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62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
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68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
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PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
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90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
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dossier VINCOLO PAESAGGISTICO ED ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
* * *
---> per il dossier sino al 2015 cliccare qui

per approfondimenti vedi anche:

Regione Lombardia:
Piano Territoriale Regionale (P.T.R.) <---> Regione Lombardia: Piano Paesaggistico Regionale (P.P.R.)
* * *
MINISTERO dei Beni e delle Attività Culturali <---> DIREZIONE Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio


SEGRETARIATO Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per la Lombardia

SOPRINTENDENZA città metropolitana di Milano <---> Soprintendenza di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio, Varese <---> SOPRINTENDENZA di Bergamo, Brescia <---> Soprintendenza di Cremona, Lodi, Mantova

anno 2023
novembre 2023

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Difformità edilizie e vincolo paesaggistico sopravvenuto: quale disciplina? (13.11.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Il perimetro applicativo della sanatoria paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004
Le strette maglie della sanatoria paesaggistica.
Le opere realizzate in assenza o in difformità della dovuta autorizzazione paesaggistica possono essere sanate sotto il profilo paesaggistico, ma la possibilità di sanatoria si scontra con la rigidità dell’art. 167, co. 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che ammette all’accertamento di compatibilità paesaggistica i soli interventi che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati. (...continua).

maggio 2023

EDILIZIA PRIVATAPaesaggio, mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto di tutela.

Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la sentenza 02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione, caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che, secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.09.2023).
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SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025 del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001, estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art. 6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013 dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
   - l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “
attività libera edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
   - l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici
”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche (tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno, visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti (finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico, canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di “Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto” (allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli “interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9 del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente in ordine al rilievo minimale dell’opera.

anno 2022
dicembre 2022

EDILIZIA PRIVATALinee guida per l'integrazione del fotovoltaico in contesti di pregio storico e paesaggistico - Indirizzi per la progettazione e l'installazione di sistemi fotovoltaici integrati nei contesti tutelati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004) in Lombardia (dicembre 2022).
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   Le linee guida per l'integrazione del fotovoltaico in contesti di pregio storico e paesaggistico definiscono i primi criteri per accompagnare l’integrazione dei sistemi fotovoltaici nel patrimonio edilizio storico-architettonico e paesaggistico presente in Lombardia, con un focus sui sistemi tecnologici innovativi BIPV (Building Integrated Photovoltaic).
   Sono uno strumento utile per indirizzare le scelte progettuali verso un corretto bilanciamento tra la tutela dei beni architettonici e del paesaggio e le esigenze di produzione di energia da fonti rinnovabili.
   Le linee guida si rivolgono a tutti coloro che si confrontano con scelte di trasformazione del territorio legate alle nuove forme di infrastrutturazione energetica: dai professionisti, installatori e produttori di impianti fotovoltaici agli enti preposti alla valutazione dei progetti (Soprintendenze, Enti locali, Commissioni per il paesaggio), policy makers e utenti finali.
   Il documento è stato sviluppato nel contesto del progetto europeo Interreg Italia-Svizzera BIPV Meets History per la creazione di una catena di valore per il fotovoltaico integrato in architettura nel risanamento energetico del patrimonio costruito transfrontaliero, che ha visto coinvolti Eurac Research (capofila italiano), SUPSI – Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (capofila svizzero) e Regione Lombardia.
   Nelle linee guida sono stati trasferiti i risultati della ricerca svolta nel corso del progetto e i contributi pervenuti dalle diverse briefing sessions organizzate con vari stakeholders: Soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Lombardia, Ordini professionali, Pubbliche Amministrazioni, aziende produttrici di sistemi BIPV.
   Per saperne di più
cliccare qui.
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Nelle "Linee guida" di cui sopra si fa presente, tra l'altro, a pag. 7 "... che è in corso la revisione generale del Piano Territoriale Regionale, comprensivo della componente paesaggistica (approvata con dgr 17.10.2022 n. 7170)" la cui deliberazione non è stata pubblicata sul BURL.

settembre 2022

EDILIZIA PRIVATALa richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza comporta l’effetto sospensivo, e non interruttivo, del termine di 45 giorni entro cui esprimere il proprio parere ex art. 146 dlgs 42/2004.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può, del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni, di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò, perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà, dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di integrazione documentale; il riferimento va:
   - all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
   - all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è sospeso fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e comunque per non più di trenta giorni";
   - all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
   - all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11, comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta sospeso ...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la disciplina primaria".
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione
”.
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... per l’annullamento:
   a- del diniego di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.lgs. n. 42/2004 prot. n. 28738 del 07.07.2022, notificato in pari data, del Comune di Capaccio Paestum ad “Oggetto: Diniego di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.l. relativo all'istanza presentata dalla sig.ra Ga.Iv. nata a ... (SA) il ... in qualità di legale rappr. della società "Ma.Gr. Srl' con sede in Capaccio Paestum (SA) al Viale ..., per la realizzazione di lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria di fabbricato esistente ai sensi della Legge Regionale n. 19 del 28.12.2009 e ss.mm.li." in località Capaccio Scalo, sull'area identificata in catasto al Foglio di Mappa n. 23, particella n, 69” nella parte in cui rigetta la istanza di autorizzazione paesaggistica;
   b- del parere contrario della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, prot. n. 13896-P del 17.06.2022 -così come citato dal Comune di Capaccio Paestum- e assunto al protocollo del Comune di Capaccio Paestum n. 26030 del 21.06.2022 (prot. pratica n. 34.43.04/165.567 Soprintendenza), notificato in data 05.07.2022, ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo" Piano Casa DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L. PARERE CONTRARIO” nella parte in cui nega alla società ricorrente la autorizzazione paesaggistica richiesta;
   c- ove occorra, della Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino (prot. Soprintendenza –così come citato dal Comune di Capaccio Paestum– n. 10493-P del 10.05.2022; prot. Comune di Capaccio Paestum n. 20452 del 10.05.2022) ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” Piano Casa DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L. "Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza" (L. 07.08.1990, n. 241 - art. 10-bis)”;
...
La società ricorrente, con il ricorso in epigrafe, notificato in data 28.07.2022 e depositato in pari data, deduceva in fatto:
   - di aver presentato in data 30.12.2020 al Comune di Capaccio Paestum una richiesta di permesso di costruire, con contestuale istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, per lavori di “Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” in applicazione del Piano Casa L.R. 19/2009 così come modificata dalla L.R. 1/2011, utilizzando tecniche costruttive conformi alle normative in zona sismica, materiali eco compatibili e miglioramento delle prestazioni energetiche;
   - che, in esito all’istruttoria comunale veniva predisposta la relazione tecnica illustrativa con proposta favorevole ai sensi dell’art. 146, comma 7, D.lgs. n. 42/2004, con relativo parere favorevole della Commissione Locale per il Paesaggio;
   - che, in data 04.11.2021 il Comune inoltrava, con nota pervenuta il 12.11.2021 e acquisita al protocollo il 15.11.2021, la richiesta di autorizzazione paesaggistica in oggetto per il parere preventivo della Soprintendenza ai sensi dell’art. 146, comma 5, del D.lgs. n. 42/2004;
   - che, in data 21.12.2021 la Soprintendenza formulava una richiesta di integrazioni, riscontrata dal Comune in data 17.03.2022, con nota pervenuta il 25.03.2022 e protocollata il 04.04.2022;
   - che, in data 10.05.2022 la Soprintendenza trasmetteva al Comune la comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della Legge n. 241/1990;
   - che l’Amministrazione provvedeva a notificare a mezzo Messo comunale il preavviso di rigetto;
   - di aver trasmesso, in data 07.06.2022, le osservazioni in merito al suddetto preavviso di rigetto, rappresentandone l’illegittimità;
   - che, in data 05.07.2022 il Comune notificava a mezzo Messo comunale il parere contrario della Soprintendenza del 17.06.2022 e, in data 07.07.2022, notificava il diniego di autorizzazione paesaggistica adottato in considerazione del parere contrario della Soprintendenza.
A sostegno del gravame venivano articolati i seguenti motivi di diritto:

  
A. SULLA ILLEGITTIMITÀ DEL PARERE DELLA SOPRINTENDENZA.
I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
Si deduceva l’illegittimità del parere negativo della Soprintendenza in quanto fondato su motivazioni non esplicitate nel preavviso di rigetto, il quale conteneva formule vuote, atecniche, che non consentivano alla società di sviluppare un contraddittorio completo e proficuo.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5 E 8, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A. DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968, N. 1444.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità delle ragioni poste a fondamento del parere della Soprintendenza, in quanto manifestamente illogiche, fondate su dati erronei e comunque carenti sotto il profilo istruttorio.
In particolare, la Società ricorrente rappresentava, tramite relazione tecnica allegata, che “il parere contrario da parte della Soprintendenza sia totalmente infondato ed errato in quanto il progetto in questione:
   - E' conforme sia ai vigenti strumenti urbanistici e sia in applicazione della L.R. N. 19 del 28.12.2009, modificata dalla L.R. n. 1 del 05.01.2011 e ss.mm.ii.;
   - Prevede la riduzione del rischio sismico e del risparmio energetico in conformità alle vigenti disposizioni di legge;
   - E' fortemente contestualizzato rispetto al centro cittadino di Capaccio Scalo, e non è certo distonico, così come definito dalla Soprintendenza:
   - Promuove una tipologia edilizia moderna, capace di rispondere agli standard qualitativi necessari che con le dovute personalizzazioni è già presente sul territorio, risultando già stata assentita
”.

  
B. SULLA ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM.
I. ILLEGITTIMITÀ IN VIA DERIVATA.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5, 8 E 9, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A. DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968, N. 1444.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità derivata del provvedimento di diniego, in quanto fondato esclusivamente sul parere contrario della Soprintendenza.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 8 E 9, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17-BIS L. N. 241/1990.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva che, il parere della Soprintendenza doveva ritenersi non vincolante in quanto tardivo e, conseguentemente, doveva essere autonomamente e motivatamente valutato dal Comune nel provvedimento di diniego; pertanto, il diniego di rilascio, fondato esclusivamente sul tale parere, risultava illegittimo.
Altresì si seduceva la mancata motivazione del provvedimento di diniego anche con riguardo al parere favorevole della Commissione per il Paesaggio.
...
Il gravame è in parte manifestamente inammissibile e in parte manifestamente fondato e pertanto può essere deciso con sentenza in forma semplificata.
Innanzitutto, il ricorso va dichiarato inammissibile quanto all’impugnativa del parere della Soprintendenza.
Come da consolidata giurisprudenza amministrativa “Il parere espresso dalla Soprintendenza oltre il termine di quarantacinque giorni previsto dalla legge perde la propria normale vincolatività degradando a parere non vincolante. Quindi, l'Amministrazione procedente deve, a quel punto, valutarlo criticamente e motivatamente” (ex multis, TAR Campania-Napoli Sez. III, sent. 14.01.2021, n. 275).
Nel caso di specie, non vi è possibilità di dubbio circa la (incontestata) tardività del parere.
Invero, la richiesta di parere è pervenuta il 12.11.2021 (v. all. 2 del fascicolo di parte resistente); la Soprintendenza ha richiesto integrazioni in data 21.12.2021 e il Comune ha riscontrato la richiesta con nota pervenuta il 25 marzo (v. all. 6 e 9 del fascicolo di parte resistente).
Successivamente, in data 10.05.2022 la Soprintendenza ha trasmesso al Comune di Capaccio Paestum la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 e, non ritenendo sufficienti le osservazioni presentate dall’odierna ricorrente, ha adottato il parere negativo in data 17.06.2022, notificato a mezzo Messo comunale in data 05.07.2022 (v. all. 8 e 11 del fascicolo di parte resistente).
La tardività discende, in particolare, dall’effetto sospensivo e non interruttivo della richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può, del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni, di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò, perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà, dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di integrazione documentale; il riferimento va:
   - all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
   - all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e comunque per non più di trenta giorni";
   - all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
   - all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11, comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta
sospeso ...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la disciplina primaria" (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 1542 del 23.06.2021).
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera
sospensione
” (TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 29.11.2021, n. 2589).
Ne deriva che il ricorso è inammissibile in parte qua, poiché censura un parere non avente natura provvedimentale (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 05.09.2022 n. 2325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2022

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica – Istanza – Verifica preliminare in ordine alla necessità del titolo – Fase successiva – Solo in caso di esito positivo.
L’amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, una volta ricevuta l’istanza, verifica preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude.
Il controllo, sotto il profilo formale, che la documentazione allegata all’istanza sia conforme a quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e quindi dal d.P.C.M. 12.12.2005, attuativo della norma primaria), sopraggiunge in una fase successiva e può comportare la richiesta all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o insufficienza di quanto prodotto, delle opportune integrazioni utili al fine dell’effettuazione degli «accertamenti del caso».

...
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica – Intervento per il quale è richiesto il titolo – Preclusione assoluta – Arresto del procedimento in fase preliminare al vero e proprio giudizio di compatibilità.
Laddove l’intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell’area di riferimento, il procedimento deve arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità paesaggistica.
Invero il senso fatto proprio dal tenore letterale delle parole, che impone «gli accertamenti del caso» in funzione del rispetto della regolamentazione vincolistica, implica innanzi tutto uno screening preventivo destinato a sfociare in un immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni di merito si palesino del tutto superflue, per la radicale inammissibilità tipologica dell’attività edilizia: ciò del resto risponde a elementari ragioni di economia procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità, allorquando non sussista alcuna possibilità di realizzare alcunché
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.07.2022 n. 6180 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche se richiesto, il giudizio di compatibilità paesaggistica non va effettuato, se l’opera ne è esclusa.
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Paesaggio – Autorizzazione paesaggistica – Intervento escluso - Compatibilità paesaggistica – Giudizio – Esclusione.
   Edilizia – Sanatoria – Accertamento di conformità - Ulteriori opere edilizie – Rilascio condizionato – Inammissibilità.
   L’amministrazione richiesta del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ove verifichi preliminarmente che l’intervento ne è escluso ai sensi dell’art. 149, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, non deve effettuare alcun giudizio di compatibilità paesaggistica.
  
