato, dalla
quale non si potrebbe secondo logica prescindere per dire se
residuano o no margini per l’esercizio della discrezionalità
in materia.
7. L’accoglimento dell’appello principale comporta che si
debba esaminare l’appello incidentale, che è a sua volta
fondato.
L’appellante incidentale, infatti, invoca a proprio favore
l’applicabilità della l. 13/1989, recante “Disposizioni per
favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici privati”, e in particolare
dell’art. 4 di essa, che come si vedrà stabilisce un regime
di favore per le opere come quella per cui è causa.
8. La normativa descritta è effettivamente applicabile al
caso di specie.
Sotto il profilo oggettivo, l’opera per cui è causa è un
ascensore, che rientra fra i “meccanismi per l'accesso ai
piani superiori” considerati in modo espresso dall’art. 1,
comma 3, lettera a), della legge fra gli interventi volti ad
eliminare le barriere in questione.
Sotto il profilo soggettivo, come chiarito di recente da
Cass. civ. sez. II 28.03.2017 n. 7938, la normativa di
favore di cui alla l. 13/1989 si applica anche quando si
tratti di persone anziane le quali, pur non essendo
portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque
di disagi fisici e di difficoltà motorie.
La legge in
questione infatti, in base ad un’interpretazione
costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo
il quale i problemi delle persone affette da una qualche
specie invalidità devono essere assunti dall'intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che
nella costruzione di edifici privati e nella
ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere
architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla
effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di
persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti
fondamentali -così C. cost. 10.05.1999 n. 167 e Cass.
civ. sez. II 25.10.2012 n. 18334- e non di accordare
diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione
alla persona disabile in quanto tale, come affermato da
Cass. civ. sez. II 26.02.2016 n. 3858.
Di conseguenza, delle norme stesse si impone
un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto, e
quindi risulta applicabile il regime di favore previsto
dalla legge in esame.
9. Secondo l’art. 4 della stessa, in particolare, gli
interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche
previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a
migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate
nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni
sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa
autorizzazione, come previsto dal comma 4, “può essere
negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza
serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi al
comma 5 che “Il diniego deve essere motivato con la
specificazione della natura e della serietà del pregiudizio,
della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera
si colloca e con riferimento a tutte le alternative
eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si tratta di un onere di motivazione particolarmente
intenso, poiché l’interesse alla protezione della persona
svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del
patrimonio artistico solo in casi eccezionali: così C.d.S.
sez. VI 12.02.2014 n. 682, 28.12.2015 n. 5845 e 07.03.2016 n. 705, quest’ultima relativa ad un caso del tutto
simile al presente, in cui si è ritenuto illegittimo il
diniego di autorizzazione ad installare un ascensore in un
palazzo sito nella stesa zona di quello per cui è causa,
osservando che mancava un serio pregiudizio, trattandosi di
impianto non visibile dalla pubblica strada.
10. Applicando i principi appena ricostruiti al caso di
specie, il diniego va annullato, dato che la sua motivazione
non tiene conto della circostanza, non contestata in causa,
per cui la ricorrente appellante incidentale era
ultrasettantenne già all’epoca della domanda, e quindi
poteva con ogni verosimiglianza beneficiare della disciplina
di favore di cui all’art. 4, commi 4 e 5, della l. 13/1989.
L’annullamento, lo si ricorda per chiarezza, riguarda il
provvedimento indicato in dispositivo, e non la nota 30.08.2012 prot. n. 13952 di preavviso del diniego, che è
pacificamente atto endoprocedimentale non autonomamente
lesivo.
L’amministrazione, nel riesaminare la pratica, dovrà allora
tenere conto delle circostanze suindicate, ovvero della
situazione personale dell’istante e della conseguente
applicabilità delle norme della l. 13/1989 di cui si è detto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.10.2017 n. 4824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il
condomino portatore di handicap ha diritto all'installazione
dell'ascensore.
Se il condominio si rifiuta di eliminare
le barriere architettoniche, i portatori di handicap possono
installare, a proprie spese, le strutture per rendere più
agevole l'accesso al proprio appartamento.
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l’ordinanza
09.03.2017 n. 6129, si è occupata di un
interessante caso in materia condominiale.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di
Trieste, in accoglimento della domanda proposta da alcuni
condomini, “aveva accertato il diritto degli stessi, ai
sensi della L. 09.01.1989, n. 13, art. 2, ad installare un
ascensore occupando una parte del sedime del giardino
comune, a ridosso della facciata, ove è ubicato il portone
d'ingresso del Condominio”.
In particolare, la domanda era stata proposta dai condomini
a seguito del “rigetto espresso due volte dall'assemblea
condominiale alla proposta di installazione dell'ascensore e
deduceva la difficoltà di deambulazione di due condomine”.
La Corte d'Appello, in riforma della sentenza di primo
grado, aveva rigettato le domande dei condomini, osservando
che l’ascensore era un manufatto diverso dal servoscala o da
altre “strutture mobili e facilmente amovibili”, di
cui alla legge 13/1989 e che l’ascensore stesso non avrebbe
comunque consentito alle condomine di “raggiungere senza
problemi i rispettivi appartamenti, dovendo fermarsi sul
pianerottolo dell'interpiano con dieci gradini da percorrere
a piedi”.
La Corte d’appello, dunque, riteneva che l'installazione
dell'ascensore violasse l’art. 1102 cod. civ. e, in
particolare, la “destinazione a giardino dell'area comune”,
evidenziando che l’installazione stessa richiedeva il
consenso dell’assemblea condominiale, espresso con il quorum
di cui all’art. 1136 cod. civ. (numero di voti
corrispondente alla maggioranza degli intervenuti e ad
almeno la metà del valore dell’edificio).
Ritenendo la decisione ingiusta, i condomini in questione
proponevano ricorso per Cassazione, al fine di ottenere
l’annullamento della sentenza di secondo grado.
La Corte di Cassazione, in effetti, riteneva di dover
aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti,
accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la decisione della Corte
d’appello si poneva in contrasto con il consolidato
orientamento della stessa Corte di Cassazione, “secondo
cui l'installazione di un ascensore rientra fra le opere
dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui
alla L. 03.03.1971, n. 118, art. 27, comma 1, e al D.P.R.
27.04.1978, n. 384, art. 1, comma 1, e perciò costituisce
innovazione che, ai sensi della L. 02.01.1989, n. 13, art.
2, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta
dall'art. 1136 c.c., comma 2”.
Evidenziava la Cassazione, in particolare, che la stessa L.
n. 13 del 1989 “stabilisce che, nel caso in cui il
condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi
dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi
per oggetto le innovazioni volte all'eliminazione delle
barriere architettoniche, i portatori di handicap possono
installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine
di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli
ascensori e alle rampe dei garages”.
Osservava la Corte, infatti, che “l'installazione di un
ascensore, allo scopo dell'eliminazione delle barriere
architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella
specie, un'area destinata a giardino), deve considerarsi
indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e
della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra,
pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi
dell'art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del
03/08/2012)”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione
accoglieva il ricorso proposto dai condomini ricorrenti,
annullando la sentenza di secondo grado e rimettendo la
causa alla Corte d’appello, affinché la medesima decidesse
nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra
enunciati (commento tratto da www.brocardi.it).
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ORDINANZA
La decisione dei giudici di appello si pone in contrasto
con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui
l'installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette
ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all'art.
27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all'art. 1,
comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce
innovazione che, ai sensi dell'art. 2, legge 02.01.1989, n.
13, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta
dall'art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n.
28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del
20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del
29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all'eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei
garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all'esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220).
L'installazione di un ascensore, allo scopo
dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
su parte di aree comuni (nella specie, un'area destinata a
giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini
dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità
dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c. (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l'art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 18334 del 25/10/2012).
Ai fini della legittimità dell'intervento innovativo
approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è
sufficiente, peraltro, che lo stesso (pur non potendo, come
nella specie accertato dalla Corte di Trieste, in ragione
delle particolari caratteristiche dell'edificio, raggiungere
l'ascensore direttamente gli appartamenti dei portatori di
handicap, dovendosi fermarsi sul pianerottolo) produca,
comunque, un risultato conforme alle finalità della legge,
attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella
fruizione del bene primario dell'abitazione (Cass. Sez. 6 -
2, Ordinanza n. 18147 del 26/07/2013). |
anno 2015 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Disabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma.
Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare,
nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice,
anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può
essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni
tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione
di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il
principio contenuto nella motivazione della
sentenza
03.07.2015 n. 1541 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende
l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il
permesso per installare nel vano scale una piattaforma
elevatrice necessaria per il superamento delle barriere
architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro
l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata
alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di
modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la
larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne
della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento
edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere
deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità
dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di
un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del
comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle
ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali
veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un
montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la
possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del
Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire,
con la quale è stata chiesta la deroga alle norme
regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in
astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma
richiede la precisa indicazione di reali alternative
concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se
si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione
delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme,
anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili
soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare
altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta
risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i
giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può
rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente
praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una
soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo
edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
---------------
MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi
il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente
carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure,
con il quale si allega l’illegittimità del diniego di
permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la
ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di
una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva,
sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante
il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente
esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n.
380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge
regionale n. 12 del 2005.
2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle
considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non
avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in
data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento
negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei
ricorrenti, l’interruzione dei termini procedimentali a
seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di
portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche
con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga
alla presente, concernente l’allegata formazione per
silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla
disciplina dell’articolo 13 della legge regionale
dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la
mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere
non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del
1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di
provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire
è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38
della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori
rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n.
380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del
procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine
di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la
presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi
intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque
giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che
è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque
giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale
n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso,
infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel
rispetto del termine di quindici giorni previsto per
l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7,
della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di
autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il
procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di
permesso di costruire e –come detto– di provvedimento
intervenuto nei termini e non successivamente alla
prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve
respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il
primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i
ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella
comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso
di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che
l’intervento progettato non sarebbe conforme alle
disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento
locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata
anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si
evidenzia che “l’intervento così come proposto non è
comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere
alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni
regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole
tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli
ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e,
quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato
senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento
edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma
1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di
uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni
e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni
caso essere garantita la possibilità del trasporto di
soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato
correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il
richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei
pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani,
degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve
essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le
costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di
ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di
abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine,
sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita
una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m.
0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non
possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso
è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si
apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti–
delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai
soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135
del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e
altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova
costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza
minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi
nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver
inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma
si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili
alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181
del Regolamento edilizio dispone che “Il presente
regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far
data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute
nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di
massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli
interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che
abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123
del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione
e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale
stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e
non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi
atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le
persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che
permanente, con ridotte o impedite capacità motorie,
sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una
migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di
emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti
gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione,
devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni
conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione
e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui
si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni
innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente
documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità
stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di
superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo
ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da
parte di tutte le persone, in special modo per i portatori
di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e
caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento
della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata
sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti
di adattabilità, visitabilità, accessibilità.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione
alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce
un generale favor –in conformità ai principi costituzionali
e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e
regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento
delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e
alternative per la realizzazione degli interventi volti a
realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri
rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe
alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del
conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli
edifici da parte dei portatori di handicap (v. in
particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe
–secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo
3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le
norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni
fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla
previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che la prevista inapplicabilità
alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle
situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta
unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo
di adeguamento alle nuove regole degli edifici già
realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò,
però, fermo restando che le previsioni del Regolamento
debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta
salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in
tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni
esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del
medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene
e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al
rilascio di concessione o autorizzazione da parte del
Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso,
per interventi anche parziali di ristrutturazione,
ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle
lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978,
n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo
restando che per esigenze tecniche documentabili saranno
ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di
igiene della presente normativa purché le soluzioni
comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo
comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi
soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme
del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano
comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma
derogata” (quinto comma).
In altri termini, la disposizione del Regolamento locale di
igiene non può essere interpretata come volta a consentire,
in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche
alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa
vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi
standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del
regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche
per gli interventi da eseguire su costruzioni già
autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla
concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento
all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento
edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio
netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm
e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non
dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché
l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare
riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento
edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme
elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in
edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità
tecnica di superamento di dislivelli mediante la
realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il
predetto articolo 127 non esclude, di per sé,
l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di
larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che
l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la
realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte,
e considerato che nessuna previsione concernente la
larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di
principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del
Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di
igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai
ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima
della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della
piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni,
lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla
concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal
Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche
dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa
istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente
rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo
motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la
possibilità di assentire l’intervento senza necessità di
derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure
proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso
introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle
possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con
il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente
alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al
rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di
diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di
rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le
disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative
alla realizzazione dell’intervento risultano essere
suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del
Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate
previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio,
la derogabilità delle relative previsioni discende dal
disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base
al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli,
eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere
consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio
Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per
l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della
Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e
degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece
rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3,
comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai
ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla
possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle
barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20
della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme
sull'eliminazione delle barriere architettoniche e
prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la
disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti,
si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in
presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di
“impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed
impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”–
rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle
barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa
legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte
rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione
dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6
del 1989, che prevede espressamente la possibilità di
concedere deroghe in favore di interventi specificamente
finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche
e localizzative; sennonché anche tale disposizione si
riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli
previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi
alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso
di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento
edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta
dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la
concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti
comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del
presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del
quadro normativo sopra ricostruito:
- la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale
di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che
“le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari” (nelle fattispecie di cui al terzo comma
dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni
tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento
“permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine
della norma derogata” (articolo 3.0.0, quinto comma);
- la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è
invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio
comunale (articolo 182),
il quale dovrà peraltro tenere
conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da
parte delle persone portatrici di handicap (finalità
richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e
riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e
attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base
del diniego di permesso di costruire consistono, in buona
sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai
regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa
tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa
senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere
stata effettivamente preannunciata nel preavviso di
provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti,
depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la
necessità di prescegliere la soluzione progettuale
consistente nella realizzazione di una piattaforma
elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva
ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale
(v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione
di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione
consistente nella realizzazione di un montascale quale
alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai
ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la
previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001,
ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di
libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili
e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state,
quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente
praticabili e idonee a consentire il rispetto della
disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che
avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del
rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso
dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento
per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento
di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene
effettivamente presa in considerazione la praticabilità
tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di
un montascale, e tale soluzione viene indicata quale
alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base
del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in
merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e
alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del
procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve
osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo
motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur
ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento
negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso
di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non
richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio
potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento”
informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico.
