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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
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71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
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87
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PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
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93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
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dossier BARRIERE ARCHITETTONICHE
anno 2022

CONDOMINO - EDILIZIA PRIVATA: Sussiste il principio di solidarietà condominiale nell'abbattimento delle barriere architettoniche.
Secondo il principio di solidarietà condominiale, la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati.
Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è sufficiente, peraltro, che lo stesso produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione..
In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in via di principio, l’operatività, anche riguardo all'ascensore, del principio secondo cui negli edifici condominiali l'utilizzazione delle parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate dall'art. 1102 c.c., comportanti il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l'osservanza delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi dell'installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui.

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17. Per le ulteriori questioni proposte dai ricorrenti con riguardo alla ritenuta violazione delle norme civilistiche sulle distanze da luci e vedute il Tribunale ritiene sufficiente il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. II, n. 30838 del 26.11.2019, che ha ribadito che il principio di solidarietà condominiale impone di facilitare l’abbattimento delle barriere architettoniche anche derogando alle norme sulle distanze comuni.
Si è infatti affermato che “i lavori per la installazione dell’ascensore erano dichiaratamente volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, ai sensi della L. n. 13 del 1989.
In particolare, la Corte territoriale non sembra avere adeguatamente apprezzato che, nella valutazione del legislatore, quale si desume dalla citata L. n. 13 del 1989, art. 1 (operante a prescindere dalla effettiva utilizzazione degli edifici considerati da parte di persone portatrici di handicap: Corte Cost. n. 167 del 1999), l’installazione dell’ascensore o di altri congegni, con le caratteristiche richieste dalla normativa tecnica, idonei ad assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, costituisce elemento che deve essere necessariamente previsto dai progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della legge.
Da tale indicazione si desume agevolmente che, nella valutazione del legislatore, e contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, l’ascensore o i congegni similari costituiscono dotazione imprescindibile per l'approvazione dei relativi progetti edilizi; in altri termini, l’esistenza dell'ascensore può senz'altro definirsi funzionale ad assicurare la vivibilità dell’appartamento, cioè assimilabile, quanto ai principi volti a garantirne la installazione, agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari.
Vero è che tale qualificazione è dal legislatore imposta per i nuovi edifici o per la ristrutturazione di interi edifici, mentre per gli edifici privati esistenti valgono le disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, art. 2; tuttavia, la assolutezza della previsione di cui all’art. 1 non può non costituire un criterio di interpretazione anche per la soluzione dei potenziali conflitti che dovessero verificarsi con riferimento alla necessità di adattamento degli edifici esistenti alla prescrizioni dell’art. 2.
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. n. 18334 del 2012).
Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è sufficiente, peraltro, che lo stesso produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (Cass. n. 18147 del 2013).
In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in via di principio, come ha fatto la Corte di appello, l’operatività, anche riguardo all'ascensore, del principio secondo cui negli edifici condominiali l'utilizzazione delle parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate dall'art. 1102 c.c., comportanti il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l'osservanza delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi dell'installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. n. 7752 del 1995; Cass. n. 6885 del 1991; Cass. n. 11695 del 1990)
(TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 25.02.2022 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Barriere, è più facile dire addio. Per l’uso del bene comune non serve il consenso altrui. Gli effetti del dl semplificazioni. Le innovazioni non sono ritenute di carattere voluttuario.
Condomini sempre più vivibili per disabili e soggetti con ridotte capacità motorie.
Con l'art. 10, comma 3, del cosiddetto decreto semplificazioni, il dl n. 76/2020, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 16 luglio scorso, sono state infatti apportare una serie di modifiche alla legge n. 13/1989, rendendo più semplice l'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche.
Si tratta di principi in parte anticipati dalla giurisprudenza in questi ultimi anni, ma che la previsione normativa rende sicuramente più stabili, e in parte innovativi.
La nuova disposizione normativa. L'art. 10, comma 3, del dl n. 76/2020 dispone in via generale che ciascun partecipante alla comunione o al condominio può realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge n. 13/1989 e n. 119 del n. 34/2020 (si tratta del cosiddetto decreto rilancio, che ha introdotto anche il tanto atteso bonus al 110%), anche servendosi della cosa comune nel rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c.. Alla legge n. 13/1989 sono quindi state apportate specifiche modifiche.
In particolare, all'art. 2, comma 1, sono stati aggiunti due nuovi periodi, in base ai quali le innovazioni in tal modo realizzate dai condomini non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, comma 1, c.c. e per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di interventi che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, come previsto dal quarto comma dell'art. 1120 c.c..
Più facile eliminare le barriere architettoniche con il ricorso al principio di cui all'art. 1102 c.c.. Come si diceva, il nuovo testo normativo recepisce un aspetto che la giurisprudenza ha ormai acquisito da qualche anno ma, data la rilevanza del principio, appare più che mai opportuna la sua trasposizione in legge. I giudici fanno infatti ampia applicazione del disposto di cui all'art. 1102 c.c., in base al quale ciascun comproprietario del bene può usarne a suo piacimento, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne pari uso.
L'utilizzo del bene comune per il soddisfacimento di interessi personali anche di un singolo condomino, purché alle condizioni di cui sopra, può avvenire senza alcuna necessità del consenso degli altri comproprietari, perché in casi del genere le spese delle attività necessarie a trarre un maggiore giovamento dalle parti comuni rimangono a carico del singolo. Ecco quindi che ciascun condomino, nel rispetto del pari uso delle cose comuni, potrà autonomamente installare nelle parti condominiali un ascensore, un montascale, ecc., a proprie spese e senza il necessario coinvolgimento (e benestare) degli altri condomini, quindi senza alcuna previa deliberazione assembleare. La nuova norma di legge non fa altro che specificare questo principio.
Il condomino disabile o con difficoltà di deambulazione che intenda operare l'abbattimento di barriere architettoniche presenti nel proprio condominio potrà quindi anche procedere in piena autonomia, utilizzando in maniera esclusiva l'eventuale nuovo manufatto e sostenendone integralmente il costo.
Le deliberazioni assembleari e lo scoglio della natura innovativa degli interventi. Laddove, invece, il condomino che abbia necessità di facilitare l'accesso al proprio appartamento intenda ottenere la collaborazione degli altri condomini e suddividere con essi i costi legati all'intervento sulle parti comuni, si dovrà necessariamente passare dall'assemblea condominiale e ottenere una deliberazione in tal senso (che obbligherà tutti i condomini a compartecipare alla relativa spesa).
La legge n. 13/1989, per evidenti finalità solidaristiche, e la successiva riforma del condominio del 2012, peraltro con alcune incongruenze più volte segnalate, hanno inteso diminuire i quorum necessari per ottenere la maggioranza in assemblea, proprio per facilitare iniziative di questo genere.
Spesso però questa tipologia di interventi costituisce una innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c., ovvero comporta una modificazione delle parti comuni. Ecco allora che, per quanto i quorum assembleari siano comunque diminuiti, si è sempre ritenuto che dovessero essere rispettati anche i più stringenti limiti previsti in casi del genere - ovvero la tutela della stabilità, della sicurezza, del decoro architettonico dell'edificio e della garanzia che ciascuno possa continuare a servirsi del bene comune, oltre che garantire la posizione dei condomini dissenzienti, per quanto limitatamente alle innovazioni molto gravose da un punto di vista economico oppure di carattere voluttuario rispetto alle condizioni e all'importanza dell'edificio (art. 1121 c.c.).
In questi casi il condomino dissenziente ha infatti la possibilità di dissociarsi dall'utilizzo dell'opera e quindi dalla relativa spesa oppure, ove non ne sia possibile un uso separato, può addirittura esercitare una sorta di veto, superabile soltanto dall'accollo dell'intera spesa da parte dei condomini interessati alla sua realizzazione.
Le novità del cosiddetto decreto semplificazioni. Proprio su questo punto è intervenuto il cosiddetto decreto semplificazioni.
In primo luogo la nuova norma di legge stabilisce che gli interventi volti all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche non possono essere mai considerati voluttuari ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1121 c.c.. In effetti, tenuto conto dei notevoli sviluppi giurisprudenziali almeno dell'ultimo decennio, volti a una sempre maggiore valorizzazione del principio solidaristico in ambito condominiale, con particolare riferimento all'accessibilità degli edifici, risultava davvero come una nota stonata il fatto che i condomini riuniti in assemblea potessero appellarsi al carattere voluttuario dell'intervento innovativo richiesto da un disabile per il superamento di una barriera architettonica.
Resta, invece, l'altra misura individuata dall'art. 1121 c.c. a tutela dei condomini dissenzienti, ovvero quello della gravosità dell'intervento. Si tratta di un'ipotesi che può ricorrere frequentemente in caso di abbattimento delle barriere architettoniche (si pensi al caso classico dell'installazione dell'impianto di ascensore). In questi casi, come anticipato, i condomini che ritengano eccessivamente costoso l'intervento assentito dall'assemblea possono dissociarsi da esso, impegnandosi a non utilizzare l'impianto e non sostenendo le relative spese.
Ciò è ovviamente possibile soltanto ove l'intervento sulle parti comuni si sia tradotto in un'opera che possa essere effettivamente utilizzata in maniera separata dai condomini. Il caso di scuola è nuovamente quello dell'ascensore, laddove una soluzione tecnica che consenta l'accesso alla cabina soltanto con una chiave o un codice digitale può ad esempio consentirne un utilizzo separato.
In caso contrario, la realizzazione dell'intervento non è possibile, nemmeno con eventuali maggioranze più elevate, a meno che i condomini favorevoli si impegnino a sostenerne integralmente le spese (un po' come avviene nell'ipotesi delineata dall'art. 1102 c.c. per il singolo condomino). In questo caso il condomino che si sia sottratto alle spese comuni potrà comunque utilizzare l'impianto o il manufatto realizzato per abbattere la barriera architettonica, proprio perché realizzato su una parte comune di cui il medesimo ha l'insopprimibile diritto di servirsi.
L'art. 10, comma 3, del dl n. 76/2020 ha infine previsto che per la realizzazione delle opere di superamento delle barriere architettoniche resti fermo unicamente il divieto di interventi che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, come previsto dal quarto comma dell'art. 1120 c.c.. Nessun cenno viene fatto al divieto di lesione del decoro architettonico dell'edificio, pure previsto dal quarto comma dell'art. 1120 c.c..
Questa circostanza, se considerata alla luce dell'utilizzo dell'avverbio «unicamente», dovrebbe portare a concludere che anche in questo caso sia stato operato un ulteriore alleggerimento della disciplina di favore di cui alla legge n. 13/1989. Tuttavia il dubbio resta, perché l'attuale quarto comma dell'art. 1120 c.c. prevede anche un ulteriore limite, quello del divieto di rendere inservibili le parti comuni all'uso o al godimento anche di un solo condomino, che non pare possa essere messo in discussione.
Inoltre, per un probabile difetto di coordinamento, ci si è dimenticati del comma 3 dell'art. 2 della legge n. 13/1989, il quale rimanda proprio ai divieti di cui al comma 2 dell'art. 1120 c.c. (che corrisponde sostanzialmente al quarto comma dell'attuale disposizione, come modificata a seguito della legge n. 220/2012 di riforma del condominio). Forse questi aspetti potranno essere migliorati in sede di conversione in legge del dl n. 76/2020 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.08.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento barriere architettoniche.
Per l’abbattimento della barriera architettonica esistente e cioè la scala interna, si operato in due sensi diversi:
  
per un verso, si realizza il citato ascensore, il che appare compatibile, come sopra detto, con la ratio legis;
  
per altro verso, le scale preesistenti vengono spostate all’esterno dell’edificio, con recupero degli spazi interni e contestuale ampliamento degli spazi abitabili.
Questa seconda fase realizzativa appare del tutto ultronea e non collegata con la prima.
Infatti, la mera traslazione di una barriera da un luogo fisico ad un altro non concretizza l’eliminazione voluta dalla legge (anche quando questo concetto venga interpretato nel senso ampliativo che permette che la rimozione degli ostacoli avvenga con un’opera aggiunta a quella esistente), per l’evidente ragione che gli ostacoli permangono, seppur diversamente localizzati, perpetuando la situazione avversata dal legislatore.
Sicché, mentre può sicuramente concordarsi col TAR in relazione all’inquadramento tra le opere di cui alla legge 09.01.1989, n. 13 del citato ascensore, deve invece escludersi che la scala nuova esterna (in luogo di quella interna) possa essere considerata opera di abbattimento di barriere architettoniche.
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Occorre ricordare come il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia un istituto di carattere eccezionale rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale.
In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l'amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti.
L’esistenza di una così particolare articolazione procedimentale evidenzia una incompatibilità funzionale e strutturale con l’ordinario sistema della sanatoria edilizia di cui all'art. 36 del t.u. dell'edilizia approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che richiede la conformità dell'intervento da assentire non solo allo strumento urbanistico vigente all'epoca dell'edificazione sine titulo, ma anche a quello vigente al tempo in cui è domandata la sanatoria.
Infatti, in primo luogo, va valorizzato la necessaria previa deliberazione del consiglio comunale, che contempla anche le specifiche garanzie partecipative per i soggetti interessati. Quindi, la considerazione dei contrapposti interessi dei soggetti che potrebbero subire pregiudizio dal rilascio del titolo e un simile iter procedimentale sono evidentemente incompatibili con una valutazione postuma di tali dati. Per altro verso, il titolo sanante ai sensi dell'art. 36 è rilasciato all’esito di un diverso procedimento collegato alla sussistenza del requisito della doppia conformità delle opere sia al momento della realizzazione dell'intervento senza titolo, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Pertanto, è ben condivisibile l’affermazione del principio secondo il quale il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e mediante la specifica procedura.
Ciò porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria" dopo l'esecuzione delle opere e che, anzi, sia “esclusa, pertanto, nel vigente ordinamento l'esistenza di poteri di sanatoria in deroga”.

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... per la riforma della
sentenza 27.03.2018 n. 809 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, resa tra le parti;
...
 1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di seguito precisati.
2. - La disamina della vicenda deve necessariamente partire dall’esame delle opere realizzate e dalla loro corretta sussunzione all’interno delle categorie giuridiche dell’edilizia.
La questione in esame attiene infatti due diversi manufatti: il primo è un ascensore esterno al perimetro dell’edificio; il secondo è un vano scala, realizzato in sostituzione delle scale originariamente interne e posto parimenti all’esterno della sagoma dell’immobile, contornando il citato ascensore.
Il giudice di prime cure ha considerato i due detti manufatti in maniera unitaria, inquadrandoli entrambi nell’area di applicazione della legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche, sulla base di una doppia considerazione.
In primo luogo, ha ripreso la nozione di barriere architettoniche, contenuta nell'art. 2, lett. A), punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236, rubricato “Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche", che le definisce “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea", ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti".
In secondo luogo, ha affermato che “Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche.”
La detta affermazione, in relazione alla prima delle due opere de qua, appare del tutto condivisibile, proprio per le ragioni espresse (e già scrutinate da questo giudice d’appello, Cons. Stato, VI, 05.03.2014, n. 1032) che rimarcano come l’utilizzo di un ascensore, in sostituzione delle scale, elimini gli ostacoli determinati dalle scale.
Meno condivisibile e, anzi, del tutto perplesso, è l’inquadramento, peraltro non motivato, nella stessa categoria concettuale anche delle scale esterne, ossia delle opere che determinano l’attuale contenzioso (atteso che, come evidenzia l’appello –pag. 9– “è proprio la parte esterna della scala –larga 1,50 metri– a trovarsi illegittimamente ed illecitamente ex DM LL PP 02.04.1968 nella fascia dei 10 metri dalla parete finestrata dell’edificio della società ricorrente”).
A tal proposito, occorre ricordare che la finalità della legge 09.01.1989, n. 13 "Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati" è quella di permettere, come recita l’art. 2, “le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche” e, a questo fine, introduce una serie di agevolazioni ai fini autorizzatori. Pertanto, la norma è teleologicamente diretta ad eliminare le barriere e solo in funzione di tale obiettivo possono avere spazio le dette agevolazioni.
Nel caso in esame, per l’abbattimento della barriera architettonica, ossia la scala interna, si opera in due sensi diversi: per un verso, si realizza il citato ascensore, il che appare compatibile, come sopra detto, con la ratio legis; per altro verso, le scale preesistenti vengono spostate all’esterno dell’edificio, con recupero degli spazi interni e contestuale ampliamento degli spazi abitabili.
Questa seconda fase realizzativa appare del tutto ultronea e non collegata con la prima.
Infatti, la mera traslazione di una barriera da un luogo fisico ad un altro non concretizza l’eliminazione voluta dalla legge (anche quando questo concetto venga interpretato nel senso ampliativo sopra indicato che permette che la rimozione degli ostacoli avvenga con un’opera aggiunta a quella esistente), per l’evidente ragione che gli ostacoli permangono, seppur diversamente localizzati, perpetuando la situazione avversata dal legislatore.
Conclusivamente, mentre può sicuramente concordarsi col TAR in relazione all’inquadramento tra le opere di cui alla legge 09.01.1989, n. 13 del citato ascensore, deve invece escludersi che la scala esterna qui in scrutinio possa essere considerata opera di abbattimento di barriere architettoniche.
Una volta meglio inquadrata la problematica in esame, appaiono facilmente scrutinabili le doglianze proposte.
3. - Con il primo motivo di diritto, viene lamentato come il TAR Lombardia ha omesso di pronunciarsi sul primo motivo, con cui è stata dedotta l’illegittimità dell’atto impugnato perché la deroga edilizia non può essere concessa in sanatoria.
3.1. - La censura è fondata e va accolta.
Occorre ricordare come il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia un istituto di carattere eccezionale rispetto all'ordinario titolo edilizio e rappresenta l'espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale.
In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l'interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l'interesse costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l'amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti (da ultimo, Cons. Stato, IV, 24.10.2019, n. 7228).
L’esistenza di una così particolare articolazione procedimentale evidenzia una incompatibilità funzionale e strutturale con l’ordinario sistema della sanatoria edilizia di cui all'art. 36 del t.u. dell'edilizia approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380, che richiede la conformità dell'intervento da assentire non solo allo strumento urbanistico vigente all'epoca dell'edificazione sine titulo, ma anche a quello vigente al tempo in cui è domandata la sanatoria.
Infatti, in primo luogo, va valorizzato la necessaria previa deliberazione del consiglio comunale, che contempla anche le specifiche garanzie partecipative per i soggetti interessati. Quindi, la considerazione dei contrapposti interessi dei soggetti che potrebbero subire pregiudizio dal rilascio del titolo e un simile iter procedimentale sono evidentemente incompatibili con una valutazione postuma di tali dati. Per altro verso, il titolo sanante ai sensi dell'art. 36 è rilasciato all’esito di un diverso procedimento collegato alla sussistenza del requisito della doppia conformità delle opere sia al momento della realizzazione dell'intervento senza titolo, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Pertanto, è ben condivisibile l’affermazione del principio secondo il quale il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina urbanistica generale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limiti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e mediante la specifica procedura.
Ciò porta ad escludere che possa essere rilasciato "in sanatoria" dopo l'esecuzione delle opere e che, anzi, sia “esclusa, pertanto, nel vigente ordinamento l'esistenza di poteri di sanatoria in deroga” (Cons. Stato, V, 30.08.2004, n. 5622; Cass. pen., III, 31.03.2011, n. 16591).
3.2. - Il motivo va quindi respinto e consente di ritenere assorbito il terzo motivo di appello, dove si lamenta l’erroneità dell’appellata sentenza laddove ritiene che la delibera consiliare impugnata sia sufficientemente motivata con richiamo ad un’autonoma valutazione che avrebbe operato l’organo competente in esecuzione della sentenza intervenuta tra le parti che aveva annullato per incompetenza il precedente atto dirigenziale, così convalidandolo.
Vista la necessità della necessaria partecipazione procedimentale sopra evidenziata, anche il tema della motivazione avrebbe dovuto essere valutato in funzione di tale esigenza ma resta comunque superato dall’incompatibilità giuridica di una delibera di autorizzazione in deroga, comunque argomentata, con il procedimento di sanatoria.
4. - Con il secondo motivo, viene censurata la sentenza appellata nella parte in cui ha riconosciuto che le nuove opere realizzate siano assoggettabili alla generale disciplina per il superamento delle barriere architettoniche, ritenendole –quindi- esonerate dal rispetto delle distanze legali tra costruzioni ai sensi degli artt. 78 e 79 del DPR 380/2001 e dall’art. 19 della LR Lombardia 6/1989.
4.1. - Il motivo è fondato in relazione a quanto già evidenziato in relazione all’inquadramento delle opere de qua.
Si può pertanto fare rinvio in generale a quanto già evidenziato, con una ulteriore addenda in relazione alla valutazione contenuta in sentenza per cui il nuovo corpo edilizio realizzato e formato dall’ascensore e dalle scale esterne costituisca idonea soluzione tecnica migliorativa per consentire agli utenti l’uscita dall’ascensore direttamente sul pianerottolo così superando la precedente criticità rappresentata da ostacoli fisici situati all’uscita dall’ascensore, senza che siano state provate possibili ulteriori alternative.
In primo luogo, deve notarsi come, secondo il principio dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 cod. civ., la prova del fatto favorevole deve gravare sulla parte che se ne giova che, in questo caso, è la parte che voleva conseguire l’autorizzazione in deroga. È pertanto erronea l’affermazione del TAR per cui sarebbe stata la controparte quella incaricata di fornire la dimostrazione dell’esistenza di soluzioni alternative
Per altro verso, va evidenziato come a seguito dell’istruttoria disposta con ordinanza 18.06.2019 n. 4110, è emerso come fossero comunque prospettabili soluzioni alternative a quella realizzata, sebbene con costi e oneri diversi. Il che rende evidente come, anche da questo punto di vista, la soluzione adottata non fosse necessitata né unica. Ovviamente, è da considerare il tema dell’onerosità ma questo non è presupposto considerato dalla normativa e quindi idoneo a mutare l’assetto degli interessi delineato dal legislatore.
Anche il secondo motivo di diritto deve quindi essere accolto.
6. - L’appello va quindi accolto, con le precisazioni sopra indicate in relazione alla diversità delle opere realizzate. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.08.2020 n. 4898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIBarriere architettoniche, il Comune che non le elimina discrimina indirettamente il consigliere disabile.
Il Comune attua una forma di «discriminazione indiretta» contro il consigliere disabile se non rimuove le barriere architettoniche che gli impediscono di accedere "in via autonoma" alla sala consiliare. L'ente locale è tenuto a risarcirgli i danni subiti in relazione a tutto il periodo in cui il suo diritto di accesso è stato impedito a meno dell'aiuto di terzi, per quanto messi a disposizione dall'ente stesso. E, la successiva installazione di un'ascensore per disabili non cancella i disagi subiti che sono appunto il danno ingiusto risarcibile in termini di responsabilità aquiliana.