L’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 non può essere subordinato all’esecuzione di ulteriori opere edilizie, anche se finalizzate a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità, ponendosi ciò in contrasto con gli elementi strutturali dell’istituto, che presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro attuale conformità alla disciplina urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.07.2022 n. 6180 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
8.1. La censura è infondata, seppure con le precisazioni che seguono.
8.2. Ha affermato il TAR che la legittimità del provvedimento impugnato consegue alla radicale inammissibilità dell’intervento richiesto (cambio di destinazione d’uso dell’immobile, previa demolizione del manufatto in lamiera, ricostruendolo non in legno, come previsto dal titolo, ma in muratura) sulla base del regime giuridico contenuto nel PUT, nel PRG e nella l.r. Campania n. 19 del 2009.
8.3. Il terreno su cui insiste il manufatto ricade infatti in zona territoriale “1b” del PUT dell’area sorrentino-amalfitana ed in zona omogenea “E2/1” del PRG, con riferimento alla quale è in generale preclusa qualsivoglia nuova edificazione. Uniche attività ammesse, pur sempre sul patrimonio immobiliare preesistente, sono quelle di manutenzione ordinaria, straordinaria e, entro certi limiti, di restauro conservativo (art. 17 del PUT), ai cui paradigmi non può in alcun modo essere ricondotta un’attività di demolizione totale e successiva ricostruzione in muratura con conseguente cambio di destinazione d’uso da agricola a residenziale.
9. L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 disciplina il procedimento di autorizzazione degli interventi di trasformazione del territorio aventi l’attitudine ad incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere.
Rispetto alla previgente disciplina, contenuta nell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, si riconosce che la norma persegue una protezione più ampia, non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o rilevanza estetica, approntando una strumentazione giuridica finalizzata alla salvaguardia del complesso di interessi che sono considerati manifestazione di valore identitario, di sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento di un territorio, derivanti da interventi antropici e naturali, nonché dalla loro interazione.
Sotto tale profilo non può non condividersi la enfatizzata autonomia, da parte dell’appellante, del titolo paesaggistico rispetto a quello edilizio, anche nella parte in cui quest’ultimo esprime i valori di ordinato sviluppo del territorio sottesi alle scelte urbanistiche attuate nei singoli provvedimenti di pianificazione; il che del resto ha trovato pieno conforto nella giurisprudenza, secondo cui l’autorizzazione paesaggistica non deve indulgere alla valutazione della compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico, anche di analoga valenza, quale la tutela dell’ambiente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2021, n. 2640).
9.1. Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la Regione, ovvero l’ente dalla stessa delegato, vale a dire, nella maggior parte dei casi, i Comuni. Essa deve previamente acquisire il parere vincolante del Soprintendente, il quale si pronuncia entro un termine indicato, diverso per estensione e significatività laddove si tratti di autorizzazioni c.d. “semplificate”, ovvero riferibili agli interventi minori oggetto del d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (cui l’appellante, come già ricordato, pretende di ricondurre anche quello di cui è causa).
10. Esula dalla presente controversia ogni indagine sulla natura co-gestoria del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (questione che ha dato adito a significativi dibattiti, anche in ragione della recente novella costituzionale, circa gli effetti del silenzio o del tardivo esercizio del potere della Soprintendenza, nonché in ordine all’an e al quomodo dell’applicazione degli istituti di cui agli artt. 17-bis e 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990, quest’ultimo introdotto dalla l. n. 120 del 2020), giacché le relative problematiche attengono al piano del perfezionamento e sviluppo del procedimento, non a quello del momento del suo avvio, che costituisce l’oggetto della fattispecie.
10.1. Ciò posto, si osserva che il procedimento diretto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica comporta che l’amministrazione competente, una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude.
Il controllo, sotto il profilo formale, che la documentazione allegata all’istanza sia conforme a quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e quindi dal d.P.C.M. 12.12.2005, attuativo della norma primaria), sopraggiunge in una fase successiva e può comportare la richiesta all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o insufficienza di quanto prodotto, delle opportune integrazioni utili al fine dell’effettuazione degli «accertamenti del caso». In concreto quindi l’amministrazione è chiamata a verificare «la conformità dell’intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici».
Non può ragionevolmente negarsi che laddove l’intervento per il quale è richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell’area di riferimento, il procedimento debba arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di compatibilità paesaggistica. Invero il senso fatto proprio dal tenore letterale delle parole, che impone «gli accertamenti del caso» in funzione del rispetto della regolamentazione vincolistica, implica innanzi tutto uno screening preventivo destinato a sfociare in un immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni di merito si palesino del tutto superflue, per la radicale inammissibilità tipologica dell’attività edilizia: ciò del resto risponde a elementari ragioni di economia procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità, allorquando non sussista alcuna possibilità di realizzare alcunché.
10.2. Il che è quanto si è verificato nel caso di specie e di cui era ben consapevole anche l’appellante, stante che le osservazioni inoltrate dal progettista in riscontro al preavviso di diniego non lambiscono in alcun modo l’ambito paesaggistico, ma si dilungano piuttosto sulla assentibilità urbanistica dell’opera, in ragione della rivendicata consistenza di “edificio” preesistente della baracca oggetto del condono.
11. Il cambio di destinazione d’uso “strutturale” o con opere è stato peraltro richiesto non avanzando istanza di permesso di costruire, nella evidente consapevolezza che non ne era possibile il rilascio, bensì in variante al “progetto” migliorativo costituente il presupposto di assenso della sanatoria e dunque in variante rispetto alla stessa.
11.1. E’ appena il caso di sottolineare al riguardo che in linea generale l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o di regolamento. Non è invece possibile laddove si intenda con le stesse perseguire finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato –legato allo svolgimento dell’attività edificatoria– così da funzionalizzarlo ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore.
11.2. A ben diverse conclusioni si deve invece giungere con riferimento alla apponibilità di “prescrizioni” al titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Va al riguardo ricordato che col termine “sanatoria” vengono tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria”, consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”).
La genesi dell’istituto risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (art. 13), che ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta nella l. 28.01.1977, n. 10, ed è oggi trasfusa nell’articolo 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda, sostituito in alcune Regioni dalla presentazione di una s.c.i.a. La parola “condono” invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
11.3. Con riferimento all’accertamento di conformità o sanatoria ordinaria, per come oggi definita dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la tesi ostativa alla apposizione di condizioni muove dall’assunto che il presupposto espressamente richiesto dalla norma è che l’intervento da sanare risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Il divieto di contenere prescrizioni è diretto corollario di tale cornice giuridica, poiché altrimenti si finirebbe per postulare non già la “doppia conformità” delle opere abusive richiesta dalla norma, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì –eventualmente– solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato alle stesse (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4176, secondo cui «alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità», atteso che «contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica»).
12. Il Comune di Massa Lubrense, che ha evaso solo nel 2017 l’istanza del 1986 ai sensi della l. n. 47 del 1985, ha finito per richiamare nelle premesse della sanatoria del 2017 tutte le normative relative (anche) ai successivi condoni del 1994 e del 2003: ma sempre di condono e non di accertamento di conformità si tratta.
Pur non potendo estendere al caso di specie le considerazioni ostative connesse al requisito della doppia conformità, in quanto non operante, l’approccio alla facoltà di apporre condizioni ad una sanatoria non può non essere egualmente cauto, in quanto esse comunque accedono ad un titolo che presuppone l’avvenuta ultimazione dell’opera.
Il condono, cioè, al pari di qualsivoglia sanatoria e proprio in quanto tale, non può essere utilizzato per legittimare attività edilizia nuova ed ulteriore rispetto a quella oggetto della richiesta, da porre in essere in epoca successiva al limite temporale che la legge prende di volta in volta in considerazione quale precondizione perché possa farsi in concreto applicazione dell’istituto clemenziale.
Esso va a sanare sul piano giuridico (nel concorso delle condizioni previste) una situazione di fatto costituita dalla presenza di opere edilizie già realizzate sine titulo ovvero con variazioni essenziali rispetto allo stesso, che altrimenti non potrebbero essere utilizzate, e costituisce la soluzione alternativa rispetto alla demolizione in funzione del ripristino dell’ordine urbanistico-edilizio violato.
Tuttavia, proprio in ragione di tale finalità, che implica l’“accettazione” di un’opera, la cui compatibilità col contesto non è stata previamente vagliata, non si è mai radicalmente escluso che il provvedimento di sanatoria possa congiuntamente abilitare l’interessato alla realizzazione di interventi di mero completamento del fabbricato abusivo, inteso esso in accezione rigorosamente restrittiva, ovvero senza incrementi volumetrici o di superfici, al solo fine di rendere possibile l’ordinaria utilizzazione, conformemente alla sua destinazione d’uso, ovvero per mitigarne l’impatto paesaggistico, rendendolo maggiormente coerente con il contesto ambientale.
Tale genere di interventi (normalmente di natura edilizia, ma non solo, ove si pensi, ad esempio, alla semplice piantumazione di nuove essenze arboree) non potrebbero essere scissi, già sul piano logico-funzionale, dal titolo in sanatoria, che anzi viene rilasciato solo a condizione che essi siano realizzati, conformemente al progetto presentato.
La nozione di completamento funzionale implica tuttavia uno stato di avanzamento nella realizzazione dell’immobile tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tamponatura), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.02.2019, n. 1190).
13. A tali evenienze sono state così ricondotte le condizioni miranti a migliorare -recte, più semplicemente a rendere “accettabile”– l’impatto visivo di manufatti che per la loro risalenza nel tempo, la tipologia di materiali utilizzati, la totale incuria manutentiva, avrebbero finito per cristallizzare, ove mantenuti nel loro status quo ante, situazioni di vero e proprio degrado urbano.
Da qui le “condizioni” di “ricostruire” l’immobile sanato utilizzando materiali più consoni, o diverse rifiniture o semplicemente tinteggiature, indebitamente assorbendo, in verità, nel titolo la parte ad esso intrinsecamente consona di “congelamento” dello stato di fatto preesistente, con un’attività di sostanziale riedificazione, la cui legittimazione ex ante è tutt’affatto scontata non foss’altro che per la possibile sopravvenienza di vincoli.
Il tutto, evidentemente, purché il volume da condonare non sia riferibile ad una struttura la cui fatiscenza o livello di ammaloramento o finanche consistenza originaria è tale da non consentirne neppure la qualificazione come “immobile”, e dunque, più in generale, quale “edificio” o “manufatto” che dir si voglia, valorizzandone la sostanziale precarietà ai fini di un ipotetico diniego del titolo.
13.1. E’ evidente pertanto che nell’utilizzare tali condizioni l’amministrazione deve ricercare con attenzione il giusto punto di equilibrio tra comprensibili esigenze di funzionalità e miglioramento estetico-qualitativo riconducibili al dato di fatto della conseguente legittimazione del mantenimento del manufatto in sito, e portata sanante del titolo, che proprio in quanto tale deve essere rivolta esclusivamente al passato, pena la compromissione dei più elementari principi di certezza del diritto, che non consentono “fluttuazioni” dello stato di fatto ad esso sotteso.
13.2. Ben diversa è la disciplina del “completamento funzionale” di un intervento abusivo espressamente previsto del legislatore, che all’art. 43, comma 5, della l. n. 47 del 1985, consente appunto la sanatoria di un’opera che non si è potuto completare «per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità».
Non avendo la norma utilizzato il consueto riferimento alla “ultimazione” delle opere, ne è evidente l’applicabilità anche a manufatti non completi al rustico ovvero mancanti delle sole finiture, purché più genericamente “realizzati”. «Il che può dirsi anche se difettano le tamponature esterne, nei termini in cui questo risultato consenta comunque di percepire la concreta fisionomia del manufatto e la sua destinazione, cioè di identificare nei tratti essenziali l’opera da sanare e completare» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.05.2022, n. 3806; id., 09.01.2014, n. 39).
Va peraltro ricordato come essa trovi applicazione anche nel caso in cui esistano provvedimenti sanzionatori, non ancora eseguiti, adottati a seguito di giudizio di ottemperanza (art. 12-bis del d.l. 12.01.1988, n. 2, convertito, con modificazioni dalla l. 13.03.1988, n. 68).
14. La concessione in sanatoria della baracca di cui è causa è stata dunque “condizionata” sia alla (peraltro richiesta) sostituzione degli originari pannelli in lamiera metallica con tavolato ed assiti di legno e successiva copertura di tegole del tipo a coppi napoletane su struttura lignea e/o di ferro, sia imponendo una riduzione volumetrica. Il tutto sulla scorta anche dei pareri rilasciati dalla Soprintendenza per i beni ambientali di Napoli, il cui contenuto, richiamato per relationem, costituisce parte integrante della descrizione dell’intervento.
Il Comune tuttavia ha inteso interpretare tali “condizioni” non come sostanzialmente contestuali al condono medesimo, in quanto diretto effetto dello stesso, bensì come indicazioni progettuali, richiamando perfino la tempistica di avvio e di successiva ultimazione dei lavori così da introdurre un’indebita promiscuità di regime giuridico rispetto ad un vero e proprio permesso ordinario. Da qui l’equivoco –recte, la strumentalizzazione– della prospettiva “aperta” del titolo da parte dell’appellante, che ne ha addirittura tentato la variante in corso d’opera.
15. L’avvenuto utilizzo di “condizioni” in un condono, peraltro, impone all’interprete la non facile ricerca delle possibili conseguenze della loro inosservanza, in assoluto (si pensi alla configurabilità o meno dell’ipotesi di illecito di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), del T.u.e., riferito all’inosservanza, tra l’altro, anche delle prescrizioni contenute in un permesso di costruire, in verità ordinario), ma soprattutto in relazione alla originaria validità e efficacia del titolo cui esse accedono.
La natura sostanzialmente dovuta del condono a condizioni date, porterebbe a ritenere la condizione tamquam non esset, con conseguente efficacia della sanatoria nella sua funzione originaria di legittimazione postuma di quel che c’è, ove possibile per consistenza, e non di quello che sarebbe stato meglio realizzare. A diverse conclusioni deve tuttavia giungersi laddove il proprietario abbia spontaneamente deciso di dare avvio ai lavori di adeguamento alla condizione imposta, con ciò trasformando l’abuso in un “cantiere” e i lavori in “non ultimati”, sì da far venire meno, a maggior ragione laddove la situazione si protragga nel tempo, i presupposti dell’operatività del condono.
16. Nel caso in esame infatti, come già chiarito sopra, il Comune ha preteso dalla proprietà una modifica dei materiali (agevolmente comprensibile nella logica migliorativa poc’anzi esposta), nonché una (assai meno spiegabile) riduzione volumetrica del manufatto, ma ha inteso anche imporre una tempistica precisa di realizzazione dell’intervento, mutuata da quella del permesso di costruire ordinario, ovvero 12 mesi per avviare i lavori e tre anni per ultimarli.
Per quanto anomala tuttavia si presenti la sanatoria condizionata rilasciata all’appellante dal Comune di Massa Lubrense, la sua immutata natura di titolo di legittimazione postumo si palesa ontologicamente incompatibile con l’ipotizzata variazione di una (inesistente) progettualità già assentita.
16.1. Ai fini della riconducibilità delle modifiche ad un progetto assentito a semplice s.c.i.a. in variante, la normativa (art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001) richiede espressamente che esse non abbiano inciso sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificato la destinazione d’uso e la categoria edilizia, alterato la sagoma dell’edificio, nonché che non siano state violate le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Requisiti tutti insussistenti nella fattispecie in esame, dichiaratamente volta ad una modifica di destinazione d’uso tra categorie di sicuro impatto urbanistico diversificato, per giunta “camuffando” quale “modifica” (variante, appunto) la sostanziale inosservanza delle prescrizioni costruttive imposte.
L’intera operazione configurerebbe piuttosto, ove accessiva ad un permesso di costruire ordinario, una variazione essenziale dallo stesso, come tale necessitante di autonomo titolo edilizio, ovviamente non conseguibile nelle zone di cui è causa. Mentre le varianti in senso proprio, infatti, comportano modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto ad un progetto approvato, e sono per tale ragione soggette al rilascio di un titolo complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto a quello originario; le varianti essenziali si caratterizzano per l’incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, e pertanto per esse, soggette comunque al rilascio di permesso di costruire nuovo ed autonomo rispetto a quello originario, valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27.02.2014, n. 34099).
In base alla norma infatti, si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, ubicazione, nonché, per quanto di specifico interesse, destinazione. Il che è quanto si configura nel caso di specie, ove in luogo della baracca ad uso agricolo che si va a demolire si vorrebbe realizzare non un manufatto eguale per destinazione, ma migliorato per materiali (legname, anziché lamiere), ma addirittura una casa di abitazione, come tale necessariamente in muratura.
17. Tali considerazioni sono ben sintetizzate nel corpo del provvedimento impugnato, laddove si afferma che le opere che si vorrebbero realizzare, «sebbene richieste come variante alla concessione edilizia (condono) n. 58/17, di fatto, sono relative alla trasformazione di una baracca costituita da pannelli in lamierato metallico (lamiere zincate), sorrette da una struttura lignea in pali di castagno, di cui si prevede la totale demolizione con successiva ricostruzione di un manufatto in muratura, con cambio di destinazione d’uso in abitazione», senza che peraltro si sia neppure ipotizzato l’utilizzo di materiali lignei, dato che la variante, presentata a pochi giorni di distanza dalla comunicazione di inizio lavori, pare conseguire ad un disegno originario, piuttosto che porre rimedio a difficoltà esecutive o mutamenti di fatto sopravvenuti.
18. Quanto alla “modifica di destinazione d’uso” deve poi osservarsi come essa non costituisca una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma 1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare).
L’art. 10 del medesimo Testo unico a sua volta nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, quanto meno laddove si risolva comunque in un impatto sul carico urbanistico della zona.
18.1. Le categorie di destinazione urbanistica sono state introdotte a livello nazionale col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.11.2014, n. 164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per l’edilizia, al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti.
La disposizione, che riduce a cinque le categorie previste (residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale) individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante” il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”). All’interno di tali distinzioni generali l’identificazione delle categorie avviene ad opera della legislazione regionale e ancor più in dettaglio negli strumenti urbanistici comunali.
18.2. Il cambio di destinazione d’uso che consegue ad una demolizione integrale con successiva ricostruzione, configurando o una nuova costruzione o una ristrutturazione, necessita di titolo edilizio autonomo e non può in alcun modo essere assentito in variante, men che meno a concessione in sanatoria. Anche sotto tale profilo pertanto l’intervento di cui trattasi non era assentibile.
19. Resta da dire della pretesa riconducibilità dell’intervento al già richiamato regime di favore contenuto nel c.d. “Piano casa”, ovvero la l.r. n. 19 del 2009, che consente il recupero del preesistente patrimonio immobiliare rurale a prescindere dal sopravvenuto regime di inedificabilità dei suoli.
Al riguardo deve richiamarsi, in linea con la giurisprudenza che ha marcato una netta distinzione fra pianificazione urbanistica e paesaggistica, la derogabilità soltanto della prima da parte della legislazione regionale in materia di c.d. “Piano casa” (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. III, 10.01.2020, n. 14242, ove, nel richiamare la giurisprudenza amministrativa, si afferma che, in ragione della gerarchia esistente fra pianificazione paesaggistica e pianificazione urbanistica, l’intervento del piano-casa può in generale limitatamente incidere sul solo profilo urbanistico e non anche su quello paesaggistico).
Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze n. 51 del 2006 e n. 308 del 2013), nell’esercizio delle proprie competenze in tema di edilizia ed urbanistica le Regioni, finanche a statuto speciale, non possono travalicare i vincoli posti dal legislatore nazionale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”, anche sulla base del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, ora ricondotta anche ai principi generali (art. 9, comma 3, recentemente novellato), di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali.
A ciò consegue che le disposizioni della l.r. n. 19 del 2009 non possono essere lette nel senso di consentire di edificare in deroga al vincolo paesaggistico.
20. L’art. 6-bis, in particolare, specificamente invocato dall’appellante, nel disciplinare gli interventi edilizi in zona agricola, ammette i mutamenti di destinazione d’uso di immobili o di loro parti, purché «regolarmente assentiti», per uso residenziale del proprietario dell’immobile o di chi abbia titolo a richiederli.
Nel caso di specie, ammesso e non concesso che alla luce delle considerazioni svolte l’immobile possa considerarsi ancora “regolare”, esso non esiste neppure sul piano fattuale, atteso che per realizzarlo si ipotizza la demolizione totale della preesistente baracca in lamiera, condonata (solo) purché realizzata in legno.
In sintesi, sia perché la baracca non può, o non può più considerarsi «regolarmente assentita», come richiesto dalla norma, sia perché essa, proprio in quanto tale, non è assimilabile ad un edificio ad uso anche parzialmente residenziale, cui alludono gli artt. 4 e 5 della l.r. n. 19 del 2009, richiamati dall’art. 6-bis, non è in alcun modo ipotizzabile una preesistenza tale da consentirne il recupero in funzione abitativa.
21. Né può ritenersi tale ricostruzione estranea al contenuto motivazionale dell’atto impugnato, siccome affermato dal primo giudice, che ha inteso valorizzare al riguardo l’intervento chiarificatore della difesa civica.
Lo stesso infatti reca un esplicito richiamo alla l.r. n. 19 del 2009, ritenendola inapplicabile «in quanto le caratteristiche costruttive e tipologiche della struttura oggetto di intervento (baracca costituita dall’assemblaggio di pannelli in lamiere di carattere su struttura in pali in legno), non sono riconducibili alla definizione di immobile con le caratteristiche di “edificio “ai sensi dell’art. 2 e succ. previste dalla richiamata legge R.C. n. 19/2009».
La Parte II del medesimo atto, dedicata alla confutazione delle controdeduzioni di parte, riportando testualmente il contenuto definitorio dell’art. 2, lett. b), della medesima legge regionale, ribadisce come una baracca non possa essere parificata ad un “edificio residenziale”, nella logica di recupero del patrimonio rurale preesistente, né in senso ancor più lato a qualsivoglia “edificio”, non attagliandosi alle sue modalità costruttive nessuno dei sistemi individuati dall’art. 54 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In che misura tale affermata sostanziale inconsistenza strutturale avrebbe dovuto impattare sulla valutabilità della stessa domanda di condono è questione che esula dal perimetro dell’odierna controversia (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.07.2022 n. 6180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2022