L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare
se sussistono le condizioni per assentire l’intervento
richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto
richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione
progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili
(legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in
concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di
costruire era corredata dalla delibera condominiale di
assenso all’intervento, solo successivamente sospesa
nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un
montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di
per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa
essere realizzabile anche in violazione della normativa
tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita
deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della
soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé,
un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto
al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la
loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non
assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma
riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i
ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della
necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero
potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica
dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia
all’installazione della modesta opera consistente nella
pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E
invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere
architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale
e tale da non soddisfare completamente le esigenze di
soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono
gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento
anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in
grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di
scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la
mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni
in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione
di un montascale possa costituire un’alternativa
praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame
le considerazioni tecniche poste alla base di tale
valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in
merito alla effettiva praticabilità della prospettata
soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e
valutativi in relazione agli elementi contenuti nella
relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato
nel provvedimento impugnato, ossia che la possibilità di
concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi
soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente
praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale
il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una
alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il
provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai
ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che l’eliminazione delle
barriere architettoniche che impediscono la piena
accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le
persone affette da handicap di svolgere pienamente la
propria personalità e di avere una normale vita di
relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale
primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli
articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza
di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto
–ossia il presupposto per la concessione della deroga alle
previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una
legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo
laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi
in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti
nel caso di specie.
In altri termini, il rigetto della domanda di permesso di
costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle
norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza
in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili,
ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella
specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee
soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni
che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da
ritenere come reali alternative, ossia come possibilità
effettivamente e concretamente praticabili.
E invero, laddove si ritenesse che l’esistenza solo in
astratto di altre possibili soluzioni costituisca una
ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga
alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le
finalità stesse della deroga, oltre che i principi
costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a
elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però
poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni è necessario che la valutazione
tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione
proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali,
sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria
procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può
consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi
fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai
ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e
con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono
essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui
esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura
articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini
della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai
ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della
nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di
diniego del permesso di costruire.
8. Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di
risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno
fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il
relativo onere, per consolidato orientamento
giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si
assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato,
Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto, l’annullamento del permesso di costruire
lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune
al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il
rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti,
per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva
spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento
dell’impugnazione non può costituire il presupposto per
l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v.
Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV,
04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: requisiti delle opere per l’eliminazione delle
barriere architettoniche che possono essere realizzate in
deroga ai limiti di densità edilizia, altezza, distanza tra
fabbricati e dai confini, ecc. (art. 13, comma 3, L.R.
15/2013) (Regione Emilia Romagna,
parere 11.02.2015 n. 86803 di prot.). |
anno 2014 |
|
CONDOMINIO: Ascensore
installabile autonomamente.
Domanda
Sono
l'amministratore di un condominio, un condomino del quale
intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene
non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei
conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in
materia.
Risposta
La pretesa del
condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha
affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la
sentenza della Corte di appello) che è legittima
l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese
di un solo condomino, senza previa autorizzazione
dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo
di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima
che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto
non richiede l'autorizzazione del condominio) se non
pregiudica la stabilità o il decoro architettonico
dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012),
la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio,
l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per
effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c.,
della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione
applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 07.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 05.05.2014, "Modalità
e criteri per l’attuazione di interventi di rimozione
barriere architettoniche negli edifici residenziali privati,
in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 34-ter
della legge 20.02.1989 e della deliberazione di Giunta
regionale del 13.03.2014 n. X/1506" (decreto
D.U.O. 28.04.2014 n. 3511). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 17.03.2014, "Sostegno
ai cittadini per l’abbattimento delle barriere
architettoniche negli edifici abitativi privati –
Attivazione di una misura sperimentale ai sensi del comma
3-bis della legge regionale 20.02.1989 n. 6 “Norme sulle
barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di
attuazione”" (deliberazione
G.R. 13.03.2014 n. 1506). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Si intendono per barriere architettoniche –ai
sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
- “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
- “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.
---------------
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez.
II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato
in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria)
dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.),
per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del
18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per
l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in
Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa
la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del
silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n.
13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del
22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti
in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad
intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n.
13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei
soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07,
notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in
base alle seguenti argomentazioni difensive:
I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non
sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle
barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989
–tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236
del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori
–coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere
sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con
conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n.
490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n.
13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a
richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario
l’esplicito assenso della Soprintendenza;
II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione,
“sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione
dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento
all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali
di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione
delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il
vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i
lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello
stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in
presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare
gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate
controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale
base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa. Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge
09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989. Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel
primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale. Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata. Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge
01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data
08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del
06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego. In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che
l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia,
la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del
Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA: Senza
barriere gli studi dei difensori d'ufficio.
Tar Parma. I locali sono «aperti al pubblico».
Studi legali senza barriere architettoniche, se i clienti
sono ammessi al patrocinio a carico dello Stato.
Questo è il principio posto dalla
sentenza 06.11.2013 n. 303 del TAR Emilia Romagna-Parma,
al termine di una controversia tra il locale Ordine degli
avvocati e il Comune.
Il piano urbanistico di Parma, dal 2007, impone negli
edifici "aperti al pubblico" il rispetto delle norme
per il superamento delle barriere architettoniche.
Ciò ha messo in allarme le categorie professionali. In
particolare, gli avvocati eccepivano difficoltà e costi per
adeguamenti strutturali di locali che, a loro parere,
dovevano considerarsi di uso privato. Secondo il Comune,
invece, la legge 104/1992 impone di eliminare difficoltà di
accesso anche negli edifici privati, se aperti al pubblico.
La norma del 1992 prevede tre livelli di qualità:
accessibilità (ingresso), visitabilità (dislivelli, spigoli,
rampe accesso) e adattabilità (fruibilità senza modifiche
alla struttura): agli studi legali il Comune richiedeva
appunto la visitabilità e cioè la possibilità, per le
persone impedite, di accedere agli spazi di relazione senza
dislivelli o spigoli e con servizi adeguati. Lo stesso tipo
di controversia ha riguardato studi medici e ambulatori (Tar
Brescia 227/2011, Palermo, 9199/2010) ritenendo aperti al
pubblico i servizi di medicina generale, ma ora per la prima
volta riguarda gli avvocati.
Secondo i giudici amministrativi, gli studi legali privati,
devono essere "visitabili", tutte le volte che
l'accesso, seppur escluso alla generalità delle persone, sia
comunque consentito a determinate categorie, anche se
ricevute con rispetto di orari e con obbligo di preventivo
appuntamento. L'obbligo di rendere "visitabili" gli
studi non riguarda, quindi, tutti gli uffici legali di
Parma, ma solo i casi in cui l'avvocato ha uno studio "aperto
al pubblico", cioè i casi in cui il professionista non è
in grado di selezionare clienti, in quanto ha comunque
l'obbligo di prestare loro il patrocinio.
Lo studio è quindi per principio "privato", ma
diventa "aperto al pubblico", quando l'avvocato
chieda di essere iscritto nell'elenco dei difensori
d'ufficio e di coloro che prestano il patrocinio a carico
dello Stato: tali servizi hanno infatti un pubblico
indistinto, di cittadini non abbienti le cui ragioni
risultino non manifestamente infondate a parere della
specifica Commissione prevista dal Decreto del presidente
della Repubblica 115/2002.
Il meccanismo di selezione dei clienti, nel caso di
cittadini non abbienti, avviene infatti a monte, dapprima
con una verifica delle possibilità di esito favorevole del
ricorso alla giustizia, e poi con un elenco di
professionisti che accettano le difese, con successivo
onorario a carico dello Stato.
Ciò significa che quando l'avvocato accetta (mediante
volontaria iscrizione negli elenchi specifici) le difese di
ufficio ed i patrocini gratuiti, presta la propria utilità
in favore di un'ampia ed indiscriminata categoria di aventi
diritto. Quindi, a fronte del vantaggio di un compenso
corrisposto dallo Stato, il professionista ha l'onere di
adeguare il proprio studio alla normativa statale
finalizzata ad eliminare le barriere architettoniche.
Le ricadute della sentenza possono essere rilevanti, perché
l'accesso al pubblico può avere conseguenze sull'indennità
per finita locazione (articoli 34 e 35 e legge 392/1978),
mentre l'eliminazione delle barriere architettoniche può
generare contrasti condominiali anche in presenza delle più
agevoli maggioranze che l'articolo 1120 del codice civile
(maggioranza intervenuti e metà valore immobile) ha di
recente modificato (legge 220/2012).
Altre categorie professionali sono avvisate: dai notai ai
tecnici, in corrispondenza all'ampliarsi delle funzioni
pubbliche delegate, sarà necessario adeguare studi ed
uffici (articolo
Il Sole 24 Ore del 12.11.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il punto nodale della questione sottoposta
all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale
di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio
o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a
spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al
pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali
comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal
richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma
4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le
unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono
possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto
requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della
disciplina concernente l’eliminazione delle barriere
architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico
debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale
da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al
quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia
consentito ad una determinata categoria di aventi diritto
sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da
eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio
professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo
aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della
visitabilità, come normativamente tratteggiato.
L’art. 82 del Testo unico dell’edilizia
(D.P.R. 380/2001), che ripropone il testo dell’art. 24 della
L. 05.02.1992, n. 104, sotto la rubrica “Eliminazione o
superamento delle barriere architettoniche negli edifici
pubblici e privati aperti al pubblico”, stabilisce che tutte
le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati
aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare
l'accessibilità e la visitabilità, sono eseguite in
conformità alle norme per l'eliminazione delle barriere
architettoniche e al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 14.06.1989, n. 236.
Tale decreto ministeriale, nel dettare prescrizioni tecniche
necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del
superamento e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche, all’art. 3, per quanto in questa sede di
interesse, precisa: “In relazione alle finalità delle
presenti norme si considerano tre livelli di qualità dello
spazio costruito. L'accessibilità esprime il più alto
livello in quanto ne consente la totale fruizione
nell'immediato. La visitabilità rappresenta un livello di
accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa
dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente
comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla
persona con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale. La adattabilità rappresenta un livello ridotto
di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria
previsione progettuale, di trasformazione in livello di
accessibilità; l'adattabilità è, pertanto, un'accessibilità
differita”.
Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del
Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un
avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che
difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese
dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali
comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal
richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma
4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le
unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono
possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto
requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della
disciplina concernente l’eliminazione delle barriere
architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico
debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale
da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al
quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia
consentito ad una determinata categoria di aventi diritto
sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da
eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio
professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo
aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della
visitabilità, come normativamente tratteggiato.
Nel caso di specie, peraltro, l’impugnata norma comunale,
non riguarda tutti gli studi professionali ma soltanto
quelli di alcune categorie di professionisti.
Invero, all’esito di osservazioni proposte dai Presidenti
dell’Ordine degli Architetti, dell’Ordine degli Ingegneri e
dell’Ordine dei Geometri della Provincia di Parma (cfr.
Estratto del processo verbale n. 2 del C.C. 22.01.2007,
pag. 3), la norma ha limitato la censurata prescrizione
soltanto agli studi professionali “quando il professionista
si legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione
istituzionale in forza della quale riceva un pubblico
indistinto”, indicando fra questi, a titolo esemplificativo,
anche gli “avvocati iscritti nell’elenco dei difensori
d’ufficio e al gratuito patrocinio”.
In proposito va ricordato che il D.P.R. 30.05.2002, n.
115, Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia, all’art. 74
dispone che è assicurato il patrocinio a spese dello Stato
sia nel processo penale per la difesa del cittadino non
abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da
reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile,
responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena
pecuniaria, sia nel processo civile, amministrativo,
contabile, tributario e negli affari di volontaria
giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente
quando le sue ragioni risultino non manifestamente
infondate.
Inoltre, in base all’art. 97, comma 5, c.p.p., segnatamente
il difensore di ufficio ha l'obbligo di prestare il
patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato
motivo.
La stessa norma, a tal fine, al comma 2 prevede che siano i
consigli dell'ordine forense di ciascun distretto di corte
d'appello, al fine di garantire l'effettività della difesa
d'ufficio, deputati a predisporre gli elenchi dei difensori
che, a richiesta dell'autorità giudiziaria o della polizia
giudiziaria, sono indicati ai fini della nomina, fissando i
criteri per la nomina dei difensori sulla base delle
competenze specifiche, della prossimità alla sede del
procedimento e della reperibilità.
Osserva il Collegio che, in entrambi i suddetti casi il
difensore, se si eccettua la caratteristica
dell’obbligatorietà che connota la sola difesa d’ufficio, è
chiamato a prestare la propria attività professionale in
favore di una ampia e indiscriminata platea di aventi
diritto.
L’avvocato, dunque, esercita in detti casi un munus
pubblicum di particolare interesse per la collettività, al
quale accede poiché iscritto in appositi elenchi,
l’inserimento nel quale avviene a domanda dell’interessato e
non certo d’ufficio, né in via autoritativa.
L’appartenenza alle suddette categorie professionali, in
definitiva, è il frutto di una libera scelta del
professionista; scelta che, da una parte comporta il
vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello
Stato, dall’altra impone al professionista l’onere di
adeguare il proprio studio professionale alla normativa
statale finalizzata all’eliminazione delle barriere
architettoniche.
Così riguardata la funzione in discorso, l’impugnata norma
regolamentare comunale non appare né illogica né
irragionevole, né appare il frutto di un distorto esercizio
del potere.
D'altra parte richiedere la visitabilità quale livello di
fruizione degli edifici, anche con riguardo agli studi
professionali e, segnatamente, delle con riguardo agli studi
delle suindicate circoscritte categorie di avvocati, risulta
in linea con la ratio della normativa in tema di abolizione
delle barriere architettoniche, di talché l’impugnata
disciplina regolamentare si profila immune anche dal
proposto vizio di violazione di legge.