La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 13.02.2020 n. 3691 conferma -a carico del Comune- il risarcimento del danno, quantificato in via equitativa, in favore del consigliere penalizzato dalla mancata predisposizione di modifiche architettoniche o di sistemi ad hoc per rendere accessibili i luoghi pubblici di sua appartenenti a chi sia portatore di disabilità.
A nulla rilevando che in alternativa al sostegno fisico del personale comunale di servizio il Comune avesse anche deciso di tenere le assemblee consiliari nella palestra elementare proprio per favorire il consigliere in difficoltà. Si tratta, comunque di quella discriminazione indiretta -a norma del comma 3 dell'articolo 2 della legge 67/2006- che non è mirata contro una singola persona concretamente danneggiata dallo stato dei luoghi, ma rileva per la sua potenzialità lesiva dei diritti dei disabili coinvolti dalla situazione di fatto.
Quindi la mancanza di volontà di discriminare una specifica persona non fa venir meno la violazione dei diritti costituzionalmente garantiti ai portatori di handicap fisico.
L'elemento soggettivo che rileva non è l'intenzione volontaria o colpevole di arrecare un danno, ma la negligenza e la mera inerzia del soggetto chiamato ad adempiere al dovere di rimuovere le barriere architettoniche per consentire il corrispondente esercizio del diritto all'accessibilità. Come dice la Cassazione la discriminazione indiretta si realizza anche con «comportamenti neutri». Mentre non è elemento neutro, bensì fonte di responsabilità aquiliana, la mancata predisposizione di mezzi tesi a migliorare l'accesso dei disabili agli edifici già costruiti, in attesa di interventi definitivi maggiormente migliorativi per l'esercizio del relativo diritto.
Infatti, per tale motivo la Cassazione ha confermato il ragionamento dei giudici di appello che avevano respinto la lamentela del Comune sul proprio obbligo di risarcire, in quanto aveva predisposto un mezzo ("trattorino") che seppur non adeguato a garantire l'accesso autonomo del disabile dimostrava l'intenzione di superamento delle barriere architettoniche. Invece, nelle more dell'intervento edilizio risolutivo sussiste la responsabilità anche per la misura provvisoria inadeguata allo scopo. Ovviamente tale qualità di adeguatezza (in questo caso, di un montascale piuttosto che di un trattorino) è valutazione di merito non ridiscutibile in sede di legittimità.
Infine il Comune contestava la liquidazione del danno in via equitativa facendo rilevare il proprio sforzo di contemperare i limiti fisici di un edificio anni '50 con l'esigenza di accedere da parte del consigliere disabile. La Cassazione fa notare che è l'inadeguatezza dell'azione messa in campo a tutela della persona disabile a determinare il vulnus risarcibile. In questo caso si è trattato della predisposizione di un mezzo insicuro e non utilizzabile in via autonoma da parte del fruitore.
Conclude la Cassazione che in sede di legittimità è insindacabile il giudizio del giudice di merito che ravvisa i presupposti del risarcimento in via equitativa, mentre deve essere percepibile e quindi ricorribile in Cassazione l'eventuale carenza motivazionale sul calcolo del quantum (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2020).
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MASSIMA
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove pretende di attribuire natura programmatica alle norme che impongono l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già affermato che
l'esistenza di "ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime", consentendo loro "il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata" ciò, a prescindere, "dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi" (così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23.09.2016, n. 18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un'interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che -come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale- l'accessibilità "è divenuta una «qualitas» essenziale" perfino "degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici" (così, Corte cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso senso, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari,
si è sottolineato come "il superamento delle barriere architettoniche -tra le quali rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti»- è stato previsto (comma 1 dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la vita di relazione» delle persone disabili", evidenziandosi che tali principi "rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica" (così, nuovamente, Corte cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all'edificio municipale "tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili", attraverso la messa disposizione del "trattorino", lamentando, così, la violazione, in particolare, dell'art. 1, comma 3, del d.P.R. n. 503 del 1996.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., e ciò alla stregua del principio secondo cui "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa" -che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che il "trattorino" non sia stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell'edificio municipale in attesa dell'installazione dell'ascensore- "è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13.10.2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass. Sez. 3, ord. 13.03.2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione dell'art. 2 della legge n. 67 del 2006, giacché la censura è basata sull'assunto che esso Comune si sarebbe tempestivamente attivato per l'installazione dell'ascensore, ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede, essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione "con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 04.04.2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch'esso in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto "la valutazione dell'elemento soggettivo dell'azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica", e ciò minimizzando l'installazione del cd. "trattorino".
Al riguardo, deve osservarsi -nel ribadire, peraltro, che il riconoscimento del carattere discriminatorio di "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri" in ogni caso "presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall'art. 3, comma 3, della legge n. 67 del 2006" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.)- che tale censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del "trattorino" a garantire l'accessibilità all'edificio municipale, non consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato -nel senso, questa volta, della non fondatezza- come quello previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui "l'esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità", purché a condizione -soddisfatta nel caso che occupa- che "la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13.10.2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15.03.2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso che "al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo", occorre che il giudice indichi, anche solo "sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al «quantum»" (Cass. Sez. 3, sent. 31.01.2018, n. 2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia "tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata" (Cass. Sez. 3, sent. 10.11.2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell'operare la quantificazione, ha dichiarato di aver "tenuto conto della destinazione d'uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all'epoca dall'istante, nonché del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di inadempienza dell'ente territoriale", così indicando i criteri seguiti nella determinazione del "quantum".

EDILIZIA PRIVATATutela degli immobili di interesse storico e architettonico e applicazione delle norme per l'abbattimento delle barriere architettoniche.
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Edilizia – Barriere architettoniche – Opere volte alla loro eliminazione – Immobili di interesse storico e architettonico - Diniego – Condizione.
Ai sensi dell’art. 4, l. 09.01.1989, n. 13, l’amministrazione può negare l’autorizzazione per realizzare opere edilizie volte all’abbattimento di barriere architettoniche in immobili di interesse storico e architettonico nella sola ipotesi in cui le opere in questione arrechino grave e serio pregiudizio all’intero fabbricato (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la speciale disciplina di favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13 si applica anche a beneficio di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie (Cass. civ., sez. II, 28.03.2017, n. 7938).
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (Corte cost. 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ., sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l. n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto” (Cons. St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art. 32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (Cons. St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824; id. 07.03.2016, n. 705; id. 28.12.2015, n. 5845; id. 12.02.2014, n. 682) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.01.2020 n. 355 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA  
3.3. Venendo ora al merito di causa, a ragione il giudice di primo grado ha accolto i due ricorsi proposti dal condominio.
Va opportunamente premesso in proposito che, come anche affermato ad esempio da Cass. civ., Sez. II, 28.03.2017, n. 7938, la speciale disciplina di favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13, si applica anche a beneficio di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (così Corte Cost., 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., Sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ., Sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l. n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art. 32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (così, puntualmente, la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4824 del 2017; nonché id., 07.03.2016, n. 705, 28.12.2015, n. 5845, e 12.02.2014, n. 682).
Del tutto fondatamente, pertanto, il giudice di primo grado ha evidenziato che nel caso di specie il sopradescritto e alquanto rigoroso onere motivazionale non è stato adempiuto, posto che:
   1) nel parere del 28.01.1999, la Commissione edilizia integrata si è limitata ad affermare, in via del tutto generica, che mediante la realizzazione dei due ballatoi “si configurerebbe un’ulteriore alterazione della facciata laterale dello stabile”;
   2) nel precedente parere del 21.10.1996, la stessa Commissione aveva espresso parere negativo senza peraltro esprimersi in ordine all’asserito pregiudizio per l’estetica della facciata dello stabile, limitandosi unicamente a prospettare la soluzione alternativa dell’installazione di un “opportuno mezzo meccanico posto all’interno”;
   3) in modo ancor più breviloquente la Soprintendenza per i Beni architettonici e artistici di Napoli, nella propria nota del 30.05.1997, ha aderito alla già di per sé carente motivazione espressa dalla Commissione edilizia integrata limitandosi ad affermare che la stessa era comunque congruente rispetto ad una “migliore tutela del sito”.
Puntualmente il giudice di primo grado ha colto l’intrinseco difetto motivazionale di tutti e tre tali atti rispetto all’anzidetto precetto di legge, posto che in nessuno di essi è stato enunciato un qualsivoglia riferimento a quanto esplicitamente e puntualmente chiesto dalla disposizione di legge, ossia –giova ribadire- la compiuta enunciazione della “natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”; né in tutti e tre tali atti sono contenuti rilievi in ordine alla criticità, rilevata dal condominio, della proposta installazione del mezzo meccanico rispetto alla presenza delle volte a botte e a crociera presenti all’interno dello stesso stabile e parimenti assoggettate a tutela.
Risulta ben evidente, quindi, che tali innegabili carenze che si riscontrano nelle pronunce da parte dei soggetti competenti ad esprimersi sotto il profilo della compatibilità del progetto con il vincolo insistente sull’immobile dispiegano i propri effetti vizianti sul provvedimento di diniego dell’accertamento di conformità il quale, a sua volta, non può che refluire altrettanto negativamente sulla susseguente ingiunzione a demolire susseguentemente emanata dallo stesso Comune, parimenti impugnata dal condominio e che risulta pertanto illegittima in via derivata rispetto al presupposto provvedimento di diniego: il tutto, con conseguente assorbimento di ogni altra censura dedotta e salvi e riservati restando gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione comunale adotterà nella riedizione dell’azione amministrativa di propria competenza.
Invero soltanto nel corso di causa, segnatamente nel primo grado di giudizio, la difesa del Comune aveva fatto cenno ad un’interlocuzione intervenuta nelle vie brevi in sede di istruttoria della pratica, nel corso della quale l’amministrazione comunale avrebbe rappresentato al condominio che “il mezzo meccanico suggerito era da installarsi lungo la parete del rampante perché in tal modo non avrebbe interferito con le volte a botte ed a crociera della stessa”.
Tale circostanza, tuttavia, non trova un qualsivoglia riscontro negli atti dei procedimenti da cui è scaturita la presente causa, e può quindi essere -al più- ricondotta ad un’ipotesi di integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato nella susseguente sede di contraddittorio giudiziale: fattispecie, questa che -come è ben noto- risulta comunque ex se illegittima (cfr. sul punto, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. III, 18.06.2019, n. 4119).

anno 2019

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
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Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale.
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Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse). Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella” nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento delle barriere architettoniche e distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968, atteso che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’articolo 873 c.c.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.07.2019 n. 1659 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Fr.Ru. impugna:
   a) il provvedimento a firma del Dirigente S.U.E. del comune di Milano in data 15.12.2017 PG n. 578406/2017, con il quale si sospendono le opere in corso presso la proprietà dello stesso, ubicata in Milano, via ... n. 3;
   b) l’articolo 86, comma 4, del Regolamento Edilizio del comune di Milano;
   c) la determina dirigenziale 13.12.2017 citata nel provvedimento impugnato.
2. In punto di fatto, il ricorrente deduce:
   a) di essere invalido del lavoro con percentuale del 35%, di avere 73 anni e di risiedere con la moglie settantenne al quarto piano della palazzina posta in via ...;
   b) di presentare la S.C.I.A. del 16.11.2017 relativa a lavori di realizzazione di un ascensore esterno che serva l’intero stabile e garantisca una più agevole accessibilità al proprio appartamento;
   c) di voler realizzare l’impianto di sollevamento nel rispetto delle prescrizioni tecniche di cui al D.M. 236 del 14.06.1989, garantendo l’eliminazione delle barriere architettoniche per l’accesso all’abitazione;
   d) di intendere realizzare un servoscala per garantire l’accesso all’abitazione stante l’impossibilità per ragioni tecniche di far fermare l’ascensore ai piani.
2.1. L’Amministrazione ordina la sospensione dei lavori e preannuncia l’emanazione della revoca del titolo abilitativo evidenziando il contrasto della S.C.I.A. con la previsione di cui all’articolo 86.4 del Regolamento Edilizio e la non accessibilità dell’ascensore ai livelli di piano.
...

13. Passando al ricorso per motivi aggiunti, il Collegio osserva come lo stesso sia fondato.
13.1. Il punto di partenza per un’interpretazione della normativa vigente che tenga conto dei valori involti è costituito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 04.07.2008, che chiarisce come: “
in relazione al contenuto dei diritti costituzionalmente riconosciuti ai disabili, si deve ritenere […] che la legislazione in loro favore (specie LL. 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104), oltre ad innalzare il livello di tutela personale, ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi degli handicappati, assunti come nodi dell'intera collettività, per esempio a proposito della costruzione di nuovi edifici e della ristrutturazione di quelli preesistenti, intese ad eliminare comunque le barriere architettoniche, indipendentemente dal più o meno probabile utilizzo da parte dell'invalido”.
13.2. Secondo la costante giurisprudenza “
l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384 […] (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004)” (Cassazione civile, sez. VI, 09.03.2017, n. 6129).
Del resto,
secondo la normativa nazionale, si intendono per barriere architettoniche (ai sensi dell'articolo 2, lettera A), punti a) e b), D.M. 14.06.1989 n. 236) “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”.
Tra tali ostacoli devono, quindi, annoverarsi “le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2014, n. 102).
13.3. Inoltre,
ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968.
Ed è, invero, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’articolo 873 c.c. (cfr. TAR per il Lazio, sede di Latina, 22.09.2014, n. 726).
13.4. Nel caso di specie, la funzione di abbattimento delle barriere è comunque assolta dall’ascensore che la parte ricorrente intende realizzare atteso che lo stesso preserva lo stesso dal disagio, connesso all’età e alla pur parziale invalidità, di dover percorrere quattro piani di scale.
Come evidente dalle indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, la disciplina della l. 13 del 1989 rappresenta un modello di riferimento per conformare tutti gli spazi secondo caratteristiche che ne consentano l’utilizzo anche da parte di soggetti disabili senza necessità che l’intervento edilizio de quo sia subordinato all’effettiva e comprovata fruizione da parte di un portatore di handicap.
Inoltre, la circostanza che, allo stato, l’ascensore realizzi l’accessibilità al solo quarto piano non pare poter precludere la realizzazione dell’opera tenuto conto della funzione comunque assolta dalla stessa e della possibilità di realizzare in futuro meccanismi per l’integrale accessibilità a tutti i piani dell’edificio.
13.5. In definitiva, il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto.

anno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Sulla realizzazione, in facciata comune dell’edificio, di un ascensore esterno con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio appartamento.
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
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Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati è necessario il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie della metà dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione della normativa volta al superamento delle barriere architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio, oltre a non essere stato rilasciato da una struttura sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in occasione della presentazione della d.i.a..
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività amministrativa in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
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Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016.
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa alla eliminazione delle barriere architettoniche avrebbe richiesto agli Uffici comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.