EDILIZIA PRIVATAVincolo alle ville vesuviane indipendentemente da chi ne sia il proprietario.
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Beni culturali – Vincolo – Ville vesuviane.
Le ville vesuviane incluse nell’elenco approvato con d.m. 19.10.1976 costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la l. n. 578/1971, per identità di finalità e funzioni, si pone come normativa speciale rispetto a quella generale, in tema di tutela dei beni culturali, dettata dalla L. n. 1089/1939 e successivamente dai D.Lgs. nn. 490/1999 e 42/2004.
La previsione degli interventi e sussidi pubblici e dei particolari obblighi di fare espressamente contemplati dalla L. n. 578/1971 (artt. 14 e segg.), logicamente presuppone l'insistenza di quelli di non fare di cui alla legge generale e delle specifiche tutele da questa accordate ai beni culturali (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 06/05/2013, n. 2420).
Nell'impostazione della menzionata legge speciale, la natura culturale del bene deriva, dunque, direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposta commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del Ministero ai sensi del menzionato art. 13, comma 3.
Dalle esposte considerazioni discende, pertanto, che le ville vesuviane incluse nel suddetto elenco, nella specie approvato con D.M. 19/10/1976 e pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse.
La Sezione ha poi chiarito che se è vero che lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela (Cons. Stato, Sez VI, 14/10/2015, n. 4747; 16/07/2015, n. 3560; 08/04/2015, n. 1779; 27/11/2012, n. 5989; 11/06/2012, n. 3401), ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nella specie, ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione (che potrebbe essersi verificata anteriormente all’imposizione del vincolo) e l’estensione del vincolo (che pur potendosi logicamente estendere al giardino non è determinato precisamente nella sua estensione e potrebbe –ipoteticamente- esser fatto oggetto di eventuali approfondimenti collegati ad un piano di recupero che esula però dall’oggetto del contenzioso e si proietta in una futura azione amministrativa che non può in alcun modo rilevare nel processo) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.05.2022 n. 3605 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2022

EDILIZIA PRIVATAAlla Corte costituzionale la questione della natura giuridica dell’indennità prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio).
Il Consiglio di giustizia amministrativa torna ad occuparsi della c.d. indennità paesaggistica (dovuta in caso di accoglimento della domanda di sanatoria paesaggistica), sottoponendo alla Corte costituzionale sia l’annosa questione della reviviscenza di norme abrogate da una disposizione già dichiarata incostituzionale, sia –sotto il profilo sostanziale– la questione della natura giuridica dell’indennità prevista dall’art. 167, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio (di cui al d.lgs. n. 42 del 2004), vale a dire se si tratti di sanzione amministrativa o di mera riparazione per il danno ambientale provocato.
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Ambiente – Regione siciliana – Vincolo paesaggistico sopravvenuto – Sanzioni amministrative pecuniarie – Esclusione – Questione rilevante e non manifestamente infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 9, 117, secondo comma, lett. s), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge della Regione siciliana n. 17 del 1994, nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della Corte costituzionale 08.02.2006, n. 39 –che fornisce un’interpretazione autentica del disposto di cui all’art. 23, comma 10, della legge della Regione siciliana n. 37 del 1985, secondo la quale, in caso di vincolo paesaggistico apposto successivamente all’edificazione di un manufatto abusivo, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie a carico dell’autore dell’abuso–, in quanto appare violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, con significativa alterazione del meccanismo delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 (…), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (1).
E’ altresì rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Ciò, in quanto la norma censurata consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria negativa in caso di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Altrettanto non avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a fronte della medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del paesaggio che non può essere difforme (2).