Non vi è dubbio che la ratio della legge sia quella
di garantire anche al soggetto disabile la possibilità di
usufruire, nella massima autonomia possibile, delle
prestazioni rese dal professionista presso il proprio
studio, senza che ciò incontri limiti o impedimenti
derivanti dall'esistenza di barriere architettoniche
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 06.11.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso per abbattere le barriere architettoniche non
occorre.
A stabilirlo è la III Sez. penale della Corte di Cassazione
con
sentenza 18.09.2013 n. 38360.
La Suprema corte ha, poi, sottolineato che per quanto
concerne la definizione di «barriere architettoniche»
per i soggetti disabili, deve ricordarsi che: «le opere
funzionali all'eliminazione delle barriere architettoniche
sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire
l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e non quelle dirette alla migliore
fruibilità dell'edificio e alla maggior comodità dei
residenti» (si veda anche Tar Campania, Salerno, sez. 2,
19.04.2013, n. 952; Tar Abruzzo, Pescara, sez. 1,
24/02/2012, n. 87; Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. 1,
08.11.2011, n. 526).
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del dpr n. 380
del 2001, tali opere rientrano nell'attività edilizia libera
qualora «consistano in interventi volti all'eliminazione
di barriere architettoniche che non comportino la
realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di
manufatti che alterino la sagoma dell'edificio». Qualora
vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori
esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione
della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non
ricomprese nell'art. 10 trova applicazione l'art. 22 dello
stesso dpr, a norma del quale sono realizzabili mediante
denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili
all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6.
I giudici osservano, poi, che a tale disposizione si
sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come
modificato dal dl n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale
consente che, per le opere soggette a Dia ordinaria, si
proceda, in via semplificata, con Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione
autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del dl n.
70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
106 del 2011, il quale prevede che: «Le disposizioni di
cui all'articolo 19 della legge 07/08/1990, n. 241 si
interpretano nel senso che le stesse si applicano alle
denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate
dal dpr 06/06/2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le
denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale,
siano alternative o sostitutive del permesso di costruire»
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzata una rampa per l’accesso per diversamente abili e
subisce un processo penale. Per la Cassazione abbattere le
barriere architettoniche non servono permessi.
Le opere funzionali all’eliminazione
delle barriere architettoniche tecnicamente necessarie a
garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visibilità
degli edifici privati non necessitano di permesso.
3.2.2. - Fondato è,
invece, il secondo motivo di ricorso con il quale si
lamenta, in sostanza, che la Corte d'appello non avrebbe
preso in considerazione il fatto che le opere realizzate
erano, almeno in parte, dirette all'eliminazione di barriere
architettoniche e, dunque, non potevano essere fatte
rientrare nel novero di quelle per le quali è necessario il
permesso di costruire.
3.2.2.1. - Quanto alla definizione di "barriere
architettoniche" per i soggetti disabili, deve
preliminarmente ricordarsi che le opere funzionali
all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo
quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità,
l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non
quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla
maggior comodità dei residenti (TAR Campania, Salerno, sez.
2, 19.04.2013, n. 952; TAR Abruzzo, Pescara, sez. 1,
24.02.2012, n. 87; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. 1,
08.11.2011, n. 526).
Tali opere rientrano nell'attività edilizia libera, ai sensi
dell'art. 6, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del
2001, qualora “consistano in interventi volti
all'eliminazione di barriere architettoniche che non
comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni,
ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio”.
Qualora vi sia, invece, la realizzazione di rampe o
ascensori esterni o manufatti che comunque comportino
un'alterazione della sagoma dell'edificio, trattandosi di
opere non ricomprese nell'art. 10 -il quale sottopone a
permesso di costruire: a) gli interventi di nuova
costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso- trova applicazione
l'art. 22 dello stesso d.P.R., a norma del quale sono
realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli
interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo
10 e all'articolo 6.
A tale disposizione si sovrappone oggi l'art. 19 della legge
n. 241 del 1990, come modificato dal d.l. n. 78 del 2010,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010,
il quale consente che, per le opere soggette a d.i.a
ordinaria, si proceda, in via semplificata, con s.c.i.a.
(segnalazione certificata di inizio attività). Tale è
l'interpretazione autentica data dall'art. 5, comma 2,
lettera c), del d.l. n. 70 del 2011, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, il quale prevede
che: “Le disposizioni di cui all'articolo 19 della legge
07.08.1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse
si applicano alle denunce di inizio attività in materia
edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n.380, con esclusione dei casi in cui
le denunce stesse, in base alla normativa statale o
regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di
costruire”.
A ciò deve aggiungersi che la mancata presentazione di
d.i.a. è sanzionata in via amministrativa dall'art. 37 del
d.P.R. n. 380 del 2001, come la mancata presentazione di
s.c.i.a. Per quest'ultima, infatti, l'art. 19, comma 6-bis,
della legge n. 241 del 1990 prevede che: “Fatta salva
l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al
comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla
vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle
responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.380, e dalle leggi
regionali”.
3.2.2.2. - Ne consegue, in relazione al caso di specie, che
il giudice di merito avrebbe dovuto valutare la consistenza
delle opere realizzate dall'imputato alla luce della
normativa richiamata, evidenziando se e in che misura le
stesse necessitassero del permesso di costruire o potessero
essere realizzate previa semplice denuncia di inizio
attività. Il rinvio al giudice del merito è, però -come
sopra visto- incompatibile con l'immediata applicabilità
della prescrizione alla quale deve essere data prevalenza
(Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 18.09.2013 n. 38360 - link a
www.avvocatopenalista.org). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di
assenso da parte della proprietaria dell’area scoperta
confinante non è necessario nel caso in esame
d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando
la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi
comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001
in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere
architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite
dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni
e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della
controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un
fabbricato.
... per l'annullamento del provvedimento comunale 29.4.2013
n. 40669 avente ad oggetto: "Denuncia di inizio attività
prot. n. 6357 del 27.1.2010. Diffida a non effettuare
l'intervento" per la realizzazione di un ascensore
esterno.
...
Ritenuto che:
- l’atto di diffida impugnato è stato emesso una volta
spirato il termine perentorio stabilito dall’art. 23, comma
6, D.P.R. n. 380/2001 per l’esercizio del potere inibitorio;
né risultano evidenziati nella motivazione del provvedimento
di diffida impugnato i presupposti per l’esercizio del
potere di autotutela o di quello repressivo sanzionatorio,
esercitabile, quest’ultimo, nel caso residuale, non
ricorrente nella fattispecie, di non conformità dell’opera
al progetto presentato;
- peraltro, l’atto di assenso da parte della proprietaria
dell’area scoperta confinante, tardivamente richiesto
dall’amministrazione, non è necessario nel caso in esame
d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando
la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi
comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001
in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere
architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite
dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni
e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della
controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un
fabbricato;
- pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto con
l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Veneto, Sez.
II,
sentenza 13.09.2013 n. 1106 - link a
www.giustizia-amministrativa). |
CONDOMINIO: Ascensori,
conta il risultato. Delibera valida se attenua le condizioni
di disagio. Secondo la Cassazione si
possono anche non osservare tutte le prescrizioni di legge.
Ascensori condominiali: assoluta mancanza di sintonia tra il
legislatore e la giurisprudenza. Se, infatti, i giudici di
merito e di legittimità sono impegnati ormai da tempo in
un'operazione di interpretazione estensiva della normativa
speciale di favore per i soggetti diversamente abili
finalizzata all'abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche, la recente legge n. 220/2012 di riforma del
condominio, pur nel quadro di un generale abbassamento delle
maggioranze assembleari, ha inaspettatamente innalzato il
quorum necessario all'adozione delle relative deliberazioni.
La Corte di cassazione, proseguendo invece nel proprio
filone giurisprudenziale, con la recente
ordinanza 26.07.2013 n. 18147 ha quindi confermato che,
nel caso di installazione di un ascensore in condominio,
l'eventuale mancato rispetto delle distanze minime e delle
vedute, così come delle particolari prescrizioni tecniche
dettate dalla legge speciale per la realizzazione
dell'opera, non comportano di per sé l'invalidità della
relativa deliberazione, dovendosi sempre procedere al
bilanciamento dei contrapposti interessi sulla base dei
criteri generali di cui all'art. 1102 c.c.
La decisione della Suprema corte.
Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la
deliberazione con cui l'assemblea condominiale aveva
deliberato l'installazione di un impianto di ascensore
nell'edificio che ne era privo, giovandosi della speciale
maggioranza di cui alla legge n. 13/1989 (disposizione ora
confluita nell'art. 1120, comma 2, c.c.). Si era così deciso
di posizionare l'impianto nel cortile interno, occupandone
una minima parte.
I condomini contrari alla deliberazione si dolevano però del
fatto che la nuova struttura non rispettasse le distanze
minime previste dai regolamenti locali e che il c.d. cono
d'ombra in tal modo generato nuocesse alla vivibilità
complessiva dei propri appartamenti. Gli stessi avevano
altresì eccepito come l'opera da realizzare non
corrispondesse del tutto agli accorgimenti tecnici da
osservare ai fini dell'abbattimento delle barriere
architettoniche (a causa della riferita presenza di un
gradino di accesso al fabbricato, dell'apertura manuale
della porta, di dislivelli e relativi gradini tra le uscite
dall'ascensore e i vari pianerottoli, nonché per l'assenza
di dispositivi tecnici di segnalazione).
La sesta sezione civile della Cassazione, nel confermare la
sentenza impugnata in relazione alla valutazione operata dai
giudici di merito circa il contemperamento degli opposti
interessi dei condomini sulla base dei principi di cui
all'art. 1102 c.c., ha anche chiarito che l'impossibilità di
poter osservare tutte le prescrizioni previste dalla
normativa speciale per l'abbattimento delle barriere
architettoniche, tenuto conto delle oggettive condizioni
dell'edificio, non può costituire circostanza tale da
comportare la totale inapplicabilità delle disposizioni di
favore finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei
soggetti diversamente abili.
Per la validità della delibera a maggioranza ridotta è
infatti sufficiente che l'intervento approvato abbia
comunque conseguito un risultato conforme alle finalità
della legge, comportando cioè una sensibile attenuazione
delle condizioni di disagio nella fruizione del bene
primario dell'abitazione, rispetto alla precedente
situazione di fatto.
---------------
Riforma, marcia indietro sui disabili.
Dalla riforma del condominio una grave marcia indietro sulla
tutela dei disabili. La presenza nell'immobile condominiale
di una persona anziana (ultrasessantacinquenne) invalida,
indipendentemente dal fatto che la stessa sia un condomino o
un suo familiare, oppure semplicemente un conduttore o un
suo familiare, conferisce alla stessa il diritto di chiedere
all'assemblea l'approvazione a maggioranza semplice di una
delibera per l'installazione dell'ascensore, considerato
quale innovazione diretta al superamento delle c.d. barriere
architettoniche.
L'approvazione della deliberazione assembleare in casi del
genere, prima della riforma del condominio, poteva avvenire,
in prima convocazione, con la maggioranza degli intervenuti
rappresentanti i 501 millesimi dell'edificio, mentre in
seconda convocazione era sufficiente una maggioranza di
almeno un terzo dei partecipanti al condominio e un terzo
del valore millesimale dell'edificio (erano cioè sufficienti
334 millesimi). Il legislatore della riforma del condominio
di cui alla legge n. 220/2012, probabilmente per un difetto
di coordinamento tra le varie disposizioni, ha tuttavia di
fatto aumentato il quorum necessario per assumere le
predette delibere assembleari, richiedendo, sia in prima che
in seconda convocazione, il voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino
almeno la metà del valore millesimale dell'edificio.
Non si riesce davvero a comprendere le ragioni di questa
modifica, in quanto peggiorativa proprio per quel che
riguarda posizioni per le quali sarebbe stato, semmai,
opportuno allargare la tutela giuridica e non certo
restringerla (il grado di civilizzazione di qualsiasi
società si evidenzia anche dal modo in cui essa affronta e
risolve i problemi dei disabili).
---------------
Per l'installazione il percorso è a
ostacoli.
Percorso a ostacoli per l'installazione dell'ascensore in
condominio. Secondo le più recenti decisioni dei giudici
l'iniziativa del singolo condomino o la deliberazione
dell'assemblea non possono essere vietate se, pur
comportando un semplice disagio nell'utilizzo di una parte
comune (cortile, pianerottolo ecc.), soddisfino le esigenze
dei condomini disabili (soprattutto se abitanti a un piano
alto), praticamente impossibilitati, in considerazione del
loro stato fisico, a raggiungere la propria abitazione a
piedi. Si deve però considerare che non può essere
consentita quell'opera che renda talune parti comuni
dell'edificio del tutto inservibili all'uso o al godimento
anche di un solo condomino.
Quando non è possibile installare
l'ascensore. Non è
possibile installare l'ascensore nelle parti comuni se la
modifica che si intende realizzare altera la destinazione
della cosa comune e impedisce agli altri condomini di farne
uguale uso secondo il loro diritto. In altre parole non è
possibile l'installazione se questa comporta non un semplice
disagio, ma l'inservibilità di una parte comune. Tale
situazione certamente ricorre, ad esempio, nel caso in cui
si determini una rilevante limitazione dello spazio di
manovra e di superficie di parcheggio nell'area del cortile
condominiale o una limitazione alle vedute dei condomini o
all'illuminazione degli appartamenti o trasformazioni di uso
di una camera di un appartamento (che, ad esempio, non può
più essere utilizzata come camera da letto).
Del resto non è valida la decisione assembleare che preveda
l'installazione di un ascensore, previa notevole riduzione
della rampa comune, rendendola così pericolosa sotto il
profilo della sicurezza antincendi: in questo caso, infatti,
l'opera deliberata diventerebbe illecita e la relativa
delibera sarebbe essa stessa invalida e, se impugnata avanti
il tribunale, incorrerebbe nella sanzione dell'annullamento,
anche su ricorso di un solo condomino.
Dunque il taglio delle scale per ricavare il vano ascensore
è in teoria ammesso, ma solo entro certi limiti: la residua
larghezza delle scale condominiali non può essere
eccessivamente esigua, altrimenti le stesse diverrebbero
disagevoli per le persone o addirittura inservibili per il
trasporto di mobili od oggetti ingombranti. Così, ad
esempio, i giudici della Cassazione in una recente decisione
hanno ritenuto illecita la delibera dell'assemblea che per
far spazio al nuovo ascensore prevedeva una riduzione della
larghezza della scalinata comune a soli 90 centimetri.