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... per l'annullamento, quanto al ricorso per motivi aggiunti:
   - della nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale” non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de quo agitur”;
...
I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento sito al piano terra del predetto immobile, mentre le controinteressate -OMISSIS- sono comproprietarie del primo piano e del sottotetto, situati sempre nel medesimo fabbricato; queste ultime hanno realizzato sulla facciata comune dell’edificio, prospetto nord, un ascensore esterno con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio appartamento, da cui sarebbe derivato il totale accecamento di una finestra al servizio dell’atrio comune e la sensibile diminuzione dell’aerazione e dell’illuminazione della scala comune.
Tale intervento edilizio, avviato con una d.i.a. del 2004 e seguito da due istanze di sanatoria nel 2012 e nel 2016, a giudizio dei ricorrenti sarebbe privo dei presupposti di legge, in quanto realizzato in assenza di idoneo titolo edilizio oltre che del consenso dei predetti ricorrenti, quali comproprietari delle parti comuni del fabbricato cui afferisce l’ascensore esterno.
Con una diffida datata 22.02.2016, il legale dei ricorrenti ha invitato il Comune ad intervenire per annullare il titolo edilizio, rigettare la richiesta di sanatoria e disporre la riduzione in pristino di quanto realizzato illegittimamente.
Con atto datato 04.10.2016, il Comune di Lecco ha riscontrato tale diffida, evidenziando come “dall’esame della originaria pratica edilizia –Denuncia di inizio attività in data 12/07/2004, prot. n. 29757– non risulta che l’intervento effettuato abbia previsto <<il totale accecamento di una finestra a servizio dell’atrio comune>> essendo invece rappresentata la realizzazione del nuovo vano ascensore sul fronte nord–ovest previo ampliamento delle finestre esistenti su tale facciata”; è stato altresì affermato che “la denuncia -titolo edilizio da ritenersi idoneo per la realizzazione dell’intervento essendo inquadrabile nella fattispecie dell’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. 380/2001– risultava corredata dalla dichiarazione di proprietà resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 445/2000”; infine, è stata fatta riserva di “valutare i presupposti per procedere all’annullamento in autotutela della SCIA in data 24/02/2016, prot. n. 14670, in conseguenza dell’esito delle verifiche sopra citate e relativamente alla sussistenza o meno del titolo giuridico di disponibilità ex art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 da valutarsi anche con riferimento alla necessità o meno di consenso di tutti i proprietari per la realizzazione di interventi volti alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di soggetti portatori di minorazioni fisiche”.
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2. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data 23.05.2017 e depositato il 19 giugno successivo, i ricorrenti hanno altresì impugnato la nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale” non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de quo agitur”.
A sostegno del ricorso sono stati dedotti, in primo luogo, vizi di invalidità derivata rispetto alla nota dirigenziale del 04.10.2016, già impugnata con il ricorso introduttivo.
Successivamente –sulla natura di “volume tecnico” e/o “privo di autonomia funzionale” dell’ascensore esterno realizzato dalle controinteressate e sulla possibilità di soluzioni alternative e meno impattanti/invasive (ad es. montascale interno)– sono stati dedotti la violazione e/o falsa applicazione dei principi normativi ed urbanistico-edilizi generali in tema di “volume tecnico”, in particolare degli artt. 3, 6, comma 1, lett. b, e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 in tema di edilizia libera, della vigente disciplina in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e in particolare degli artt. 2, 3, 7 e 8 della legge n. 13 del 1989, dell’art. 24 della legge n. 104 del 1992, degli artt. 11, commi 1-3, e 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e degli artt. 1102, 1120 e 1121 cod. civ.
Inoltre –con riguardo al titolo edilizio necessario per l’intervento de quo e sulla non configurabilità nella fattispecie di un intervento di “manutenzione straordinaria”– sono stati dedotti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, comma 1, lett. b e d, 10, comma 1, lett. c, e 22, comma 3, lett. a, del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31, comma 1, lett. c, della legge n. 457 del 1978, la violazione dell’art. 11, comma 1, e/o dell’art. 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto dei presupposti, per travisamento del fatto, per difetto di istruttoria e per difetto assoluto di motivazione.
Con riferimento all’impossibilità di assentire l’intervento in mancanza del consenso di tutti i comproprietari del bene immobile interessato (facciata ed atrio condominiale), alla grave limitazione dell’uso delle parti comuni, alla sussistenza dei presupposti fattuali e legali per procedere all’annullamento in autotutela ex art. 19 della legge n. 241 del 1990 e ss.mm.ii. e/o ex art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 della s.c.i.a. datata 24.02.2016, prot. n. 14670, in conseguenza dell’esito delle verifiche effettuate, alla insussistenza del titolo giuridico di disponibilità ex artt. 11-27 del D.P.R. n. 380 del 2001, alla necessità di consenso di tutti i proprietari per la realizzazione degli interventi edilizi de quibus, anche laddove asseritamente volti alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di soggetti portatori di minorazioni fisiche, sono stati eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dell’art. 11, commi 1 e 3, e dell’art 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102 cod. civ., la violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011, in tema di s.c.i.a., dell’art. 19, commi 4 e 6-ter, e degli artt. 21 e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, della legge n. 13 del 1989 e del D.M. n. 236 del 1989, l’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, il difetto e/o perplessità della motivazione, il travisamento dei fatti e degli atti del procedimento, il difetto e/o erroneo apprezzamento dei presupposti legittimanti, illogicità e contraddittorietà manifesta.
Quanto alla s.c.i.a. in sanatoria del 24.02.2016, prot. 14670, e alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria del 12.11.2012, prot. n. 50781, e alla natura “essenziale” delle variazioni poste in essere dalle controinteressate e all’impossibilità di assentire la sanatoria in assenza del consenso di tutti i proprietari del bene oggetto di intervento, sono stati eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e dell’art. 37, commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 54, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, l’eccesso di potere per travisamento del fatto, per difetto di istruttoria, per difetto dei presupposti, per difetto di motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed estrinseca.
Anche con riguardo al ricorso per motivi aggiunti è stato chiesto il risarcimento del danno.
...
3. Passando all’esame del merito del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito specificato.
4. Vanno scrutinate preventivamente la seconda e la terza censura del ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, attraverso le quali si contesta la qualificazione dell’intervento di costruzione dell’ascensore esterno quale attività di manutenzione straordinaria, essendo invece richiesto per la realizzazione di tale attività edilizia il previo rilascio di un permesso di costruire, che presupporrebbe il consenso dell’intero condominio, nella fattispecie mai acquisito, oltre alla dimostrazione della sussistenza di una condizione di disabilità, mai comprovata da parte delle controinteressate.
4.1. Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito specificati.
Va premesso che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile
”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012 (cfr. di recente in giurisprudenza, Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati è necessario il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie della metà dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione della normativa volta al superamento delle barriere architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio (all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da una struttura sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in occasione della presentazione della d.i.a. in data 12.07.2004 (cfr. all. 3 delle controinteressate).
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività amministrativa in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV, 06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017, n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016 (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479).
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa alla eliminazione delle barriere architettoniche (cfr. Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129) avrebbe richiesto agli Uffici comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.
4.2. Pertanto, la scrutinate doglianze vanno accolte, con la conseguente declaratoria di illegittimità del provvedimento comunale del 23.03.2017, non avendo il Comune provveduto correttamente in ordine alla richiesta dei ricorrenti di disporre la demolizione dell’ascensore esterno realizzato senza titolo dalle controinteressate.
4.3. Alla fondatezza delle predette censure, previo assorbimento delle restanti doglianze, segue l’accoglimento del ricorso per motivi aggiunti e il conseguente annullamento del provvedimento comunale del 23.03.2017.
5. Le domande risarcitorie formulate sia con riguardo al ricorso introduttivo che al ricorso per motivi aggiunti sono da respingere, in ragione della mancata dimostrazione dei loro elementi costitutivi.
6. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, con il conseguente annullamento della nota comunale del 23.03.2017; le domande di risarcimento del danno devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.09.2018 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento delle barriere architettoniche e normativa sulle distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della l.r. n. 6/1989, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, atteso che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento delle barriere architettoniche, una specifica e automatica deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di valutazioni discrezionali dell’Amministrazione; né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale, come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti tecnologici”, e come la scala realizzata all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini preesistenti
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale è stata approvata la deroga alle distanze previste dalla disciplina urbanistica comunale in relazione ad una variante di progetto presentata dalle controinteressate per la realizzazione di un ascensore e di un vano scala all’esterno della sagoma dell’immobile di loro proprietà in applicazione della legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche.
In seguito a tale approvazione, il progetto si trova a un confine di 9 metri invece che di 10 rispetto alla costruzione della ricorrente.
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Nel merito, il ricorso è infondato, riportandosi, essenzialmente, il collegio alla costante giurisprudenza del giudice amministrativo per la quale: “Si intendono per barriere architettoniche -ai sensi dell'art. 2, lett. A), punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236 ("Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche")- "gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea", ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti". Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche” (Cons. Stato, sez. VI , 05.03.2014, n. 1032).
Alla luce della giurisprudenza succitata, gli interventi realizzati rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina sul superamento delle barriere architettoniche, non trattandosi, quindi, come affermato da parte ricorrente, di opere idonee a migliorare i servizi e il valore immobiliare dell’edificio.
Ed invero, nella fattispecie in questione l’intervento è stato realizzato per adeguare l’immobile, costituito da più di tre livelli fuori terra, alla normativa sull’eliminazione delle barriere architettoniche. E’ stato, dunque, realizzato un ascensore, sono state demolite le vecchie scale condominiali interne, troppo strette per montare il servoscale, e costruite delle scale esterne.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della legge regionale n. 6/89, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
E’ stato, invero, affermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr. TAR Lazio, Latina, 22.09.2014, n. 726).
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento delle barriere architettoniche, una specifica e automatica deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
Né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale, come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti tecnologici” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2012, n. 6253), e come la scala, nel caso di specie, realizzata all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini preesistenti.
La ricorrente assume, inoltre, che sarebbero state possibili alternative all’intervento realizzato, ma senza fornire alcuna prova del proprio assunto, né sono fondate le considerazioni relative alla assunta creazione di una ingiusta servitù a carico della ricorrente, atteso che l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 non esclude il principio di reciprocità nell’applicazione della normativa in deroga al regime sulle distanze.
In relazione, poi, all’asserita carenza di motivazione e di istruttoria della delibera consiliare impugnata, dall’esame della stessa risulta una, seppur sintetica, motivazione che dà atto dell’autonoma valutazione effettuata dal Consiglio comunale, espressosi in esecuzione della sentenza n. 72/2009 di questo Tribunale, che aveva accolto il ricorso per incompetenza disponendo la “rimessione dell’affare all’organo consiliare competente”.
Ed invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, nel caso di provvedimenti affetti solo da vizi di carattere formale, come quello di incompetenza, non è necessaria una particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863).
E tale orientamento risulta tanto più applicabile nel caso di determinazione vincolata, come nella fattispecie all’esame del Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.03.2018 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati.
La normativa di favore di cui alla l. 13/1989 si applica anche quando si tratti di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
La legge in questione infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali
(massima tratta da https://renatodisa.com).
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sez. II-bis, 05.03.2013 n. 2346, resa fra le parti, che ha accolto il ricorso n. 484/2013, proposto per l’annullamento:
   a) della nota 17.10.2012 prot. n. 16292 del Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici per il Comune di Roma, di diniego dell’autorizzazione di cui all’art. 21, comma 4, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 per la realizzazione di un ascensore a servizio dell’interno 6, piani secondo e terzo subalterno 27, nel palazzo situato a Roma, -OMISSIS- angolo via -OMISSIS-;
   b) della nota 30.08.2012 prot. n. 13952 della stessa Soprintendenza, di preavviso di diniego;
...
FATTO
La ricorrente appellata è proprietaria di un appartamento situato a Roma, in -OMISSIS-, all’angolo con via -OMISSIS-, nello storico palazzo Salomoni Alberteschi, sottoposto a vincolo di particolare interesse culturale come da decreto 24.05.1955 (doc. 4 in I grado ricorrente appellata, copia del decreto di vincolo) e con propria istanza del giorno 31.07.2012, ha chiesto alla competente Soprintendenza di essere autorizzata a realizzarvi un ascensore, situato nel cortile interno del palazzo stesso, “in relazione alla legge 13/1989” sul superamento delle barriere architettoniche, data la propria età avanzata (doc. 5 in I grado ricorrente appellata, copia istanza).
Con il provvedimento 17.10.2012 meglio indicato in epigrafe (doc. 1 in I grado ricorrente appellata, copia di esso), motivato con riferimento al preavviso di diniego, la Soprintendenza ha respinto il progetto, ritenendo che “le opere progettate non siano compatibili con i criteri della tutela monumentale dell’edificio in quanto l’inserimento della progettata torre di elevazione nel cortile… anche se temporaneo, verrebbe ad alterare gravemente le valenze storiche, artistiche, architettoniche e tipologiche di un cortile che, contrariamente a quanto ritenuto nella relazione tecnica storica allegata, presenta caratteri stilistici e di pregio dell’ambiente edilizio romano” (doc. 2 in I grado, copia prediniego).
Contro tale diniego, la ricorrente appellata ha proposto ricorso in primo grado, e ne ha sostenuto l’illegittimità, chiedendo che esso fosse annullato e che “il Giudice amministrativo, ove ritenuto opportuno” volesse “ammettere CTU per accertare se la realizzazione dell’ascensore … possa comportare un serio pregiudizio per l’immobile sottoposto a tutela” (ricorso di primo grado, p. 13 in fine).
Con la sentenza meglio indicata in premesse, il TAR ha accolto il ricorso; in motivazione ha in particolare sostenuto che il diniego sarebbe stato immotivato per contrasto con un precedente diniego pressoché identico, anche se riferito ad un progetto di maggiore impatto, nonché per contrasto con una nota 18.06.1976 prot. n. 8960 (doc. 19 ricorrente in I grado, copia di essa) della Soprintendenza, che avrebbe escluso uno specifico interesse architettonico del cortile e per l’inerzia della Soprintendenza di fronte a sette unità di condizionamento aria ivi già collocate, e di ben maggiore impatto visivo. Ciò posto, il TAR ha condannato la Soprintendenza a rilasciare “senza ulteriore indugio” il provvedimento di autorizzazione.
Contro tale sentenza, il Ministero per i beni e le attività culturali - MIBAC ha proposto impugnazione, con appello contenente due motivi, il secondo subordinato alla reiezione del primo:
   - con il primo motivo, deduce difetto di motivazione della sentenza impugnata sotto ciascuno dei tre profili da essa valorizzati per annullare il diniego. Sotto il profilo delle vicende del precedente diniego, deduce che esse si sarebbero svolte diversamente. Infatti, il defunto marito della ricorrente appellata ebbe ad ottenere due sentenze del TAR Lazio, la prima del 21.01.2009 n. 478, che aveva annullato per difetto di motivazione il diniego opposto ad un primo progetto; la seconda del 23.11.2009 n. 11154, che aveva imposto di provvedere a fronte di un silenzio rifiuto.
Peraltro, il ricorso contro il nuovo diniego successivamente emesso era stato respinto con sentenza dello stesso TAR 04.02.2011 n. 1045. Sotto il profilo della nota 8960/1976, deduce che l’amministrazione ben avrebbe potuto mutare opinione, e sotto il profilo dell’esistenza di impianti di condizionamento altrettanto lesivi del bene, ma tollerati, deduce in sintesi che l’eventuale tolleranza non darebbe diritto a commettere un ulteriore abuso;
   - con il secondo motivo, deduce eccesso di potere giurisdizionale, quanto alla parte della decisione che ha imposto l’emanazione del provvedimento, potere al giudice non spettante.
Ha resistito la ricorrente con memoria 23.07.2013, in cui:
   - in via preliminare, deduce la inammissibilità del ricorso in quanto proposto dal Ministero e non dal suo organo periferico autore del provvedimento;
   - nel merito, chiede che il ricorso sia respinto, difendendo la motivazione della sentenza di primo grado. In particolare, quanto al secondo motivo di appello, sostiene di avere in sostanza chiesto con il proprio ricorso anche la condanna all’emanazione del provvedimento;
   - in via incidentale, ripropone il secondo motivo di primo grado, dichiarato assorbito, e deduce illegittimità per violazione dell’art. 4 della l. 09.01.1989 n. 13, che consente di denegare l’autorizzazione in esame solo in caso di “serio pregiudizio” del bene tutelato, che nella specie non sussisterebbe.
Con ordinanza 31.07.2013 n. 2371, la Sezione ha accolto la domanda cautelare, ritenendo di dover dar prevalenza all’interesse a non alterare lo stato dei luoghi fino alla decisione di merito.
Con memorie 14.07.2017 per l’amministrazione e 26.07.2017 per la ricorrente appellata, nonché con replica 04.09.2017 per quest’ultima, le parti hanno ribadito le rispettive difese, sottolineando l’amministrazione l’unitarietà del MIBAC come parte processuale.
All’udienza del giorno 28.09.2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. Sono fondati tanto l’appello principale, quanto l’appello incidentale, e ciò comporta l’accoglimento del ricorso originario nei termini che seguono.
2. E’ anzitutto infondata l’eccezione di inammissibilità proposta in via preliminare dall’appellante incidentale: come è notorio, e come risulta già dal provvedimento che lo ha istituito, d.lgs. 20.10.1998 n. 368, l’attuale Ministero per i beni e le attività culturali è configurato come un plesso amministrativo unitario, nel quale le Soprintendenze sono organi periferici, per i quali non è prevista alcuna legittimazione esclusiva a proporre azioni in giudizio, legittimazione che spetta in generale al Ministero per tutte le materie di sua competenza.
3. Nel merito, i due motivi di appello principale vanno esaminati congiuntamente, in quanto connessi fra loro, e risultano entrambi fondati.
Infatti, i tre profili valorizzati dal Giudice di primo grado per fondare la decisione risultano non pertinenti.
4. Sotto il primo di essi, considerato nella prima parte del primo motivo, non è contestato in fatto che il precedente progetto per un’installazione analoga, sul quale la Soprintendenza ebbe ad esprimersi nei termini ricordati in premesse, non portò al rilascio di alcuna autorizzazione. A parte ogni altro rilievo sulla possibile diversità fra tale progetto e quello attuale per cui è causa, è quindi certo che l’amministrazione in proposito non si era in alcun modo vincolata in positivo.
5. Sotto il secondo profilo, considerato nella seconda parte del secondo motivo, basta ricordare il costante insegnamento giurisprudenziale per cui
il legittimo operato dell’amministrazione non è inficiato dall’eventuale illegittimità della sua precedente condotta con riguardo a situazioni analoghe. L’eccesso di potere per disparità di trattamento si può infatti configurare solo sul presupposto, di cui l’interessato deve dare la prova rigorosa, dell’identità assoluta della situazione considerata: così fra le molte C.d.S. sez. VI 11.06.2012 n. 3401.
6. Sotto il terzo profilo, oggetto del secondo motivo di appello,
è senz’altro vero che la possibilità di condannare l’amministrazione al rilascio di un provvedimento è prevista in modo espresso dall’art. 34, comma 1, lettera c), c.p.a. La stessa norma però prevede che ciò avvenga soltanto “nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3”, ovvero “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”, fermo il limite di carattere generale dell’art. 34, comma 2, per cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
Nel caso di specie, la pronuncia adottata dal Giudice di primo grado, che è consistita in un annullamento, essenzialmente, per difetto di motivazione, supera i limiti indicati, se non altro perché è stata adottata senza un’esplicita considerazione del progetto presentato, dalla quale non si potrebbe secondo logica prescindere per dire se residuano o no margini per l’esercizio della discrezionalità in materia.
7. L’accoglimento dell’appello principale comporta che si debba esaminare l’appello incidentale, che è a sua volta fondato.
L’appellante incidentale, infatti, invoca a proprio favore l’applicabilità della l. 13/1989, recante “Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, e in particolare dell’art. 4 di essa, che come si vedrà stabilisce un regime di favore per le opere come quella per cui è causa.
8. La normativa descritta è effettivamente applicabile al caso di specie.
Sotto il profilo oggettivo, l’opera per cui è causa è un ascensore, che rientra fra i “meccanismi per l'accesso ai piani superiori” considerati in modo espresso dall’art. 1, comma 3, lettera a), della legge fra gli interventi volti ad eliminare le barriere in questione.
Sotto il profilo soggettivo, come chiarito di recente da Cass. civ. sez. II 28.03.2017 n. 7938, la normativa di favore di cui alla l. 13/1989 si applica anche quando si tratti di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
La legge in questione infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall'intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali -così C. cost. 10.05.1999 n. 167 e Cass. civ. sez. II 25.10.2012 n. 18334- e non di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale, come affermato da Cass. civ. sez. II 26.02.2016 n. 3858.
Di conseguenza, delle norme stesse si impone un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto, e quindi risulta applicabile il regime di favore previsto dalla legge in esame.
9.
Secondo l’art. 4 della stessa, in particolare, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi al comma 5 che “Il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si tratta di un onere di motivazione particolarmente intenso, poiché l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico solo in casi eccezionali: così C.d.S. sez. VI 12.02.2014 n. 682, 28.12.2015 n. 5845 e 07.03.2016 n. 705, quest’ultima relativa ad un caso del tutto simile al presente, in cui si è ritenuto illegittimo il diniego di autorizzazione ad installare un ascensore in un palazzo sito nella stesa zona di quello per cui è causa, osservando che mancava un serio pregiudizio, trattandosi di impianto non visibile dalla pubblica strada.
10. Applicando i principi appena ricostruiti al caso di specie, il diniego va annullato, dato che la sua motivazione non tiene conto della circostanza, non contestata in causa, per cui la ricorrente appellante incidentale era ultrasettantenne già all’epoca della domanda, e quindi poteva con ogni verosimiglianza beneficiare della disciplina di favore di cui all’art. 4, commi 4 e 5, della l. 13/1989.
L’annullamento, lo si ricorda per chiarezza, riguarda il provvedimento indicato in dispositivo, e non la nota 30.08.2012 prot. n. 13952 di preavviso del diniego, che è pacificamente atto endoprocedimentale non autonomamente lesivo.
L’amministrazione, nel riesaminare la pratica, dovrà allora tenere conto delle circostanze suindicate, ovvero della situazione personale dell’istante e della conseguente applicabilità delle norme della l. 13/1989 di cui si è detto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.10.2017 n. 4824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il condomino portatore di handicap ha diritto all'installazione dell'ascensore.
Se il condominio si rifiuta di eliminare le barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture per rendere più agevole l'accesso al proprio appartamento.
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l’ordinanza 09.03.2017 n. 6129, si è occupata di un interessante caso in materia condominiale.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Trieste, in accoglimento della domanda proposta da alcuni condomini, “aveva accertato il diritto degli stessi, ai sensi della L. 09.01.1989, n. 13, art. 2, ad installare un ascensore occupando una parte del sedime del giardino comune, a ridosso della facciata, ove è ubicato il portone d'ingresso del Condominio”.
In particolare, la domanda era stata proposta dai condomini a seguito del “rigetto espresso due volte dall'assemblea condominiale alla proposta di installazione dell'ascensore e deduceva la difficoltà di deambulazione di due condomine”.
La Corte d'Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato le domande dei condomini, osservando che l’ascensore era un manufatto diverso dal servoscala o da altre “strutture mobili e facilmente amovibili”, di cui alla legge 13/1989 e che l’ascensore stesso non avrebbe comunque consentito alle condomine di “raggiungere senza problemi i rispettivi appartamenti, dovendo fermarsi sul pianerottolo dell'interpiano con dieci gradini da percorrere a piedi”.
La Corte d’appello, dunque, riteneva che l'installazione dell'ascensore violasse l’art. 1102 cod. civ. e, in particolare, la “destinazione a giardino dell'area comune”, evidenziando che l’installazione stessa richiedeva il consenso dell’assemblea condominiale, espresso con il quorum di cui all’art. 1136 cod. civ. (numero di voti corrispondente alla maggioranza degli intervenuti e ad almeno la metà del valore dell’edificio).
Ritenendo la decisione ingiusta, i condomini in questione proponevano ricorso per Cassazione, al fine di ottenere l’annullamento della sentenza di secondo grado.
La Corte di Cassazione, in effetti, riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la decisione della Corte d’appello si poneva in contrasto con il consolidato orientamento della stessa Corte di Cassazione, “secondo cui l'installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui alla L. 03.03.1971, n. 118, art. 27, comma 1, e al D.P.R. 27.04.1978, n. 384, art. 1, comma 1, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta dall'art. 1136 c.c., comma 2”.
Evidenziava la Cassazione, in particolare, che la stessa L. n. 13 del 1989 “stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all'eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages”.
Osservava la Corte, infatti, che “l'installazione di un ascensore, allo scopo dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un'area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012)”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dai condomini ricorrenti, annullando la sentenza di secondo grado e rimettendo la causa alla Corte d’appello, affinché la medesima decidesse nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra enunciati (commento tratto da www.brocardi.it).
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ORDINANZA
La decisione dei giudici di appello si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l'installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all'art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all'art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell'art. 2, legge 02.01.1989, n. 13, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004). 
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all'eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all'esito delle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220).
L'installazione di un ascensore, allo scopo dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un'area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l'art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334 del 25/10/2012).
Ai fini della legittimità dell'intervento innovativo approvato ai sensi dell'art. 2 della legge n. 13 del 1989, è sufficiente, peraltro, che lo stesso (pur non potendo, come nella specie accertato dalla Corte di Trieste, in ragione delle particolari caratteristiche dell'edificio, raggiungere l'ascensore direttamente gli appartamenti dei portatori di handicap, dovendosi fermarsi sul pianerottolo) produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 18147 del 26/07/2013).