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    (1-2) I. – Con la sentenza (non definitiva) in rassegna –nonché con le coeve sentenze non definitive n. 215 e n. 216- il C.g.a. torna ad interrogare la Corte costituzionale (si vedano le precedenti decisioni 14.06.2021, nn. 532 e 533 la prima delle quali oggetto della NEWS US n. 68 del 09.08.2021 alla quale si rinvia per approfondimenti), su una controversa disposizione di legge della Regione siciliana, l’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994, già oggetto della sentenza della Corte 08.02.2006, n. 39 (in Foro it., 2006, I, 2994, con nota di FUZIO), ponendo –tra le altre cose– un interrogativo in tema di reviviscenza di norme abrogate da disposizione dichiarata incostituzionale.
La questione concerne l’istituto della c.d. indennità paesaggistica, disciplinato a livello nazionale dall’art. 167, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004), il quale dispone che il proprietario, possessore o detentore dell’immobile, che –su sua domanda– abbia ottenuto l’accertamento di compatibilità paesaggistica degli interventi abusivamente realizzati, “è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”.
Nel giudizio dinnanzi al C.g.a. (come in quelli precedenti sopra citati) viene in considerazione l’ipotesi del vincolo paesaggistico sopravvenuto, imposto dalla legge n. 431 del 1985 (cosiddetta “Legge Galasso”) successivamente alla realizzazione degli interventi abusivi (nella specie la realizzazione di un appartamento posto al piano secondo, facente parte di un edificio condominiale composto da cinque elevazioni nel Comune di Agrigento). L’unica differenza in punto di fatto, rispetto ai citati precedenti citati del C.g.a., è costituita dalla assenza della questione inerente la trasmissibilità della sanzione agli eredi e della possibile violazione, in tema, dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981.
   II. – La fattispecie esaminata dal giudice rimettente si riferisce ad una questione assai rilevante per la Regione siciliana (nonché per il patrimonio paesaggistico nazionale e addirittura mondiale) quale è quella degli abusi realizzati nella valle dei templi di Agrigento, zona soggetta a vincolo solo a partire dal 1985.
La decisione della Corte costituzionale, sollecitata dal C.g.a., è destinata a regolare numerose controversie tuttora pendenti (circa 80) presso il medesimo plesso. Il giudizio di primo grado, deciso dal Tar per la Sicilia, sezione I, con sentenza 03.05.2021 n. 1423, aveva visto vittoriosa la parte privata, con annullamento dell’ingiunzione di pagamento disposta nei suoi confronti.
Secondo il Giudice di prime cure, assumeva portata decisiva:
- l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino al sopravvenire della l. n. 431 del 1985, c.d. legge Galasso);
- la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico al momento in cui l’abuso venne commesso;
- la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed aver argomentato sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della L. n. 689 del 1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della legge regionale della Sicilia n. 17 del 1994.
Nella sentenza in commento il C.g.a. -come in quelle precedenti citate- sostiene invece la tesi opposta, che esclude la natura di sanzione amministrativa dell’indennità de qua. Da tale premessa si sviluppa il ragionamento del giudice di appello che lo conduce a ritenere imprescindibile, per la soluzione della controversia, l’applicazione della normativa regionale in tema di indennità paesaggistica (nella formulazione anteriore a quella dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 39 del 2006 della Corte, che oggi, secondo il C.g.a., rivive), sospettata di ledere la Costituzione sotto il profilo della diminuzione del livello di protezione ambientale che risulta garantito, per l’intero territorio nazionale, dalla disciplina di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Per quanto concerne i passaggi salienti della decisione in rassegna, si rinvia alla citata NEWS US n. 68 del 2021 con particolare riferimento ai §§:
   a) inerente il quadro normativo vigente;
   b) sulle ragioni per cui l’indennità prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 non costituisce una sanzione amministrativa, ma ha solo natura riparatoria del danno ambientale, con conseguente non applicazione della legge n. 689 del 1981;
   d) sulla questione del vincolo sopravvenuto alla realizzazione delle opere;
   e) sulle ragioni per cui, nel caso all’esame, il C.g.a. ritiene che l’indennità paesaggistica prevista dall’art. 167, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio sia effettivamente dovuta, soffermandosi sull’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994 che –nel suo testo originario, prima della sostituzione recata dall’art. 17, comma 11, della legge regionale n. 4 del 2003– disponeva (con norma interpretativa del precedente art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985) quanto segue: “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”. Di modo che, in base all’ultimo periodo di detta disposizione, in Sicilia sarebbe inibita l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto. La disposizione regionale tuttavia secondo il C.g.a. sarebbe tuttora vigente;
   f) e h) sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994 (nel testo originario e ritenuto tuttora vigente), con particolare riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione che inibisce l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto in relazione agli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s);
   i) sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del citato art. 5, comma 3, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost..
   III. – Per completezza, in ordine al fenomeno della reviviscenza delle leggi abrogate e degli effetti delle pronunce di incostituzionalità, si veda anche la NEWS US n. 62 del 20.07.2021 relativa alla sentenza non definitiva Cons. Stato, sez. IV, 02.07.2021, n. 5078, alla quale si rinvia in particolare ai §§ j), m) ed n) (CGARS, sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 217 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
7. Il Collegio ritiene in via preliminare di illustrare l’ordine espositivo con il quale verranno affrontate le questioni sottoposte al suo scrutinio nel presente giudizio, anche in relazione alla decisione di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della l.r. siciliana n. 17/1994.
8. Si premette che:
   - il presente giudizio è uno dei tanti, numerosi, attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area (con riferimento a due di tali fascicoli, come meglio si chiarirà nel prosieguo della esposizione, questo CGARS ha disposto con sentenza parziale ed ordinanza collegiale la rimessione delle cause alla Corte Costituzionale: per numerosi altri, finora, è stata disposta la c.d. “sospensione impropria”);
   - non può essere messa in discussione l’assoluta peculiarità della Valle dei Templi di Agrigento, espressione di una compenetrazione fra profili archeologici, artistici, storici e dell’ambiente circostante che attribuisce al sito il carattere dell’unicità: nel dicembre del 1997, nel corso della 21a riunione annuale del Comitato del Patrimonio mondiale dell’Unesco, tenutasi a Napoli (01-06.12.1997), è stata iscritta nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità con la denominazione “Area Archeologica di Agrigento” (il documento ICOMOS n. 831 descrive il sito e i principali monumenti in esso contenuti).
9. Si premette altresì che nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 chiamato in decisione nella pubblica udienza del 05.05.2021:
   a) questo CGARS, con ordinanza collegiale 23.10.2020 n. 976, ha disposto una verificazione al fine di chiarire l’esatta collocazione dell’immobile per cui era lite rispetto alla perimetrazione della “zona B” di cui ai decreti ministeriali 12.06.1957, 16.05.1968 e 07.10.1971 ed al successivo decreto del Presidente della Regione siciliana n. 91 del 1991, nonché al precedente decreto Presidenziale 06.08.1966 n. 807 e in data 15.11.2020 il verificatore ha depositato la relazione di verificazione;
   b) l’immobile per cui è causa è ubicato in area corrispondente a quella oggetto della relazione di verificazione resa nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020;
   c) nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 il Collegio ha reso la sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 (ed in pari data, nell’ambito di procedimento iscritto al r.g.n. n. 250/2019 il Collegio ha reso la sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.2021);
   d)alle argomentazioni sviluppate nel provvedimento r.g.n. n. 99/2020 sopra citato si farà ampio riferimento in seno al presente provvedimento.
10. Ciò posto, si procede alla disamina delle questioni oggetto di scrutinio nel seguente ordine:
   a) in primis –al fine di perimetrare gli argomenti effettivamente rilevanti- si esamina il primo (ed infondato, ad avviso del Collegio) motivo dell’appello della difesa erariale;
   b) successivamente si espone il convincimento del Collegio, in punto di fatto, sul regime vincolistico dell’area in cui insiste l’immobile per cui è causa (con reiezione della tesi della difesa erariale secondo cui al tempo dell’abuso sarebbe stato già presente un vincolo paesaggistico o che, comunque, il vincolo archeologico fosse “equipollente” a quello paesaggistico);
   c) immediatamente di seguito, sono rappresentate le conseguenze che ciò comporta con riguardo all’odierno processo, qualificando la natura giuridica della fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
   d) sono quindi esposte le ragioni per cui si ritiene inapplicabile alla fattispecie il disposto di cui all’art. 1 L. n. 689/1981;
   e) infine, riassunte le ragioni della rilevanza della questione, è esaminato il tema della non manifesta infondatezza della questione concernente la compatibilità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della L.r. siciliana n. 17/1994, considerato anche l’inquadramento giuridico di cui al punto c).
11. In ossequio alla condivisibile ricostruzione di cui a Cass. civ., ss.uu. 11.12.2007 n. 25837 (secondo cui avrebbero sempre carattere decisorio, e devono essere immediatamente impugnati ovvero essere oggetto di riserva di impugnazione, i capi della ordinanza di rimessione che decidono nei sensi di cui all’art. 279, comma 1, n. 4 c.p.c.) ed in linea con le prescrizioni di cui all’art. 36, comma 2, c.p.a., a miglior garanzia delle parti del processo, si provvederà a decidere le questioni di cui alle lettere da a) a c) del superiore elenco con sentenza non definitiva, che tuttavia, al fine di consentire la unicità di esame alla Corte costituzionale, non verrà resa separatamente, ma unitamente alla ordinanza collegale di rimessione.
12. Ciò premesso, proprio al fine di sgombrare il campo da censure che appaiono manifestamente inaccoglibili (e, insieme, per rendere manifesta la rilevanza della questione devoluta con la ordinanza collegale di rimessione) si esamina prioritariamente la seconda e subordinata censura contenuta nell’appello principale, imperniata sull’asserita obliterazione della circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico (art. 59 l. n. 1089/1939).
12.1. Il motivo (come peraltro già chiarito ai capi 15.1. e 15.2 della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 ed ai capi 13 e 13.1 della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono) non è fondato.
L’art. 59 l. n. 1089/1939 dispone, fra l’altro, che chi trasgredisce le disposizioni contenute negli artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21 è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione, se la riduzione in pristino non è possibile.
L’obbligo di corrispondere la somma discende dall’effettuazione di attività non consentite (o almeno non consentite in mancanza di autorizzazione) su cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, che appartengono a province, comuni ed enti e istituti legalmente riconosciuti o che, pur appartenendo a privati, siano state oggetto di specifica notifica ai sensi della stessa legge (artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21).
La L. n. 1089/1939 tutela quindi beni determinati, da essa non derivano vincoli di zona o porzioni di territorio.
Nel caso di specie né le parti, né l’Amministrazione, hanno mai reso edotto il Giudice di primo grado o questo Collegio della sussistenza di detto vincolo specifico sul bene di proprietà dell’appellata, né risulta altrimenti che esso sia mai stato apposto né gli atti amministrativi impugnati vi hanno mai fatto riferimento.
Neppure sarebbe possibile traslare l’impianto normativo della L. n. 1089/1939 ai beni (in passato) oggetto di tutela ai sensi della L. n. 1497/1939, senza al contempo porre in essere una operazione ermeneutica contra legem, in sfavor rei, e contraria alla lettera delle norme invocate ed applicabili.
Il motivo è, all’evidenza, manifestamente infondato, armonicamente alle conclusioni da tempo raggiunte dalla giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. St., VI, 12.11.1990 n. 951) in punto di distinzione dell’impianto di cui alla L. n. 1089/1939 rispetto a quello di cui alla L. n. 1497/1939.
13. Ciò rilevato, il Collegio ritiene a questo punto di doversi addentrare, ai fini della trattazione del primo motivo dell’appello principale e della rimessione alla Corte costituzionale, nell’inquadramento giuridico dei vari aspetti che contraddistinguono l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 al caso di specie.
13.1. Come brevemente chiarito nella parte “in fatto” della presente decisione, il primo giudice ha accolto il ricorso di primo grado (anche richiamando per relationem alcuni precedenti giurisprudenziali), sulla scorta di un triplice argomentare fattuale e giuridico:
   a) l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino al sopravvenire della l. n. 431/1985, c.d. legge Galasso);
   b) la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico al momento in cui l’abuso venne commesso;
   c) la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed argomentando quindi sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della L. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della L.r. n. 17/1994.
13.2. Quanto ai primi tre profili dell’iter motivazionale seguito dal Tar (precedenti punti a, b e c) il Collegio ne condivide l’approdo e ritiene, di converso, che le censure articolate dalla difesa erariale non meritino condivisione.
13.3. Come emerge dalla verificazione effettuata nell’ambito del procedimento r.g. n. 99/2020, cui si è prima fatto riferimento, e come peraltro si darà conto brevemente alla luce dell’analisi dei testi normativi susseguitesi, ritiene il Collegio che –per quanto paradossale ciò possa sembrare tenuto conto delle peculiari caratteristiche e dell’evidente pregio dell’area geografica in esame- sino al 1985 sull’area dove venne perpetrato l’abuso non insisteva alcun vincolo paesaggistico, e che non possa neppure seguirsi la difesa erariale (primo motivo dell’appello principale) laddove questa sostiene che il vincolo archeologico sussistente potesse “parificarsi” ad un vincolo paesaggistico (o, per dirla altrimenti ricomprendesse profili paesaggistici).
13.4. Detta conclusione si spiega in ragione dell’evoluzione normativa intervenuta in materia e delle circostanze di fatto che sono di seguito illustrate.
13.4.1. Quanto alle circostanze di fatto, va premesso che le appellate hanno dichiarato che il fabbricato è stato realizzato ed ultimato entro l’anno 1982, (e tale affermazione è rimasta incontestata) e che esso ricade all’interno della zona perimetrata quale “Zona B” (anche tale affermazione è rimasta incontestata dalla difesa erariale); ne discende pertanto che le emergenze fattuali e giuridiche di cui alla verificazione effettuata nell’ambito del processo r.g.n. 99/2020 sono perfettamente traslabili alla presente fattispecie.
13.4.2. Ciò posto, l’evoluzione normativa può essere così riassunta:
   - a seguito delle attività della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali della Provincia di Agrigento, il Ministro della pubblica istruzione, con decreto 12.06.1957 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista della città sulla Valle stessa, siti nell’ambito del comune di Agrigento”, sottopose a tutela paesistica un’ampia zona del territorio comunale;
   - a seguito della “frana di Agrigento” venne approvato il d.l. 30.07.1966 n. 590, "Dichiarazione di zona archeologica di interesse nazionale della Valle dei Templi di Agrigento", convertito in L. 28.09.1966 n. 749;
   - a distanza di sola una settimana il Presidente della Regione Siciliana intervenne nella questione emanando il decreto presidenziale 06.08.1966 n. 807 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista del belvedere del comune di Agrigento”, che sottopose una più ampia zona del territorio comunale a vincolo paesistico;
   - in esecuzione L. 28.09.1966 n. 749, di conversione del d.l. 30.07.1966 n. 590, venne emanato dal Ministero della pubblica istruzione di concerto con il Ministero per i lavori pubblici, il decreto 16.05.1968, “Determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, delle prescrizioni d’uso e dei vincoli di in edificabilità” (c.d. Gui-Mancini) -poi modificato dal decreto 07.10.1971 “Modifiche del decreto ministeriale 16.05.1968, concernente la determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, prescrizioni d’uso e vincoli di in edificabilità” (c.d. Misasi-Lauricella)-, che vincolò e delimitò la Valle dei Templi, definendo e suddividendo l’area vincolata in cinque zone, dalla A alla E, aventi ciascuna specifica prescrizione, oltre ad avere introdotto (la Misasi-Lauricella) il nulla osta della Soprintendenza ai BB.CC.AA. per la realizzazione di infrastrutture urbanistiche;
   - in data 17.08.1985 venne pubblicata nella G.U.R.S. la L. 10.08.1985 n. 37 “Nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive”, il cui art. 25, “Parco archeologico di Agrigento”, prevedeva al comma 1, che “Entro il 31.10.1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l'ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente Commissione legislativa dell' Assemblea regionale siciliana”: la delimitazione dei confini del Parco archeologico venne stabilita con il decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91 “Delimitazione dei confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento” (c.d. Nicolosi), che fece coincidere il confine del Parco archeologico di Agrigento con il confine della zona A –delimitata con l’art. 2 del decreto ministeriale 16.5.1968 (c.d. Gui-Mancini) e poi modificato con decreto ministeriale 07.10.1971 (c.d. Misasi-Lauricella)– e che ampliò anche la zona “B”, includendo Cozzo S. Biagio, Contrada Chimento ed una zona a nord della Contrada Mosè.
13.5. Quindi, in disparte il vincolo paesaggistico di cui alla legge Galasso ed al successivo d.lgs. n. 42/2004, in base alla normativa vigente al tempo della costruzione (1973/76), il manufatto oggetto di controversia era sottoposto a vincolo archeologico in base al decreto 16.05.1968 e al decreto 07.10.1971, così come per il successivo decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91.
Di converso deve considerarsi accertato che l’area non era soggetta a vincolo paesaggistico all’epoca della costruzione, in quanto né il decreto del 1968 né il decreto 07.10.1971 lo imponevano.
13.6. Il vincolo paesaggistico è quindi sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto per cui è lite.
Così disattesa la tesi proposta principaliter dalla difesa erariale secondo cui nell’area insisteva un vincolo paesaggistico al tempo della commissione dell’abuso, il Collegio deve farsi carico dell’ulteriore prospettazione critica contenuta nel primo motivo dell’appello, secondo cui il vincolo archeologico imposto sull’area avesse una portata effettuale identica ad un vincolo paesaggistico, e/o ricomprendesse quest’ultimo.
Come avvertito nella premessa, anche tale profilo critico non è persuasivo.
Osta, all’accoglimento di tale prospettazione:
   a) la diversa natura dei due vincoli presi in considerazione;
   b) il dato letterale: d.m. 16.05.1968;
   c) in termini assorbenti, il chiaro dettato della sentenza della Corte costituzionale 11.04.1969 n. 74.
Nel periodo storico che ha preceduto e accompagnato la realizzazione dell’immobile abusivo (fra il 1968, anno dell’entrata in vigore del d.m. 16.05.1968, e l’anno 1973, di completamento dell’immobile abusivo) l'efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell'art. 2, ultimo comma, della l. n. 1497/1939, l'elenco delle località, predisposto dalla Commissione ivi prevista e nel quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato nell'albo dei Comuni interessati (Corte cost., 23.07.1997 n. 262).
Il vincolo è apposto attraverso un procedimento tipico, che si conclude con un provvedimento finale costitutivo di obblighi (art. 7 l. n. 1497/1939) a carico dei soggetti “proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, dell'immobile il quale sia stato compreso nei pubblicati elenchi delle località” ed è destinato a venire meno quando l'autorità preposta alla approvazione definitiva rifiuti l'approvazione (anche parzialmente eliminando l'efficacia rispetto a taluni immobili) ovvero intervenga una successiva modifica dell'elenco suddetto.
La Consulta ha sottolineato (per differenza con il sistema introdotto dalla l. n. 431/1985, ora contenuto nel d.lgs. n. 42/2004) che la l. n. 1497/1939 prevede una tutela diretta alla preservazione di cose e località di particolare pregio estetico isolatamente considerate.
L'art. 2-bis del d.l. 30.07.1966 n. 590, convertito, con modificazioni, nella l. 28.09.1966 n. 749, che ha dichiarato la Valle dei Templi di Agrigento zona archeologica di interesse nazionale, e il successivo d.m. 16.05.1968 non solo fanno esplicito riferimento al vincolo archeologico ma non incanalano detta qualificazione nell’alveo indicato dalla l. n. 1497/1939, così apponendo un vincolo avente una natura corrispondente a quella dichiarata, appunto archeologica (e non paesaggistica).
Del resto la Corte costituzionale ha affermato che “l'art. 2-bis ha disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all'autorità amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966, ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e dell'interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell'evento” (Corte cost. 11.04.1979 n. 64).
Il d.m. 07.10.1971, successivo a Corte costituzionale n. 74/1969, recante la nuova perimetrazione del sito, non solo non scalfisce la tesi della natura non paesaggistica del vincolo originariamente apposto alla Valle dei Templi, ma ne avalla l’impostazione, laddove, nelle premesse, ravvisa la finalità dell’intervento normativo nella volontà di consentire “le ricerche archeologiche e le opere di restauro, sistemazione e valorizzazione della zona archeologica e dei suoi monumenti, nonché le opere necessarie alla custodia dei reperti antichi”.
13.7. Deve quindi concludersi che il vincolo archeologico imposto sull’area non avesse una portata effettuale identica al vincolo paesaggistico e/o non ricomprendesse quest’ultimo, non ricadendo l’immobile nel perimetro del vincolo paesistico.
Pertanto il Collegio è convinto che anche tale prospettazione critica dell’appello principale vada disattesa.
14. La superiore ricostruzione, quindi, è conforme a quella del Tar, in punto di determinazione dell’assetto vincolistico dell’area ove è stato perpetrato l’abuso ed al tempo dello stesso (sul punto anche Cass. pen., III, 04.09.2014 n. 36853).