La lesione del decoro dell'edificio.
Non è possibile installare l'ascensore neppure nel caso in
cui l'opera comporti una lesione del decoro dell'edificio.
Così non sembra possibile installare la gabbia di un moderno
ascensore in un cortile interno di un edificio ottocentesco:
in tal caso, infatti, è inevitabile una modifica sensibile
della linea estetica originaria del fabbricato, e, quindi,
il relativo decoro architettonico ne risulta pregiudicato.
Il discorso è ancora più evidente se i finestroni
prospettanti nel cortile vengono coperti o trasformati in
bocche di ingresso della colonna dell'ascensore o si prevede
la distruzione di antiche mensole e cornici in pietra
bianca. Del resto si deve considerare che l'alterazione del
decoro architettonico può derivare anche dalla modifica
dell'originario aspetto di singoli elementi o di singole
parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale
autonomia o siano comunque suscettibili di considerazione
autonoma (articolo
ItaliaOggi Sette del 23.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va rilasciato il permesso in sanatoria
in caso di interventi funzionali all'adeguamento della
struttura ed all'abbattimento delle barriere
architettoniche.
Il ricorso è fondato per i motivi e nei termini di cui
appresso.
Il provvedimento impugnato motiva il diniego di accertamento
di conformità delle opere eseguite dalla società ricorrente
sul presupposto che dette opere abbiano comportato aumenti
di volumetria o di superficie utile, così configurandosi
come interventi di ristrutturazione edilizia non consentiti
nella zona 2 di Tutela del P.U.T. approvato con legge
regionale 35/1987.
Tale presupposto, tuttavia, appare erroneo con riguardo alle
opere eseguite per l’adeguamento della struttura alle
prescrizioni di cui al dm 236/1989, volte a garantire
l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, in attuazione della legge n. 13
del 1989.
Tra i principali interventi per le quali il Comune rileva la
creazione di nuova volumetria vi sono:
1) l’ampliamento e modifica del corpo scala (v. punto 1.a),
2.f), 3.h))
2) la modifica delle aree di sbarco dell’ascensore (v. punto
1.c, 2.e).
La giurisprudenza, a tale riguardo, ha evidenziato che
l'art. 7 legge n. 13 del 1989 qualifica quale interventi di
manutenzione straordinaria quelli finalizzati
all'abbattimento delle barriere architettoniche anche
laddove consistenti in manufatti (comportanti pertanto una
volumetria seppure qualificabile come "volume tecnico")
che alterano la sagoma dell'edificio.
Da ciò ha tratto l’inevitabile conseguenza che, a maggiore
ragione, devono ritenersi ricompresi fra gli interventi
assentibili, ai sensi della richiamata norma di favore, gli
interventi determinanti al più un aumento di superficie -e
non di volume- volti comunque all'adeguamento funzionale del
manufatto, ovvero a rendere lo stesso munito di accesso
carrabile (TAR Napoli Sez. VII, n. 3618 - 26.07.2012).
La ricorrente, peraltro, aveva avuto modo di contestare la
correttezza dei rilievi fatti dal Comune con proprie
osservazioni alle quali i sottoscrittori del provvedimento
hanno replicato insistendo sulla ascrivibilità delle opere
al regime di ristrutturazione edilizia non consentita nella
zona, omettendo altresì di motivare in ordine all’asserita
preesistenza delle superfici recuperate a seguito dello
spostamento della scala.
Vanno, pertanto, accolte le censure di violazione di legge,
erroneità dei presupposti e difetto di istruttoria con
riguardo al diniego di accertamento di conformità degli
interventi funzionali all’adeguamento della struttura ed
all’abbattimento delle barriere architettoniche (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2013 n. 1575 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
A. Celeste,
Alzata irragionevolmente l’asticella per … il superamento
delle barriere architettoniche (tratto da
www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013). |
CONDOMINIO: Condominio.
Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la
rimozione. La riforma peggiora i quorum sulle barriere
architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/ Prima bastavano un terzo di
condomini e 334 millesimi, ora serve la maggioranza degli
intervenuti in assemblea e almeno 500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/ Se l'assemblea non vota l'intervento
entro un mese dalla richiesta, il condomino potrà installare
il servoscala o altra struttura a sue spese.
L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili,
dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o,
più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi
muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le
scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria
autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone
disabili che da anni non possono uscire di casa perché
impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo
piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale
perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la
riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose
invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera
architettonica» il legislatore fa riferimento
all'articolo 27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale
si definisce barriera architettonica qualsiasi impedimento
fisico a ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La
barriera architettonica, quindi, può essere una scala, un
gradino, una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del
09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate) non si è limitata a innalzare il
livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato
un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso
di affrontare i loro problemi, considerati ora non più
questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti
dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto
ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità,
anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità
immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e
di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed
autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli
edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile
abitazione (vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del
06.06.2001, ovvero il testo unico delle disposizione
legislative e regolamentari in materia edilizia), quale
conseguenza dell'affermarsi nella coscienza sociale, del
dovere collettivo di rimuovere preventivamente ogni
possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti
fondamentali delle persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza
n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio
coattivo, riconfermando i principi già espressi nella
normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o
ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale
riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti
portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale
diritto alla salute intesa nel significato proprio
dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica,
la cui tutela deve essere di grado pari a quello della
salute fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per
esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti
a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente,
perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza)
il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata
in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum
necessario per deliberare le modifiche da apportare alle
parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle
barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva
che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in
seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei
partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei
millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda
convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla
maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà
del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del
Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro
un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti
tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese
installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che
possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola (articolo
Il Sole 24 Ore del 22.06.2013). |
CONDOMINIO: LA
RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condominio, le maggioranze ora non
sono più agevolate. La legge
220/2012 ostacola l'utilizzo delle corsie preferenziali per
raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la
legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio
negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana,
diventerà per esempio più difficile installare un ascensore
in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a
oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che pure ha generalmente abbassato i quorum
necessari per l'approvazione delle deliberazioni
assembleari, anche se nel lodevole intento di far confluire
nel codice civile gran parte delle disposizioni speciali che
prevedevano maggioranze agevolate per le innovazioni di
carattere sociale, ha però comportato, per un probabile
errore di coordinamento testuale, un deciso innalzamento di
alcune delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente
dubitare che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo
intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di
maggioranze agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per
l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato
dalla legge per la formazione della volontà del condominio è
il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà
della maggioranza vale per tutti i comproprietari,
vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal
legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei
condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la
possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la
forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte
durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre,
ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che
ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri
interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda
l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente
rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un
primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso
contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto
espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con
quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a
ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in
modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle
varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d.
quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione
della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da
quelle richieste per la validità della decisione (c.d.
quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che,
volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per
l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il
frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio
nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In
altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli
opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici.
Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c., prevede ora dei quorum
più bassi e richiede, per l'assemblea in prima convocazione,
un quorum costitutivo di condomini che rappresentino i due
terzi del valore dell'edificio e la maggioranza (non più dei
due terzi) dei partecipanti al condominio, e un quorum
deliberativo della maggioranza degli intervenuti e di almeno
la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima
convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla
legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più
basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del
numero di voti necessario all'adozione delle singole
deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi
introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche
per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei
partecipanti al condominio e a un terzo del valore
dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato
diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti
un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il
raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in
seconda convocazione, che, facendo applicazione di un
criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino
nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non
preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si
segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione
ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la
ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini,
l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli
eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate.
In una serie di casi, invece, il legislatore ha preferito
derogare alle maggioranze semplici di cui sopra e ha
previsto delle maggioranze qualificate, che richiedono un
numero di voti maggiore per l'adozione delle deliberazioni
assembleari. Si tratta di numerose disposizioni codicistiche,
molte delle quali introdotte proprio dalla legge n.
220/2012, che prevedono dei quorum deliberativi particolari
nelle ipotesi di nomina e revoca dell'amministratore, liti
attive e passive relative a materie che esorbitano dalle
attribuzioni dell'amministratore, ricostruzione
dell'edificio, riparazioni straordinarie di notevole entità,
approvazione e modifica del regolamento condominiale,
scioglimento del condominio, innovazioni dirette al
miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni, modificazioni e tutela delle destinazioni
d'uso, videosorveglianza delle parti comuni, nomina del
revisore dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate.
La legislazione speciale successiva all'entrata in vigore
del codice civile aveva man mano previsto tutta una serie di
ipotesi nelle quali, allo scopo di agevolare l'adozione di
delibere assembleari per la realizzazione di particolari
interventi di interesse sociale, erano state previste delle
maggioranze agevolate rispetto a quelle ordinariamente
necessarie in caso di innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d.
barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla
realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n.
122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n.
311/2006, legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti
satellitari (legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle
infrastrutture di ricarica elettrica dei veicoli (legge n.
134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma
del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di
alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da
far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle
barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne
e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile
intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di
maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il
già difficile e articolato quadro normativo sembra essere
stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto
chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della
legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente
prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione.
La riforma detta le regole per
l'impugnazione. Atto da indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione.
Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione
della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia
richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente
all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma
della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la
prossima settimana, ha riscritto le regole per
l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con
importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo
procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono
essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e
da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano
partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30
giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e
per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo
verbale.
L'invalidità delle deliberazioni
assembleari.
Quello dell'invalidità delle deliberazioni assembleari
costituisce da sempre un tema particolarmente delicato
nell'ambito del diritto condominiale. La tradizionale
distinzione fra ipotesi di nullità e annullabilità, in
mancanza di precise indicazioni da parte del legislatore, ha
infatti portato all'elaborazione di una casistica
giurisprudenziale quanto mai intricata e, a volte,
contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i
più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla
radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura
di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità
delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si
parla infatti espressamente di annullamento delle
deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di
condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità
giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre
in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a
fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere
comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la
nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo
definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente
all'accertamento dell'annullabilità della volontà
assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di
nullità potranno essere contestate, in base alle regole
generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario
procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare
negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione.
Per poter impugnare una deliberazione assembleare è
necessario che chi agisce in giudizio sia fornito della
relativa legittimazione. Anche in questo caso la norma di
riferimento è il nuovo art. 1337 c.c., che ha specificato
come la stessa spetti tanto ai condomini presenti in
assemblea e che abbiano votato in senso contrario
all'approvazione della delibera quanto a quelli assenti
quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla
riunione condominiale, si siano astenuti dal voto. Il
termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione decorre
dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti
e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli
assenti. A parte le ipotesi di nullità, la legittimazione
attiva all'impugnazione delle deliberazioni condominiali
spetta di regola solo ai condomini, ovvero ai proprietari
delle unità immobiliari site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle
deliberazioni assembleari.
Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c., nell'attribuire
ai condomini il potere di impugnare le deliberazioni
invalide, qualificava come «ricorso» l'atto introduttivo del
relativo giudizio. Ciò sembrava comportare un'evidente
deroga al sistema ordinario, che prevede che il giudizio
civile sia introdotto mediante citazione a udienza fissa.
Anche in questo caso è bastato poco al legislatore per
risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente
dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva
comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e
originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola
«ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto
termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e
se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi
avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova
disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende
impugnare una deliberazione assembleare che si assuma
contraria alla legge o regolamento di condominio deve
chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il
termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è
naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente
appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede
giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale
da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente
codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento
in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere
che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni
assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della
deliberazione condominiale.
Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. il
legislatore ha quindi voluto ulteriormente chiarire la
questione della sospensione dell'efficacia della delibera
condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio testo della
citata disposizione si limitava a prevedere che il ricorso
per non sospendeva di per sé l'esecuzione della
deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico
provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del
nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di
disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il
procedimento da seguire per richiedere al giudice di
pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per
ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri
ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa
quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a
quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare
che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera
condominiale proposta autonomamente e anteriormente
all'avvio della causa di merito non sospende il termine di
decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c.
ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di
impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi.
L'atto di citazione per l'impugnazione della deliberazione
condominiale sarà volta per volta indirizzato al giudice
competente per territorio e per valore. Quanto al primo
aspetto occorre evidenziare come l'art. 23 c.p.c.,
adeguatamente riformulato dal legislatore con la recente
legge n. 220/2012, stabilisca espressamente che per le cause
tra condomini e tra condomini e condominio sia competente il
giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni o la
maggior parte di essi (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.06.2013). |
CONDOMINIO: Riforme
da correggere. Una svista del legislatore rende necessario
intervenire prima del 18 giugno.
Condominio, disabili penalizzati. Le nuove maggioranze
rendono difficile eliminare le barriere.
Una delle conseguenze più imprevedibili (e probabilmente
neppure davvero voluta dal legislatore) della riforma della
disciplina sul condominio contenuta nella legge 220/2012
–che entrerà in vigore il 18 giugno– è l'elevazione della
maggioranza prevista dall'attuale normativa per deliberare
le innovazioni dirette a eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati.
Si tratta di una previsione che di sicuro non trova alcuna
valida giustificazione, eppure l'articolo 27 della legge di
riforma modifica l'articolo 2, comma 1, della legge
09.01.1989, n. 13 e stabilisce, con un rinvio al nuovo comma
2 dell'articolo 1120 del Codice civile (il quale a sua
volta, rinvia al secondo comma dell'articolo 1136), che
l'assemblea condominiale delibera le innovazioni relative
all'abbattimento delle barriere architettoniche negli
edifici con un numero di voti che rappresenti la maggioranza
degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Invece l'originario (e ancora in vigore fino al 18 giugno)
testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 13/1989 ha
consentito finora di approvare queste delibere, purché
adottate in un'assemblea di seconda convocazione, con un
numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al
condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
Se anche l'obiettivo fosse stato quello di rendere la
maggioranza per eliminare le barriere architettoniche più
omogenea a quelle previste da altre similari leggi speciali,
come l'articolo 26 della legge 10/1991 sul risparmio
energetico e l'articolo 2-bis, comma 13, della legge 66/2001
sugli impianti di radiodiffusione satellitare, questa non
sembra proprio una valida ragione per elevare una
maggioranza "agevolata" che risponde a una esigenza
sociale e a un principio costituzionale, come è stato
evidenziato dalle più recenti sentenze emesse dalla Corte di
cassazione sull'argomento.