anno 2015

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATADisabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma. Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare, nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice, anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il principio contenuto nella motivazione della sentenza 03.07.2015 n. 1541 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il permesso per installare nel vano scale una piattaforma elevatrice necessaria per il superamento delle barriere architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale è stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma richiede la precisa indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme, anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure, con il quale si allega l’illegittimità del diniego di permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva, sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge regionale n. 12 del 2005.

2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei ricorrenti,
l’interruzione dei termini procedimentali a seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga alla presente, concernente l’allegata formazione per silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla disciplina dell’articolo 13 della legge regionale dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso, infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel rispetto del termine di quindici giorni previsto per l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di permesso di costruire e –come detto– di provvedimento intervenuto nei termini e non successivamente alla prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che l’intervento progettato non sarebbe conforme alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si evidenzia che “l’intervento così come proposto non è comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e, quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma 1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni caso essere garantita la possibilità del trasporto di soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani, degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine, sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m. 0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti– delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135 del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181 del Regolamento edilizio dispone che “Il presente regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123 del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che permanente, con ridotte o impedite capacità motorie, sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione, devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da parte di tutte le persone, in special modo per i portatori di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti di adattabilità, visitabilità, accessibilità
.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce un generale favor –in conformità ai principi costituzionali e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e alternative per la realizzazione degli interventi volti a realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli edifici da parte dei portatori di handicap (v. in particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe –secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo 3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che
la prevista inapplicabilità alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo di adeguamento alle nuove regole degli edifici già realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò, però, fermo restando che le previsioni del Regolamento debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al rilascio di concessione o autorizzazione da parte del Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso, per interventi anche parziali di ristrutturazione, ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978, n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo restando che per esigenze tecniche documentabili saranno ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di igiene della presente normativa purché le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata” (quinto comma).
In altri termini, l
a disposizione del Regolamento locale di igiene non può essere interpretata come volta a consentire, in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche per gli interventi da eseguire su costruzioni già autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità tecnica di superamento di dislivelli mediante la realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il predetto articolo 127 non esclude, di per sé, l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte, e considerato che nessuna previsione concernente la larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni, lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la possibilità di assentire l’intervento senza necessità di derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative alla realizzazione dell’intervento risultano essere suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio, la derogabilità delle relative previsioni discende dal disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli, eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20 della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme sull'eliminazione delle barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti, si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di “impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”– rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6 del 1989, che prevede espressamente la possibilità di concedere deroghe in favore di interventi specificamente finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche e localizzative; sennonché anche tale disposizione si riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del quadro normativo sopra ricostruito:
-
la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che “le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari (nelle fattispecie di cui al terzo comma dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento “permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata (articolo 3.0.0, quinto comma);
-
la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio comunale (articolo 182), il quale dovrà peraltro tenere conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da parte delle persone portatrici di handicap (finalità richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base del diniego di permesso di costruire consistono, in buona sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere stata effettivamente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti, depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la necessità di prescegliere la soluzione progettuale consistente nella realizzazione di una piattaforma elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale (v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione consistente nella realizzazione di un montascale quale alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state, quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente praticabili e idonee a consentire il rispetto della disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene effettivamente presa in considerazione la praticabilità tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di un montascale, e tale soluzione viene indicata quale alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento” informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico. L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare se sussistono le condizioni per assentire l’intervento richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili (legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di costruire era corredata dalla delibera condominiale di assenso all’intervento, solo successivamente sospesa nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa essere realizzabile anche in violazione della normativa tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé, un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia all’installazione della modesta opera consistente nella pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale e tale da non soddisfare completamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione di un montascale possa costituire un’alternativa praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame le considerazioni tecniche poste alla base di tale valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in merito alla effettiva praticabilità della prospettata soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e valutativi in relazione agli elementi contenuti nella relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato nel provvedimento impugnato, ossia che
la possibilità di concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che
l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto –ossia il presupposto per la concessione della deroga alle previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti nel caso di specie.
In altri termini,
il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da ritenere come reali alternative, ossia come possibilità effettivamente e concretamente praticabili.
E invero,
laddove si ritenesse che l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni costituisca una ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le finalità stesse della deroga, oltre che i principi costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni
è necessario che la valutazione tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali, sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di diniego del permesso di costruire.
8.
Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il relativo onere, per consolidato orientamento giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto,
l’annullamento del permesso di costruire lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti, per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento dell’impugnazione non può costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV, 04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: requisiti delle opere per l’eliminazione delle barriere architettoniche che possono essere realizzate in deroga ai limiti di densità edilizia, altezza, distanza tra fabbricati e dai confini, ecc. (art. 13, comma 3, L.R. 15/2013) (Regione Emilia Romagna, parere 11.02.2015 n. 86803 di prot.).

anno 2014

CONDOMINIO: Ascensore installabile autonomamente.
Domanda
Sono l'amministratore di un condominio, un condomino del quale intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in materia.
Risposta
La pretesa del condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la sentenza della Corte di appello) che è legittima l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese di un solo condomino, senza previa autorizzazione dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto non richiede l'autorizzazione del condominio) se non pregiudica la stabilità o il decoro architettonico dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012), la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio, l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c., della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 05.05.2014, "Modalità e criteri per l’attuazione di interventi di rimozione barriere architettoniche negli edifici residenziali privati, in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 34-ter della legge 20.02.1989 e della deliberazione di Giunta regionale del 13.03.2014 n. X/1506" (decreto D.U.O. 28.04.2014 n. 3511).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 17.03.2014, "Sostegno ai cittadini per l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici abitativi privati – Attivazione di una misura sperimentale ai sensi del comma 3-bis della legge regionale 20.02.1989 n. 6 “Norme sulle barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di attuazione”" (deliberazione G.R. 13.03.2014 n. 1506).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si intendono per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
   - “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
   - “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.

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Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria) dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.), per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del 18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n. 13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del 22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n. 13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07, notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in base alle seguenti argomentazioni difensive:
   I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989 –tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236 del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori –coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n. 490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n. 13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario l’esplicito assenso della Soprintendenza;
   II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione, “sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
   III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa.
Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge 09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989.
Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale.
Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata.
Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge 01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data 08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del 06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego.
In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2013

EDILIZIA PRIVATASenza barriere gli studi dei difensori d'ufficio. Tar Parma. I locali sono «aperti al pubblico».
Studi legali senza barriere architettoniche, se i clienti sono ammessi al patrocinio a carico dello Stato.

Questo è il principio posto dalla sentenza 06.11.2013 n. 303 del TAR Emilia Romagna-Parma, al termine di una controversia tra il locale Ordine degli avvocati e il Comune.
Il piano urbanistico di Parma, dal 2007, impone negli edifici "aperti al pubblico" il rispetto delle norme per il superamento delle barriere architettoniche.
Ciò ha messo in allarme le categorie professionali. In particolare, gli avvocati eccepivano difficoltà e costi per adeguamenti strutturali di locali che, a loro parere, dovevano considerarsi di uso privato. Secondo il Comune, invece, la legge 104/1992 impone di eliminare difficoltà di accesso anche negli edifici privati, se aperti al pubblico.
La norma del 1992 prevede tre livelli di qualità: accessibilità (ingresso), visitabilità (dislivelli, spigoli, rampe accesso) e adattabilità (fruibilità senza modifiche alla struttura): agli studi legali il Comune richiedeva appunto la visitabilità e cioè la possibilità, per le persone impedite, di accedere agli spazi di relazione senza dislivelli o spigoli e con servizi adeguati. Lo stesso tipo di controversia ha riguardato studi medici e ambulatori (Tar Brescia 227/2011, Palermo, 9199/2010) ritenendo aperti al pubblico i servizi di medicina generale, ma ora per la prima volta riguarda gli avvocati.
Secondo i giudici amministrativi, gli studi legali privati, devono essere "visitabili", tutte le volte che l'accesso, seppur escluso alla generalità delle persone, sia comunque consentito a determinate categorie, anche se ricevute con rispetto di orari e con obbligo di preventivo appuntamento. L'obbligo di rendere "visitabili" gli studi non riguarda, quindi, tutti gli uffici legali di Parma, ma solo i casi in cui l'avvocato ha uno studio "aperto al pubblico", cioè i casi in cui il professionista non è in grado di selezionare clienti, in quanto ha comunque l'obbligo di prestare loro il patrocinio.
Lo studio è quindi per principio "privato", ma diventa "aperto al pubblico", quando l'avvocato chieda di essere iscritto nell'elenco dei difensori d'ufficio e di coloro che prestano il patrocinio a carico dello Stato: tali servizi hanno infatti un pubblico indistinto, di cittadini non abbienti le cui ragioni risultino non manifestamente infondate a parere della specifica Commissione prevista dal Decreto del presidente della Repubblica 115/2002.
Il meccanismo di selezione dei clienti, nel caso di cittadini non abbienti, avviene infatti a monte, dapprima con una verifica delle possibilità di esito favorevole del ricorso alla giustizia, e poi con un elenco di professionisti che accettano le difese, con successivo onorario a carico dello Stato.
Ciò significa che quando l'avvocato accetta (mediante volontaria iscrizione negli elenchi specifici) le difese di ufficio ed i patrocini gratuiti, presta la propria utilità in favore di un'ampia ed indiscriminata categoria di aventi diritto. Quindi, a fronte del vantaggio di un compenso corrisposto dallo Stato, il professionista ha l'onere di adeguare il proprio studio alla normativa statale finalizzata ad eliminare le barriere architettoniche.
Le ricadute della sentenza possono essere rilevanti, perché l'accesso al pubblico può avere conseguenze sull'indennità per finita locazione (articoli 34 e 35 e legge 392/1978), mentre l'eliminazione delle barriere architettoniche può generare contrasti condominiali anche in presenza delle più agevoli maggioranze che l'articolo 1120 del codice civile (maggioranza intervenuti e metà valore immobile) ha di recente modificato (legge 220/2012).
Altre categorie professionali sono avvisate: dai notai ai tecnici, in corrispondenza all'ampliarsi delle funzioni pubbliche delegate, sarà necessario adeguare studi ed uffici (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma 4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della disciplina concernente l’eliminazione delle barriere architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia consentito ad una determinata categoria di aventi diritto sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della visitabilità, come normativamente tratteggiato.

L’art. 82 del Testo unico dell’edilizia (D.P.R. 380/2001), che ripropone il testo dell’art. 24 della L. 05.02.1992, n. 104, sotto la rubrica “Eliminazione o superamento delle barriere architettoniche negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico”, stabilisce che tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità, sono eseguite in conformità alle norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche e al decreto del Ministro dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236.
Tale decreto ministeriale, nel dettare prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche, all’art. 3, per quanto in questa sede di interesse, precisa: “In relazione alle finalità delle presenti norme si considerano tre livelli di qualità dello spazio costruito. L'accessibilità esprime il più alto livello in quanto ne consente la totale fruizione nell'immediato. La visitabilità rappresenta un livello di accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla persona con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale. La adattabilità rappresenta un livello ridotto di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria previsione progettuale, di trasformazione in livello di accessibilità; l'adattabilità è, pertanto, un'accessibilità differita”.
Il punto nodale della questione sottoposta all’esame del Collegio è, dunque, se lo studio professionale di un avvocato iscritto all’elenco dei difensori di ufficio o che difende soggetti ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato possa considerarsi luogo aperto al pubblico.
Ciò in quanto tale qualificazione degli studi professionali comporterebbe l'applicazione della disciplina dettata dal richiamato art. 3 del DM 236/1989 e, segnatamente, del comma 4, laddove alla lett. e) la norma precisa i requisiti che le unità immobiliari sedi di attività aperte al pubblico devono possedere affinché possa dirsi soddisfatto il prescritto requisito della “visitabilità”.
Il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione della disciplina concernente l’eliminazione delle barriere architettoniche, la nozione di luogo aperto al pubblico debba essere adoperata in senso elastico, ossia in modo tale da ricomprendere anche un ambiente privato l'accesso al quale, pur escluso alla generalità delle persone, sia consentito ad una determinata categoria di aventi diritto sebbene regolato da orari di apertura e chiusura o da eventuale appuntamento.
Ciò posto è indubbio che, in linea generale, lo studio professionale dell’avvocato debba qualificarsi come luogo aperto al pubblico e debba soddisfare il requisito della visitabilità, come normativamente tratteggiato.
Nel caso di specie, peraltro, l’impugnata norma comunale, non riguarda tutti gli studi professionali ma soltanto quelli di alcune categorie di professionisti.
Invero, all’esito di osservazioni proposte dai Presidenti dell’Ordine degli Architetti, dell’Ordine degli Ingegneri e dell’Ordine dei Geometri della Provincia di Parma (cfr. Estratto del processo verbale n. 2 del C.C. 22.01.2007, pag. 3), la norma ha limitato la censurata prescrizione soltanto agli studi professionali “quando il professionista si legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione istituzionale in forza della quale riceva un pubblico indistinto”, indicando fra questi, a titolo esemplificativo, anche gli “avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e al gratuito patrocinio”.
In proposito va ricordato che il D.P.R. 30.05.2002, n. 115, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, all’art. 74 dispone che è assicurato il patrocinio a spese dello Stato sia nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria, sia nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.
Inoltre, in base all’art. 97, comma 5, c.p.p., segnatamente il difensore di ufficio ha l'obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo.
La stessa norma, a tal fine, al comma 2 prevede che siano i consigli dell'ordine forense di ciascun distretto di corte d'appello, al fine di garantire l'effettività della difesa d'ufficio, deputati a predisporre gli elenchi dei difensori che, a richiesta dell'autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria, sono indicati ai fini della nomina, fissando i criteri per la nomina dei difensori sulla base delle competenze specifiche, della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità.
Osserva il Collegio che, in entrambi i suddetti casi il difensore, se si eccettua la caratteristica dell’obbligatorietà che connota la sola difesa d’ufficio, è chiamato a prestare la propria attività professionale in favore di una ampia e indiscriminata platea di aventi diritto.
L’avvocato, dunque, esercita in detti casi un munus pubblicum di particolare interesse per la collettività, al quale accede poiché iscritto in appositi elenchi, l’inserimento nel quale avviene a domanda dell’interessato e non certo d’ufficio, né in via autoritativa.
L’appartenenza alle suddette categorie professionali, in definitiva, è il frutto di una libera scelta del professionista; scelta che, da una parte comporta il vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello Stato, dall’altra impone al professionista l’onere di adeguare il proprio studio professionale alla normativa statale finalizzata all’eliminazione delle barriere architettoniche.
Così riguardata la funzione in discorso, l’impugnata norma regolamentare comunale non appare né illogica né irragionevole, né appare il frutto di un distorto esercizio del potere.
D'altra parte richiedere la visitabilità quale livello di fruizione degli edifici, anche con riguardo agli studi professionali e, segnatamente, delle con riguardo agli studi delle suindicate circoscritte categorie di avvocati, risulta in linea con la ratio della normativa in tema di abolizione delle barriere architettoniche, di talché l’impugnata disciplina regolamentare si profila immune anche dal proposto vizio di violazione di legge.
Non vi è dubbio che la ratio della legge sia quella di garantire anche al soggetto disabile la possibilità di usufruire, nella massima autonomia possibile, delle prestazioni rese dal professionista presso il proprio studio, senza che ciò incontri limiti o impedimenti derivanti dall'esistenza di barriere architettoniche (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 06.11.2013 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso per abbattere le barriere architettoniche non occorre.
A stabilirlo è la III Sez. penale della Corte di Cassazione con sentenza 18.09.2013 n. 38360.
La Suprema corte ha, poi, sottolineato che per quanto concerne la definizione di «barriere architettoniche» per i soggetti disabili, deve ricordarsi che: «le opere funzionali all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla maggior comodità dei residenti» (si veda anche Tar Campania, Salerno, sez. 2, 19.04.2013, n. 952; Tar Abruzzo, Pescara, sez. 1, 24/02/2012, n. 87; Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. 1, 08.11.2011, n. 526).
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del dpr n. 380 del 2001, tali opere rientrano nell'attività edilizia libera qualora «consistano in interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio». Qualora vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non ricomprese nell'art. 10 trova applicazione l'art. 22 dello stesso dpr, a norma del quale sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6.
I giudici osservano, poi, che a tale disposizione si sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come modificato dal dl n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale consente che, per le opere soggette a Dia ordinaria, si proceda, in via semplificata, con Scia (Segnalazione certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del dl n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, il quale prevede che: «Le disposizioni di cui all'articolo 19 della legge 07/08/1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal dpr 06/06/2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzata una rampa per l’accesso per diversamente abili e subisce un processo penale. Per la Cassazione abbattere le barriere architettoniche non servono permessi.
Le opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visibilità degli edifici privati non necessitano di permesso.
3.2.2. - Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso con il quale si lamenta, in sostanza, che la Corte d'appello non avrebbe preso in considerazione il fatto che le opere realizzate erano, almeno in parte, dirette all'eliminazione di barriere architettoniche e, dunque, non potevano essere fatte rientrare nel novero di quelle per le quali è necessario il permesso di costruire.
3.2.2.1. - Quanto alla definizione di "barriere architettoniche" per i soggetti disabili, deve preliminarmente ricordarsi che le opere funzionali all'eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non quelle dirette alla migliore fruibilità dell'edificio e alla maggior comodità dei residenti (TAR Campania, Salerno, sez. 2, 19.04.2013, n. 952; TAR Abruzzo, Pescara, sez. 1, 24.02.2012, n. 87; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. 1, 08.11.2011, n. 526).
Tali opere rientrano nell'attività edilizia libera, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, qualora “consistano in interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio”. Qualora vi sia, invece, la realizzazione di rampe o ascensori esterni o manufatti che comunque comportino un'alterazione della sagoma dell'edificio, trattandosi di opere non ricomprese nell'art. 10 -il quale sottopone a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso- trova applicazione l'art. 22 dello stesso d.P.R., a norma del quale sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6.
A tale disposizione si sovrappone oggi l'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come modificato dal d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, il quale consente che, per le opere soggette a d.i.a ordinaria, si proceda, in via semplificata, con s.c.i.a. (segnalazione certificata di inizio attività). Tale è l'interpretazione autentica data dall'art. 5, comma 2, lettera c), del d.l. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, il quale prevede che: “Le disposizioni di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire”.
A ciò deve aggiungersi che la mancata presentazione di d.i.a. è sanzionata in via amministrativa dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, come la mancata presentazione di s.c.i.a. Per quest'ultima, infatti, l'art. 19, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990 prevede che: “Fatta salva l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.380, e dalle leggi regionali”.
3.2.2.2. - Ne consegue, in relazione al caso di specie, che il giudice di merito avrebbe dovuto valutare la consistenza delle opere realizzate dall'imputato alla luce della normativa richiamata, evidenziando se e in che misura le stesse necessitassero del permesso di costruire o potessero essere realizzate previa semplice denuncia di inizio attività. Il rinvio al giudice del merito è, però -come sopra visto- incompatibile con l'immediata applicabilità della prescrizione alla quale deve essere data prevalenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38360 - link a www.avvocatopenalista.org).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di assenso da parte della proprietaria dell’area scoperta confinante non è necessario nel caso in esame d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un fabbricato.
... per l'annullamento del provvedimento comunale 29.4.2013 n. 40669 avente ad oggetto: "Denuncia di inizio attività prot. n. 6357 del 27.1.2010. Diffida a non effettuare l'intervento" per la realizzazione di un ascensore esterno.
...
Ritenuto che:
- l’atto di diffida impugnato è stato emesso una volta spirato il termine perentorio stabilito dall’art. 23, comma 6, D.P.R. n. 380/2001 per l’esercizio del potere inibitorio; né risultano evidenziati nella motivazione del provvedimento di diffida impugnato i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela o di quello repressivo sanzionatorio, esercitabile, quest’ultimo, nel caso residuale, non ricorrente nella fattispecie, di non conformità dell’opera al progetto presentato;
- peraltro, l’atto di assenso da parte della proprietaria dell’area scoperta confinante, tardivamente richiesto dall’amministrazione, non è necessario nel caso in esame d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un fabbricato;
- pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto con l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.09.2013 n. 1106 - link a www.giustizia-amministrativa).