14.1. Il Tar ha da ciò fatto discendere le conseguenze demolitorie censurate dalla difesa erariale, ritenendo che la sanzione ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta nel novero delle sanzioni amministrative e che il canone della irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994 impedisca di ritenere legittimo il provvedimento impugnato.
14.2. Tale questione richiede una attenta, seppur sintetica, analisi, per la quale è necessario inquadrare il provvedimento impugnato e l’indennità che ne costituisce l’oggetto (analisi, questa, già svolta nell’ambito della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 e della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono).
Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha qualificato l’indennità di cui all'art. 15 l. n. 1497/1939 (trasfusa poi nell'art. 164 d.lgs. n. 490/1999, ed oggi nell'art. 167 d.lgs. n. 42/2004) come sanzione amministrativa (Cons. St.: V, 24.04.1980 n. 441; 24.11.1981 nn. 700 e 702; VI, 29.03.1983 n. 162; VI, 04.10.1983 n. 701; VI, 05.08.1985 n. 431; VI, 16.05.1990 n. 242, VI, 31.05.1990 n. 551; VI, 15.04.1993 n. 290; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; IV, 12.11.2000 n. 6279; IV, 02.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 25.07.2020 n. 4755; CGARS: sez. cons. 16.11.1993 n. 452; sez. giur. 13.03.2014 n. 123; 17.02.2017 n. 58; 23.03.2018 n. 168; 17.05.2018 n. 293; 22.08.2018 n. 484; 29.11.2018 n. 958; 25.03.2019 n. 251, 20.03.2020 n. 198; 01.07.2020 n. 505; 03.07.2020 n. 527; Cass.: sez. un., 18.05.1995 n. 5473; 10.08.1996 n. 7403; 04.04.2000 n. 94; 10.03.2004 n. 4857; 10.03.2005 n. 5214), specificando in alcune occasioni che l’assenza di danno sostanziale al paesaggio non esonera dalla sanzione, essendovi comunque sempre un danno formale per aver edificato senza nulla osta paesaggistico (Cons. St., V, 01.10.1999 n. 1225; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; 31.10.2000 n. 5828; IV, 27.10.2003 n. 6632; IV, 12.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 27.05.2020 n. 4755).
Nondimeno, nell’ambito degli arresti richiamati, alla qualificazione dell’indennità in discorso quale sanzione amministrativa pecuniaria non è seguita l’integrale applicazione della disciplina sistematica di cui alla l. n. 689/1981 (seppur nei “limiti di compatibilità” scolpiti sub art. 12) rinvenendosi almeno tre punti di frizione: l’irretroattività, il regime della prescrizione e l’intrasmissibilità agli eredi ed aventi causa.
La sentenza oggi appellata, come già rilevato nella parte “in fatto”, si sofferma soltanto sulla questione della sopravvenienza del vincolo, a differenza di numerose altre, rese da altra qualificata giurisprudenza amministrativa di primo grado e dal Consiglio di Stato (in particolare sentenze rese dal medesimo Tar ed avverso le quali pendono circa ottanta ricorsi in appello presso questo CGARS) ed a differenza di quella impugnata nell’ambito del ricorso r.g.n. 99/2020, parimenti chiamato in decisione alla odierna udienza pubblica e definito con la sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021;
Il Collegio, deve segnalare quella che è –a suo avviso- un’incoerenza sistematica notevole nella giurisprudenza “tradizionale”, che ritiene che la fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta al novero delle sanzioni amministrative e che alla stessa si applichi l’impianto di cui alla legge 689/1981.
Giova precisare, in proposito, che assai sovente la giurisprudenza ha:
   a) sostenuto tout court l’applicabilità l. n. 689/1981 (in quanto si qualifica il provvedimento impugnato quale sanzione amministrativa) al disposto di cui all’ art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
   b) applicato le disposizioni della predetta legge n. 689/1981, in punto di irretroattività (art. 1) e quanto al regime della prescrizione (art 28);
   c) ritenuto inapplicabile il regime della citata legge n. 689 in punto di intrasmissibilità agli eredi (art. 7), nella evidente difficoltà di contrastare approdi pacifici della giurisprudenza amministrativa e penale formatasi sull’ambulatorietà dell’ordine di demolizione (Cons. St., IV, 12.04.2011 n. 2266; IV, 24.12.2008 n. 6554; nonché Cass., III, 15.07.2020 n. 26334; III, 22.10.2009 n. 48925) e, -si può ipotizzare- nel convincimento che l’affermazione di un simile principio renderebbe il precetto primario facilmente eludibile.
14.3. In punto di inquadramento generale il Collegio ritiene, non solo per la segnalata incoerenza intrinseca (che, semmai, è soltanto la “spia” di una ricostruzione complessivamente non appagante: si veda peraltro la uniforme giurisprudenza che esclude, sempre e comunque, l’applicazione dell’art. 14 l. n. 689/1981 alla fattispecie in esame: ex aliis CGARS, sez. giurisdizionale, 23.05.2018 n. 300) e sulla scorta di un più recente e meditato orientamento giurisprudenziale (Cons. St., IV, 31.08.2017 n. 4109; Id., II, 30.10.2020 n. 6678), che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
14.4. L’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 stabilisce, al comma 1, la regola generale per cui la violazione della disciplina paesaggistica contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio determina per il trasgressore l’obbligo di rimessione in pristino a proprie spese.
Alla regola generale si sottrae la fattispecie di accertamento della compatibilità paesaggistica disciplinata al successivo comma 4, ai sensi del quale l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
A tal fine, in base al successivo comma 5:
   - il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi;
   - l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
   - qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima) mentre in caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria.
Il detto comma 5 dell’art. 167 dispone altresì che “la domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma”, che disciplina, fra l’altro, il pagamento della somma dovuta dal trasgressore.
Ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter (che coincidono con i sopra riferiti interventi di cui all’art. 167, comma 4), presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (con disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 167, comma 5).
14.5. Da quanto sopra discende che:
   - l’istanza presentata dal proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi, avvia un procedimento avente due finalità connesse, essendo volto all'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e, nel contempo, se il risultato dell’attività di verifica è positivo, alla comminatoria del pagamento della somma di cui al comma 5 del predetto art. 167;
   - la soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato (a vedere riconosciuta la conformità paesaggistica del manufatto abusivo) porta con sé, quindi, necessariamente, in funzione di contrappeso, la debenza della somma;
   - l’obbligo di corrispondere la somma sorge con l’adozione dell’atto favorevole ma non è esigibile fino alla liquidazione dell’ammontare (l’intervallo procedimentale successivo all’accertamento della conformità ambientale è funzionale proprio, e solo, come si vedrà infra, alla quantificazione del dovuto);
   - nella prospettiva pubblicistica l’interesse paesaggistico è perseguito superando, innanzitutto, l’alternativa fra, da un lato, incompatibilità paesaggistica e riduzione in pristino (comma 1 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e, dall’altro lato, compatibilità paesaggistica dell’intervento ai sensi del comma 4 dell’art. 167 e debenza della somma di denaro;
   - al rigetto della domanda consegue quindi la misura ripristinatoria per eccellenza, riposante nella demolizione (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171 e 15.04.1993 n. 290).
   - diversamente, l’accertamento della compatibilità paesaggistica determina, in ragione del principio di efficienza dell’intero sistema (l’attuale conformità paesaggistica rende recessiva la precedente irregolarità), il superamento della pretesa di assicurare il ripristino dello status quo ante;
   - la cura del relativo interesse impone comunque all’Amministrazione di tenere in considerazione l’abuso commesso facendone sopportare il costo (per la collettività, nei termini che si diranno infra) al privato istante attraverso il pagamento di una somma di denaro, quantificata, nei termini di cui al comma 5 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, previa perizia di stima, e avente anche una finalità general-preventiva;
   - i provvedimenti di accertamento della compatibilità paesaggistica e di condanna al pagamento della somma di denaro, nonché di quantificazione del dovuto, concorrono tutti alla cura del paesaggio e si pongono, fra loro, in una relazione di necessarietà, nel senso che detto interesse pubblico è adeguatamente amministrato solo in quanto siano adottati tutti;
   - il collegamento pubblicistico fra le determinazioni dell’Amministrazione (compatibilità paesaggistica, condanna al pagamento di una somma di denaro e quantificazione dell’importo) è reso evidente dalla disposizione che prevede che l’istanza presentata dal privato sia funzionale non solo all’accertamento della compatibilità paesaggistica ma anche alla quantificazione del pagamento della somma di denaro;
   - l’obbligo di pagare la somma di denaro deriva dalla legge e diviene attuale con l’accertamento positivo della conformità paesaggistica dell’intervento (che invece, all’accertamento negativo, segue la riduzione in pristino),
   - segnatamente l’an della debenza è reso certo al momento della verifica (positiva) di conformità paesaggistica del manufatto; nondimeno, posto che esso non è ancora liquido, non è esigibile fino all’avvenuta determinazione del quantum;
   - la quantificazione della somma dovuta è connotata dalla cura dell’interesse paesaggistico essendo effettuata infatti in base a una stima, nel “maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”;
   - a quest’ultima è riconducibile una duplice ratio;
   - innanzitutto essa è funzionale alla cura dell’ambiente; in tal senso il parametro di quantificazione prescelto non è avulso dalla necessità di superare la prospettiva ripristinatoria, di per sé rinvenibile nella sola riduzione in pristino, ed è riconducibile alla necessità di calmierare l’esternalità negativa derivante dalla trasgressione paesaggistica, connessa ad un interesse in parte adespota, anche in relazione alla sua connessione con il valore dell’ambiente e delle esigenze di preservarlo alle generazioni future;
   - ciò è reso evidente dall’utilizzo delle somme ricavate per “l’esecuzione delle rimessioni in pristino” e per “finalità di salvaguardia nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino” (comma 6 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e dalla quantificazione della stessa in modo non avulso dalla trasgressione commessa, dal momento che uno dei parametri è costituito dal danno arrecato;
   - la precedente normativa infatti, contenuta nell’art. 15 l. n. 1497/1939, nel d.m. 26.09.1997, poi trasfuso nell’art. 164 d.lgs. n. 490/1999, qualificava l’indennità come risarcitoria, così evidenziandone la funzione di compensazione della collettività dell’utilità perduta nel tempo dell’abuso, valorizzando in modo astratto l’oggetto di tutela, l’interesse paesaggistico, cioè considerandolo nel suo valore di scambio;
   - in tal senso si può interpretare la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che delinea la condanna pecuniaria in esame come “sanzione riparatoria alternativa” al ripristino dello status quo ante, così non applicando la disciplina contenuta nella l. n. 689/1981 e, in particolare, la norma sulla trasmissibilità agli eredi (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171; Id., II, 30.10.2020 n. 6678);
   - il ripristino non deve, infatti, intendersi quale riaffermazione della situazione precedente all’abuso (che l’istituto in esame è volto proprio a superare) ma sta a indicare la finalità di risolvere, pro futuro, l’intervenuta turbativa degli interessi, al fine di presidiare questi ultimi (attraverso la debenza di una somma di denaro commisurata alla maggior somma fra il danno prodotto e le connesse conseguenze profittevoli);
   - nondimeno la corresponsione della somma di denaro svolge altresì una funzione di deterrenza derivante dall’effetto afflittivo, del quale è indice la terminologia utilizzata dal legislatore, che fa riferimento alla “sanzione”, il criterio normativo di quantificazione, basato sul “maggiore importo” tra il danno arrecato e il profitto conseguito, potenzialmente foriero di una condanna per un importo superiore rispetto al pregiudizio economico prodotto, e la stessa dinamica sottesa all’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004. La tenuta del sistema non può infatti essere messa in pericolo da una sopravvenuta compatibilità ambientale, idonea, in tesi, a far venir meno la precedente trasgressione, pena l’indebolimento del vincolo paesaggistico, la cui violazione potrebbe essere percepita come non decisiva, nella speranza che in futuro venga meno, così eliminando anche le conseguenze della situazione antigiuridica antecedente;
   - la portata afflittiva è comunque secondaria, considerata l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione dei presupposti di applicazione della condanna pecuniaria, dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa (elemento determinante per qualificare una fattispecie come sanzionatoria secondo l’Ad. Plen. 11.09.2020 n. 18) e dal fatto che la condanna pecuniaria non costituisce una conseguenza diretta dell’illecito commesso;
   - essa è infatti principalmente il portato di un provvedimento favorevole (l’accertamento della compatibilità ambientale) di cui costituisce il corollario e il contrappeso;
   - la funzione della condanna pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, è, quindi, solo parzialmente riconducibile all’afflizione che connota sia il danno punitivo (SS.UU. 05.07.2017 n. 16601 e 06.05.2015 n. 9100), sia la sanzione amministrativa (fattispecie che richiedono entrambe una previsione di legge, ai sensi rispettivamente dell’art. 25, comma 2, Cost. e dell’art. 23 Cost., nel caso di specie da rinvenirsi nella norma di legge appena citata);
   - nel complesso l’imposizione del pagamento della somma di denaro ha quindi una finalità compensativa del danno prodotto e solo in parte afflittiva;
   - il relativo procedimento costituisce una manifestazione tipica di potestà amministrativa, nell’ambito dei quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo e ciò anche considerando la sua componente afflittiva (secondaria e servente), e diversamente rispetto all’esercizio del solo potere punitivo da parte dell’Amministrazione, nel quale non vi è ponderazione di interessi (Cass., I, 23.06.1987 n. 5489), essendo ricollegato al vincolato accertamento, secondo la procedura di cui alla l. n. 689/1981, del verificarsi concreto della fattispecie legale, cui corrisponde il diritto soggettivo dell’intimato a non subire l’imposizione di prestazioni fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, con conseguente devoluzione delle relative controversie, in assenza di ipotesi di giurisdizione esclusiva, al giudice ordinario (Cons. St., V, 24.01.2019 n. 587);
   - dal punto di vista strutturale il procedimento in esame vede una prima fase deputata a verificare la compatibilità paesaggistica (e la connessa, e dovuta, condanna al pagamento della somma di denaro) mentre il successivo intervallo temporale, finalizzato a quantificare l’importo, è meramente servente, essendo necessario per rendere liquido ed esigibile l’importo e quindi effettivo il rimedio (rispetto al precedente abuso) dell’ordine di pagamento;
   - al procedimento si applicano i principi dell’attività amministrativa, pur considerandone il (parziale) carattere afflittivo: la l. n. 241 del 1990 offre la regolamentazione di base di qualsiasi procedimento amministrativo che non sia accompagnato da una normativa specifica; la l. n. 689/1981 non può essere applicata al di là della categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548), “non può che tornare a trovare applicazione quello generale di cui alla l. n. 241/1990” (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548) e, infatti, alle sanzioni pecuniarie sostitutive di una misura ripristinatoria di carattere reale non si applica la l. n. 689/1981 (CGARS, 09.02.2021 n. 95 e Cons. St., VI, 20.10.2016 n. 4400);
   - la ragione dell’impostazione è rinvenibile nell’interrelazione reciproca della doppia finalità, che non può andare a nocumento dell’interesse pubblico che il provvedimento mira a tutelare dal momento che -come già detto- prevalgono le istanze di cura di detto interesse (mentre la potestà afflittiva è recessiva) e che in ogni caso entrambe le funzioni assolte di cura del bene paesaggistico leso e di deterrenza, sono comunque destinate da ultimo a tutelare l’interesse della collettività, alla quale, in ultima istanza, è comunque preordinata anche la potestà punitiva dello Stato: “La sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla legge 07.08.1990, n. 241, che fa capo alla l. n. 689/1981, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo), laddove alle sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo)” (Cons. St., V, 24.01.2019 n. 587).
15. Ciò posto, (con riferimento ai tre “punti di frizione” prima delineati) si osserva che:
   a) la questione della prescrizione non viene in rilievo nel presente processo, in quanto non sollevata dalla parte originaria ricorrente, (e comunque, sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si rinvia alla sentenza di questo CGARS n. 95 del 2021, che perviene comunque alla conclusione della prescrizione quinquennale, senza tuttavia fondarla sull’art. 28 l. n. 689/1981);
   b) parimenti la problematica della intrasmissibilità della sanzione ad eredi ed aventi causa non viene in rilievo nel presente processo, in quanto anch’essa mai sollevata dalle originarie ricorrenti (sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si fa integrale riferimento ai capi da 18.1 a 18.3 della sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 resa nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 e parimenti chiamato in decisione alla odierna udienza pubblica);
   c) assume invece rilevanza la tematica concernente l’irretroattività del vincolo paesaggistico imposto sull’area (in ordine alla quale si è prima chiarito, in punto di fatto, orientamento del Collegio).
16. Affrontati, e ritenuti infondati, i motivi sopra esaminati (il secondo e subordinato motivo dell’appello principale, e l’articolazione del primo motivo dell’appello principale incentrata sulla preesistenza di un vincolo paesaggistico rispetto al momento di commissione dell’abuso), non rimane al Collegio che procedere nello scrutinio del primo motivo contenuto nell’appello principale.
16.1. Con detta censura l’appellante amministrazione ha dedotto che il Tar avrebbe commesso un errore fattuale, non ritenendo che alla data di commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già) interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico), vigente sin dal 1971 (quindi precedente al vincolo introdotto dalla l. n. 431/1985).
16.2. Il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 l.r. n. 17/1994.
16.2. Il Collegio ritiene, come già illustrato sopra, che fino alla l. n. 431/1985 l’area ove insiste immobile de quo non fosse gravata da alcun vincolo paesaggistico.
16.3. Il caso in esame è quindi connotato da un vincolo paesaggistico sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto abusivo (ultimata nel 1973/1976, come si evince dalla domanda di sanatoria).
17. Viene quindi in rilievo il tema, comune, come detto, a numerose altre controversie pendenti presso il CGARS, dell’applicazione dell’art. 1 della l. n. 689/1981 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994.
17.1. Come già motivato, il Collegio ritiene che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
Detta qualificazione dell’indennità in parola impone piuttosto di considerare la normativa vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, in base alla regola generale (non applicabile all’attività sanzionatoria in senso stretto) per cui la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone (Ad. Plen. n. 20/1999).
17.2. Declinando la suddetta norma di azione dell’Amministrazione nel settore di interesse l’Adunanza plenaria ha affermato che, in base alla disciplina nazionale (art. 32 della l. n. 47/1985, che fa riferimento ai vincoli paesaggistici, e successivi interventi normativi, di cui all'art. 4 del d.l. n. 146/1985, all'art. 12 del d.l. n. 2/1988, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 10.03.1988 n. 302, all'art. 2, comma 43, della l. 23.12.1996 n. 662 e all’art. 1 l. n. 449/1997) e al diritto vivente formatosi su di essa, la disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve “interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente” (Ad. Plen. n. 20/1999).
La giurisprudenza amministrativa successiva ha seguito la suddetta impostazione (Cons. St., VI, 25.03.2019 n. 1960; 25.01.2019 n. 627 e 22.02.2018 n. 1121; IV, 14.11.2017 n. 5230). E ciò anche in relazione all’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo, comunque dovuta a livello nazionale, indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria. In tale ambito, pertanto, non si è ritenuto applicabile l’art. 1 l. n. 689/1981, anche (seppur con le contraddittorietà evidenziate sopra) nei casi in cui l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 è stata qualificata come sanzionatoria (con conseguente conferma dell’opzione ermeneutica illustrata sopra che supera le contraddittorietà della più risalente impostazione).
Il consolidarsi di tale orientamento –che il Collegio condivide- si spiega anche in ragione del portato dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio (di cui infra quanto ai rapporti con la normativa regionale) e la giurisprudenza si è conformata (Cons. St., VI, 22.07.2018 n. 4617; Id., II, 02.10.2019 n. 6605).
Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare "la natura chiaramente interpretativa”, in quanto "la sanzione paesaggistica va fatta risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua applicazione retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi della legge n. 47/1985 in quanto la formula utilizzata ("qualsiasi intervento realizzato abusivamente") lascia chiaramente intendere che il perimetro applicativo della norma prescinde dall'epoca alla quale risale la presentazione della domanda di condono, venendo invero in considerazione il danno ambientale perpetrato invece che l'assetto procedimentale per il conseguimento della sanatoria urbanistica (…). La natura interpretativa della norma, quale espressione di un principio di autonomia tra sanatoria edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione anche alla sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, nel 1990, trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra procedimento paesaggistico e procedimento edilizio” (Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678).
17.3. In considerazione della disciplina vigente in ambito nazionale, quindi, ad avviso del Collegio:
   a) non troverebbe applicazione, per le già esposte ragioni, l’art. 1 della L. n. 689/1981;
   b) la controversia andrebbe decisa sulla base della legge vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, con la conseguenza che, in presenza di un vincolo attuale (nel senso appena detto), l’indennità sarebbe dovuta (e l’appello andrebbe accolto sul punto, con conseguente riforma dell’impugnata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado).
17.4. Sennonché, pur essendosi esclusa l’applicabilità dell’art. 1 l. n. 689/1981, ai fini della compiuta disamina della tematica della irretroattività occorre adesso confrontarsi con un’ulteriore disposizione normativa di matrice regionale.