Infatti, con la sentenza n. 18334/2012 la Cassazione ha
affermato che in generale i rapporti fra condomini devono
essere informati al principio di solidarietà condominiale,
secondo il quale la coesistenza di più appartamenti in un
unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari
interessi, e che quindi il principio di solidarietà
condominiale trova applicazione, a maggior ragione, per la
tutela dei diritti fondamentali dei disabili.
Con la precedente sentenza n. 2156/2012, relativa alla
costruzione di un ascensore nella tromba delle scale con
riduzione dei gradini, la Cassazione ha stabilito che
nell'ambito della valutazione comparativa delle opposte
esigenze (da un parte dei portatori di handicap a installare
l'ascensore e dall'altra dei condomini a continuare a fruire
nella sua interezza della scala, che viene ristretta senza
però diventare inservibile), deve prevalere la prima, in
conformità ai principi costituzionali della tutela della
salute (articolo 32 della Costituzione) e della funzione
sociale della proprietà (articolo 42).
Stando così le cose, non si comprende allora il motivo per
cui il legislatore della riforma ha deciso di elevare
l'attuale maggioranza proprio in un settore che coinvolge
interessi talmente delicati e importanti.
Dovendo la nuova disciplina entrare in vigore fra poco più
di tre mesi è allora auspicabile che la maggioranza sulle
barriere architettoniche venga riportata al suo testo
originario prima di quella data.
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01 | CORREGGERE È NECESSARIO
La riforma del condominio è a 100 giorni dall'entrata in
vigore (prevista per il 18 giugno) e ormai è stata passata
al microscopio da uffici studi ed esperti delle
associazioni, studiosi, magistrati e avvocati. Le criticità
sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire
prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la
riforma parte zoppa
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere
la riforma», approfittando del periodo di "vacanza"
di sei mesi concesso dalla norma (la legge 220/2012). Hanno
risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e
amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci,
Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Arpe-Federproprietà, Assocond,
Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Fna,
Gesticond, Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
03 | I PASSAGGI
Il primo passo è già stato fatto: l'iniziativa del Sole 24
Ore ha raccolto le adesioni del settore che, su invito del
giornale, hanno già inviato le loro proposte di modifica.
Compito del Sole è ora quello di elaborarle in un testo di
modifica normativa agile e che risolva i problemi maggiori,
quelli che davvero potrebbero impedire il decollo della
riforma. Il testo sarà condiviso da tutte le associazioni e
verrà presentato in maggio al nuovo Governo.
La presentazione
L'idea di «correggere
la riforma del condominio» è maturata negli scorsi mesi
e ieri è stata lanciata sulle pagine del Sole 24 Ore. I
passaggi dell'iniziativa (illustrati qui accanto) prevedono
alla fine un convegno, organizzato dal Sole 24 Ore, nel
quale verrà presentato il disegno di legge, risultato degli
sforzi collettivi del giornale e delle associazioni del
settore (articolo
Il Sole 24 Ore del 07.03.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni culturali. Parere negativo della competente
Soprintendenza in merito alla realizzazione di ascensore in
un palazzo semivincolato
Il quadro normativo di riferimento, in
materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in
particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e
05.02.1992 n. 104, ha sicuramente elevato il livello di
tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto
ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come
interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare
con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive
dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una
normale vita di relazione: donde le previsioni per il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati, dettate in via generale dalla legge
n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m.
14.06.1989 n. 236, fissanti criteri da osservarsi sia in
sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di
ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde
garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da
parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile
dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato”.
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti
portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito
dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104- ha
sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti,
non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed
individuale, ma ormai considerato come interesse primario
dell'intera collettività, da soddisfare con interventi
mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo
della persona e dello svolgimento di una normale vita di
relazione: donde le previsioni per il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989
e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236-
fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione
e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione
generale di quelli esistenti, onde garantire idonee
condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti
handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di
particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato” (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso
pubblico possono fornire un utile riferimento per
l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche
definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi
compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono
esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a
definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema
di abbattimento delle barriere architettoniche e dei
correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio
normativa e dalla stessa ampiezza della definizione
contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236
del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi
rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi
assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei
portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di
un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un
nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si
tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per
raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità
esterna (pubblica o privata che sia).
Al riguardo, le originarie censure di parte ricorrente si
indirizzavano avverso le conclusioni del Comune, il quale
aveva ritenuto nella specie non rispettata la normativa in
materia di eliminazione delle barriere architettoniche, non
avendo le società richiedenti provveduto a eseguire i lavori
necessari ad agevolare l’accesso agli esercizi commerciali
dei soggetti portatori di handicap mercé una rampa di
collegamento fra l’immobile e la via de Gasperi.
Al contrario, le società ricorrenti hanno sempre negato di
essere tenute a tale incombente sul rilievo che la “rampa”
in questione non costituiva pertinenza esclusiva degli
esercizi in questione, trattandosi di una vera e propria
strada di pubblico passaggio, come testimoniato da una
molteplicità di elementi (presenza di negozi, esistenza di
numeri civici agli stessi etc.).
Sul punto, il TAR ha ritenuto di dover sollecitare al Comune
un approfondimento istruttorio, concentrandosi il successivo
contrasto inter partes sull’esatta qualificazione e
sul conseguente regime da riconoscere al tracciato in
questione.
La Sezione, nel concludere nel senso della correttezza delle
originarie valutazioni dell’Amministrazione comunale,
esprime l’avviso che queste ultime si sorreggano su una
serie di considerazioni di ordine logico-giuridico che,
almeno in parte, prescinde dai profili definitori su cui si
è sviluppato il contrasto tra le parti nel presente
giudizio.
Ed invero, la prescrizione di riferimento in ordine alle
modalità tecniche da rispettare per l’eliminazione delle
barriere architettoniche si rinviene nell’art. 4.2 del d.m.
14.06.1989, nr. 236, il cui precedente art. 3, alla lettera
f) del comma 1, definisce gli “spazi esterni” come “l’insieme
degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza
dell’edificio o di più edifici ed in particolare quelli
interposti tra l’edificio o gli edifici e la viabilità
pubblica o di uso pubblico”.
Tale disciplina regolamentare è attuativa della normativa
già contenuta nella legge 09.01.1989, nr. 13, e oggi
confluita negli artt. 77 e segg. del d.P.R. 06.06.2001, nr.
280, la quale a sua volta, come già altrove rilevato da
questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 08.03.2011, nr.
1437), risponde a valori di rango costituzionale riferibili
agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Se questo è vero, se cioè si tratta di norme e disposizioni
rispondenti alla ratio di garantire il massimo di
tutela a soggetti disagiati e correlativamente a
responsabilizzare in tal senso i soggetti pubblici e privati
destinati a realizzare interventi incidenti sul territorio,
ne consegue che la ricostruzione delle nozioni impiegate
dalla normativa de qua non può basarsi sulla
meccanicistica trasposizione di categorie e classificazioni
ricavate da una disciplina avente finalità del tutto
diverse, quale è quella sulla circolazione stradale.
In altre parole, le distinzioni normative tra strade
private, pubbliche e di uso pubblico possono invero fornire
un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti
delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m.
nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”),
ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che
sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della
normativa in tema di abbattimento delle barriere
architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio
normativa e dalla stessa ampiezza della definizione
contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236
del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi
rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e
quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei
portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di
un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un
nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si
tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per
raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità
esterna (pubblica o privata che sia).
La presenza di tali presupposti, non contestata né
contestabile nel caso che occupa, rende recessiva ogni
considerazione circa il carattere pubblico o privato
dell’area in questione, così come rende irrilevante il fatto
che essa possa per avventura essere asservita anche ad altri
immobili o esercizi; evidentemente il fatto che, fra i vari
fruitori dell’area de qua, il legislatore abbia inteso porre
gli obblighi di eliminazione delle barriere architettoniche
a carico di colui che per primo realizzerà un intervento
edilizio sull’immobile è frutto di una scelta ancora una
volta ispirata dalla prevalenza dei richiamati obblighi
solidaristici (e tale, peraltro, da non escludere che i
connessi oneri economici possano essere poi regolati nei
rapporti interni con gli altri e diversi soggetti che si
trovino a trarre vantaggio dall’intervento posto in essere
per eliminare le barriere architettoniche) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Anche
l'ascensore rientra tra gli impianti «liberi». Palazzo
Spada. Niente permesso di costruire né distanze legali.
Sulla natura giuridica degli ascensori, sulla possibilità di
considerarli nuova costruzione e sui titoli abilitativi
necessari si è espressa la quarta Sezione del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 05.12.2012 n. 6253.
La vicenda concerne l'installazione di un ascensore
all'esterno di un immobile per agevolare l'accesso e la
mobilità di familiari disabili. In primo grado era stato
impugnato il diniego di permesso di costruire, opposto agli
interessati dal Comune, secondo cui l'intervento doveva
ritenersi precluso in forza delle previsioni dell'articolo
79, comma 2, del Dpr 380/2001. Tale norma, infatti, pur
consentendo opere per eliminare le barriere architettoniche
in deroga alle norme sulle distanze contenute nei
regolamenti edilizi, fa comunque «salvo l'obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare
e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune».
Il Tar aveva respinto il ricorso sulla base di tre
considerazioni. Innanzitutto che la tutela della salute e
della vita di relazione dei portatori di handicap non è
incondizionata, ma può subire limitazioni per la tutela di
valori di pari rilevanza, quale la proprietà privata; in
secondo luogo che l'articolo 79, pur considerando prevalenti
le ragioni del portatore di handicap su altri interessi
contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio,
non riconosce analoga prevalenza rispetto al diritto alla
salute tutelato attraverso l'articolo 873 del codice civile
la cui ratio è quella di evitare la creazione di
intercapedini dannose o pericolose. Infine, l'ascensore si
sarebbe trovato ad una distanza inferiore a quella minima di
tre metri rispetto al fabbricato confinante.
Il Consiglio di Stato ha però riformato la sentenza di primo
grado, facendo proprio lo specifico orientamento della
Cassazione (sezione II, n. 2566/2011), secondo cui «l'impianto
di ascensore...rientra fra i volumi tecnici o impianti
tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali
dell'immobile». Ne consegue «l'inapplicabilità
all'ascensore delle disposizioni in tema di distanze legali».
Inoltre, con riferimento al caso concreto, la sentenza
osserva come nell'applicare la deroga al rispetto delle
distanze, l'articolo 79 vada letto in correlazione alla
complessiva disciplina sull'eliminazione delle barriere
architettoniche per i soggetti portatori di handicap e in
particolare al Dm 236/1989. L'articolo 2 del decreto,
infatti, qualifica come spazio esterno «l'insieme degli
spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio
o di più edifici» e come parti comuni dell'edificio «quelle
unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente
più unità immobiliari». Da qui risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di
proprietà o di uso comune», abbia inteso richiamare non
solo l'esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche l'esistenza di uno spazio comunque
denominato impiegato dai residenti di entrambi gli immobili
confinanti.
Nel caso in esame il cortile fra i due immobili nel quale
doveva insistere l'ascensore, pur non essendo in
comproprietà fra i due condomini, risultava utilizzato dai
residenti di entrambi gli immobili, dal che deriva
l'illegittimità dell'atto impugnato e l'erroneità della
decisione del Tar (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.02.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Barriere architettoniche.
Domanda
Sono
amministratore di un condominio nel quale alcuni condomini
hanno richiesto di installare un ascensore, taluni sono
favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una prossima
assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo stato
della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012
(alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa
contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in
questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto
tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere
architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n.
13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma
dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum
ridotti) è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel
condominio in quanto la norma è volta a consentirne
l'accesso, senza difficoltà, in tutti gli edifici e non solo
presso la loro abitazione, mentre il 2° comma consente di
provvedere direttamente alle opere in caso di rifiuto del
condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni
previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3°
comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora
i condomini), per valutare se le opere determinino un
pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se
esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale
lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero
fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non
sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere
l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico
che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o
che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che
compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e
appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere
sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di
solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di
accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili
con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non
siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel
contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi
siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre
di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore
servibilità delle parti comuni, che non può prevalere
qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi
avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti
dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla
sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva
difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre
operare un confronto delle condizioni ante e post operam al
fine di accertare se le opere possano determinare o meno una
lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO: La
Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche
a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto.
Basta la maggioranza semplice perché si superano le
barriere.
Il necessario rispetto del principio di
solidarietà condominiale rende legittima la delibera di
installazione di un ascensore che tuteli l'esigenza di
garantire un accesso agli appartamenti ai condomini, o loro
ospiti, con ridotta capacità motoria, anche se la nuova
opera comporti un'accettabile riduzione del decoro
architettonico o un modesto restringimento degli spazi
comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome
dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili,
o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di
muoversi senza incontrare ostacoli.
Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez.
della Corte di Cassazione con la recente
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie.
La vicenda che ha portato alla decisione in questione
prendeva l'avvio quando un condomino impugnava la delibera
che aveva approvato l'installazione di un ascensore,
ritenuta illegittima non solo perché adottata con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma
soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il
passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il
passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il
decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il
Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo
condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto
di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione
in appello, la delibera era pienamente legittima perché non
comportava alterazione del decoro architettonico
dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e,
comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani
e disabili e nel rispetto della normativa in materia di
barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano
però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro
architettonico del fabbricato risultava compromesso
dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era
conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la
possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva
creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e
all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente
difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma, soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la
delibera non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera
attinente al superamento delle barriere architettoniche,
perché il condominio non aveva fornito la prova che nello
stabile vivessero portatori di handicap: di conseguenza la
delibera non poteva essere adottata con la ridotta
maggioranza prevista dalla legislazione in tema di
eliminazione delle barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione.