CONDOMINIOAscensori, conta il risultato. Delibera valida se attenua le condizioni di disagio. Secondo la Cassazione si possono anche non osservare tutte le prescrizioni di legge.
Ascensori condominiali: assoluta mancanza di sintonia tra il legislatore e la giurisprudenza. Se, infatti, i giudici di merito e di legittimità sono impegnati ormai da tempo in un'operazione di interpretazione estensiva della normativa speciale di favore per i soggetti diversamente abili finalizzata all'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche, la recente legge n. 220/2012 di riforma del condominio, pur nel quadro di un generale abbassamento delle maggioranze assembleari, ha inaspettatamente innalzato il quorum necessario all'adozione delle relative deliberazioni.

La Corte di cassazione, proseguendo invece nel proprio filone giurisprudenziale, con la recente ordinanza 26.07.2013 n. 18147 ha quindi confermato che, nel caso di installazione di un ascensore in condominio, l'eventuale mancato rispetto delle distanze minime e delle vedute, così come delle particolari prescrizioni tecniche dettate dalla legge speciale per la realizzazione dell'opera, non comportano di per sé l'invalidità della relativa deliberazione, dovendosi sempre procedere al bilanciamento dei contrapposti interessi sulla base dei criteri generali di cui all'art. 1102 c.c.
La decisione della Suprema corte. Nella specie alcuni condomini avevano impugnato la deliberazione con cui l'assemblea condominiale aveva deliberato l'installazione di un impianto di ascensore nell'edificio che ne era privo, giovandosi della speciale maggioranza di cui alla legge n. 13/1989 (disposizione ora confluita nell'art. 1120, comma 2, c.c.). Si era così deciso di posizionare l'impianto nel cortile interno, occupandone una minima parte.
I condomini contrari alla deliberazione si dolevano però del fatto che la nuova struttura non rispettasse le distanze minime previste dai regolamenti locali e che il c.d. cono d'ombra in tal modo generato nuocesse alla vivibilità complessiva dei propri appartamenti. Gli stessi avevano altresì eccepito come l'opera da realizzare non corrispondesse del tutto agli accorgimenti tecnici da osservare ai fini dell'abbattimento delle barriere architettoniche (a causa della riferita presenza di un gradino di accesso al fabbricato, dell'apertura manuale della porta, di dislivelli e relativi gradini tra le uscite dall'ascensore e i vari pianerottoli, nonché per l'assenza di dispositivi tecnici di segnalazione).
La sesta sezione civile della Cassazione, nel confermare la sentenza impugnata in relazione alla valutazione operata dai giudici di merito circa il contemperamento degli opposti interessi dei condomini sulla base dei principi di cui all'art. 1102 c.c., ha anche chiarito che l'impossibilità di poter osservare tutte le prescrizioni previste dalla normativa speciale per l'abbattimento delle barriere architettoniche, tenuto conto delle oggettive condizioni dell'edificio, non può costituire circostanza tale da comportare la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei soggetti diversamente abili.
Per la validità della delibera a maggioranza ridotta è infatti sufficiente che l'intervento approvato abbia comunque conseguito un risultato conforme alle finalità della legge, comportando cioè una sensibile attenuazione delle condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione, rispetto alla precedente situazione di fatto.
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Riforma, marcia indietro sui disabili.
Dalla riforma del condominio una grave marcia indietro sulla tutela dei disabili. La presenza nell'immobile condominiale di una persona anziana (ultrasessantacinquenne) invalida, indipendentemente dal fatto che la stessa sia un condomino o un suo familiare, oppure semplicemente un conduttore o un suo familiare, conferisce alla stessa il diritto di chiedere all'assemblea l'approvazione a maggioranza semplice di una delibera per l'installazione dell'ascensore, considerato quale innovazione diretta al superamento delle c.d. barriere architettoniche.
L'approvazione della deliberazione assembleare in casi del genere, prima della riforma del condominio, poteva avvenire, in prima convocazione, con la maggioranza degli intervenuti rappresentanti i 501 millesimi dell'edificio, mentre in seconda convocazione era sufficiente una maggioranza di almeno un terzo dei partecipanti al condominio e un terzo del valore millesimale dell'edificio (erano cioè sufficienti 334 millesimi). Il legislatore della riforma del condominio di cui alla legge n. 220/2012, probabilmente per un difetto di coordinamento tra le varie disposizioni, ha tuttavia di fatto aumentato il quorum necessario per assumere le predette delibere assembleari, richiedendo, sia in prima che in seconda convocazione, il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà del valore millesimale dell'edificio.
Non si riesce davvero a comprendere le ragioni di questa modifica, in quanto peggiorativa proprio per quel che riguarda posizioni per le quali sarebbe stato, semmai, opportuno allargare la tutela giuridica e non certo restringerla (il grado di civilizzazione di qualsiasi società si evidenzia anche dal modo in cui essa affronta e risolve i problemi dei disabili).
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Per l'installazione il percorso è a ostacoli.
Percorso a ostacoli per l'installazione dell'ascensore in condominio. Secondo le più recenti decisioni dei giudici l'iniziativa del singolo condomino o la deliberazione dell'assemblea non possono essere vietate se, pur comportando un semplice disagio nell'utilizzo di una parte comune (cortile, pianerottolo ecc.), soddisfino le esigenze dei condomini disabili (soprattutto se abitanti a un piano alto), praticamente impossibilitati, in considerazione del loro stato fisico, a raggiungere la propria abitazione a piedi. Si deve però considerare che non può essere consentita quell'opera che renda talune parti comuni dell'edificio del tutto inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.
Quando non è possibile installare l'ascensore. Non è possibile installare l'ascensore nelle parti comuni se la modifica che si intende realizzare altera la destinazione della cosa comune e impedisce agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto. In altre parole non è possibile l'installazione se questa comporta non un semplice disagio, ma l'inservibilità di una parte comune. Tale situazione certamente ricorre, ad esempio, nel caso in cui si determini una rilevante limitazione dello spazio di manovra e di superficie di parcheggio nell'area del cortile condominiale o una limitazione alle vedute dei condomini o all'illuminazione degli appartamenti o trasformazioni di uso di una camera di un appartamento (che, ad esempio, non può più essere utilizzata come camera da letto).
Del resto non è valida la decisione assembleare che preveda l'installazione di un ascensore, previa notevole riduzione della rampa comune, rendendola così pericolosa sotto il profilo della sicurezza antincendi: in questo caso, infatti, l'opera deliberata diventerebbe illecita e la relativa delibera sarebbe essa stessa invalida e, se impugnata avanti il tribunale, incorrerebbe nella sanzione dell'annullamento, anche su ricorso di un solo condomino.
Dunque il taglio delle scale per ricavare il vano ascensore è in teoria ammesso, ma solo entro certi limiti: la residua larghezza delle scale condominiali non può essere eccessivamente esigua, altrimenti le stesse diverrebbero disagevoli per le persone o addirittura inservibili per il trasporto di mobili od oggetti ingombranti. Così, ad esempio, i giudici della Cassazione in una recente decisione hanno ritenuto illecita la delibera dell'assemblea che per far spazio al nuovo ascensore prevedeva una riduzione della larghezza della scalinata comune a soli 90 centimetri.
La lesione del decoro dell'edificio. Non è possibile installare l'ascensore neppure nel caso in cui l'opera comporti una lesione del decoro dell'edificio. Così non sembra possibile installare la gabbia di un moderno ascensore in un cortile interno di un edificio ottocentesco: in tal caso, infatti, è inevitabile una modifica sensibile della linea estetica originaria del fabbricato, e, quindi, il relativo decoro architettonico ne risulta pregiudicato.
Il discorso è ancora più evidente se i finestroni prospettanti nel cortile vengono coperti o trasformati in bocche di ingresso della colonna dell'ascensore o si prevede la distruzione di antiche mensole e cornici in pietra bianca. Del resto si deve considerare che l'alterazione del decoro architettonico può derivare anche dalla modifica dell'originario aspetto di singoli elementi o di singole parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili di considerazione autonoma (articolo ItaliaOggi Sette del 23.09.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Va rilasciato il permesso in sanatoria in caso di interventi funzionali all'adeguamento della struttura ed all'abbattimento delle barriere architettoniche.
Il ricorso è fondato per i motivi e nei termini di cui appresso.
Il provvedimento impugnato motiva il diniego di accertamento di conformità delle opere eseguite dalla società ricorrente sul presupposto che dette opere abbiano comportato aumenti di volumetria o di superficie utile, così configurandosi come interventi di ristrutturazione edilizia non consentiti nella zona 2 di Tutela del P.U.T. approvato con legge regionale 35/1987.
Tale presupposto, tuttavia, appare erroneo con riguardo alle opere eseguite per l’adeguamento della struttura alle prescrizioni di cui al dm 236/1989, volte a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, in attuazione della legge n. 13 del 1989.
Tra i principali interventi per le quali il Comune rileva la creazione di nuova volumetria vi sono:
1) l’ampliamento e modifica del corpo scala (v. punto 1.a), 2.f), 3.h))
2) la modifica delle aree di sbarco dell’ascensore (v. punto 1.c, 2.e).
La giurisprudenza, a tale riguardo, ha evidenziato che l'art. 7 legge n. 13 del 1989 qualifica quale interventi di manutenzione straordinaria quelli finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche anche laddove consistenti in manufatti (comportanti pertanto una volumetria seppure qualificabile come "volume tecnico") che alterano la sagoma dell'edificio.
Da ciò ha tratto l’inevitabile conseguenza che, a maggiore ragione, devono ritenersi ricompresi fra gli interventi assentibili, ai sensi della richiamata norma di favore, gli interventi determinanti al più un aumento di superficie -e non di volume- volti comunque all'adeguamento funzionale del manufatto, ovvero a rendere lo stesso munito di accesso carrabile (TAR Napoli Sez. VII, n. 3618 - 26.07.2012).
La ricorrente, peraltro, aveva avuto modo di contestare la correttezza dei rilievi fatti dal Comune con proprie osservazioni alle quali i sottoscrittori del provvedimento hanno replicato insistendo sulla ascrivibilità delle opere al regime di ristrutturazione edilizia non consentita nella zona, omettendo altresì di motivare in ordine all’asserita preesistenza delle superfici recuperate a seguito dello spostamento della scala.
Vanno, pertanto, accolte le censure di violazione di legge, erroneità dei presupposti e difetto di istruttoria con riguardo al diniego di accertamento di conformità degli interventi funzionali all’adeguamento della struttura ed all’abbattimento delle barriere architettoniche (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2013 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: A. Celeste, Alzata irragionevolmente l’asticella per … il superamento delle barriere architettoniche (tratto da www.ipsoa.it - Immobili & proprietà n. 7/2013).

CONDOMINIOCondominio. Le nuove regole richiedono maggioranze più alte per la rimozione. La riforma peggiora i quorum sulle barriere architettoniche.
IL VOTO PER LE INNOVAZIONI/ Prima bastavano un terzo di condomini e 334 millesimi, ora serve la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno 500 millesimi
INTERVENTO INDIVIDUALE/ Se l'assemblea non vota l'intervento entro un mese dalla richiesta, il condomino potrà installare il servoscala o altra struttura a sue spese.

L'esigenza più sentita in condominio dai diversamente abili, dagli anziani e da tutti coloro colpiti da un handicap o, più semplicemente, da difficoltà motorie è quella di potersi muovere senza difficoltà in condominio, di poter scendere le scale, prendere l'ascensore, di poter godere della propria autonomia e non sentirsi "blindati" a casa propria.
Invece, purtroppo, si assiste spesso a casi di persone disabili che da anni non possono uscire di casa perché impossibilitati ad entrare in ascensori con porte troppo piccole, o addirittura non possono neppure scendere le scale perché abitano al sesto piano e non c'è un servoscala.
Queste sono le barriere architettoniche e nel 2013 la riforma adottata dal legislatore ha complicato le cose invece di migliorarle.
Per la determinazione del concetto di «barriera architettonica» il legislatore fa riferimento all'articolo 27, comma 1, della legge 118/1971, nella quale si definisce barriera architettonica qualsiasi impedimento fisico a ostacolo alla vita di relazione dei minorati. La barriera architettonica, quindi, può essere una scala, un gradino, una rampa troppo ripida.
Già da tempo la normativa, in particolare la legge n. 13 del 09.01.1989 (disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati) e la legge n. 104 del 05.02.1992 (legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) non si è limitata a innalzare il livello di tutela in favore di questi soggetti ma ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i loro problemi, considerati ora non più questioni solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività.
Così l'accessibilità, definita dall'articolo 2 del decreto ministeriale n. 236 del 14.06.1989 come la «possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari, di entrarvi agevolmente e di fruire di spazi e di attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia» è divenuta una qualità essenziale degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione (vedi anche il capo III del Dpr n. 380 del 06.06.2001, ovvero il testo unico delle disposizione legislative e regolamentari in materia edilizia), quale conseguenza dell'affermarsi nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere preventivamente ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persona affette da handicap fisici.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza n. 167 del 10.05.1999, in tema di servitù di passaggio coattivo, riconfermando i principi già espressi nella normativa e sottolineando come qualsiasi impedimento e/o ostacolo all'accessibilità dell'immobile abitativo e, quale riflesso necessario, alla socializzazione dei soggetti portatori di handicap, comporti una lesione del fondamentale diritto alla salute intesa nel significato proprio dell'articolo 32, comprensivo anche della salute psichica, la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica.
La depressione quale conseguenza dell'isolamento, per esempio, è una delle tipiche patologie psichiche conseguenti a situazioni del genere, ed è tutt'altro che infrequente, perché chiusi in casa ci si "spegne" letteralmente.
Oggi, per gli edifici già esistenti (la grande maggioranza) il legislatore, con la legge di riforma n. 220/2012 (entrata in vigore quattro giorni fa), invece di diminuire il quorum necessario per deliberare le modifiche da apportare alle parti comuni dirette al superamento o all'eliminazione delle barriere architettoniche, lo ha aumentato.
In particolare se l'articolo 2 della legge 13/1989 prevedeva che per queste modifiche o innovazioni fosse sufficiente in seconda convocazione il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio, portatori di almeno un terzo dei millesimi, ora, con la riforma, sia in prima che in seconda convocazione è necessario il voto favorevole espresso dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà del valore millesimale dell'edificio (articolo 1120 del Codice civile).
Se l'assemblea risponde negativamente o non risponde entro un mese dalla richiesta (con la legge 13/1989 erano previsti tre mesi), il condomino potrà sempre a propria cura e spese installare il servoscala e tutte quelle strutture mobili che possono consentirgli una vita, nel vero senso della parola (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2013).