Nella Regione Siciliana viene, infatti, in evidenza l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’art. 23, comma 10, della l.r. 10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 17, comma 11, L.r. 16.04.2003 n. 4) dispone che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto.
17.5. Il Collegio, prima di affrontare il tema della costituzionalità di detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima (sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni riunite, 12.05.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una duplice prospettiva.
17.6. Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del Giudice delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema delle fonti (Corte cost. 24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost. 24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, L.r. n. 4 del 2003 (“Il parere dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo, dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione, riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe, disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno l’esigenza interpretativa.
Il Collegio ritiene pertanto che sia tuttora in vigore la norma contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza, determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.07.1999 n. 20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte sulla reviviscenza.
17.7. In secondo luogo, il Collegio ritiene che l’art. 2, comma 46, l. n. 662/1996 (cui la giurisprudenza ha peraltro attribuito portata interpretativa: così il già richiamato arresto, Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678), che esplicita che in caso di condono edilizio resta dovuta l’indennità per danno al paesaggio (“Per le opere eseguite in aree sottoposte al vincolo di cui alla l. 29.06.1939, n. 1497, e al d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla l. 08.08.1985, n. 431, il versamento dell'oblazione non esime dall'applicazione dell'indennità risarcitoria prevista dall'articolo 15 della citata legge n. 1497/1939”), non abbia abrogato la disposizione regionale del 1994.
Ciò in quanto, in ambito di competenza legislativa esclusiva devoluta ad una regione a statuto speciale (come è nella specie) ed in presenza di legge regionale, la successiva legge statale (incompatibile) non supporta, fatta salva l’ipotesi del rinvio dinamico, il sistema della successione delle leggi nel tempo nel senso di ritenere implicitamente abrogata la legge precedente il cui contenuto sia incompatibile con il disposto della fonte primaria successiva: osta la competenza legislativa esclusiva della Regione Sicilia (di cui infra) che impone di valutare non solo l’incompatibilità ma anche la portata della successiva norma statale in termini di norma nazionale di grande riforma, richiedendo la pronuncia sul punto della Corte costituzionale.
Mentre l’ordinamento italiano devolve il primo profilo (relativo all’incompatibilità) al giudizio diffuso degli operatori del diritto che si trovino ad applicarla, non avviene così rispetto al secondo profilo di valutazione (appartenenza o meno della norma statale alla categoria delle norme di grande riforma), devoluto, anche in ragione della complessità che lo connota, alla Corte costituzionale, anche nella prospettiva della certezza del diritto.
Del resto “i due istituti giuridici dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il campo dell'abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge” (Corte cost. 14.06.1956 n. 1).
Il rapporto fra l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 e l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, non trovando soluzione nelle regole che governano la successione delle leggi nel tempo, è quindi ricompreso nella questione di legittimità costituzionale che si pone alla Corte costituzionale.
18. Ritenuto quanto sopra, il Collegio intende porre la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5, comma 3, della L.r. n. 17/1994, con specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”).
18.1. La questione è rilevante in ragione di quanto a più riprese considerato ed in quanto, in costanza della norma regionale suddetta (e pur essendo il Collegio persuaso che non trovi applicazione il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981) nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva.
Laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità (ovvero anche, semplicemente, laddove si ritenesse, difformemente da quanto ipotizzato dal questo Giudice, che la predetta disposizione non sia più in vigore in quanto implicitamente abrogata) il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado.
Non può poi sottacersi la particolare rilevanza che assume la questione per questo CGARS (oltre che per l’Amministrazione siciliana e i cittadini che afferiscono al relativo territorio), atteso che il presente giudizio è uno dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area.
19. Sembra evidente che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (nello stabilire che l’art. 23, comma 10, l.r. n. 37/1985, debba essere interpretato nel senso che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”, dispone che “nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) sia volto a impedire che dall’abuso derivino effetti negativi sul proprietario dell’immobile allorquando il vincolo paesaggistico è successivo alla realizzazione dell’abuso (e sembra altresì evidente che, in questa chiave di lettura, tale esenzione ricomprenderebbe anche eredi ed aventi causa, che altrimenti ci si troverebbe al cospetto di una illogicità incomprensibile: l’autore dell’ abuso verrebbe “privilegiato” rispetto all’avente causa di questi).
La voluntas legis regionale non pare, in tale prospettiva, attribuire un ruolo decisivo all’uso del termine “sanzione”, ritenendosi piuttosto che essa voglia impedire l’esborso di denaro, indipendentemente dalla qualificazione di quest’ultimo.
Il termine sanzione delinea la conseguenza di carattere patrimoniale derivante dall’aver realizzato un’opera abusiva ed è coerente con la qualificazione attribuita all’epoca all’indennità in discorso.
In tal senso si ritiene che la possibilità di esperire un’interpretazione costituzionalmente orientata, che, valorizzando l’utilizzo del termine “sanzione”, ritenga non applicabile all’indennità di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 la norma regionale contenuta nell’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, non sia percorribile: osta il principio della certezza del diritto. Il profilo emerge con evidenza se si considera la già richiamata circostanza relativa all’attuale pendenza di ottanta giudizi di contenuto analogo presso questo CGARS, così risaltando la rilevanza che assume il connotato della certezza del diritto non solo per l’organo giurisdizionale ma altresì per l’Amministrazione siciliana e gli abitanti del relativo territorio.
Invero, a tacere del fatto che, se si interpretasse in tal senso la disposizione regionale, si determinerebbe un’ipotesi di norma inutiliter data, si aggiunge che l’art. 5 l.r., per come è stato costantemente applicato, intende riferirsi, laddove utilizza il termine “sanzione”, proprio all’indennità per danno al paesaggio
Si ritiene pertanto che la disposizione regionale della cui legittimità costituzionale si dubita sia riferita all’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 (indipendentemente dalla qualificazione di detta indennità sulla quale ci si è prima soffermati, laddove si ritiene di avere chiarito le ragioni per le quali il Collegio non la ricompresa nella categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie normate dalla l. n. 689/1981).
Nondimeno il Collegio, pur ritenendo che detta qualificazione non abbia un rilievo così determinante in punto di valutazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ancorata alla diversità di disciplina con la normativa statale in punto di abuso paesaggistico (nei termini illustrati infra), come si dirà, non ignora che la qualificazione dell’indennità in parola in termini di sanzione amministrativa pecuniaria non è indifferente per il Giudice ad quem, come si avrà modo di illustrare nel paragrafo 21.
19.1. Premesso ciò, la valutazione della non manifesta infondatezza si articola innanzitutto nel senso che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nella formulazione ritenuta vigente, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi degli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in quanto determina una lesione diretta dei beni culturali e paesaggistici tutelati, con la conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito nell'intero territorio nazionale. La predetta norma regionale interseca la disciplina sulla protezione del paesaggio (in quanto provvede a delineare le conseguenze dell’abuso anche paesaggistico), normativa che, a sua volta, rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell'ambiente, di esclusiva spettanza statale ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione.
Ciò in quanto:
   - ai sensi dell’art. 9, comma 2, Cost. la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico della Nazione;
   - l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. attribuisce alla Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali;
   - l'art. 14, comma 1, lett. n), dello Statuto speciale della Regione Sicilia, approvato con r.d.l. 15.05.1946 n. 455 e successive modificazioni e integrazioni, riconosce una potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche.
In merito alla materia del paesaggio si rileva che:
   - l’art. 9 Cost. (la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) ha costituito, in combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost., l’asse portante per il riconoscimento del diritto primario a godere di un ambientale salubre, e ciò attraverso la lettura effettuata dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 210 e n. 641 del 1987, poi consacrato nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione, attraverso i rinvii espressi ad ambiente ed ecosistema introdotti dall’art. 117, secondo comma, lett. s);
   - la nozione di paesaggio di cui all’art. 9 Cost. ha così assunto una connotazione che partecipa sia dell’esigenza di cura di singoli beni, quindi dei valori storici, culturali ed estetici del territorio, sia quella di non pretermettere l’interesse alla tutela dell’ambiente, sia quell’attenzione alla materia dell’urbanistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74 e 17.04.2015 n. 64);
   - specularmente l’ampia nozione di ambiente, così come è stata ricostruita specie dopo il 2001, ha una morfologia complessa, capace di ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici, ma anche i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale (Corte cost. 30.03.2018 n. 66, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Detto ciò in punto di norme costituzionali di interesse nella presente controversia si rileva conseguentemente, in relazione alle soggettività coinvolte dalle suddette attribuzioni, che:
   - la tutela del paesaggio non si identifica con una materia in senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore costituzionalmente protetto, integrante una materia trasversale (Corte cost. 17.04.2017 n. 77), sulla quale lo Stato esercita, in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale (Corte cost. 01.10.2003 n. 303);
   - in molteplici occasioni, codesta Corte ha affermato che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato (Corte cost. 23.07.2018 n. 172);
   - l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale materia-obiettivo non implica una preclusione assoluta all'intervento regionale, purché questo sia volto all'implementazione del valore ambientale e all'innalzamento dei suoi livelli di tutela (sentenza 23.07.2019 n. 172, punto 6.2. del Considerato in diritto e sentenza n. 178/2018, punto 2.1. del Considerato in diritto; nello stesso senso sentenza Corte cost. 17.04.2017 n. 77, 16.07.2014, 24.10.2013 n. 246, 20.06.2013 n. 145, 26.02.2010 n. 67, 18.04.2008 n. 104 e 14.11.2007 n. 378);
   - alle regioni non è consentito modificare gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, “senza che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di tutela” (Corte cost. 21.04.2021 n. 74);
   - fra gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, che alle regioni non è consentito modificare, deve essere annoverata l'autorizzazione paesaggistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74).
Con specifico riferimento alle competenze legislative delle regioni a statuto speciale, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che il legislatore statale, tramite l'emanazione delle norme di grande riforma economico-sociale, “conserva il potere -anche relativamente al titolo competenziale legislativo "nella materia 'tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali', di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, [...]- di vincolare la potestà legislativa primaria delle regioni a statuto speciale" (sentenza n. 238/2013, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Specularmente la Regione Siciliana, con specifico riferimento alla competenza legislativa esclusiva attribuitale dallo Statuto speciale in materia di paesaggio e di urbanistica, deve rispettare, oltre che, in generale, i precetti costituzionali, anche le “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell'esercizio delle proprie competenze legislative (Corte cost. 08.11.2017 n. 232 con riferimento alla disciplina dell’accertamento di conformità).
A ciò si aggiunge che la definizione dell’ambiente quale materia trasversale porta con sé consente l’attivazione, da parte dello Stato, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà (Corte cost. 01.10.2003 n. 303).
In ragione di quanto sopra si rileva che:
   - la l. n. 431 del 1995 è stata qualificata in termini di legge di grande riforma (Corte cost. 27.06.1986 n. 151), così come il d.lgs. n. 42/2004 (Corte cost. 29.10.2009 n. 272): il codice dei beni culturali “detta le coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica affidata congiuntamente allo Stato e alle regioni” (sentenza n. 66/18, punto 2.4. del Considerato in diritto), in coerenza con i principi delineati supra in tema di protezione del paesaggio e di tutela dell'ambiente e della valenza della disciplina statale diretta a proteggere l'ambiente e il paesaggio quale limite alla competenza legislativa in materia anche delle regioni a statuto speciale;
   - tale qualificazione discende dal fatto che il codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004 impatta in modo diretto sul valore primario e assoluto del paesaggio (“il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (così la sentenza 05.05.2006 n. 182), così come richiamato dall’art. 9 Cost. e dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e ne delinea un nuovo assetto, improntato a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione del territorio nella prospettiva estetica e culturale, intesa in senso dinamico;
   - l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, sulla quale è intervenuto l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 nei termini sopra delineati, risulta, -in ragione della funzione riparatoria rispetto all’esternalità negativa prodotta con l’abuso e in funzione general-preventiva, di dissuasione-, direttamente connessa al valore primario e assoluto che il d.lgs. n. 42/2004 attribuisce al paesaggio.
21. A fronte di ciò:
   - la disciplina sul condono edilizio è organicamente regolamentata in ambito nazionale prevedendo che l’accertamento postumo (nei termini evidenziati sopra, nei paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) della compatibilità paesaggistica sia accompagnato dal pagamento dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004;
   - è stato già illustrato, come il pagamento della somma di denaro connessa all’accertamento della compatibilità paesaggistica costituisca un tratto fondamentale dell’istituto a livello di disciplina nazionale;
   - come si è rilevato sopra, l’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo è dovuta in ambito nazionale, anche se il vincolo paesaggistico è sopravvenuto rispetto alla realizzazione dell’abuso (e ciò indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria);
   - ciò in ragione, da un lato, della richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio;
   - l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nel prevedere che la sanzione amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, si discosta dalla disciplina nazionale sopra illustrata lasciando “scoperto” il periodo precedente nel quale l’abuso è stato commesso ma l’accertamento di compatibilità non è ancora avvenuto;
   - in tal senso viene assicurata sul territorio siciliano una tutela meno elevata del valore ambiente e paesaggio rispetto a quella garantita sul rimanente territorio nazionale,
   - in ambito siciliano, infatti, la conformità attuale alla disciplina paesaggistica consente di superare il precedente abuso senza ulteriori conseguenze negative, sicché viene meno il disvalore ambientale e paesaggistico connesso a quest’ultimo, parificando la posizione di chi non ha commesso abuso alla posizione di chi lo ha commesso ma ha ottenuto l’accertamento positivo di conformità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 solo dopo averlo realizzato;
   - così non avviene, come si è già visto, sul rimanente territorio nazionale, dove la tutela del paesaggio è presidiata a livello general-preventivo anche attraverso il pagamento di un’indennità a copertura delle conseguenze pregiudizievoli dell’abuso commesso;
   - tale ultimo aspetto assume una particolare rilevanza nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (come sopra già illustrato), delineando un procedimento avente due prospettive, quella del superamento di una situazione di non conformità formale alla disciplina paesaggistica in seguito all’accertamento della compatibilità sostanziale del manufatto (questo a presidio di un principio di efficienza e di scarsità delle risorse che accomuna l’intero ordinamento giuridico e non solo la prospettiva pubblicistica) e il contrappeso del pagamento di un’indennità in funzione general-preventiva a presidio del rispetto ex ante delle regole poste a tutela del paesaggio attraverso il pagamento dell’indennità (che altrimenti viene meno la cogenza delle medesime, con conseguente intaccamento del valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio);
   - si è illustrato sopra come il procedimento e la posizione dell’Amministrazione sul punto si giustifichi e trovi le ragioni del proprio canone di azione solo nel bilanciamento fra i due aspetti sopra delineati e come non possa esservi l’uno, senza l’altro.
L’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella formulazione che si ritiene attualmente vigente (come sopra illustrato), laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, contrasta, eccedendo dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dall’art. 14, lett. n), dello Statuto in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, con le norme di grande riforma economico-sociale contenute nell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, con conseguente violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Ciò in quanto comporta una significativa alterazione del meccanismo delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
20.1. Il Collegio solleva altresì questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella ridetta formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
Ciò, in quanto la norma censurata consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria negativa in caso di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Altrettanto non avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a fronte della medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del paesaggio che non può essere difforme (almeno verso il basso, essendo, come già visto, consentito alle Regioni unicamente di innalzare lo standard di tutela).
Nel meccanismo disegnato dalla norma regionale della cui costituzionalità il Collegio dubita, la regolarizzazione del fatto lesivo per il paesaggio (certamente sussistente al momento della delibazione dell’amministrazione sulla domanda di condono) avviene senza alcuna conseguenza pregiudizievole per il suo autore.
Dal che la considerazione che la disciplina qui censurata possa indebolire l’efficacia deterrente del sistema delineato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, così come interpretato dall’Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e dall’art. 2, comma 46, della l. n. 662 del 1996, con conseguente incentivazione a tenere il comportamento, confidando nella possibilità di un adempimento successivo, in grado di superare l’illecito paesaggistico commesso: così vanificando l’efficacia deterrente dell’istituto, con conseguente irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione.
Né giustifica la diversità di trattamento del danno al paesaggio sul territorio siciliano la prospettiva di un rapporto tra pubblica amministrazione e consociati imperniato su uno schema dialogico-collaborativo anziché oppositivo, che si tradurrebbe nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato circa la necessità di conformarsi al precetto, che imporrebbe la previa imposizione del vincolo paesaggistico sull’area oggetto di abuso rispetto alla realizzazione di questo.
L’argomentazione infatti non spiega la diversità della disciplina siciliana, in quanto un’argomentazione analoga potrebbe articolarsi anche in relazione al rimanente territorio nazionale.
A ciò si aggiunge, in senso inverso, che il valore del paesaggio giustifica piuttosto, per i motivi sopra esposti, l’impostazione opposta.
Non sfugge, tra l’altro, che in riferimento all’ambito del diritto penale la possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata recentemente anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale ad opera l. 23.06.2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti procedibili a querela soggetta a remissione –senza alcuna residua sanzione per il trasgressore– quando, anche in assenza di remissione della querela da parte della persona offesa, questi abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose di esso entro l’apertura del dibattimento di primo grado.
Nondimeno nel caso di specie il meccanismo introdotto dal legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994 non assicura la riparazione del danno in quanto la regolarizzazione della posizione del soggetto istante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 avviene prescindendo dalla valutazione del pregiudizio arrecato al bene ambiente, che, anzi, tale omissione costituisce l’effetto precipuo della norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale. E ciò è ancora più rilevante in quanto l’interesse pubblico al paesaggio presenta le caratteristiche dell’interesse almeno in parte adespota, potenzialmente incidente sulle generazioni future, e le cui violazioni determinano esternalità negative difficilmente apprezzabili (di talché anche la particolare modalità di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5).
Non può quindi ritenersi, in uno con la Corte costituzionale, che ha ritenuto che l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale corrisponda a legittime opzioni di politica criminale o di politica sanzionatoria (18.01.2021 n. 5), che la scelta operata dal legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 non trasmodi nella manifesta irragionevolezza o non si traduca in un evidente pregiudizio al principio del buon andamento dell’amministrazione