La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti
osservazioni, ha confermato la piena legittimità della
scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi,
infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che
l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente
all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto
la delibera di installazione di un ascensore si muove
sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa
speciale a favore dei portatori di handicap prevede un
abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione,
indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo
infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani
con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza
incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non
sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non
risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel
rispetto del principio di solidarietà condominiale, la
delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e
spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un
ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se
comporta un'accettabile compromissione del decoro
architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di
grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento
di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla
sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle
persone affette da invalidità devono ormai essere
considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da
dover essere assunti dall'intera collettività (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
CONDOMINIO: In
condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto
unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore,
anche quando questo configura un'innovazione e il voto in
assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89
di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che
rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e
non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere
architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la
delibera di messa in opera di un'installazione si muove
sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la
messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe
però provocato il restringimento della luce del passaggio
sulla prima rampa e costituendo, in sostanza,
un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per
nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte
d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta
esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e
che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione,
che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito,
affermando che:
- È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse
avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione
delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di
fatto in quel senso;
- È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della
maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la
presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira
a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e
non solo presso la propria abitazione e del resto il
riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in
quanto consente ai disabili di installare servoscala o
strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte
del condominio;
- Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato
dal resistente, va valutato nel senso di accertare se
determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero
fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non
cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur
arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi
l'alterazione architettonica», cioè in sostanza
l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un
principio importante: quello della solidarietà condominiale.
Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in
quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio
e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro
osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte,
si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in
presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti
fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989
suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare
i problemi della disabilità non solo individuali ma come
parte di un carico della collettività.
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Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato
esplicitamente sull'eliminazione delle barriere
architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio,
ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei
condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al
posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore
che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in
relazione al danno economico effettivo (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.10.2012). |
CONDOMINIO:
L'ascensore e' indispensabile per la
reale abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con
sentenza 03.08.2012 n. 14096, ha evidenziato come
l'installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, debba
considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose
comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora,
la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza
delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del
richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge
09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione
applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO
Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato
che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i
condomini di un edificio condominiale, purché siano però
compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose
comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia
in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve
ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di
cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante
alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che
non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi
legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle
norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà
contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass.
23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per
realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in
proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua
finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono
utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui
spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità,
amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza
incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di
luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di
proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice
deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso
del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti
stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia
stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli
altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro
diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia
risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque
escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione
vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le
opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui
all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma
1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi
dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea
con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art.
1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in
forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli
artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita
quell'installazione che renda talune parti comuni
dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un
solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass.
25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver
qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai
fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa
questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti
l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo
sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo
l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle
unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale,
infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale
dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di
distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore a distanza ravvicinata. Sì
all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile.
La Cassazione: l'opera abbatte le
barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un
edificio condominiale, in quanto opera finalizzata
all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e
necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un
appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle
distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione
nella recente
sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto.
Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato
l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di
ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una
parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore
ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto
alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi
proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la
delibera condominiale sia per la predetta lesione del
diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera
avrebbe comportato per il decoro architettonico
dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso,
qualificando l'ascensore quale impianto necessario
all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli
di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime
civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era
però stata la corte d'appello presso la quale i condomini
avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che
aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il
disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il
giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n.
13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche impone in ogni caso il rispetto della
destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.),
a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta
di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la
stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga
espressamente al rispetto delle distanze previste dai
regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle
distanze minime previste dal codice civile, a rendere
applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in
materia di vedute.
La decisione della Suprema corte.
La decisione della corte di appello è quindi stata portata
all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la
piena legittimità della deliberazione assembleare. E la
Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le
argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito,
annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di
interessanti principi in materia di installazione degli
ascensori e abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti
ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto
applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via
subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui
all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli
impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche
l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità
di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della
normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale
non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto
art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto
ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda
soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a
diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio
degli edifici (articolo
ItaliaOggi Sette del 27.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
opere funzionali all’eliminazione delle barriere
architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a
garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità
degli edifici privati e non già le opere dirette alla
migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità
dei residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla
salvaguardia del diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche, la normativa ha
dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo,
purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla
realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene
vincolato; mentre, nel bilanciamento degli interessi in
gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa antincendio.
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali
barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini
a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi
in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto
il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove
l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine
“interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”.
---------------
Relativamente al conflitto tra gli interessi dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti
terzi, il legislatore con la previsione contenuta nell'art.
79 dpr 380/2001 e nell'art. 873 del codice civile, ha
ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al
rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non
può mai essere “minore di 3 metri”, in base alla previsione
codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità
delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel
bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha
ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap
rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al
contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei
soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi,
che non possono veder leso il loro diritto alla salute,
ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle
costruzioni.
---------------
La costruzione di un ascensore esterno in facciata di
condominio per un verso ha quei connotati e quelle
caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderlo
nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873
del codice civile e per altro verso, per le sue
caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle
costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente
rispettare le distanze legali.
... per l'annullamento del provvedimento 24.05.2011, prat.
n. 4/2001, con il quale il Responsabile del III Settore
(Assetto ed uso del territorio) del Comune di Loreto
Aprutino ha rigettato la domanda di permesso di costruire
presentata dal ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di
installazione di un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di
permesso di costruire presentata dai ricorrenti per
l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore
esterno è motivato con riferimento alla testuale
considerazione che, in violazione dell’art. 79 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, non era rispettata la “distanza di
tre metri di cui all’art. 873 del codici civile, ricorrendo
il caso in cui tra le opere da realizzare (ascensore
finalizzato all’eliminazione delle barriere architettoniche)
ed il fabbricato alieno … non è interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del titolo edilizio
richiesto si sottrae, ad avviso del Collegio, alle censure
di legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel
disciplinare all’art. 79 le opere finalizzate
all’eliminazione delle barriere architettoniche dispone
testualmente al suo primo comma che tali opere “possono
essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le
chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a
più fabbricati”; al suo secondo comma precisa, inoltre,
che “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze
di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile
nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i
fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna
area di proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile, nel disciplinare
le distanze nelle costruzioni, dispone a sua volta che “le
costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti,
devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto ministeriale
14.06.1989, n. 236, sono state dettate le prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli
edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione
delle barriere architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di riferimento, va
evidenziato che tali previsioni per il superamento e
l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989,
poi trasfusa nel predetto t.u., ed articolate in dettaglio
nella normativa tecnica di attuazione di cui al D.M.
14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello di tutela dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche, che oggi non è
più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed
individuale, ma è ormai considerato come interesse primario
dell’intera collettività, da soddisfare con interventi
mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo
della persona e dello svolgimento di una normale vita di
relazione (Corte Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e
04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR Campania, sede Napoli,
sez. IV, 14.11.2011, n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la giurisprudenza ha al
riguardo meglio precisato che tale sistema di tutela delle
persone disabili è, in concreto, applicabile compatibilmente
con altri interessi pubblici che non possono essere
pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale delle medesime
persone; con la conseguenza che le misure necessarie a
rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla
stregua degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione possono
essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del
principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i
valori costituzionali in gioco e fermo comunque il rispetto
di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati.
In definitiva, tale normativa consente il diniego della
richiesta autorizzazione qualora non sia possibile
realizzare le opere senza pregiudizio di altri beni
ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali all’eliminazione delle
barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente
necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già le opere
dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla
maggior comodità dei residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila,
08.11.2011, n. 526), va ricordato che il legislatore ha
effettuato delle scelte puntuali in ordine alla graduazione
degli interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra l’interesse alla
tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello
alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche, tale normativa ha
dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo,
purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla
realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene
vincolato (TAR Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011, n.
218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 15.09.2011, n.
4402, e TAR Toscana sez. III, 25.10.2011, n. 1546); mentre,
nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al
contrario, prevalente quello relativo al rispetto della
normativa antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n.
1437).
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali
barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini
a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi
in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto
il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove
l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”
(TAR Lazio, sez. Latina, 04.03.2011, n. 221, e Cons. St.
sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli interessi dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei
soggetti terzi, il legislatore con la sopra ricordata
previsione contenuta nel predetto art. 79 e nel richiamato
art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza
al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra
le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di
tre metri”, in base alla previsione codicistica,
all’evidente fine di garantire la salubrità delle
costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento
degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente
l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello
degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario
recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”,
cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono
veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente
meritevole di tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle
costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del Collegio, non sembra
inficiata da profili di costituzionalità, in quanto rientra
nella discrezionalità del legislatore dare la prevalenza
all’uno o all’altro degli interessi in conflitto; inoltre,
la scelta effettuata con la normativa di cui al più volte
ricordato art. 79 non sembra illogica o particolarmente
penalizzante degli interessi dei soggetti portatori di
handicap, ove si consideri che nella specie tale diritto è
stata ritenuto recessivo nei confronti del diritto alla
salute, di pari rilevanza, dei soggetti confinanti.
---------------
I ricorrenti con i tre motivi di gravame si sono nella
sostanza lamentati delle seguenti circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva rispettare le
distanze legali, in quanto non creava una intercapedine
dannosa per la sicurezza e la salubrità della collettività e
che, peraltro, non era rispettata la distanza in questione
solo per una parte marginale;
2) che l’opera era conforme alle prescrizioni vigenti in
quanto realizzata su uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei confronti dei portatori
di handicap, volta all’eliminazione delle barriere
architettoniche, deve essere interpretata nel senso che è
consentita la deroga della predetta distanza di tre metri
ove sia impossibile una diversa collocazione dell’opera da
realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto, sembra evidente
la mancanza di pregio di quanto dedotto con il terzo motivo,
in quanto il vigente sistema non tutela le persone disabili
in termini assoluti ed inderogabili (Cons. St. sez. V,
08.03.2011, n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli
interessi in gioco, ponendo dei precisi limiti alla
realizzazione delle opere in questione quando venga leso il
diritto alla salute dei confinanti, va evidenziato in punto
di fatto che l’opera da realizzare -contrariamente a quanto
dedotto con il ricorso- non si sviluppa solo fino al primo
piano dell’edificio, ma è destinata a raggiungere anche gli
ulteriori piani dell’edificio, che non sono abitati dal
soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che l’opera -così come
si rileva dagli atti progettuali versati in giudizio anche
dalla parte ricorrente- per un verso ha quei connotati e
quelle caratteristiche di stabilità che impongono di
ricomprenderla nella nozione di “costruzione” di cui
al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso,
per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una
permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve
necessariamente rispettare le distanze legali. Mentre appare
in merito irrilevante il fatto che tale distanza non era
rispettata solo per una parte dell’opera, in quanto la norma
sui distacchi tra le costruzione prevede delle precise
distanze che, salva la c.d. tolleranza di cantiere, debbono
essere necessariamente rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che l’ascensore sarebbe
stato realizzato su uno “spazio o area comune”, va
evidenziato che la normativa in questione, quando utilizza
tale espressione, intende riferirsi all’esistenza di un
diritto di comunione sull’area sulla quale deve essere
realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa non risulta che
il cortile in questione sia in comunione, né risulta
dimostrata che sull’area esista una servitù di passaggio; al
contrario, dalle mappe catastali e dagli atti progettuali si
evince che i due edifici che si fronteggiano sono separati
da una precisa linea di confine posta a distanza di un metro
e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune” la costruzione
dell’ascensore, in assenza del consenso dei proprietari
dell’edificio adiacente, avrebbe dovuto, pertanto,
rispettare le distanze di legge; né appare utile al riguardo
il riferimento alle definizioni contenute nel predetto
decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il quale sono
state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a
garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del
superamento e dell’eliminazione delle barriere
architettoniche, e ciò non solo per il rango nella gerarchia
delle fonti di tale decreto e per la sua inidoneità a
modificare norme di legge, ma anche e soprattutto per il
fatto che le definizioni contenute in tale decreto si
riferiscono alle prescrizioni tecniche disciplinate con la
normativa in questione (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il potere ministeriale di annullamento
d'ufficio del nulla-osta paesaggistico previsto dall'art.
159, comma 3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale la
Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme
alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla,
con provvedimento motivato, non attribuisce
all'Amministrazione centrale un potere di annullamento del
nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, così da
consentire alla stessa Amministrazione di sovrapporre una
propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo
autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera
legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili
vizi, tra cui anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di
annullamento fondati su un riesame del merito della
valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che
sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità
dell'atto sottoposto a controllo.
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero
che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta
paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni
profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è
anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le
proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal
Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare
ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti
adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre
laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e
motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie
valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del
nulla osta paesaggistico.
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare
dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza
istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante per la valutazione
compatibilità, nonché che tale valutazione non sia
manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su
errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione
sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in
genere, che siano osservate le regole che sovrintendono
all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le
norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può
sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità
ambientale a quelli espressi dall'Ente locale.
-------------
Ai sensi dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n. 13/1989
l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili
vincolati può essere negata solo in presenza di un grave
pregiudizio del bene tutelato di cui deve essere data
adeguata motivazione, con la specificazione della natura e
della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in
rapporto al complesso in cui l’opera si colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il
legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco,
inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico,
artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla
salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente
tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione-
ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della
persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e
motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato.
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa
desumersi la vigenza di un principio di superabilità e
derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per
finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale,
bensì che il diniego alla realizzazione di opere preordinate
al superamento delle barriere architettoniche deve
necessariamente essere legato ad un serio pregiudizio
all'interesse paesistico-ambientale debitamente motivato,
nell’ottica di una necessaria comparazione di interessi,
“con la specificazione della natura e della serietà del
pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in
cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di
handicap rafforzando le garanzie procedimentali e
sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere
l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso
restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego,
sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa
motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto
delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del
portatore di handicap, non evidenziando alcuna ragione
nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore tutelato
ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una
motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del
vincolo e di protezione del bene paesistico.
Il Collegio rileva come, in linea generale, il potere
ministeriale di annullamento d'ufficio del nulla-osta
paesaggistico previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, secondo il quale la Soprintendenza, se
ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di
tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento
motivato, non attribuisce all'Amministrazione centrale un
potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per
motivi di merito, così da consentire alla stessa
Amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a
quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma
riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che
peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui
anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di
annullamento fondati su un riesame del merito della
valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che
sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità
dell'atto sottoposto a controllo (ex multis Cons.
Stato, VI, 13.02.2009, n. 772; TAR Campania Napoli, sez.