CONDOMINIOLA RIFORMA DEL CONDOMINIO/ Condominio, le maggioranze ora non sono più agevolate. La legge 220/2012 ostacola l'utilizzo delle corsie preferenziali per raggiungere il quorum.
Un vero e proprio giallo sulle maggioranze agevolate. Con la legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio negli edifici, che entrerà in vigore la prossima settimana, diventerà per esempio più difficile installare un ascensore in un edificio condominiale giovandosi di quello che fino a oggi era il canale preferenziale dell'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche.
La nuova legge, che pure ha generalmente abbassato i quorum necessari per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, anche se nel lodevole intento di far confluire nel codice civile gran parte delle disposizioni speciali che prevedevano maggioranze agevolate per le innovazioni di carattere sociale, ha però comportato, per un probabile errore di coordinamento testuale, un deciso innalzamento di alcune delle predette maggioranze. Tanto da far fortemente dubitare che in questi casi, salvo un auspicabile nuovo intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate.
L'efficacia delle deliberazioni assembleari e i criteri per l'individuazione della maggioranza. Il criterio individuato dalla legge per la formazione della volontà del condominio è il c.d. principio maggioritario. In base a esso la volontà della maggioranza vale per tutti i comproprietari, vincolando anche la minoranza dissenziente.
Tuttavia sono numerosi i contrappesi inseriti dal legislatore per equilibrare la posizione della minoranza dei condomini. Innanzitutto a questi ultimi è garantita la possibilità di invertire le sorti della votazione tramite la forza persuasiva delle proprie argomentazioni esposte durante la discussione assembleare. La minoranza, inoltre, ha sempre la possibilità di impugnare le deliberazioni che ritenga illegittime e dunque pregiudizievoli dei propri interessi, come garantito dall'art. 1337 c.c. (si veda l'altro articolo di questa settimana).
Ma una ulteriore e importante contromisura è certamente rappresentata dal sistema di votazione assembleare. Da un primo punto di vista, infatti, il legislatore ha inteso contemperare le maggioranze numeriche frutto del voto espresso da ciascun condomino (c.d. voto per testa) con quelle derivanti dai millesimi di proprietà attribuiti a ciascuno di essi. Il codice civile ha poi individuato in modo preciso le maggioranze necessarie per l'adozione delle varie deliberazioni di competenza dell'assemblea (c.d. quorum), distinguendo quelle necessarie alla costituzione della riunione condominiale (c.d. quorum costitutivo) da quelle richieste per la validità della decisione (c.d. quorum deliberativo). L'indicazione delle maggioranze che, volta per volta, il legislatore ha ritenuto opportune per l'adozione di una determinata deliberazione rappresenta il frutto di una scelta discrezionale compiuta proprio nell'interesse del condominio e dei singoli condomini. In altre parole, esse costituiscono il contemperamento degli opposti interessi della collettività condominiale.
Le maggioranze semplici. Il nuovo art. 1136, comma 1, c.c., prevede ora dei quorum più bassi e richiede, per l'assemblea in prima convocazione, un quorum costitutivo di condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'edificio e la maggioranza (non più dei due terzi) dei partecipanti al condominio, e un quorum deliberativo della maggioranza degli intervenuti e di almeno la metà del valore dell'edificio.
Tuttavia è raro che le assemblee si svolgano in prima convocazione, in quanto le maggioranze prescritte dalla legge per le riunioni in seconda convocazione sono molto più basse e, di conseguenza, facilitano il raggiungimento del numero di voti necessario all'adozione delle singole deliberazioni. Il nuovo art. 1136, n. 3, c.c., ha quindi introdotto per la prima volta un quorum costitutivo anche per l'assemblea in seconda convocazione, pari a un terzo dei partecipanti al condominio e a un terzo del valore dell'edificio, mentre il quorum deliberativo è stato diminuito alla maggioranza degli intervenuti che rappresenti un terzo del valore dell'edificio.
Per quanto riguarda le materie per le quali è sufficiente il raggiungimento della maggioranza semplice, in prima o in seconda convocazione, che, facendo applicazione di un criterio di residualità, sono tutte quelle che non rientrino nelle competenze dell'assemblea e per le quali la legge non preveda una maggioranza qualificata o agevolata, si segnalano, a titolo esemplificativo, la manutenzione ordinaria, l'approvazione del bilancio preventivo, la ripartizione del bilancio preventivo tra i condomini, l'approvazione del bilancio consuntivo, l'impiego degli eventuali residui attivi della gestione ecc.
Le maggioranze qualificate. In una serie di casi, invece, il legislatore ha preferito derogare alle maggioranze semplici di cui sopra e ha previsto delle maggioranze qualificate, che richiedono un numero di voti maggiore per l'adozione delle deliberazioni assembleari. Si tratta di numerose disposizioni codicistiche, molte delle quali introdotte proprio dalla legge n. 220/2012, che prevedono dei quorum deliberativi particolari nelle ipotesi di nomina e revoca dell'amministratore, liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore, ricostruzione dell'edificio, riparazioni straordinarie di notevole entità, approvazione e modifica del regolamento condominiale, scioglimento del condominio, innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, modificazioni e tutela delle destinazioni d'uso, videosorveglianza delle parti comuni, nomina del revisore dei conti del condominio ecc.
Le maggioranze agevolate. La legislazione speciale successiva all'entrata in vigore del codice civile aveva man mano previsto tutta una serie di ipotesi nelle quali, allo scopo di agevolare l'adozione di delibere assembleari per la realizzazione di particolari interventi di interesse sociale, erano state previste delle maggioranze agevolate rispetto a quelle ordinariamente necessarie in caso di innovazioni.
Si pensi alle opere finalizzate all'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche (legge n. 13/1989), alla realizzazione dei parcheggi per gli autoveicoli (legge n. 122/89), al riscaldamento (legge n. 10/1991, dlgs n. 311/2006, legge n. 99/2009), alle antenne e agli impianti satellitari (legge n. 249/97, legge n. 66/2001), alle infrastrutture di ricarica elettrica dei veicoli (legge n. 134/2012).
Il nuovo art. 1120 c.c. introdotto dalla legge di riforma del condominio ha però comportato un deciso innalzamento di alcune delle maggioranze previste in precedenza, tanto da far fortemente dubitare che nei casi dell'abbattimento delle barriere architettoniche e dell'installazione delle antenne e degli impianti satellitari, salvo un auspicabile intervento legislativo, possa continuarsi a parlare di maggioranze agevolate. In tema di riscaldamento, invece, il già difficile e articolato quadro normativo sembra essere stato ulteriormente complicato, non essendo del tutto chiaro, dalla lettura combinata degli articoli 5 e 28 della legge n. 220/2012, quali siano le fattispecie realmente prese di mira dal legislatore.
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Delibera invalida con citazione. La riforma detta le regole per l'impugnazione. Atto da indirizzare al giudice competente.
Delibere condominiali da impugnare con atto di citazione. Che di per sé non comporta la sospensione dell'esecuzione della volontà assembleare, salvo che quest'ultima sia richiesta al giudice con apposita istanza, anche precedente all'impugnazione. La nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio, che entrerà in vigore la prossima settimana, ha riscritto le regole per l'impugnazione delle deliberazioni assembleari, con importanti chiarimenti sui principali snodi del relativo procedimento.
Le delibere annullabili, in base all'art. 1137 c.c., possono essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano partecipato all'assemblea, nel termine di decadenza di 30 giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo verbale.
L'invalidità delle deliberazioni assembleari. Quello dell'invalidità delle deliberazioni assembleari costituisce da sempre un tema particolarmente delicato nell'ambito del diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra ipotesi di nullità e annullabilità, in mancanza di precise indicazioni da parte del legislatore, ha infatti portato all'elaborazione di una casistica giurisprudenziale quanto mai intricata e, a volte, contraddittoria.
Con il nuovo art. 1137 c.c. il legislatore, facendo propri i più recenti sviluppi giurisprudenziali, ha eliminato alla radice qualsiasi dubbio sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali. Nella nuova disposizione si parla infatti espressamente di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni. Mentre in precedenza si poteva equivocare se l'azione diretta a fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere comprendesse o meno anche i casi di nullità delle stesse, la nuova versione dell'art. 1137 c.c. chiarisce in modo definitivo che la stessa è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare. Resta quindi inteso che eventuali ragioni di nullità potranno essere contestate, in base alle regole generali, da chiunque vi abbia interesse con un ordinario procedimento giurisdizionale di accertamento da avviare negli ordinari termini di prescrizione del diritto.
La legittimazione all'azione. Per poter impugnare una deliberazione assembleare è necessario che chi agisce in giudizio sia fornito della relativa legittimazione. Anche in questo caso la norma di riferimento è il nuovo art. 1337 c.c., che ha specificato come la stessa spetti tanto ai condomini presenti in assemblea e che abbiano votato in senso contrario all'approvazione della delibera quanto a quelli assenti quanto, infine, a quelli che, pur avendo partecipato alla riunione condominiale, si siano astenuti dal voto. Il termine di decadenza di 30 giorni per l'impugnazione decorre dalla data dell'assemblea per i dissenzienti e gli astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. A parte le ipotesi di nullità, la legittimazione attiva all'impugnazione delle deliberazioni condominiali spetta di regola solo ai condomini, ovvero ai proprietari delle unità immobiliari site in condominio.
Le modalità dell'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Il secondo comma del vecchio art. 1137 c.c., nell'attribuire ai condomini il potere di impugnare le deliberazioni invalide, qualificava come «ricorso» l'atto introduttivo del relativo giudizio. Ciò sembrava comportare un'evidente deroga al sistema ordinario, che prevede che il giudizio civile sia introdotto mediante citazione a udienza fissa. Anche in questo caso è bastato poco al legislatore per risolvere un'annosa questione che, sebbene di recente dipanata dalla giurisprudenza di legittimità, poteva comunque risultare insidiosa dal punto di vista pratico e originare nuovo contenzioso.
Nel nuovo art. 1137 c.c. sparisce quindi la parola «ricorso», risolvendo brillantemente la questione se detto termine dovesse essere inteso in senso tecnico o atecnico e se l'impugnazione delle deliberazioni dovesse quindi avvenire con ricorso o con atto di citazione. La nuova disposizione si limita infatti a enunciare che chi intende impugnare una deliberazione assembleare che si assuma contraria alla legge o regolamento di condominio deve chiederne l'annullamento all'autorità giudiziaria entro il termine di 30 giorni. Se ne deve concludere che, come è naturale, la questione di quale sia il mezzo tecnicamente appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede giudiziaria sia di tipo squisitamente processuale, come tale da risolvere alla luce dei criteri indicati dal vigente codice di procedura civile. Ora, rientrando il procedimento in questione tra quelli ordinari, non si può che concludere che l'impugnazione giudiziale delle deliberazioni assembleari debba essere introdotta con atto di citazione.
La sospensione dell'efficacia della deliberazione condominiale. Con gli ultimi due commi del novellato art. 1337 c.c. il legislatore ha quindi voluto ulteriormente chiarire la questione della sospensione dell'efficacia della delibera condominiale impugnata. Se, infatti, il vecchio testo della citata disposizione si limitava a prevedere che il ricorso per non sospendeva di per sé l'esecuzione della deliberazione, ma che era comunque necessario uno specifico provvedimento dell'autorità giudiziaria, l'ultimo comma del nuovo art. 1337 c.c. si occupa specificamente di disciplinare, seppure in via soltanto analogica, il procedimento da seguire per richiedere al giudice di pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato.
L'istanza di sospensione in questione, secondo i criteri ordinari, può essere proposta tanto in costanza di causa quanto anteriormente alla stessa. Limitatamente a quest'ultimo caso il legislatore ha però inteso specificare che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera condominiale proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di 30 giorni di cui al medesimo art. 1337 c.c. ovvero, detto in altri termini, non equivale all'atto di impugnazione della volontà assembleare.
A quale giudice rivolgersi. L'atto di citazione per l'impugnazione della deliberazione condominiale sarà volta per volta indirizzato al giudice competente per territorio e per valore. Quanto al primo aspetto occorre evidenziare come l'art. 23 c.p.c., adeguatamente riformulato dal legislatore con la recente legge n. 220/2012, stabilisca espressamente che per le cause tra condomini e tra condomini e condominio sia competente il giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2013).

CONDOMINIORiforme da correggere. Una svista del legislatore rende necessario intervenire prima del 18 giugno.
Condominio, disabili penalizzati. Le nuove maggioranze rendono difficile eliminare le barriere.

Una delle conseguenze più imprevedibili (e probabilmente neppure davvero voluta dal legislatore) della riforma della disciplina sul condominio contenuta nella legge 220/2012 –che entrerà in vigore il 18 giugno– è l'elevazione della maggioranza prevista dall'attuale normativa per deliberare le innovazioni dirette a eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati.
Si tratta di una previsione che di sicuro non trova alcuna valida giustificazione, eppure l'articolo 27 della legge di riforma modifica l'articolo 2, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 e stabilisce, con un rinvio al nuovo comma 2 dell'articolo 1120 del Codice civile (il quale a sua volta, rinvia al secondo comma dell'articolo 1136), che l'assemblea condominiale delibera le innovazioni relative all'abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Invece l'originario (e ancora in vigore fino al 18 giugno) testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 13/1989 ha consentito finora di approvare queste delibere, purché adottate in un'assemblea di seconda convocazione, con un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio.
Se anche l'obiettivo fosse stato quello di rendere la maggioranza per eliminare le barriere architettoniche più omogenea a quelle previste da altre similari leggi speciali, come l'articolo 26 della legge 10/1991 sul risparmio energetico e l'articolo 2-bis, comma 13, della legge 66/2001 sugli impianti di radiodiffusione satellitare, questa non sembra proprio una valida ragione per elevare una maggioranza "agevolata" che risponde a una esigenza sociale e a un principio costituzionale, come è stato evidenziato dalle più recenti sentenze emesse dalla Corte di cassazione sull'argomento.
Infatti, con la sentenza n. 18334/2012 la Cassazione ha affermato che in generale i rapporti fra condomini devono essere informati al principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi, e che quindi il principio di solidarietà condominiale trova applicazione, a maggior ragione, per la tutela dei diritti fondamentali dei disabili.
Con la precedente sentenza n. 2156/2012, relativa alla costruzione di un ascensore nella tromba delle scale con riduzione dei gradini, la Cassazione ha stabilito che nell'ambito della valutazione comparativa delle opposte esigenze (da un parte dei portatori di handicap a installare l'ascensore e dall'altra dei condomini a continuare a fruire nella sua interezza della scala, che viene ristretta senza però diventare inservibile), deve prevalere la prima, in conformità ai principi costituzionali della tutela della salute (articolo 32 della Costituzione) e della funzione sociale della proprietà (articolo 42).
Stando così le cose, non si comprende allora il motivo per cui il legislatore della riforma ha deciso di elevare l'attuale maggioranza proprio in un settore che coinvolge interessi talmente delicati e importanti.
Dovendo la nuova disciplina entrare in vigore fra poco più di tre mesi è allora auspicabile che la maggioranza sulle barriere architettoniche venga riportata al suo testo originario prima di quella data.
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01 | CORREGGERE È NECESSARIO
La riforma del condominio è a 100 giorni dall'entrata in vigore (prevista per il 18 giugno) e ormai è stata passata al microscopio da uffici studi ed esperti delle associazioni, studiosi, magistrati e avvocati. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa
02 | LA MOSSA VINCENTE
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma», approfittando del periodo di "vacanza" di sei mesi concesso dalla norma (la legge 220/2012). Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Fna, Gesticond, Ordine degli avvocati di Milano, Unai e Uppi
03 | I PASSAGGI
Il primo passo è già stato fatto: l'iniziativa del Sole 24 Ore ha raccolto le adesioni del settore che, su invito del giornale, hanno già inviato le loro proposte di modifica. Compito del Sole è ora quello di elaborarle in un testo di modifica normativa agile e che risolva i problemi maggiori, quelli che davvero potrebbero impedire il decollo della riforma. Il testo sarà condiviso da tutte le associazioni e verrà presentato in maggio al nuovo Governo.
La presentazione
L'idea di «correggere la riforma del condominio» è maturata negli scorsi mesi e ieri è stata lanciata sulle pagine del Sole 24 Ore. I passaggi dell'iniziativa (illustrati qui accanto) prevedono alla fine un convegno, organizzato dal Sole 24 Ore, nel quale verrà presentato il disegno di legge, risultato degli sforzi collettivi del giornale e delle associazioni del settore (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Parere negativo della competente Soprintendenza in merito alla realizzazione di ascensore in un palazzo semivincolato
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104, ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236, fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.

Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104- ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236- fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato” (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso pubblico possono fornire un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio normativa e dalla stessa ampiezza della definizione contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236 del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità esterna (pubblica o privata che sia).

Al riguardo, le originarie censure di parte ricorrente si indirizzavano avverso le conclusioni del Comune, il quale aveva ritenuto nella specie non rispettata la normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, non avendo le società richiedenti provveduto a eseguire i lavori necessari ad agevolare l’accesso agli esercizi commerciali dei soggetti portatori di handicap mercé una rampa di collegamento fra l’immobile e la via de Gasperi.
Al contrario, le società ricorrenti hanno sempre negato di essere tenute a tale incombente sul rilievo che la “rampa” in questione non costituiva pertinenza esclusiva degli esercizi in questione, trattandosi di una vera e propria strada di pubblico passaggio, come testimoniato da una molteplicità di elementi (presenza di negozi, esistenza di numeri civici agli stessi etc.).
Sul punto, il TAR ha ritenuto di dover sollecitare al Comune un approfondimento istruttorio, concentrandosi il successivo contrasto inter partes sull’esatta qualificazione e sul conseguente regime da riconoscere al tracciato in questione.
La Sezione, nel concludere nel senso della correttezza delle originarie valutazioni dell’Amministrazione comunale, esprime l’avviso che queste ultime si sorreggano su una serie di considerazioni di ordine logico-giuridico che, almeno in parte, prescinde dai profili definitori su cui si è sviluppato il contrasto tra le parti nel presente giudizio.
Ed invero, la prescrizione di riferimento in ordine alle modalità tecniche da rispettare per l’eliminazione delle barriere architettoniche si rinviene nell’art. 4.2 del d.m. 14.06.1989, nr. 236, il cui precedente art. 3, alla lettera f) del comma 1, definisce gli “spazi esterni” come “l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici ed in particolare quelli interposti tra l’edificio o gli edifici e la viabilità pubblica o di uso pubblico”.
Tale disciplina regolamentare è attuativa della normativa già contenuta nella legge 09.01.1989, nr. 13, e oggi confluita negli artt. 77 e segg. del d.P.R. 06.06.2001, nr. 280, la quale a sua volta, come già altrove rilevato da questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 08.03.2011, nr. 1437), risponde a valori di rango costituzionale riferibili agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Se questo è vero, se cioè si tratta di norme e disposizioni rispondenti alla ratio di garantire il massimo di tutela a soggetti disagiati e correlativamente a responsabilizzare in tal senso i soggetti pubblici e privati destinati a realizzare interventi incidenti sul territorio, ne consegue che la ricostruzione delle nozioni impiegate dalla normativa de qua non può basarsi sulla meccanicistica trasposizione di categorie e classificazioni ricavate da una disciplina avente finalità del tutto diverse, quale è quella sulla circolazione stradale.
In altre parole, le distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso pubblico possono invero fornire un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio normativa e dalla stessa ampiezza della definizione contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236 del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità esterna (pubblica o privata che sia).
La presenza di tali presupposti, non contestata né contestabile nel caso che occupa, rende recessiva ogni considerazione circa il carattere pubblico o privato dell’area in questione, così come rende irrilevante il fatto che essa possa per avventura essere asservita anche ad altri immobili o esercizi; evidentemente il fatto che, fra i vari fruitori dell’area de qua, il legislatore abbia inteso porre gli obblighi di eliminazione delle barriere architettoniche a carico di colui che per primo realizzerà un intervento edilizio sull’immobile è frutto di una scelta ancora una volta ispirata dalla prevalenza dei richiamati obblighi solidaristici (e tale, peraltro, da non escludere che i connessi oneri economici possano essere poi regolati nei rapporti interni con gli altri e diversi soggetti che si trovino a trarre vantaggio dall’intervento posto in essere per eliminare le barriere architettoniche) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAnche l'ascensore rientra tra gli impianti «liberi». Palazzo Spada. Niente permesso di costruire né distanze legali.
Sulla natura giuridica degli ascensori, sulla possibilità di considerarli nuova costruzione e sui titoli abilitativi necessari si è espressa la quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 05.12.2012 n. 6253.
La vicenda concerne l'installazione di un ascensore all'esterno di un immobile per agevolare l'accesso e la mobilità di familiari disabili. In primo grado era stato impugnato il diniego di permesso di costruire, opposto agli interessati dal Comune, secondo cui l'intervento doveva ritenersi precluso in forza delle previsioni dell'articolo 79, comma 2, del Dpr 380/2001. Tale norma, infatti, pur consentendo opere per eliminare le barriere architettoniche in deroga alle norme sulle distanze contenute nei regolamenti edilizi, fa comunque «salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune».
Il Tar aveva respinto il ricorso sulla base di tre considerazioni. Innanzitutto che la tutela della salute e della vita di relazione dei portatori di handicap non è incondizionata, ma può subire limitazioni per la tutela di valori di pari rilevanza, quale la proprietà privata; in secondo luogo che l'articolo 79, pur considerando prevalenti le ragioni del portatore di handicap su altri interessi contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio, non riconosce analoga prevalenza rispetto al diritto alla salute tutelato attraverso l'articolo 873 del codice civile la cui ratio è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose o pericolose. Infine, l'ascensore si sarebbe trovato ad una distanza inferiore a quella minima di tre metri rispetto al fabbricato confinante.
Il Consiglio di Stato ha però riformato la sentenza di primo grado, facendo proprio lo specifico orientamento della Cassazione (sezione II, n. 2566/2011), secondo cui «l'impianto di ascensore...rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell'immobile». Ne consegue «l'inapplicabilità all'ascensore delle disposizioni in tema di distanze legali».
Inoltre, con riferimento al caso concreto, la sentenza osserva come nell'applicare la deroga al rispetto delle distanze, l'articolo 79 vada letto in correlazione alla complessiva disciplina sull'eliminazione delle barriere architettoniche per i soggetti portatori di handicap e in particolare al Dm 236/1989. L'articolo 2 del decreto, infatti, qualifica come spazio esterno «l'insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio o di più edifici» e come parti comuni dell'edificio «quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari». Da qui risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso comune», abbia inteso richiamare non solo l'esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche l'esistenza di uno spazio comunque denominato impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Nel caso in esame il cortile fra i due immobili nel quale doveva insistere l'ascensore, pur non essendo in comproprietà fra i due condomini, risultava utilizzato dai residenti di entrambi gli immobili, dal che deriva l'illegittimità dell'atto impugnato e l'erroneità della decisione del Tar (articolo Il Sole 24 Ore del 25.02.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:  Barriere architettoniche.
Domanda
Sono amministratore di un condominio nel quale alcuni condomini hanno richiesto di installare un ascensore, taluni sono favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una prossima assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo stato della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012 (alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n. 13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum ridotti) è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel condominio in quanto la norma è volta a consentirne l'accesso, senza difficoltà, in tutti gli edifici e non solo presso la loro abitazione, mentre il 2° comma consente di provvedere direttamente alle opere in caso di rifiuto del condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3° comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora i condomini), per valutare se le opere determinino un pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore servibilità delle parti comuni, che non può prevalere qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre operare un confronto delle condizioni ante e post operam al fine di accertare se le opere possano determinare o meno una lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del 26.11.2012).