L'art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, eccedendo dalle competenze statutarie della Regione autonoma della Sicilia di cui all'art. 14, comma 1, lett. n), e quindi essendo privo di giustificazione, viola quindi anche gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
21.2. Da ultimo, per completezza espositiva, sarà consentita una considerazione. Si è già chiarito che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 non riveste, per il Collegio, i connotati della sanzione amministrativa in ragione delle considerazioni sopra illustrate.
Nondimeno, se anche si ritenesse di attribuire detta qualificazione all’indennità in parola, questo CGARS ritiene che la norma censurata non si presti a una interpretazione adeguatrice, che ne determini la sussumibilità nell’ambito della categoria delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali.
Detta indennità infatti si situa nell’ambito di una fattispecie (quella di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004) favorevole per il privato istante in quanto consente il superamento di un precedente illecito. Sicché l’analisi concreta delle finalità perseguite (già sopra illustrata ai paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) rende recessiva, sulla base dei parametri Engel, la finalità punitiva rispetto a quella
preventiva, nel senso che l’indennità costituisce una misura a tutela del paesaggio, che consente di superare l’illecito commesso, alla quale risultano estranei gli aspetti meramente afflittivi della pena (potendosi al più rinvenire delle secondarie finalità di deterrenza).
La tecnica di quantificazione, peraltro, basata sul binomio danno arrecato-profitto conseguito, osta a ritenere particolarmente elevato il grado di afflittività in quanto la misura del dovuto non trova giustificazione nella necessità di assicurare l’effetto punitivo ma nel tentativo di rimediare a un danno arrecato. Nella determinazione dell’indennità non si ha infatti riguardo all’elemento soggettivo del fatto, né all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione e neppure alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, parametri che il legislatore ha individuato al fine di assicurare la finalità punitiva (art. 11 della l. n. 689/1981).
Detto ciò in punto di non annoverabilità dell’indennità controversa nell’ambito delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, questo CGARS ritiene che la riconducibilità della stessa nella categoria delle sanzioni amministrative (sussumibilità comunque avversata da questo CGARS, come sopra illustrato) non consentirebbe comunque di superare le questioni di legittimità costituzionale in ragione dei principi della conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
In altre parole, questo CGARS ritiene che non possa essere utilizzato, in funzione paralizzante rispetto alla questione di legittimità costituzionale della norma censurata, il rilievo che essa (laddove non consente di irrogare la “sanzione” nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico) sarebbe giustificata dalla necessità di allineare la fattispecie alla regola generale di conoscibilità del precetto la cui violazione determina la conseguenza sanzionatoria.
Piuttosto, l’ordinamento suppone (e impone) che colui che realizza un illecito edilizio si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che dalla condotta derivano nel corso del tempo, fino a che la posizione del medesimo non risulta nuovamente conforme all’ordinamento giuridico (secondo il canone del versari in re illicita): il precetto da conoscere anticipatamente non è rappresentato dal singolo vincolo paesaggistico ma dal fatto che la realizzazione del manufatto deve avvenire nel rispetto delle regole di settore, pena, quanto meno, il pagamento di un’indennità.
Il settore non risulta esposto né al rischio che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri, l’autorità amministrativa o il giudice assuma[no] un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito, né al rischio di violare la libera autodeterminazione individuale, dal momento che consente al destinatario della norma di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta (così non realizzandosi le situazioni che rappresentano la ratio dei principi della conoscibilità del precetto e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, così (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32 l. n. 47/1985 rende infatti rilevanti i vincoli di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, di tutela del patrimonio storico artistico e di tutela della salute che appongono limiti all’edificazione ai fini dell’accertamento di conformità in sanatoria: è la legge che impone quindi una corrispondenza stretta fra il vincolo edilizio e i suddetti vincoli, ritenendoli connessi quanto agli interessi pubblici coinvolti e inestricabilmente compromessi dalla concreta realizzazione illecita del manufatto.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che detta disposizione non rechi alcuna deroga al principio di legalità in quanto “è la legge che attribuisce la funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione interferisce” e che “la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone” (n. 20 del 1999).
Sicché, una volta che la cura dell’interesse paesaggistico, in uno con la cura degli altri interessi coinvolti nell’operazione, sia così realizzata dall’Amministrazione preposta, questa è tenuta a valutare anche i vincoli sopravvenuti rispetto alla costruzione, fino al momento della propria decisione. Sennonché tale incombenza (di considerare anche i vincoli sopravvenuti) non trova ragion d’essere in un comportamento della parte pubblica, essendo piuttosto ascrivibile al fatto che in precedenza il privato abbia agito in assenza di titolo, non consentendo così la verifica di quanto edificato.
Pertanto, se sanzione vi è, essa svolge la funzione di punire il trasgressore non, in via diretta, per avere violato il vincolo paesaggistico, ma per non essersi premunito del titolo edificatorio, esponendolo alle conseguenze negative che nel corso del tempo quella condotta produce, fino al momento in cui il privato non ritiene di porre fine alle conseguenze antigiuridiche della stessa,
presentando la domanda di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 e l’Amministrazione si pronunci sulla stessa.
Non si pone quindi un tema di conoscibilità del precetto, potendosi al più porre una questione di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, che questo CGARS ritiene superabile in ragione del fatto che gli interessi coinvolti, oltre a quello strettamente edificatorio, sono indicati nell’art. 32 e così sono prevedibili le conseguenze che derivano dalla violazione di detti interessi: l’unico elemento di aleatorietà attiene alla mancanza di sicurezza in ordine al fatto che l’area interessata dall’illecito sia nel corso del tempo sottoposta (o meno) a vincolo.
Detta aleatorietà, peraltro, è contenuta dalla predeterminazione della tipologia di vincoli e di conseguenze che ne derivano, da un lato, e, dall’altro lato, dal fatto che dipende proprio dal soggetto “punito” la possibilità di ridurre, se non azzerare, detta aleatorietà presentando l’istanza di compatibilità (paesaggistica, per quanto interessa nella presente controversia).
21. Detto ciò in funzione delle questioni di legittimità sollevate, proprio per quanto si è in ultimo esposto nel precedente paragrafo questo CGARS non ritiene di porre ulteriori questioni in relazione specificamente all’eventuale qualificazione (avversata dal Collegio, come sopra illustrato) dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in termini di sanzione amministrativa dal momento che la giurisprudenza costituzionale ritiene che “la competenza sanzionatoria amministrativa non è in grado di autonomizzarsi come materia a sé, ma accede alle materie sostanziali” (Corte cost. 07.06.2018 n. 121), così assorbendosi nelle questioni di costituzionalità già poste, dovendosi rilevare che le denunciate problematiche in punto di depotenziamento della tutela del paesaggio manterrebbero in simile ipotesi inalterata consistenza (cfr. Corte cost., 17.11.2020, n. 240, seppur con riferimento a Regione a Statuto ordinario)
22. Tanto premesso, richiamando quanto sopra osservato in punto di rilevanza della medesima e riassunto al paragrafo 19 (in costanza della norma regionale suddetta nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva, mentre, laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado), in punto di non manifesta infondatezza (in ragione della nozione di norma di grande riforma economico sociale, che la Regione Siciliana è tenuta a rispettare pur essendo titolare di una competenza legislativa esclusiva in materia di paesaggio, e della irragionevole disparità di trattamento), ed in punto di impossibilità di interpretazione adeguatrice della norma, il CGARS solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, L.r. n. 17/1994, per contrasto con gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97 della Costituzione ai sensi dell’art. 23, comma 2, l. 11.03.1953 n. 87, ritenendola rilevante.
Il processo deve, pertanto, essere sospeso ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c., con trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale.
Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, parzialmente e non definitivamente pronunciando:
   - respinge nei sensi di cui alla motivazione il primo motivo dell’appello principale;
   - respinge l’articolazione del primo motivo dell’appello principale volta a sostenere che al tempo dell’abuso sussistesse nell’area un vincolo paesaggistico, ovvero che il vincolo archeologico ivi sussistente fosse equiparabile ad un vincolo paesaggistico;
   - visto l’art. 23 L. 11.03.1953 n. 87,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, L.r. n. 17/1994 in relazione agli artt. 3, 9, 97 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, nei sensi di cui in motivazione;
   - sospende il presente giudizio ai sensi dell’art. 79, comma 1, c.p.a.;
   - dispone, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale (CGARS, sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla Corte costituzionale l’esclusione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo sopravvenuto - Sanzioni amministrative pecuniarie – L.reg. Sicilia n. 17 del 1994 - Violazione artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97 Cost..
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97 Cost., la questione legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.reg. Sicilia n. 17 del 1994, con specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto (“il nulla-osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) (1).
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   (1) Analoghe remissione sono state disposte con sentenze 16.02.2022, n. 216 e n. 217.
Ha ricordato il C.g.a. che nella Regione Siciliana viene, infatti, in evidenza l’art. 5, comma 3, l.reg. Sicilia n. 17 del 1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’art. 23, comma 10, l.reg. Sicilia 10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 17, comma 11, l.r. 16.04.2003 n. 4) dispone che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto.
Prima di affrontare il tema della costituzionalità di detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima (sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni riunite, 12.05.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una duplice prospettiva.
Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del Giudice delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema delle fonti (Corte cost. 24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost. 24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003 (“Il parere dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo, dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione, riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe, disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno l’esigenza interpretativa.
E’ pertanto evidente che sia tuttora in vigore la norma contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza, determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.7.1999 n. 20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte sulla reviviscenza (CGARS, sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 215 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
7. Il Collegio ritiene in via preliminare di illustrare l’ordine espositivo con il quale verranno affrontate le questioni sottoposte al suo scrutinio nel presente giudizio, anche in relazione alla decisione di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della l.r. siciliana n. 17/1994.
8. Si premette che:
   - il presente giudizio è uno dei tanti, numerosi, attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area (con riferimento a due di tali fascicoli, come meglio si chiarirà nel prosieguo della esposizione, questo CGARS ha disposto con sentenza parziale ed ordinanza collegiale la rimessione delle cause alla Corte Costituzionale: per numerosi altri, finora, è stata disposta la c.d. “sospensione impropria”);
   - non può essere messa in discussione l’assoluta peculiarità della Valle dei Templi di Agrigento, espressione di una compenetrazione fra profili archeologici, artistici, storici e dell’ambiente circostante che attribuisce al sito il carattere dell’unicità: nel dicembre del 1997, nel corso della 21a riunione annuale del Comitato del Patrimonio mondiale dell’Unesco, tenutasi a Napoli (01-06.12.1997), è stata iscritta nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità con la denominazione “Area Archeologica di Agrigento” (il documento ICOMOS n. 831 descrive il sito e i principali monumenti in esso contenuti).
9. Si premette altresì che nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 chiamato in decisione nella pubblica udienza del 05.05.2021:
   a) questo CGARS, con ordinanza collegiale 23.10.2020 n. 976, ha disposto una verificazione al fine di chiarire l’esatta collocazione dell’immobile per cui era lite rispetto alla perimetrazione della “zona B” di cui ai decreti ministeriali 12.06.1957, 16.05.1968 e 07.10.1971 ed al successivo decreto del Presidente della Regione siciliana n. 91 del 1991, nonché al precedente decreto Presidenziale 06.08.1966 n. 807 e in data 15.11.2020 il verificatore ha depositato la relazione di verificazione;
   b) l’immobile per cui è causa è ubicato in area corrispondente a quella oggetto della relazione di verificazione resa nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020;
   c) nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 il Collegio ha reso la sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 (ed in pari data, nell’ambito di procedimento iscritto al r.g.n. n. 250/2019 il Collegio ha reso la sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.2021);
   d) alle argomentazioni sviluppate nel provvedimento r.g.n. n. 99/2020 sopra citato si farà ampio riferimento in seno al presente provvedimento.
10. Ciò posto, si procede alla disamina delle questioni oggetto di scrutinio nel seguente ordine:
   a) in primis –al fine di perimetrare gli argomenti effettivamente rilevanti- si esamina il primo (ed infondato, ad avviso del Collegio) motivo dell’appello della difesa erariale;
   b) successivamente si espone il convincimento del Collegio, in punto di fatto, sul regime vincolistico dell’area in cui insiste l’immobile per cui è causa (con reiezione della tesi della difesa erariale secondo cui al tempo dell’abuso sarebbe stato già presente un vincolo paesaggistico o che, comunque, il vincolo archeologico fosse “equipollente” a quello paesaggistico);
   c) immediatamente di seguito, sono rappresentate le conseguenze che ciò comporta con riguardo all’odierno processo, qualificando la natura giuridica della fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
   d) sono quindi esposte le ragioni per cui si ritiene inapplicabile alla fattispecie il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981;
   e) infine, riassunte le ragioni della rilevanza della questione, è esaminato il tema della non manifesta infondatezza della questione concernente la compatibilità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della l.r. siciliana n. 17/1994, considerato anche l’inquadramento giuridico di cui al punto c).
11. In ossequio alla condivisibile ricostruzione di cui a Cass. civ., ss.uu. 11.12.2007 n. 25837 (secondo cui avrebbero sempre carattere decisorio, e devono essere immediatamente impugnati ovvero essere oggetto di riserva di impugnazione, i capi della ordinanza di rimessione che decidono nei sensi di cui all’art. 279, comma 1, n. 4, c.p.c.) ed in linea con le prescrizioni di cui all’art. 36, comma 2, c.p.a., a miglior garanzia delle parti del processo, si provvederà a decidere le questioni di cui alle lettere da a) a c) del superiore elenco con sentenza non definitiva, che tuttavia, al fine di consentire la unicità di esame alla Corte costituzionale, non verrà resa separatamente, ma unitamente alla ordinanza collegale di rimessione.
12. Ciò premesso, proprio al fine di sgombrare il campo da censure che appaiono manifestamente inaccoglibili (e, insieme, per rendere manifesta la rilevanza della questione devoluta con la ordinanza collegale di rimessione) si esamina prioritariamente la seconda e subordinata censura contenuta nell’appello principale, imperniata sull’asserita obliterazione della circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico (art. 59 l. n. 1089/1939).
12.1. Il motivo (come peraltro già chiarito ai capi 15.1. e 15.2 della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 ed ai capi 13 e 13.1 della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono) non è fondato.
L’art. 59 l. n. 1089/1939 dispone, fra l’altro, che chi trasgredisce le disposizioni contenute negli artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21 è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione, se la riduzione in pristino non è possibile.
L’obbligo di corrispondere la somma discende dall’effettuazione di attività non consentite (o almeno non consentite in mancanza di autorizzazione) su cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, che appartengono a province, comuni ed enti e istituti legalmente riconosciuti o che, pur appartenendo a privati, siano state oggetto di specifica notifica ai sensi della stessa legge (artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21).
La l. n. 1089/1939 tutela quindi beni determinati, da essa non derivano vincoli di zona o porzioni di territorio.
Nel caso di specie né le parti, né l’Amministrazione, hanno mai reso edotto il Giudice di primo grado o questo Collegio della sussistenza di detto vincolo specifico sul bene di proprietà dell’appellata, né risulta altrimenti che esso sia mai stato apposto né gli atti amministrativi impugnati vi hanno mai fatto riferimento.
Neppure sarebbe possibile traslare l’impianto normativo della l. n. 1089/1939 ai beni (in passato) oggetto di tutela ai sensi della l. n. 1497/1939, senza al contempo porre in essere una operazione ermeneutica contra legem, in sfavor rei, e contraria alla lettera delle norme invocate ed applicabili.
Il motivo è, all’evidenza, manifestamente infondato, armonicamente alle conclusioni da tempo raggiunte dalla giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. St., VI, 12.11.1990 n. 951) in punto di distinzione dell’impianto di cui alla l. n. 1089/1939 rispetto a quello di cui alla l. n. 1497/1939.
13. Ciò rilevato, il Collegio ritiene a questo punto di doversi addentrare, ai fini della trattazione del primo motivo dell’appello principale e della rimessione alla Corte costituzionale, nell’inquadramento giuridico dei vari aspetti che contraddistinguono l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 al caso di specie.
13.1. Come brevemente chiarito nella parte “in fatto” della presente decisione, il primo giudice ha accolto il ricorso di primo grado (anche richiamando per relationem alcuni precedenti giurisprudenziali), sulla scorta di un triplice argomentare fattuale e giuridico:
   a) l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino al sopravvenire della l. n. 431/1985, c.d. legge Galasso);
   b) la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico al momento in cui l’abuso venne commesso;
   c) la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed argomentando quindi sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994.
13.2. Quanto ai primi tre profili dell’iter motivazionale seguito dal Tar (precedenti punti a, b e c) il Collegio ne condivide l’approdo e ritiene, di converso, che le censure articolate dalla difesa erariale non meritino condivisione.
13.3. Come emerge dalla verificazione effettuata nell’ambito del procedimento r.g. n. 99/2020, cui si è prima fatto riferimento, e come peraltro si darà conto brevemente alla luce dell’analisi dei testi normativi susseguitesi, ritiene il Collegio che –per quanto paradossale ciò possa sembrare tenuto conto delle peculiari caratteristiche e dell’evidente pregio dell’area geografica in esame- sino al 1985 sull’area dove venne perpetrato l’abuso non insisteva alcun vincolo paesaggistico, e che non possa neppure seguirsi la difesa erariale (primo motivo dell’appello principale) laddove questa sostiene che il vincolo archeologico sussistente potesse “parificarsi” ad un vincolo paesaggistico (o, per dirla altrimenti ricomprendesse profili paesaggistici).
13.4. Detta conclusione si spiega in ragione dell’evoluzione normativa intervenuta in materia e delle circostanze di fatto che sono di seguito illustrate.
13.4.1. Quanto alle circostanze di fatto, va premesso che l’appellata ha dichiarato che il fabbricato è stato realizzato ed ultimato entro l’anno 1975 (e tale affermazione è rimasta incontestata) e che esso ricade all’interno della zona perimetrata quale “Zona B” (anche tale affermazione è rimasta incontestata dalla difesa erariale); ne discende pertanto che le emergenze fattuali e giuridiche di cui alla verificazione effettuata nell’ambito del processo r.g.n. 99/2020 sono perfettamente traslabili alla presente fattispecie.
13.4.2. Ciò posto, l’evoluzione normativa può essere così riassunta:
   - a seguito delle attività della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali della Provincia di Agrigento, il Ministro della pubblica istruzione, con decreto 12.06.1957 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista della città sulla Valle stessa, siti nell’ambito del comune di Agrigento”, sottopose a tutela paesistica un’ampia zona del territorio comunale;
   - a seguito della “frana di Agrigento” venne approvato il d.l. 30.07.1966 n. 590, "Dichiarazione di zona archeologica di interesse nazionale della Valle dei Templi di Agrigento", convertito in l. 28.09.1966 n. 749;
   - a distanza di sola una settimana il Presidente della Regione Siciliana intervenne nella questione emanando il decreto presidenziale 06.08.1966 n. 807 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista del belvedere del comune di Agrigento”, che sottopose una più ampia zona del territorio comunale a vincolo paesistico;
   - in esecuzione l. 28.09.1966 n. 749, di conversione del d.l. 30.07.1966 n. 590, venne emanato dal Ministero della pubblica istruzione di concerto con il Ministero per i lavori pubblici, il decreto 16.05.1968, “Determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, delle prescrizioni d’uso e dei vincoli di in edificabilità” (c.d. Gui-Mancini) -poi modificato dal decreto 07.10.1971 “Modifiche del decreto ministeriale 16.05.1968, concernente la determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, prescrizioni d’uso e vincoli di in edificabilità” (c.d. Misasi-Lauricella)-, che vincolò e delimitò la Valle dei Templi, definendo e suddividendo l’area vincolata in cinque zone, dalla A alla E, aventi ciascuna specifica prescrizione, oltre ad avere introdotto (la Misasi-Lauricella) il nulla osta della Soprintendenza ai BB.CC.AA. per la realizzazione di infrastrutture urbanistiche;