VIII, 10.11.2010, n. 23751; TAR Puglia Lecce, sez. I,
17.07.2008, n. 2213; TAR Campania; TAR Campania Napoli, sez.
VII, 04.04.2008, n. 1879; Napoli, sez. III, 19.03.2008, n.
1411).
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero
che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta
paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni
profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è
anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le
proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal
Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare
ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti
adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre
laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e
motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie
valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del
nulla osta paesaggistico (ex multis Consiglio di
Stato, Sez. VI - sentenza 09.03.2011 n. 1483, secondo cui “nell’emettere
un nulla osta paesaggistico, l’Autorità regionale o l’ente
sub-delegato deve motivare adeguatamente in ordine alla
compatibilità dell’opera assentita con il vincolo
paesaggistico, sussistendo, in caso contrario, illegittimità
per carenza di motivazione o di istruttoria; per cui
l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo scrutinio, nel proprio provvedimento, perché
sia a sua volta immune da vizi di legittimità, dovrà
motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio
programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel
vincolo"; Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza
26.07.2010 n. 4861, secondo cui “nel caso in cui, in sede
di controllo sul nulla-osta paesaggistico, l’autorità
statale ravvisi una carenza motivazionale o istruttoria,
costituente vizio di legittimità, nell’atto oggetto del suo
scrutinio, la stessa è chiamata ad evidenziare tali vizi con
motivazione che deve necessariamente impingere –per
risultare a sua volta immune da vizi di legittimità– nella
valutazione della non compatibilità dell’intervento edilizio
programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel
vincolo”, che ritiene per contro “illegittimo
l’annullamento in sede statale del nulla-osta paesaggistico
rilasciato in sede comunale, ove da un lato il nulla-osta
stesso sia supportato da idonea motivazione che tiene conto
degli elementi gli elementi di pregio paesistico fissati dal
d.m. con il quale il territorio comunale è stato dichiarato
di notevole interesse pubblico ai sensi della l. n.
1497/1939 e risulti conforme anche sotto il profilo
urbanistico e, dall’altro, l’annullamento stesso si basi su
di una inammissibile valutazione compiuta dalla
Soprintendenza in ordine alla compatibilità dell’opera con
l’assetto paesistico-ambientale dei luoghi tutelati dal
vincolo").
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare
dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza
istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante per la valutazione
compatibilità, nonché che tale valutazione non sia
manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su
errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione
sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in
genere, che siano osservate le regole che sovrintendono
all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le
norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può
sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità
ambientale a quelli espressi dall'Ente locale (TAR Calabria
Catanzaro, sez. I, 26.11.2009, n. 1315).
---------------
Inoltre, il gravato
provvedimento della Soprintendenza non ha tenuto conto della
circostanza attinente alla funzionalità dell’opera alla
tutela delle esigenze del portatore di handicap ed, in
particolare dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n.
13/1989, ai sensi del quale l’autorizzazione per eseguire
interventi su immobili vincolati può essere negata solo in
presenza di un grave pregiudizio del bene tutelato di cui
deve essere data adeguata motivazione, con la specificazione
della natura e della serietà del pregiudizio, della sua
rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si
colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il
legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco,
inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico,
artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla
salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente
tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione-
ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della
persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e
motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato (TAR
Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma,
Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Lazio, sez. II,
15.02.2002, n. 1061; TAR Lazio, Sez. II, 13.05.2000, n.
3974).
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa
desumersi la vigenza di un principio di superabilità e
derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per
finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale
(TAR Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio
Roma, Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Umbria,
17.01.2000, n. 17), bensì che il diniego alla realizzazione
di opere preordinate al superamento delle barriere
architettoniche deve necessariamente essere legato ad un
serio pregiudizio all'interesse paesistico-ambientale
debitamente motivato, nell’ottica di una necessaria
comparazione di interessi, “con la specificazione della
natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza
in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di
handicap rafforzando le garanzie procedimentali e
sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere
l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso
restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego,
sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa
motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto
delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del
portatore di handicap, non evidenziando alcuna
ragione nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore
tutelato ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una
motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del
vincolo e di protezione del bene paesistico
(TAR Campania-Napoli, Sez.
IV,
sentenza 14.02.2012 n. 792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
01.02.2012 n. 26 "Misure per il riassetto della normativa
in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell’articolo 28
della legge 04.06.2010, n. 96" (D.Lgs.
09.01.2012 n. 4).
---------------
Di interesse l'art. 3, comma 3, che riportiamo di seguito:
Art. 3. - Acquacoltura
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2135 del
codice civile, l’acquacoltura è l’attività economica
organizzata, esercitata professionalmente, diretta
all’allevamento o alla coltura di organismi acquatici
attraverso la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico o di
una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale
o animale, in acque dolci, salmastre o marine.
2. Sono connesse all’acquacoltura le attività, esercitate
dal medesimo acquacoltore, dirette a:
a) manipolazione, conservazione, trasformazione,
commercializzazione, promozione e valorizzazione che abbiano
ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle attività
di cui al comma 1;
b) fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione
prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda
normalmente
impiegate nell’attività di acquacoltura esercitata, ivi
comprese le attività di ospitalità, ricreative, didattiche e
culturali, finalizzate alla corretta fruizione degli
ecosistemi acquatici e vallivi e delle risorse
dell’acquacoltura, nonché alla valorizzazione degli aspetti
socio-culturali delle imprese di acquacoltura, esercitate da
imprenditori, singoli o associati, attraverso l’utilizzo
della propria abitazione o di struttura nella disponibilità
dell’imprenditore stesso;
c)
l’attuazione di interventi di gestione attiva, finalizzati
alla valorizzazione produttiva, all’uso sostenibile degli
ecosistemi acquatici ed alla tutela dell’ambiente costiero.
3. Alle opere, alle strutture destinate
alle attività di cui alla lettera b) del comma 2 si
applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, commi 2 e
3, del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di edilizia, approvato con decreto
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, nonché
all’articolo 24, comma 2, della legge 05.02.1992, n. 104,
relativamente all’utilizzo di opere provvisionali per
l’accessibilità ed il superamento delle barriere
architettoniche. |
anno 2011 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
Per gli immobili vincolati stop ai
lavori motivato.
Quando un privato avvia un intervento per il superamento
delle barriere architettoniche in un edificio vincolato, il
diniego della Soprintendenza deve sempre essere motivato.
È quanto affermato dai giudici amministrativi, e in
particolare da due recenti pronunce dei Tar Lazio e
Campania.
In Italia gli immobili di proprietà privata assoggettati a
vincolo storico-artistico sono molto diffusi, e un problema
che si pone frequentemente è l'eliminazione delle barriere
architettoniche, qualora edifici di questo tipo siano
occupati o anche solo frequentati da soggetti disabili. Il
tema è affrontato con la legge 13/1989, in parte trasfusa
nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2011), e con il Dm
236/1989.
La disciplina legislativa e regolamentare riguarda sia la
costruzione di nuovi edifici, sia l'esecuzione di opere su
quelli esistenti, e tende a garantire idonee condizioni di
accesso e di fruizione da parte dei soggetti che versano in
situazione di minorazione fisica, anche in deroga alle norme
civilistiche sul condominio. In particolare, l'articolo 2
del Dm qualifica come condizione di "accessibilità"
dell'edificio «la possibilità anche per le persone con
ridotta e impedita capacità motoria e sensoriale di
raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari e
ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e
attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia».
Il diritto del portatore di handicap a svolgere una normale
vita di relazione, così come delineato dal legislatore, deve
essere tendenzialmente garantito anche nei casi in cui
l'immobile sia stato dichiarato di particolare interesse
paesaggistico o storico-artistico. In questi casi, ferma
restando la necessità di ottenere la prescritta
autorizzazione ai sensi degli articoli 21 e 146 del Dlgs
42/2004 prima di dar corso agli interventi, gli articoli 4 e
5 della legge 13/1989 contengono specifiche previsioni
agevolative.
Innanzitutto, è prevista la formazione del silenzio-assenso
nel caso in cui le amministrazioni competenti alla tutela
del vincolo (Regioni o soprintendenze), non si pronuncino
nel termine assegnato.
In secondo luogo, il diniego all'esecuzione dei lavori volti
al superamento o all'eliminazione delle barriere
architettoniche potrà essere opposto «solo nei casi in
cui non sia possibile realizzare le opere senza un serio
pregiudizio del bene tutelato».
Infine, l'eventuale diniego dovrà essere necessariamente
motivato «con la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato».
La problematica è stata affrontata dalla giurisprudenza
soprattutto con riferimento all'installazione di rampe e
ascensori e due recenti pronunce del Tar Campania (sede
Napoli, Sezione IV,
sentenza 15.09.2011 n. 4402) e del Tar Lazio
(sede Roma, Sezione II-quater,
sentenza 28.09.2011 n. 7597) confermano un
orientamento interpretativo ormai costante del richiamato
quadro normativo, secondo cui, «sebbene dal testo e dalla
ratio della legge 13/1989 non possa desumersi la vigenza di
un principio di superabilità e derogabilità assoluta e
automatica dei vincoli posti per finalità di tutela
storico-culturale o paesistico-ambientale (si veda, Tar
Umbria, 17.01.2000, n. 17), deve essere nondimeno ribadito
che nel provvedimento con il quale la Soprintendenza esprima
diniego ai fini della realizzazione di un'opera preordinata
al superamento delle barriere architettoniche debbano essere
compiutamente esternate le reali e dimostrabili ragioni di
pregiudizio che il progettato intervento è suscettibile di
arrecare all'interesse di tutela del quale l'Amministrazione
è portatrice».
Le due pronunce evidenziano come il legislatore abbia
operato un bilanciamento degli interessi in gioco, entrambi
di rilievo costituzionale, che riguardano, da una parte, la
tutela del patrimonio storico e artistico nazionale
(articolo 9 della Costituzione) e, dall'altra, la
salvaguardia dei diritti alla salute e al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche (articoli 3 e 32
della Costituzione), dando prevalenza a questi ultimi e
ammettendo il diniego dell'autorizzazione nei soli casi di
accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene
vincolato (si veda Tar Lazio-Roma, Sezione II, 15.02.2002
n.1061 e 13.05.2000, n. 3974). In entrambi i casi le
sentenze hanno ritenuto legittimo il diniego di
autorizzazione da parte della soprintendenza, che risultava
debitamente motivato in ragione «della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato».
---------------
L'attività è libera se non è esterna.
La legge contiene una definizione molto precisa di «barriere
architettoniche». L'articolo 2 del Dm 236/1989 le
definisce come: gli ostacoli fisici che sono fonte di
disagio per la mobilità di chiunque e in particolare di
coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita in forma permanente o temporanea; gli
ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e
sicura utilizzazione di parti, attrezzature o componenti; la
mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono
l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti
di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti,
per gli ipovedenti e per i sordi.
Quanto ai contenuti progettuali e alle autorizzazioni
necessarie per gli interventi di superamento delle barriere
architettoniche, l'articolo 77 del testo unico dell'edilizia
prescrive che i progetti –compresi quelli di
ristrutturazione di interi edifici– debbano essere redatti
con l'osservanza delle prescrizioni tecniche stabilite con
il Dm 236/1989, con questo contenuto minimo:
- accorgimenti tecnici idonei alla installazione di
meccanismi per l'accesso ai piani superiori, ivi compresi i
servoscala;
- idonei accessi alle parti comuni degli edifici e alle
singole unità immobiliari;
- almeno un accesso in piano, rampe prive di gradini o
idonei mezzi di sollevamento;
- l'installazione, nel caso di immobili con più di tre
livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala
principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini.
La stessa disposizione, con specifico riferimento agli «immobili
vincolati ai sensi del Dlgs 490/1999», stabilisce che i
progetti debbano essere preventivamente «approvati dalla
competente autorità di tutela, a norma degli articoli 23 e
151 del medesimo decreto legislativo» (ora articoli 21 e
146 del Dlgs 42/2004). L'omessa pronuncia sull'istanza nei
termini previsti dalla legge 13/1989 (90 giorni per i
vincoli paesaggistici e 120 giorni per quelli
storico-artistici) comporta la formazione del
silenzio-assenso sul progetto.
Gli interventi dovranno comunque essere realizzati anche nel
rispetto delle norme antisismiche, antincendio e di
prevenzione degli infortuni.
In tema di titoli abilitativi, l'articolo 6, comma 1,
lettera b), del Dpr 380/2001 (nel testo modificato dalla
legge n. 73/2010) ha ricompreso nell'ambito dell'attività
edilizia libera anche gli interventi volti all'eliminazione
di barriere architettoniche, ma alla specifica condizione
che gli stessi non comportino la realizzazione di rampe o di
ascensori esterni, o di manufatti che alterino la sagoma
dell'edificio. In questi casi sarà quindi necessario il
rilascio di un titolo abilitativo. Inoltre, in base
all'articolo 79, le opere possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti
edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai
fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati.
È comunque fatto salvo l'obbligo di rispetto delle distanze
dettate dagli articoli 873 e 907 del Codice civile
nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i
fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna
area di proprietà o di uso comune (articolo Il Sole 24
Ore del 28.11.2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il diritto all'eliminazione delle
barriere architettoniche prevale sulla esigenza di tutela
del patrimonio storico-artistico nazionale.
Il legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse alla
tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello
alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche ha dato prevalenza
al secondo, collocando il diniego dell'autorizzazione alla
realizzazione di interventi in beni vincolati ai soli casi
di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene
vincolato.
Ne deriva che, pur non potendosi affermare la vigenza di un
principio di superabilità e derogabilità assoluta e
automatica dei vincoli posti per finalità di tutela
storico-culturale o paesistico–ambientale, va ritenuto che
il provvedimento, con il quale la Soprintendenza non
autorizza la realizzazione di un'opera preordinata al
superamento delle barriere architettoniche deve dare
compiuta ed esauriente emersione alle reali e dimostrabili
ragioni di pregiudizio, che il progettato intervento è
suscettibile di arrecare all'interesse tutelato (TAR Lazio
Roma, II, 15.02.2002, n. 1061) (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo,
Sez. I,
sentenza 04.02.2011 n. 218 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Il fatto che una sala cinematografica
privata sia aperta al pubblico non comporta, ai sensi della
legge n. 104/1992 e del regolamento attuativo, la completa
parificazione agli edifici pubblici per quanto riguarda la
disciplina relativa alle barriere architettoniche.