CONDOMINIOLa Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto. Basta la maggioranza semplice perché si superano le barriere.
Il necessario rispetto del principio di solidarietà condominiale rende legittima la delibera di installazione di un ascensore che tuteli l'esigenza di garantire un accesso agli appartamenti ai condomini, o loro ospiti, con ridotta capacità motoria, anche se la nuova opera comporti un'accettabile riduzione del decoro architettonico o un modesto restringimento degli spazi comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli.

Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez. della Corte di Cassazione con la recente sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie. La vicenda che ha portato alla decisione in questione prendeva l'avvio quando un condomino impugnava la delibera che aveva approvato l'installazione di un ascensore, ritenuta illegittima non solo perché adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione in appello, la delibera era pienamente legittima perché non comportava alterazione del decoro architettonico dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e, comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani e disabili e nel rispetto della normativa in materia di barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro architettonico del fabbricato risultava compromesso dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma, soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la delibera non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera attinente al superamento delle barriere architettoniche, perché il condominio non aveva fornito la prova che nello stabile vivessero portatori di handicap: di conseguenza la delibera non poteva essere adottata con la ridotta maggioranza prevista dalla legislazione in tema di eliminazione delle barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione. La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti osservazioni, ha confermato la piena legittimità della scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi, infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto la delibera di installazione di un ascensore si muove sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa speciale a favore dei portatori di handicap prevede un abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione, indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel rispetto del principio di solidarietà condominiale, la delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se comporta un'accettabile compromissione del decoro architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle persone affette da invalidità devono ormai essere considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2012).

CONDOMINIOIn condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore, anche quando questo configura un'innovazione e il voto in assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89 di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la delibera di messa in opera di un'installazione si muove sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe però provocato il restringimento della luce del passaggio sulla prima rampa e costituendo, in sostanza, un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione, che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito, affermando che:
- È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di fatto in quel senso;
- È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e non solo presso la propria abitazione e del resto il riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in quanto consente ai disabili di installare servoscala o strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte del condominio;
- Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato dal resistente, va valutato nel senso di accertare se determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi l'alterazione architettonica», cioè in sostanza l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un principio importante: quello della solidarietà condominiale. Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte, si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989 suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare i problemi della disabilità non solo individuali ma come parte di un carico della collettività.
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Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato esplicitamente sull'eliminazione delle barriere architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio, ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in relazione al danno economico effettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2012).

CONDOMINIO: L'ascensore e' indispensabile per la reale abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 03.08.2012 n. 14096, ha evidenziato come l'installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, debba considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge 09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO

Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano però compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass. 23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità, amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art. 1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita quell'installazione che renda talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass. 25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale, infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ascensore a distanza ravvicinata. Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile. La Cassazione: l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale, in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era però stata la corte d'appello presso la quale i condomini avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n. 13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte. La decisione della corte di appello è quindi stata portata all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la piena legittimità della deliberazione assembleare. E la Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito, annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di interessanti principi in materia di installazione degli ascensori e abbattimento delle c.d. barriere architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

EDILIZIA PRIVATALe opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, la normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato; mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio.
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”.
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Relativamente al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la previsione contenuta nell'art. 79 dpr 380/2001 e nell'art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di 3 metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
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La costruzione di un ascensore esterno in facciata di condominio per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderlo nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali.

... per l'annullamento del provvedimento 24.05.2011, prat. n. 4/2001, con il quale il Responsabile del III Settore (Assetto ed uso del territorio) del Comune di Loreto Aprutino ha rigettato la domanda di permesso di costruire presentata dal ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di permesso di costruire presentata dai ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno è motivato con riferimento alla testuale considerazione che, in violazione dell’art. 79 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non era rispettata la “distanza di tre metri di cui all’art. 873 del codici civile, ricorrendo il caso in cui tra le opere da realizzare (ascensore finalizzato all’eliminazione delle barriere architettoniche) ed il fabbricato alieno … non è interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del titolo edilizio richiesto si sottrae, ad avviso del Collegio, alle censure di legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel disciplinare all’art. 79 le opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche dispone testualmente al suo primo comma che tali opere “possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”; al suo secondo comma precisa, inoltre, che “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile, nel disciplinare le distanze nelle costruzioni, dispone a sua volta che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di riferimento, va evidenziato che tali previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989, poi trasfusa nel predetto t.u., ed articolate in dettaglio nella normativa tecnica di attuazione di cui al D.M. 14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni fisiche, che oggi non è più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma è ormai considerato come interesse primario dell’intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione (Corte Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e 04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 14.11.2011, n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la giurisprudenza ha al riguardo meglio precisato che tale sistema di tutela delle persone disabili è, in concreto, applicabile compatibilmente con altri interessi pubblici che non possono essere pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con quello, superiore, alla tutela ottimale delle medesime persone; con la conseguenza che le misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla stregua degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione possono essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e fermo comunque il rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati. In definitiva, tale normativa consente il diniego della richiesta autorizzazione qualora non sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila, 08.11.2011, n. 526), va ricordato che il legislatore ha effettuato delle scelte puntuali in ordine alla graduazione degli interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, tale normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato (TAR Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 15.09.2011, n. 4402, e TAR Toscana sez. III, 25.10.2011, n. 1546); mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati” (TAR Lazio, sez. Latina, 04.03.2011, n. 221, e Cons. St. sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la sopra ricordata previsione contenuta nel predetto art. 79 e nel richiamato art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di tre metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del Collegio, non sembra inficiata da profili di costituzionalità, in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore dare la prevalenza all’uno o all’altro degli interessi in conflitto; inoltre, la scelta effettuata con la normativa di cui al più volte ricordato art. 79 non sembra illogica o particolarmente penalizzante degli interessi dei soggetti portatori di handicap, ove si consideri che nella specie tale diritto è stata ritenuto recessivo nei confronti del diritto alla salute, di pari rilevanza, dei soggetti confinanti.
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I ricorrenti con i tre motivi di gravame si sono nella sostanza lamentati delle seguenti circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva rispettare le distanze legali, in quanto non creava una intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità della collettività e che, peraltro, non era rispettata la distanza in questione solo per una parte marginale;
2) che l’opera era conforme alle prescrizioni vigenti in quanto realizzata su uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei confronti dei portatori di handicap, volta all’eliminazione delle barriere architettoniche, deve essere interpretata nel senso che è consentita la deroga della predetta distanza di tre metri ove sia impossibile una diversa collocazione dell’opera da realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto, sembra evidente la mancanza di pregio di quanto dedotto con il terzo motivo, in quanto il vigente sistema non tutela le persone disabili in termini assoluti ed inderogabili (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli interessi in gioco, ponendo dei precisi limiti alla realizzazione delle opere in questione quando venga leso il diritto alla salute dei confinanti, va evidenziato in punto di fatto che l’opera da realizzare -contrariamente a quanto dedotto con il ricorso- non si sviluppa solo fino al primo piano dell’edificio, ma è destinata a raggiungere anche gli ulteriori piani dell’edificio, che non sono abitati dal soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che l’opera -così come si rileva dagli atti progettuali versati in giudizio anche dalla parte ricorrente- per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderla nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali. Mentre appare in merito irrilevante il fatto che tale distanza non era rispettata solo per una parte dell’opera, in quanto la norma sui distacchi tra le costruzione prevede delle precise distanze che, salva la c.d. tolleranza di cantiere, debbono essere necessariamente rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che l’ascensore sarebbe stato realizzato su uno “spazio o area comune”, va evidenziato che la normativa in questione, quando utilizza tale espressione, intende riferirsi all’esistenza di un diritto di comunione sull’area sulla quale deve essere realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa non risulta che il cortile in questione sia in comunione, né risulta dimostrata che sull’area esista una servitù di passaggio; al contrario, dalle mappe catastali e dagli atti progettuali si evince che i due edifici che si fronteggiano sono separati da una precisa linea di confine posta a distanza di un metro e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune” la costruzione dell’ascensore, in assenza del consenso dei proprietari dell’edificio adiacente, avrebbe dovuto, pertanto, rispettare le distanze di legge; né appare utile al riguardo il riferimento alle definizioni contenute nel predetto decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il quale sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche, e ciò non solo per il rango nella gerarchia delle fonti di tale decreto e per la sua inidoneità a modificare norme di legge, ma anche e soprattutto per il fatto che le definizioni contenute in tale decreto si riferiscono alle prescrizioni tecniche disciplinate con la normativa in questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere ministeriale di annullamento d'ufficio del nulla-osta paesaggistico previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale la Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento motivato, non attribuisce all'Amministrazione centrale un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, così da consentire alla stessa Amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di annullamento fondati su un riesame del merito della valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità dell'atto sottoposto a controllo.
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del nulla osta paesaggistico.
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante per la valutazione compatibilità, nonché che tale valutazione non sia manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in genere, che siano osservate le regole che sovrintendono all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale a quelli espressi dall'Ente locale.
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Ai sensi dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n. 13/1989 l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili vincolati può essere negata solo in presenza di un grave pregiudizio del bene tutelato di cui deve essere data adeguata motivazione, con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco, inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato.
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale, bensì che il diniego alla realizzazione di opere preordinate al superamento delle barriere architettoniche deve necessariamente essere legato ad un serio pregiudizio all'interesse paesistico-ambientale debitamente motivato, nell’ottica di una necessaria comparazione di interessi, “con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di handicap rafforzando le garanzie procedimentali e sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego, sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del portatore di handicap, non evidenziando alcuna ragione nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore tutelato ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del vincolo e di protezione del bene paesistico.

Il Collegio rileva come, in linea generale, il potere ministeriale di annullamento d'ufficio del nulla-osta paesaggistico previsto dall'art. 159, comma 3, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, secondo il quale la Soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento motivato, non attribuisce all'Amministrazione centrale un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, così da consentire alla stessa Amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui anche l'eccesso di potere.
Ne deriva, pertanto, l'illegittimità di provvedimenti di annullamento fondati su un riesame del merito della valutazione effettuata dall'ente delegato, piuttosto che sulla rilevazione di uno specifico vizio di legittimità dell'atto sottoposto a controllo (ex multis Cons. Stato, VI, 13.02.2009, n. 772; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751; TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.07.2008, n. 2213; TAR Campania; TAR Campania Napoli, sez. VII, 04.04.2008, n. 1879; Napoli, sez. III, 19.03.2008, n. 1411).
Sotto tale profilo deve infatti evidenziarsi che, se è vero che la Soprintendenza in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico può operare un sindacato relativamente ad ogni profilo di illegittimità, compreso l’eccesso di potere, è anche vero che essa non può però sostituire in tale sede le proprie valutazioni a quelle motivatamente espresse dal Comune.
Un sindacato sostitutivo invero potrebbe risultare ammissibile laddove il nulla osta paesaggistico risulti adottato in carenza di istruttoria e motivazione, mentre laddove lo stesso appaia sorretto da ampia istruttoria e motivazione la Soprintendenza non può sostituire le proprie valutazione di merito a quelle espresse con il rilascio del nulla osta paesaggistico (ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza 09.03.2011 n. 1483, secondo cui “nell’emettere un nulla osta paesaggistico, l’Autorità regionale o l’ente sub-delegato deve motivare adeguatamente in ordine alla compatibilità dell’opera assentita con il vincolo paesaggistico, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria; per cui l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo scrutinio, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, dovrà motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo"; Consiglio di Stato, Sez. VI - sentenza 26.07.2010 n. 4861, secondo cui “nel caso in cui, in sede di controllo sul nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale ravvisi una carenza motivazionale o istruttoria, costituente vizio di legittimità, nell’atto oggetto del suo scrutinio, la stessa è chiamata ad evidenziare tali vizi con motivazione che deve necessariamente impingere –per risultare a sua volta immune da vizi di legittimità– nella valutazione della non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo”, che ritiene per contro “illegittimo l’annullamento in sede statale del nulla-osta paesaggistico rilasciato in sede comunale, ove da un lato il nulla-osta stesso sia supportato da idonea motivazione che tiene conto degli elementi gli elementi di pregio paesistico fissati dal d.m. con il quale il territorio comunale è stato dichiarato di notevole interesse pubblico ai sensi della l. n. 1497/1939 e risulti conforme anche sotto il profilo urbanistico e, dall’altro, l’annullamento stesso si basi su di una inammissibile valutazione compiuta dalla Soprintendenza in ordine alla compatibilità dell’opera con l’assetto paesistico-ambientale dei luoghi tutelati dal vincolo").
L'Amministrazione statale deve, quindi, verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante per la valutazione compatibilità, nonché che tale valutazione non sia manifestamente illogica o irrazionale, non sia basata su errata ricostruzione dei fatti, sia sorretta da motivazione sufficiente, congrua, razionale e non contraddittoria ed, in genere, che siano osservate le regole che sovrintendono all'esercizio della funzione tecnico-discrezionale e le norme che disciplinano la funzione stessa, ma non può sostituire i suoi apprezzamenti sulla compatibilità ambientale a quelli espressi dall'Ente locale (TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 26.11.2009, n. 1315).
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Inoltre, il gravato provvedimento della Soprintendenza non ha tenuto conto della circostanza attinente alla funzionalità dell’opera alla tutela delle esigenze del portatore di handicap ed, in particolare dell’art. 4, comma 4, e 5, della legge n. 13/1989, ai sensi del quale l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili vincolati può essere negata solo in presenza di un grave pregiudizio del bene tutelato di cui deve essere data adeguata motivazione, con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca.
Ora, secondo quanto espresso in giurisprudenza, il legislatore, nel bilanciamento degli interessi in gioco, inerenti da una parte alla tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico-ambientale e, dall'altra, alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche -espressamente tutelati dagli artt. 3, II comma, e 32 della Costituzione- ha inteso dare prevalenza ai menzionati diritti della persona relegando il diniego ai soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma, Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Lazio, sez. II, 15.02.2002, n. 1061; TAR Lazio, Sez. II, 13.05.2000, n. 3974).
Ciò non vuol dire che dalla normativa in esame possa desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218; TAR Lazio Roma, Sez. II-quater, 19.01.2010, n. 495; TAR Umbria, 17.01.2000, n. 17), bensì che il diniego alla realizzazione di opere preordinate al superamento delle barriere architettoniche deve necessariamente essere legato ad un serio pregiudizio all'interesse paesistico-ambientale debitamente motivato, nell’ottica di una necessaria comparazione di interessi, “con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca”.
Il legislatore, difatti, ha tutelato il portatore di handicap rafforzando le garanzie procedimentali e sostanziali rispetto al suo interesse ad ottenere l’autorizzazione, sia attraverso una specificazione in senso restrittivo dei presupposti del provvedimento di diniego, sia dettando il contenuto obbligatorio della relativa motivazione.
Nel caso di specie la Soprintendenza non ha tenuto conto delle finalità dell’intervento legate alle esigenze del portatore di handicap, non evidenziando alcuna ragione nemmeno potenziale di grave pregiudizio al valore tutelato ed attestandosi, invece, per tale aspetto, su una motivazione generica riguardo alle esigenze di rispetto del vincolo e di protezione del bene paesistico
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.02.2012 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 01.02.2012 n. 26 "Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell’articolo 28 della legge 04.06.2010, n. 96" (D.Lgs. 09.01.2012 n. 4).
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Di interesse l'art. 3, comma 3, che riportiamo di seguito:
Art. 3. - Acquacoltura
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2135 del codice civile, l’acquacoltura è l’attività economica organizzata, esercitata professionalmente, diretta all’allevamento o alla coltura di organismi acquatici attraverso la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, in acque dolci, salmastre o marine.
2. Sono connesse all’acquacoltura le attività, esercitate dal medesimo acquacoltore, dirette a:
   a) manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione, promozione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle attività di cui al comma 1;
   b) fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività di acquacoltura esercitata, ivi comprese le attività di ospitalità, ricreative, didattiche e culturali, finalizzate alla corretta fruizione degli ecosistemi acquatici e vallivi e delle risorse dell’acquacoltura, nonché alla valorizzazione degli aspetti socio-culturali delle imprese di acquacoltura, esercitate da imprenditori, singoli o associati, attraverso l’utilizzo della propria abitazione o di struttura nella disponibilità dell’imprenditore stesso;
  
c) l’attuazione di interventi di gestione attiva, finalizzati alla valorizzazione produttiva, all’uso sostenibile degli ecosistemi acquatici ed alla tutela dell’ambiente costiero.
3. Alle opere, alle strutture destinate alle attività di cui alla lettera b) del comma 2 si applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, commi 2 e 3, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, approvato con decreto Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, nonché all’articolo 24, comma 2, della legge 05.02.1992, n. 104, relativamente all’utilizzo di opere provvisionali per l’accessibilità ed il superamento delle barriere architettoniche.

anno 2011

EDILIZIA PRIVATA: Per gli immobili vincolati stop ai lavori motivato.
Quando un privato avvia un intervento per il superamento delle barriere architettoniche in un edificio vincolato, il diniego della Soprintendenza deve sempre essere motivato.

È quanto affermato dai giudici amministrativi, e in particolare da due recenti pronunce dei Tar Lazio e Campania.
In Italia gli immobili di proprietà privata assoggettati a vincolo storico-artistico sono molto diffusi, e un problema che si pone frequentemente è l'eliminazione delle barriere architettoniche, qualora edifici di questo tipo siano occupati o anche solo frequentati da soggetti disabili. Il tema è affrontato con la legge 13/1989, in parte trasfusa nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2011), e con il Dm 236/1989.
La disciplina legislativa e regolamentare riguarda sia la costruzione di nuovi edifici, sia l'esecuzione di opere su quelli esistenti, e tende a garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti che versano in situazione di minorazione fisica, anche in deroga alle norme civilistiche sul condominio. In particolare, l'articolo 2 del Dm qualifica come condizione di "accessibilità" dell'edificio «la possibilità anche per le persone con ridotta e impedita capacità motoria e sensoriale di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia».
Il diritto del portatore di handicap a svolgere una normale vita di relazione, così come delineato dal legislatore, deve essere tendenzialmente garantito anche nei casi in cui l'immobile sia stato dichiarato di particolare interesse paesaggistico o storico-artistico. In questi casi, ferma restando la necessità di ottenere la prescritta autorizzazione ai sensi degli articoli 21 e 146 del Dlgs 42/2004 prima di dar corso agli interventi, gli articoli 4 e 5 della legge 13/1989 contengono specifiche previsioni agevolative.
Innanzitutto, è prevista la formazione del silenzio-assenso nel caso in cui le amministrazioni competenti alla tutela del vincolo (Regioni o soprintendenze), non si pronuncino nel termine assegnato.
In secondo luogo, il diniego all'esecuzione dei lavori volti al superamento o all'eliminazione delle barriere architettoniche potrà essere opposto «solo nei casi in cui non sia possibile realizzare le opere senza un serio pregiudizio del bene tutelato».
Infine, l'eventuale diniego dovrà essere necessariamente motivato «con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato».
La problematica è stata affrontata dalla giurisprudenza soprattutto con riferimento all'installazione di rampe e ascensori e due recenti pronunce del Tar Campania (sede Napoli, Sezione IV, sentenza 15.09.2011 n. 4402) e del Tar Lazio (sede Roma, Sezione II-quater, sentenza 28.09.2011 n. 7597) confermano un orientamento interpretativo ormai costante del richiamato quadro normativo, secondo cui, «sebbene dal testo e dalla ratio della legge 13/1989 non possa desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico-ambientale (si veda, Tar Umbria, 17.01.2000, n. 17), deve essere nondimeno ribadito che nel provvedimento con il quale la Soprintendenza esprima diniego ai fini della realizzazione di un'opera preordinata al superamento delle barriere architettoniche debbano essere compiutamente esternate le reali e dimostrabili ragioni di pregiudizio che il progettato intervento è suscettibile di arrecare all'interesse di tutela del quale l'Amministrazione è portatrice».
Le due pronunce evidenziano come il legislatore abbia operato un bilanciamento degli interessi in gioco, entrambi di rilievo costituzionale, che riguardano, da una parte, la tutela del patrimonio storico e artistico nazionale (articolo 9 della Costituzione) e, dall'altra, la salvaguardia dei diritti alla salute e al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche (articoli 3 e 32 della Costituzione), dando prevalenza a questi ultimi e ammettendo il diniego dell'autorizzazione nei soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato (si veda Tar Lazio-Roma, Sezione II, 15.02.2002 n.1061 e 13.05.2000, n. 3974). In entrambi i casi le sentenze hanno ritenuto legittimo il diniego di autorizzazione da parte della soprintendenza, che risultava debitamente motivato in ragione «della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato».
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L'attività è libera se non è esterna.
La legge contiene una definizione molto precisa di «barriere architettoniche». L'articolo 2 del Dm 236/1989 le definisce come: gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea; gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature o componenti; la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi.
Quanto ai contenuti progettuali e alle autorizzazioni necessarie per gli interventi di superamento delle barriere architettoniche, l'articolo 77 del testo unico dell'edilizia prescrive che i progetti –compresi quelli di ristrutturazione di interi edifici– debbano essere redatti con l'osservanza delle prescrizioni tecniche stabilite con il Dm 236/1989, con questo contenuto minimo:
- accorgimenti tecnici idonei alla installazione di meccanismi per l'accesso ai piani superiori, ivi compresi i servoscala;
- idonei accessi alle parti comuni degli edifici e alle singole unità immobiliari;
- almeno un accesso in piano, rampe prive di gradini o idonei mezzi di sollevamento;
- l'installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini.
La stessa disposizione, con specifico riferimento agli «immobili vincolati ai sensi del Dlgs 490/1999», stabilisce che i progetti debbano essere preventivamente «approvati dalla competente autorità di tutela, a norma degli articoli 23 e 151 del medesimo decreto legislativo» (ora articoli 21 e 146 del Dlgs 42/2004). L'omessa pronuncia sull'istanza nei termini previsti dalla legge 13/1989 (90 giorni per i vincoli paesaggistici e 120 giorni per quelli storico-artistici) comporta la formazione del silenzio-assenso sul progetto.
Gli interventi dovranno comunque essere realizzati anche nel rispetto delle norme antisismiche, antincendio e di prevenzione degli infortuni.
In tema di titoli abilitativi, l'articolo 6, comma 1, lettera b), del Dpr 380/2001 (nel testo modificato dalla legge n. 73/2010) ha ricompreso nell'ambito dell'attività edilizia libera anche gli interventi volti all'eliminazione di barriere architettoniche, ma alla specifica condizione che gli stessi non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, o di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio. In questi casi sarà quindi necessario il rilascio di un titolo abilitativo. Inoltre, in base all'articolo 79, le opere possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati.
È comunque fatto salvo l'obbligo di rispetto delle distanze dettate dagli articoli 873 e 907 del Codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto all'eliminazione delle barriere architettoniche prevale sulla esigenza di tutela del patrimonio storico-artistico nazionale.
Il legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia dei diritti alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche ha dato prevalenza al secondo, collocando il diniego dell'autorizzazione alla realizzazione di interventi in beni vincolati ai soli casi di accertato e motivato "serio pregiudizio" del bene vincolato.
Ne deriva che, pur non potendosi affermare la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta e automatica dei vincoli posti per finalità di tutela storico-culturale o paesistico–ambientale, va ritenuto che il provvedimento, con il quale la Soprintendenza non autorizza la realizzazione di un'opera preordinata al superamento delle barriere architettoniche deve dare compiuta ed esauriente emersione alle reali e dimostrabili ragioni di pregiudizio, che il progettato intervento è suscettibile di arrecare all'interesse tutelato (TAR Lazio Roma, II, 15.02.2002, n. 1061) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 04.02.2011 n. 218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che una sala cinematografica privata sia aperta al pubblico non comporta, ai sensi della legge n. 104/1992 e del regolamento attuativo, la completa parificazione agli edifici pubblici per quanto riguarda la disciplina relativa alle barriere architettoniche.
Deve rammentarsi che la citata legge-quadro n. 104/1992, riguardante l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, ai fini della eliminazione o superamento delle barriere architettoniche stabilisce, all'art. 24, comma 1, che “Tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità di cui alla legge 09.01.1989, n. 13, e successive modificazioni, sono eseguite in conformità alle disposizioni di cui…”.
Le anzidette disposizioni indicano, in concreto, i criteri per la esecuzione delle “opere” edilizie, riguardanti sia gli edifici pubblici che quelli privati aperti al pubblico, al fine di prevenire qualsiasi difficoltà nella loro fruizione da parte delle persone handicappate.
Nella surrichiamata legge n. 13/1989, recante “Disposizioni per favorire il superamento e eliminazioni delle barriere architettoniche negli edifici privati”, all'articolo 1, comma 1, è espressamente previsto che “I progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge sono redatti in osservanza delle prescrizioni tecniche previste dal comma 2”; tali prescrizioni tecniche sono specificamente finalizzate a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata.
Da tali norme di legge emerge, dunque, con chiarezza, che l'obbligo di adeguamento riguarda soltanto le opere di costruzione e ristrutturazione ancora da eseguire, come si ricava inequivocabilmente anche dal termine dilatorio di sei mesi concesso per l'applicazione delle nuove prescrizioni tecniche ai relativi progetti, ai sensi del citato art. 1 della legge n. 13/1989.
Né possono ritenersi corrette le argomentazioni del primo giudice il quale, facendo leva sulle norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici dettate dal regolamento attuativo della legge n. 104/1992, emanato con d.P.R. 24.07.1996, n. 503, ha affermato che anche le sale cinematografiche rientrerebbero della disciplina dettata dall'art. 1, comma 4, in base al quale “Agli edifici e spazi pubblici esistenti, anche se non soggetti a recupero o riorganizzazione funzionale, devono essere apportati tutti quegli accorgimenti che possono migliorarne la fruibilità sulla base delle norme contenute nel presente regolamento”.
Anzitutto, non può non rilevarsi che una norma regolamentare deve essere sempre interpretata in coerenza con la norma primaria che ne è a fondamento, essendo in particolare escluso che la normativa secondaria possa imporre prestazioni non previste dalla legge, contrastando ciò con il principio fondamentale posto dall'art. 23 della Costituzione.
Inoltre, dalla stessa lettera della norma regolamentare sopra richiamata si evince chiaramente che l'esigenza di abbattere in via generale ed immediata le barriere architettoniche riguarda unicamente gli “edifici e spazi pubblici”, precisandosi significativamente che, in attesa dei previsti adeguamenti, “ogni edificio deve essere dotato, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, a cura dell'amministrazione pubblica che utilizza l'edificio, di un servizio di chiamata per attivare un servizio di assistenza…”.
Poiché, dunque, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, il fatto che una sala cinematografica privata sia aperta al pubblico non comporta, ai sensi della ripetuta legge n. 104/1992 e del regolamento attuativo, la completa parificazione agli edifici pubblici per quanto riguarda la disciplina relativa alle barriere architettoniche, ne consegue che con ogni evidenza le statuizioni della sentenza appellata non possono essere assecondate.
Nessun rilievo in senso contrario può attribuirsi, d’altronde, alla disposizione del comma 6 dello stesso articolo del regolamento in esame, secondo cui “Agli edifici di edilizia residenziale pubblica ed agli edifici privati compresi quelli aperti al pubblico si applica il decreto del ministro dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236”, che reca prescrizioni tecniche per gli interventi edilizi su tale strutture e che, per sua natura, non potrebbe certamente introdurre obblighi nuovi e diversi rispetto a quelli stabiliti per legge.
Sembra opportuno aggiungere, ancora, che le anziesposte conclusioni si pongono anche in stretta consonanza con il principio enunciato dalla Corte costituzionale con sentenza 04.07.2008, n. 251, nella quale, proprio con riferimento alla pretesa del remittente di imporre l'eliminazione delle barriere architettoniche pure negli edifici esistenti, si sottolinea che viene richiesta una pronuncia additiva “che non può essere considerata costituzionalmente obbligata …in quanto è diretta a privilegiare una delle possibili forme di intervento a favore delle persone disabili, in sostituzione di un sistema caratterizzato dalla concreta valutazione anche di altri interessi, dai quali non possono escludersi quelli relativi agli oneri economici eventualmente derivanti, allo stato, dalla forma di tutela prescelta” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.08.2010 n. 5151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 1 del 05.01.2010, "Indicazioni per l'accesso ai contributi per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici residenziali privati e criteri di controllo" (decreto D.S. 15.12.2009 n. 14032).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia. serie ordinaria n. 42 del 19.10.2009, "Determinazioni in ordine all'assegnazione di contributi per interventi di eliminazione di barriere architettoniche (legge n. 13/1989; l.r. n. 6/1989)"  (deliberazione G.R. 07.10.2009 n. 10280 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Barriere architettoniche - l.r. n. 6/89 - interventi in adattabilità sui edifici costruiti/ristrutturati dopo l'11.08.1989 - Circolare adattabilità 20.10.2008 (link a www.oopp.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Atto di deroga in sanatoria relativamente a lavori oggetto di D.I.A. - Eliminazione barriere architettoniche - Incompetenza del dirigente - Artt. 40 L.R. 11.03.2005 n. 12 e 19 L.R. 20.02.1989 n. 6 - Sussiste.
L'art. 40, c. 1, L.R. 12/2005, laddove prevede la previa deliberazione del Consiglio Comunale per il rilascio di provvedimenti in deroga agli strumenti di pianificazione, detta una regola procedimentale generale, applicabile anche alla fattispecie di deroga ai fini dell'abbattimento delle barriere architettoniche di cui al terzo comma della stessa legge, poiché, in entrambi i casi, vengono esercitati, con il rilascio della concessione in deroga, poteri discrezionali in ordine all'opportunità di accordare o meno il titolo richiesto che comporta un mutamento dell'assetto urbanistico edilizio previsto con gli strumenti di pianificazione, mutamento per il quale è necessaria l'approvazione dell'organo cui compete la funzione pianificatoria.
La stessa regola procedimentale si ricava dall'art. 19 L.R. n. 6/1989, richiamato dall'art. 40, c. 3, L.R. 12/2005, che rimanda al procedimento di cui all'art. 41-quater L.U. che contempla il parere del Consiglio Comunale. Conseguentemente anche il provvedimento di deroga in sanatoria finalizzato all'abbattimento di barriere architettoniche necessita di un pronunciamento del Consiglio Comunale, risultando illegittimo l'atto che è stato adottato solo dal Dirigente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.01.2009 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATABarriere architettoniche - Nozione - Negativa - Ammissibilità.
La definizione di barriera architettonica codificata dall'art. 1 comma 2 del DPR 503/1996, a cui rinvia l'art. 78, comma 1, del DPR 380/2001, non comprende soltanto gli ostacoli fisici che impediscono l'uso normale degli spazi pubblici e quindi, per effetto del richiamo, anche di quelli privati: le norme citate non fanno, infatti, riferimento a una condizione normale di fruizione degli spazi edificati rispetto alla quale la barriera architettonica si configurerebbe quale addizione rimovibile, come se la normalità fosse conseguibile per rimozione dell'ostacolo.
La legislazione sulle barriere architettoniche, a partire dall'art. 27 L. 1187/1971, è invece focalizzata sulla qualità della vita di relazione del soggetto disabile, che deve essere facilitata tenendo presenti le condizioni mediche individuali e le esigenze terapeutiche, lavorative e familiari. Non può esservi quindi una definizione di barriera valida per tutti e soprattutto occorre riconoscere che la nozione di barriera può essere anche negativa, ossia può consistere nella mancanza di strutture idonee a facilitare le attività e i comportamenti che i soggetti disabili potrebbero comunque eseguire ma con impegno e rischi superiori. Lo stesso elenco di cui all'art. 1, comma 2, del DPR 503/1996 qualifica come barriera ogni impedimento alla "comoda e sicura utilizzazione" di spazi e attrezzature (lett. b) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, sentenza 11.11.2008 n. 1601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, 4° suppl. straord. al n. 30 del 25.07.2008:
- "Schede delle iniziative FRISL 2008/2010 «Miglioramento della mobilità stradale e sicurezza» e «Eliminazione barriere architettoniche»" (
deliberazione G.R. 11.07.2008 n. 7599 - link a www.infopoint.it).
- "Direzione Centrale Programmazione Integrata - Modalità per l'accesso ai contributi FRISL 2008/2010 iniziative: «Miglioramento della mobilità stradale e sicurezza» e «Eliminazione barriere architettoniche» (Fondo Ricostituzione Infrastrutture Sociali Lombardia) (l.r. 33/1991)" (
circolare regionale 14.07.2008 n. 12 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATAGaranzie superamento barriere architettoniche.
Viene posto quesito inerente ai requisiti igienico-sanitari necessari per l’apertura di un pubblico esercizio.
In particolare, la questione sottoposta all’esame del Servizio di Consulenza concerne le prescrizioni necessarie a garantire il superamento delle barriere architettoniche (Regione Piemonte, parere n. 130/2008 - link a www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 16.05.2008 n. 114, suppl. ord. n. 127, "Linee guida per il superamento delle barriere architettoniche nei luoghi di interesse culturale" (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, decreto 28.03.2008).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Barriere architettoniche - Recupero sottotetti - Art. 14 L.R. Lombardia 6/1989 - Ambito di applicazione - Conseguenze.
2. Barriere architettoniche - Visitabilità, adattabilità, accessibilità - Nozioni.
3. Concessione edilizia - Procedimento - Principio di partecipazione ex artt. 7 e 8 L. 241/1990 - Non applicabilità.

1. In relazione ad interventi di recupero dei sottotetti ad uso abitativo, le norme sull'abbattimento delle barriere architettoniche, di cui all'art. 14 L.R. 6/1989, si applicano limitatamente ai requisiti di visitabilità ed adattabilità dell'alloggio e non anche al requisito di accessibilità all'alloggio.
2. La visitatabilità è l'idoneità dei locali ad essere visitati da una persona disabile, che deve poter raggiungere la zona giorno e un servizio; per adattabilità si intende la possibilità di modificare nel tempo lo spazio costruito, allo scopo di renderlo completamente ed agevolmente fruibile anche da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale. L'accessibilità è invece la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia.
Visitabilità e adattabilità sono riferiti solo all'appartamento e non presuppongono l'accessibilità, che riguarda l'immobile nel suo insieme.
3. Per il rilascio dei titoli abilitativi in materia edilizia, non trovano applicazione gli artt. 7 e 8 Legge 241/1990, trattandosi di procedimenti ad istanza di parte (cfr. Cons. di Stato VI, 29.11.2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.02.2008 n. 314).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATASuperamento di barriere architettoniche - L. 13/1989 - Ambito soggettivo di applicazione.
Tra i soggetti tutelati dalle norme di legge speciale n. 13/1989, rientrano, oltre ai portatori di handicap, anche gli invalidi civili (Trib. Firenze 19.05.1992, n. 849), nonché gli ultrasessantacinquenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della loro età (Trib. Napoli 14.03.1994, n. 2606; conf. Pretura Roma 15.05.1996).
Superamento di barriere architettoniche - L. n. 13/1989 - Finalità - “Incentivi reali” - Applicazione - Presenza di un handicappato nel condominio - Necessità - Esclusione.
La finalità della legge n. 13/1989 è quella di assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, con ciò prescindendosi dall’esistenza di un diritto reale o personale di godimento da parte di un soggetto minorato, essendo unicamente rilevante l’obiettiva attitudine dell’edificio, anche privato, ad essere fruito da parte di qualsiasi soggetto; conformemente alla finalità così individuata, non è necessaria la presenza di un handicappato nel condominio ai fini dell’applicazione dei cosiddetti incentivi reali al superamento delle barriere architettoniche (artt. 2-7 della L. n. 13/1989), in quanto ciò che rileva è garantire l’effettivo svolgimento della vita di relazione da parte del soggetto minorato anche al di fuori della sua abitazione; a diverse conclusioni deve giungersi con riguardo alla parte dedicata agli incentivi economici (artt. 8-12), che invece richiedono l’effettiva residenza del minorato nell’edificio.
Superamento delle barriere architettoniche - Interventi su beni soggetti a tutela - Diniego - Art. 4 L. n. 13/1989 - Motivazione - Obbligo di esternazione della natura e della gravità del pregiudizio al bene tutelato.
In base alle disposizioni di cui alla L. n. 13/1989 (art. 4, IV e V comma) è possibile opporre il diniego alla realizzazione di interventi destinati ad eliminare o superare le barriere architettoniche anche su beni soggetti a tutela “solo nei casi in cui non sia possibile realizzare le opere senza un serio pregiudizio per il bene tutelato”, con conseguente obbligo per l’amministrazione, in caso di pronuncia negativa, di esternare la natura e la gravità del pregiudizio rilevato “…in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.04.2007 n. 1122 - link a www.ambientediritto.it).