Deve rammentarsi che la citata legge-quadro n. 104/1992,
riguardante l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate, ai fini della eliminazione o
superamento delle barriere architettoniche stabilisce,
all'art. 24, comma 1, che “Tutte le opere edilizie
riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico
che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la
visitabilità di cui alla legge 09.01.1989, n. 13, e
successive modificazioni, sono eseguite in conformità alle
disposizioni di cui…”.
Le anzidette disposizioni indicano, in concreto, i criteri
per la esecuzione delle “opere” edilizie, riguardanti
sia gli edifici pubblici che quelli privati aperti al
pubblico, al fine di prevenire qualsiasi difficoltà nella
loro fruizione da parte delle persone handicappate.
Nella surrichiamata legge n. 13/1989, recante “Disposizioni
per favorire il superamento e eliminazioni delle barriere
architettoniche negli edifici privati”, all'articolo 1,
comma 1, è espressamente previsto che “I progetti
relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla
ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di
edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata,
presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della
presente legge sono redatti in osservanza delle prescrizioni
tecniche previste dal comma 2”; tali prescrizioni
tecniche sono specificamente finalizzate a garantire
l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e di edilizia residenziale pubblica,
sovvenzionata ed agevolata.
Da tali norme di legge emerge, dunque, con chiarezza, che
l'obbligo di adeguamento riguarda soltanto le opere di
costruzione e ristrutturazione ancora da eseguire, come si
ricava inequivocabilmente anche dal termine dilatorio di sei
mesi concesso per l'applicazione delle nuove prescrizioni
tecniche ai relativi progetti, ai sensi del citato art. 1
della legge n. 13/1989.
Né possono ritenersi corrette le argomentazioni del primo
giudice il quale, facendo leva sulle norme per
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici,
spazi e servizi pubblici dettate dal regolamento attuativo
della legge n. 104/1992, emanato con d.P.R. 24.07.1996, n.
503, ha affermato che anche le sale cinematografiche
rientrerebbero della disciplina dettata dall'art. 1, comma
4, in base al quale “Agli edifici e spazi pubblici
esistenti, anche se non soggetti a recupero o
riorganizzazione funzionale, devono essere apportati tutti
quegli accorgimenti che possono migliorarne la fruibilità
sulla base delle norme contenute nel presente regolamento”.
Anzitutto, non può non rilevarsi che una norma regolamentare
deve essere sempre interpretata in coerenza con la norma
primaria che ne è a fondamento, essendo in particolare
escluso che la normativa secondaria possa imporre
prestazioni non previste dalla legge, contrastando ciò con
il principio fondamentale posto dall'art. 23 della
Costituzione.
Inoltre, dalla stessa lettera della norma regolamentare
sopra richiamata si evince chiaramente che l'esigenza di
abbattere in via generale ed immediata le barriere
architettoniche riguarda unicamente gli “edifici e spazi
pubblici”, precisandosi significativamente che, in
attesa dei previsti adeguamenti, “ogni edificio deve
essere dotato, entro 180 giorni dalla data di entrata in
vigore del presente regolamento, a cura dell'amministrazione
pubblica che utilizza l'edificio, di un servizio di chiamata
per attivare un servizio di assistenza…”.
Poiché, dunque, contrariamente a quanto affermato dal primo
giudice, il fatto che una sala cinematografica privata sia
aperta al pubblico non comporta, ai sensi della ripetuta
legge n. 104/1992 e del regolamento attuativo, la completa
parificazione agli edifici pubblici per quanto riguarda la
disciplina relativa alle barriere architettoniche, ne
consegue che con ogni evidenza le statuizioni della sentenza
appellata non possono essere assecondate.
Nessun rilievo in senso contrario può attribuirsi,
d’altronde, alla disposizione del comma 6 dello stesso
articolo del regolamento in esame, secondo cui “Agli
edifici di edilizia residenziale pubblica ed agli edifici
privati compresi quelli aperti al pubblico si applica il
decreto del ministro dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236”,
che reca prescrizioni tecniche per gli interventi edilizi su
tale strutture e che, per sua natura, non potrebbe
certamente introdurre obblighi nuovi e diversi rispetto a
quelli stabiliti per legge.
Sembra opportuno aggiungere, ancora, che le anziesposte
conclusioni si pongono anche in stretta consonanza con il
principio enunciato dalla Corte costituzionale con sentenza
04.07.2008, n. 251, nella quale, proprio con riferimento
alla pretesa del remittente di imporre l'eliminazione delle
barriere architettoniche pure negli edifici esistenti, si
sottolinea che viene richiesta una pronuncia additiva “che
non può essere considerata costituzionalmente obbligata …in
quanto è diretta a privilegiare una delle possibili forme di
intervento a favore delle persone disabili, in sostituzione
di un sistema caratterizzato dalla concreta valutazione
anche di altri interessi, dai quali non possono escludersi
quelli relativi agli oneri economici eventualmente
derivanti, allo stato, dalla forma di tutela prescelta”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.08.2010 n. 5151 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 1 del 05.01.2010, "Indicazioni
per l'accesso ai contributi per l'eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici residenziali privati
e criteri di controllo"
(decreto
D.S. 15.12.2009 n. 14032). |
anno 2009 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia. serie ordinaria n. 42 del 19.10.2009, "Determinazioni
in ordine all'assegnazione di contributi per interventi di
eliminazione di barriere architettoniche (legge n. 13/1989;
l.r. n. 6/1989)"
(deliberazione
G.R. 07.10.2009 n. 10280 - link a
www.infopoint.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Barriere architettoniche - l.r. n. 6/89 - interventi in
adattabilità sui edifici costruiti/ristrutturati dopo
l'11.08.1989 - Circolare adattabilità 20.10.2008
(link
a www.oopp.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Atto di deroga in sanatoria
relativamente a lavori oggetto di D.I.A. - Eliminazione
barriere architettoniche - Incompetenza del dirigente -
Artt. 40 L.R. 11.03.2005 n. 12 e 19 L.R. 20.02.1989 n. 6 -
Sussiste.
L'art. 40, c. 1, L.R. 12/2005, laddove prevede la previa
deliberazione del Consiglio Comunale per il rilascio di
provvedimenti in deroga agli strumenti di pianificazione,
detta una regola procedimentale generale, applicabile anche
alla fattispecie di deroga ai fini dell'abbattimento delle
barriere architettoniche di cui al terzo comma della stessa
legge, poiché, in entrambi i casi, vengono esercitati, con
il rilascio della concessione in deroga, poteri
discrezionali in ordine all'opportunità di accordare o meno
il titolo richiesto che comporta un mutamento dell'assetto
urbanistico edilizio previsto con gli strumenti di
pianificazione, mutamento per il quale è necessaria
l'approvazione dell'organo cui compete la funzione
pianificatoria.
La stessa regola procedimentale si ricava dall'art. 19 L.R.
n. 6/1989, richiamato dall'art. 40, c. 3, L.R. 12/2005, che
rimanda al procedimento di cui all'art. 41-quater L.U. che
contempla il parere del Consiglio Comunale. Conseguentemente
anche il provvedimento di deroga in sanatoria finalizzato
all'abbattimento di barriere architettoniche necessita di un
pronunciamento del Consiglio Comunale, risultando
illegittimo l'atto che è stato adottato solo dal Dirigente
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 14.01.2009 n. 72 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
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EDILIZIA
PRIVATA: Barriere
architettoniche - Nozione - Negativa - Ammissibilità.
La definizione
di barriera architettonica codificata dall'art. 1 comma 2
del DPR 503/1996, a cui rinvia l'art. 78, comma 1, del DPR
380/2001, non comprende soltanto gli ostacoli fisici che
impediscono l'uso normale degli spazi pubblici e quindi, per
effetto del richiamo, anche di quelli privati: le norme
citate non fanno, infatti, riferimento a una condizione
normale di fruizione degli spazi edificati rispetto alla
quale la barriera architettonica si configurerebbe quale
addizione rimovibile, come se la normalità fosse
conseguibile per rimozione dell'ostacolo.
La legislazione sulle barriere architettoniche, a partire
dall'art. 27 L. 1187/1971, è invece focalizzata sulla
qualità della vita di relazione del soggetto disabile, che
deve essere facilitata tenendo presenti le condizioni
mediche individuali e le esigenze terapeutiche, lavorative e
familiari. Non può esservi quindi una definizione di
barriera valida per tutti e soprattutto occorre riconoscere
che la nozione di barriera può essere anche negativa, ossia
può consistere nella mancanza di strutture idonee a
facilitare le attività e i comportamenti che i soggetti
disabili potrebbero comunque eseguire ma con impegno e
rischi superiori. Lo stesso elenco di cui all'art. 1, comma
2, del DPR 503/1996 qualifica come barriera ogni impedimento
alla "comoda e sicura utilizzazione" di spazi e attrezzature
(lett. b) (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 11.11.2008 n. 1601 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, 4° suppl. straord. al n. 30 del 25.07.2008:
- "Schede delle iniziative FRISL 2008/2010 «Miglioramento della
mobilità stradale e sicurezza» e «Eliminazione barriere architettoniche»"
(deliberazione
G.R. 11.07.2008 n. 7599
- link a www.infopoint.it).
- "Direzione Centrale Programmazione Integrata - Modalità per
l'accesso ai contributi FRISL 2008/2010 iniziative: «Miglioramento
della mobilità stradale e sicurezza» e «Eliminazione barriere
architettoniche» (Fondo Ricostituzione Infrastrutture Sociali Lombardia)
(l.r. 33/1991)" (circolare
regionale 14.07.2008 n. 12
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Garanzie
superamento barriere architettoniche.
Viene posto quesito inerente ai requisiti igienico-sanitari
necessari per l’apertura di un pubblico esercizio.
In particolare, la questione sottoposta all’esame del
Servizio di Consulenza concerne le prescrizioni necessarie a
garantire il superamento delle barriere architettoniche
(Regione Piemonte,
parere n. 130/2008 - link a
www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 16.05.2008 n. 114, suppl. ord. n. 127, "Linee guida
per il superamento delle barriere architettoniche nei luoghi
di interesse culturale" (Ministero per i Beni e le
Attività Culturali,
decreto 28.03.2008). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Barriere architettoniche - Recupero sottotetti -
Art. 14 L.R. Lombardia 6/1989 - Ambito di applicazione -
Conseguenze.
2. Barriere architettoniche - Visitabilità, adattabilità,
accessibilità - Nozioni.
3. Concessione edilizia - Procedimento - Principio di
partecipazione ex artt. 7 e 8 L. 241/1990 - Non
applicabilità.
1. In relazione ad interventi di recupero dei
sottotetti ad uso abitativo, le norme sull'abbattimento
delle barriere architettoniche, di cui all'art. 14 L.R.
6/1989, si applicano limitatamente ai requisiti di
visitabilità ed adattabilità dell'alloggio e non anche al
requisito di accessibilità all'alloggio.
2. La visitatabilità è l'idoneità dei locali ad
essere visitati da una persona disabile, che deve poter
raggiungere la zona giorno e un servizio; per adattabilità
si intende la possibilità di modificare nel tempo lo spazio
costruito, allo scopo di renderlo completamente ed
agevolmente fruibile anche da parte di persone con ridotta o
impedita capacità motoria o sensoriale. L'accessibilità è
invece la possibilità, anche per persone con ridotta o
impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere
l'edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali,
di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in
condizioni di adeguata sicurezza e autonomia.
Visitabilità e adattabilità sono riferiti solo
all'appartamento e non presuppongono l'accessibilità, che
riguarda l'immobile nel suo insieme.
3. Per il rilascio dei titoli abilitativi in materia
edilizia, non trovano applicazione gli artt. 7 e 8 Legge
241/1990, trattandosi di procedimenti ad istanza di parte
(cfr. Cons. di Stato VI, 29.11.2005) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.02.2008 n. 314). |
anno 2007 |
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EDILIZIA
PRIVATA: Superamento
di barriere architettoniche - L. 13/1989 - Ambito soggettivo
di applicazione.
Tra i soggetti tutelati dalle norme di legge speciale n.
13/1989, rientrano, oltre ai portatori di handicap, anche
gli invalidi civili (Trib. Firenze 19.05.1992, n. 849),
nonché gli ultrasessantacinquenni che abbiano difficoltà
persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della loro
età (Trib. Napoli 14.03.1994, n. 2606; conf. Pretura Roma
15.05.1996).
Superamento di barriere architettoniche - L. n.
13/1989 - Finalità - “Incentivi reali” - Applicazione -
Presenza di un handicappato nel condominio - Necessità -
Esclusione.
La finalità della legge n. 13/1989 è quella di assicurare
l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli
edifici, con ciò prescindendosi dall’esistenza di un diritto
reale o personale di godimento da parte di un soggetto
minorato, essendo unicamente rilevante l’obiettiva
attitudine dell’edificio, anche privato, ad essere fruito da
parte di qualsiasi soggetto; conformemente alla finalità
così individuata, non è necessaria la presenza di un
handicappato nel condominio ai fini dell’applicazione dei
cosiddetti incentivi reali al superamento delle barriere
architettoniche (artt. 2-7 della L. n. 13/1989), in quanto
ciò che rileva è garantire l’effettivo svolgimento della
vita di relazione da parte del soggetto minorato anche al di
fuori della sua abitazione; a diverse conclusioni deve
giungersi con riguardo alla parte dedicata agli incentivi
economici (artt. 8-12), che invece richiedono l’effettiva
residenza del minorato nell’edificio.
Superamento delle barriere architettoniche -
Interventi su beni soggetti a tutela - Diniego - Art. 4 L.
n. 13/1989 - Motivazione - Obbligo di esternazione della
natura e della gravità del pregiudizio al bene tutelato.
In base alle disposizioni di cui alla L. n. 13/1989 (art. 4,
IV e V comma) è possibile opporre il diniego alla
realizzazione di interventi destinati ad eliminare o
superare le barriere architettoniche anche su beni soggetti
a tutela “solo nei casi in cui non sia possibile
realizzare le opere senza un serio pregiudizio per il bene
tutelato”, con conseguente obbligo per
l’amministrazione, in caso di pronuncia negativa, di
esternare la natura e la gravità del pregiudizio rilevato “…in
rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con
riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate
dall’interessato” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.04.2007 n. 1122
- link a www.ambientediritto.it). |
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