   - in data 17.08.1985 venne pubblicata nella G.U.R.S. la l. 10.08.1985 n. 37 “Nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive”, il cui art. 25, “Parco archeologico di Agrigento”, prevedeva al comma 1, che “Entro il 31.10.1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l'ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente Commissione legislativa dell' Assemblea regionale siciliana”: la delimitazione dei confini del Parco archeologico venne stabilita con il decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91 “Delimitazione dei confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento” (c.d. Nicolosi), che fece coincidere il confine del Parco archeologico di Agrigento con il confine della zona A –delimitata con l’art. 2 del decreto ministeriale 16.05.1968 (c.d. Gui-Mancini) e poi modificato con decreto ministeriale 07.10.1971 (c.d. Misasi-Lauricella)– e che ampliò anche la zona “B”, includendo Cozzo S. Biagio, Contrada Chimento ed una zona a nord della Contrada Mosè.
13.5. Quindi, in disparte il vincolo paesaggistico di cui alla legge Galasso ed al successivo d.lgs. n. 42/2004, in base alla normativa vigente al tempo della costruzione (1973/76), il manufatto oggetto di controversia era sottoposto a vincolo archeologico in base al decreto 16.05.1968 e al decreto 07.10.1971, così come per il successivo decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91.
Di converso deve considerarsi accertato che l’area non era soggetta a vincolo paesaggistico all’epoca della costruzione, in quanto né il decreto del 1968 né il decreto 07.10.1971 lo imponevano.
13.6. Il vincolo paesaggistico è quindi sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto per cui è lite.
Così disattesa la tesi proposta principaliter dalla difesa erariale secondo cui nell’area insisteva un vincolo paesaggistico al tempo della commissione dell’abuso, il Collegio deve farsi carico dell’ulteriore prospettazione critica contenuta nel primo motivo dell’appello, secondo cui il vincolo archeologico imposto sull’area avesse una portata effettuale identica ad un vincolo paesaggistico, e/o ricomprendesse quest’ultimo.
Come avvertito nella premessa, anche tale profilo critico non è persuasivo.
Osta, all’accoglimento di tale prospettazione:
   a) la diversa natura dei due vincoli presi in considerazione;
   b) il dato letterale: d.m. 16.05.1968;
   c) in termini assorbenti, il chiaro dettato della sentenza della Corte costituzionale 11.04.1969 n. 74.
Nel periodo storico che ha preceduto e accompagnato la realizzazione dell’immobile abusivo (fra il 1968, anno dell’entrata in vigore del d.m. 16.05.1968, e l’anno 1973, di completamento dell’immobile abusivo) l'efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell'art. 2, ultimo comma, della l. n. 1497/1939, l'elenco delle località, predisposto dalla Commissione ivi prevista e nel quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato nell'albo dei Comuni interessati (Corte cost., 23.07.1997 n. 262).
Il vincolo è apposto attraverso un procedimento tipico, che si conclude con un provvedimento finale costitutivo di obblighi (art. 7 l. n. 1497/1939) a carico dei soggetti “proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, dell'immobile il quale sia stato compreso nei pubblicati elenchi delle località” ed è destinato a venire meno quando l'autorità preposta alla approvazione definitiva rifiuti l'approvazione (anche parzialmente eliminando l'efficacia rispetto a taluni immobili) ovvero intervenga una successiva modifica dell'elenco suddetto.
La Consulta ha sottolineato (per differenza con il sistema introdotto dalla l. n. 431/1985, ora contenuto nel d.lgs. n. 42/2004) che la l. n. 1497/1939 prevede una tutela diretta alla preservazione di cose e località di particolare pregio estetico isolatamente considerate.
L'art. 2-bis del d.l. 30.7.1966 n. 590, convertito, con modificazioni, nella l. 28.09.1966 n. 749, che ha dichiarato la Valle dei Templi di Agrigento zona archeologica di interesse nazionale, e il successivo d.m. 16.05.1968 non solo fanno esplicito riferimento al vincolo archeologico ma non incanalano detta qualificazione nell’alveo indicato dalla l. n. 1497/1939, così apponendo un vincolo avente una natura corrispondente a quella dichiarata, appunto archeologica (e non paesaggistica).
Del resto la Corte costituzionale ha affermato che “l'art. 2-bis ha disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all'autorità amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966, ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e dell'interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell'evento” (Corte cost. 11.04.1979 n. 64).
Il d.m. 07.10.1971, successivo a Corte costituzionale n. 74/1969, recante la nuova perimetrazione del sito, non solo non scalfisce la tesi della natura non paesaggistica del vincolo originariamente apposto alla Valle dei Templi, ma ne avalla l’impostazione, laddove, nelle premesse, ravvisa la finalità dell’intervento normativo nella volontà di consentire “le ricerche archeologiche e le opere di restauro, sistemazione e valorizzazione della zona archeologica e dei suoi monumenti, nonché le opere necessarie alla custodia dei reperti antichi”.
13.7. Deve quindi concludersi che il vincolo archeologico imposto sull’area non avesse una portata effettuale identica al vincolo paesaggistico e/o non ricomprendesse quest’ultimo, non ricadendo l’immobile nel perimetro del vincolo paesistico.
Pertanto il Collegio è convinto che anche tale prospettazione critica dell’appello principale vada disattesa.
14. La superiore ricostruzione, quindi, è conforme a quella del Tar, in punto di determinazione dell’assetto vincolistico dell’area ove è stato perpetrato l’abuso ed al tempo dello stesso (sul punto anche Cass. pen., III, 04.09.2014 n. 36853).
14.1. Il Tar ha da ciò fatto discendere le conseguenze demolitorie censurate dalla difesa erariale, ritenendo che la sanzione ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta nel novero delle sanzioni amministrative e che il canone della irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994 impedisca di ritenere legittimo il provvedimento impugnato.
14.2. Tale questione richiede una attenta, seppur sintetica, analisi, per la quale è necessario inquadrare il provvedimento impugnato e l’indennità che ne costituisce l’oggetto (analisi, questa, già svolta nell’ambito della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 e della sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06. 2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono).
Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha qualificato l’indennità di cui all'art. 15 l. n. 1497/1939 (trasfusa poi nell'art. 164 d.lgs. n. 490/1999, ed oggi nell'art. 167 d.lgs. n. 42/2004) come sanzione amministrativa (Cons. St.: V, 24.04.1980 n. 441; 24.11.1981 nn. 700 e 702; VI, 29.03.1983 n. 162; VI, 04.10.1983 n. 701; VI, 05.08.1985 n. 431; VI, 16.05.1990 n. 242, VI, 31.05.1990 n. 551; VI, 15.04.1993 n. 290; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; IV, 12.11.2000 n. 6279; IV, 02.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 25.07.2020 n. 4755; CGARS: sez. cons. 16.11.1993 n. 452; sez. giur. 13.03.2014 n. 123; 17.02.2017 n. 58; 23.03.2018 n. 168; 17.05.2018 n. 293; 22.08.2018 n. 484; 29.11.2018 n. 958; 25.03.2019 n. 251, 20.03.2020 n. 198; 01.07.2020 n. 505; 03.07.2020 n. 527; Cass.: sez. un., 18.05.1995 n. 5473; 10.08.1996 n. 7403; 04.04.2000 n. 94; 10.03.2004 n. 4857; 10.03.2005 n. 5214), specificando in alcune occasioni che l’assenza di danno sostanziale al paesaggio non esonera dalla sanzione, essendovi comunque sempre un danno formale per aver edificato senza nulla osta paesaggistico (Cons. St., V, 01.10.1999 n. 1225; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; 31.10.2000 n. 5828; IV, 27.10.2003 n. 6632; IV, 12.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 27.05.2020 n. 4755).
Nondimeno, nell’ambito degli arresti richiamati, alla qualificazione dell’indennità in discorso quale sanzione amministrativa pecuniaria non è seguita l’integrale applicazione della disciplina sistematica di cui alla l. n. 689/1981 (seppur nei “limiti di compatibilità” scolpiti sub art. 12) rinvenendosi almeno tre punti di frizione: l’irretroattività, il regime della prescrizione e l’intrasmissibilità agli eredi ed aventi causa.
La sentenza oggi appellata, come già rilevato nella parte “in fatto”, si sofferma soltanto sulla questione della sopravvenienza del vincolo, a differenza di numerose altre, rese da altra qualificata giurisprudenza amministrativa di primo grado e dal Consiglio di Stato (in particolare sentenze rese dal medesimo Tar ed avverso le quali pendono circa ottanta ricorsi in appello presso questo CGARS) ed a differenza di quella impugnata nell’ambito del ricorso r.g.n. 99/2020 e definito con la sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021;
Il Collegio, deve segnalare quella che è –a suo avviso- un’incoerenza sistematica notevole nella giurisprudenza “tradizionale”, che ritiene che la fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta al novero delle sanzioni amministrative e che alla stessa si applichi l’impianto di cui alla legge 689/1981.
Giova precisare, in proposito, che assai sovente la giurisprudenza ha:
   a) sostenuto tout court l’applicabilità l. n. 689/1981 (in quanto si qualifica il provvedimento impugnato quale sanzione amministrativa) al disposto di cui all’ art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
   b) applicato le disposizioni della predetta legge n. 689/1981, in punto di irretroattività (art. 1) e quanto al regime della prescrizione (art 28);
   c) ritenuto inapplicabile il regime della citata legge n. 689 in punto di intrasmissibilità agli eredi (art. 7), nella evidente difficoltà di contrastare approdi pacifici della giurisprudenza amministrativa e penale formatasi sull’ambulatorietà dell’ordine di demolizione (Cons. St., IV, 12.04.2011 n. 2266; IV, 24.12.2008 n. 6554; nonché Cass., III, 15.07.2020 n. 26334; III, 22.10.2009 n. 48925) e, -si può ipotizzare- nel convincimento che l’affermazione di un simile principio renderebbe il precetto primario facilmente eludibile.
14.3. In punto di inquadramento generale il Collegio ritiene, non solo per la segnalata incoerenza intrinseca (che, semmai, è soltanto la “spia” di una ricostruzione complessivamente non appagante: si veda peraltro la uniforme giurisprudenza che esclude, sempre e comunque, l’applicazione dell’art. 14 l. n. 689/1981 alla fattispecie in esame: ex aliis CGARS, sez. giurisdizionale, 23.05.2018 n. 300) e sulla scorta di un più recente e meditato orientamento giurisprudenziale (Cons. St., IV, 31.08.2017 n. 4109; Id., II, 30.10.2020 n. 6678), che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
14.4. L’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 stabilisce, al comma 1, la regola generale per cui la violazione della disciplina paesaggistica contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio determina per il trasgressore l’obbligo di rimessione in pristino a proprie spese.
Alla regola generale si sottrae la fattispecie di accertamento della compatibilità paesaggistica disciplinata al successivo comma 4, ai sensi del quale l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
A tal fine, in base al successivo comma 5:
   - il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi;
   - l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
   - qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima) mentre in caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria.
Il detto comma 5 dell’art. 167 dispone altresì che “la domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma”, che disciplina, fra l’altro, il pagamento della somma dovuta dal trasgressore.
Ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter (che coincidono con i sopra riferiti interventi di cui all’art. 167, comma 4), presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (con disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 167, comma 5).
14.5. Da quanto sopra discende che:
   - l’istanza presentata dal proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi, avvia un procedimento avente due finalità connesse, essendo volto all'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e, nel contempo, se il risultato dell’attività di verifica è positivo, alla comminatoria del pagamento della somma di cui al comma 5 del predetto art. 167;
   - la soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato (a vedere riconosciuta la conformità paesaggistica del manufatto abusivo) porta con sé, quindi, necessariamente, in funzione di contrappeso, la debenza della somma;
   - l’obbligo di corrispondere la somma sorge con l’adozione dell’atto favorevole ma non è esigibile fino alla liquidazione dell’ammontare (l’intervallo procedimentale successivo all’accertamento della conformità ambientale è funzionale proprio, e solo, come si vedrà infra, alla quantificazione del dovuto);
   - nella prospettiva pubblicistica l’interesse paesaggistico è perseguito superando, innanzitutto, l’alternativa fra, da un lato, incompatibilità paesaggistica e riduzione in pristino (comma 1 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e, dall’altro lato, compatibilità paesaggistica dell’intervento ai sensi del comma 4 dell’art. 167 e debenza della somma di denaro;
   - al rigetto della domanda consegue quindi la misura ripristinatoria per eccellenza, riposante nella demolizione (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171 e 15.04.1993 n. 290).
   - diversamente, l’accertamento della compatibilità paesaggistica determina, in ragione del principio di efficienza dell’intero sistema (l’attuale conformità paesaggistica rende recessiva la precedente irregolarità), il superamento della pretesa di assicurare il ripristino dello status quo ante;
   - la cura del relativo interesse impone comunque all’Amministrazione di tenere in considerazione l’abuso commesso facendone sopportare il costo (per la collettività, nei termini che si diranno infra) al privato istante attraverso il pagamento di una somma di denaro, quantificata, nei termini di cui al comma 5 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, previa perizia di stima, e avente anche una finalità general-preventiva;
   - i provvedimenti di accertamento della compatibilità paesaggistica e di condanna al pagamento della somma di denaro, nonché di quantificazione del dovuto, concorrono tutti alla cura del paesaggio e si pongono, fra loro, in una relazione di necessarietà, nel senso che detto interesse pubblico è adeguatamente amministrato solo in quanto siano adottati tutti;
   - il collegamento pubblicistico fra le determinazioni dell’Amministrazione (compatibilità paesaggistica, condanna al pagamento di una somma di denaro e quantificazione dell’importo) è reso evidente dalla disposizione che prevede che l’istanza presentata dal privato sia funzionale non solo all’accertamento della compatibilità paesaggistica ma anche alla quantificazione del pagamento della somma di denaro;
   - l’obbligo di pagare la somma di denaro deriva dalla legge e diviene attuale con l’accertamento positivo della conformità paesaggistica dell’intervento (che invece, all’accertamento negativo, segue la riduzione in pristino),
   - segnatamente l’an della debenza è reso certo al momento della verifica (positiva) di conformità paesaggistica del manufatto; nondimeno, posto che esso non è ancora liquido, non è esigibile fino all’avvenuta determinazione del quantum;
   - la quantificazione della somma dovuta è connotata dalla cura dell’interesse paesaggistico essendo effettuata infatti in base a una stima, nel “maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”;
   - a quest’ultima è riconducibile una duplice ratio;
   - innanzitutto essa è funzionale alla cura dell’ambiente; in tal senso il parametro di quantificazione prescelto non è avulso dalla necessità di superare la prospettiva ripristinatoria, di per sé rinvenibile nella sola riduzione in pristino, ed è riconducibile alla necessità di calmierare l’esternalità negativa derivante dalla trasgressione paesaggistica, connessa ad un interesse in parte adespota, anche in relazione alla sua connessione con il valore dell’ambiente e delle esigenze di preservarlo alle generazioni future;
   - ciò è reso evidente dall’utilizzo delle somme ricavate per “l’esecuzione delle rimessioni in pristino” e per “finalità di salvaguardia nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino” (comma 6 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e dalla quantificazione della stessa in modo non avulso dalla trasgressione commessa, dal momento che uno dei parametri è costituito dal danno arrecato;
   - la precedente normativa infatti, contenuta nell’art. 15 l. n. 1497/1939, nel d.m. 26.09.1997, poi trasfuso nell’art. 164 d.lgs. n. 490/1999, qualificava l’indennità come risarcitoria, così evidenziandone la funzione di compensazione della collettività dell’utilità perduta nel tempo dell’abuso, valorizzando in modo astratto l’oggetto di tutela, l’interesse paesaggistico, cioè considerandolo nel suo valore di scambio;
   - in tal senso si può interpretare la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che delinea la condanna pecuniaria in esame come “sanzione riparatoria alternativa” al ripristino dello status quo ante, così non applicando la disciplina contenuta nella l. n. 689/1981 e, in particolare, la norma sulla trasmissibilità agli eredi (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171; Id., II, 30.10.2020 n. 6678);
   - il ripristino non deve, infatti, intendersi quale riaffermazione della situazione precedente all’abuso (che l’istituto in esame è volto proprio a superare) ma sta a indicare la finalità di risolvere, pro futuro, l’intervenuta turbativa degli interessi, al fine di presidiare questi ultimi (attraverso la debenza di una somma di denaro commisurata alla maggior somma fra il danno prodotto e le connesse conseguenze profittevoli);
   - nondimeno la corresponsione della somma di denaro svolge altresì una funzione di deterrenza derivante dall’effetto afflittivo, del quale è indice la terminologia utilizzata dal legislatore, che fa riferimento alla “sanzione”, il criterio normativo di quantificazione, basato sul “maggiore importo” tra il danno arrecato e il profitto conseguito, potenzialmente foriero di una condanna per un importo superiore rispetto al pregiudizio economico prodotto, e la stessa dinamica sottesa all’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004. La tenuta del sistema non può infatti essere messa in pericolo da una sopravvenuta compatibilità ambientale, idonea, in tesi, a far venir meno la precedente trasgressione, pena l’indebolimento del vincolo paesaggistico, la cui violazione potrebbe essere percepita come non decisiva, nella speranza che in futuro venga meno, così eliminando anche le conseguenze della situazione antigiuridica antecedente;
   - la portata afflittiva è comunque secondaria, considerata l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione dei presupposti di applicazione della condanna pecuniaria, dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa (elemento determinante per qualificare una fattispecie come sanzionatoria secondo l’Ad. Plen. 11.09.2020 n. 18) e dal fatto che la condanna pecuniaria non costituisce una conseguenza diretta dell’illecito commesso;
   - essa è infatti principalmente il portato di un provvedimento favorevole (l’accertamento della compatibilità ambientale) di cui costituisce il corollario e il contrappeso;
   - la funzione della condanna pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, è, quindi, solo parzialmente riconducibile all’afflizione che connota sia il danno punitivo (SS.UU. 05.07.2017 n. 16601 e 06.05.2015 n. 9100), sia la sanzione amministrativa (fattispecie che richiedono entrambe una previsione di legge, ai sensi rispettivamente dell’art. 25, comma 2, Cost. e dell’art. 23 Cost., nel caso di specie da rinvenirsi nella norma di legge appena citata);
   - nel complesso l’imposizione del pagamento della somma di denaro ha quindi una finalità compensativa del danno prodotto e solo in parte afflittiva;
   - il relativo procedimento costituisce una manifestazione tipica di potestà amministrativa, nell’ambito dei quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo e ciò anche considerando la sua componente afflittiva (secondaria e servente), e diversamente rispetto all’esercizio del solo potere punitivo da parte dell’Amministrazione, nel quale non vi è ponderazione di interessi (Cass., I, 23.06.1987 n. 5489), essendo ricollegato al vincolato accertamento, secondo la procedura di cui alla l. n. 689/1981, del verificarsi concreto della fattispecie legale, cui corrisponde il diritto soggettivo dell’intimato a non subire l’imposizione di prestazioni fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, con conseguente devoluzione delle relative controversie, in assenza di ipotesi di giurisdizione esclusiva, al giudice ordinario (Cons. St., V, 24.01.2019 n. 587);
   - dal punto di vista strutturale il procedimento in esame vede una prima fase deputata a verificare la compatibilità paesaggistica (e la connessa, e dovuta, condanna al pagamento della somma di denaro) mentre il successivo intervallo temporale, finalizzato a quantificare l’importo, è meramente servente, essendo necessario per rendere liquido ed esigibile l’importo e quindi effettivo il rimedio (rispetto al precedente abuso) dell’ordine di pagamento;
   - al procedimento si applicano i principi dell’attività amministrativa, pur considerandone il (parziale) carattere afflittivo: la l. n. 241 del 1990 offre la regolamentazione di base di qualsiasi procedimento amministrativo che non sia accompagnato da una normativa specifica; la l. n. 689/1981 non può essere applicata al di là della categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548), “non può che tornare a trovare applicazione quello generale di cui alla l. n. 241/1990” (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548) e, infatti, alle sanzioni pecuniarie sostitutive di una misura ripristinatoria di carattere reale non si applica la l. n. 689/1981 (CGARS, 09.02.2021 n. 95 e Cons. St., VI, 20.10.2016 n. 4400);
   - la ragione dell’impostazione è rinvenibile nell’interrelazione reciproca della doppia finalità, che non può andare a nocumento dell’interesse pubblico che il provvedimento mira a tutelare dal momento che -come già detto- prevalgono le istanze di cura di detto interesse (mentre la potestà afflittiva è recessiva) e che in ogni caso entrambe le funzioni assolte di cura del bene paesaggistico leso e di deterrenza, sono comunque destinate da ultimo a tutelare l’interesse della collettività, alla quale, in ultima istanza, è comunque preordinata anche la potestà punitiva dello Stato: “La sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla legge 07.08.1990, n. 241, che fa capo alla l. n. 689/1981, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo), laddove alle sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo)” (Cons. St., V, 24.01.2019 n. 587).
15. Ciò posto, (con riferimento ai tre “punti di frizione” prima delineati) si osserva che:
   a) la questione della prescrizione non viene in rilievo nel presente processo, in quanto non sollevata dalla parte originaria ricorrente, (e comunque, sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si rinvia alla sentenza di questo CGARS n. 95 del 2021, che perviene comunque alla conclusione della prescrizione quinquennale, senza tuttavia fondarla sull’art. 28 l. n. 689/1981);
   b) parimenti la problematica della intrasmissibilità della sanzione ad eredi ed aventi causa non viene in rilievo nel presente processo, anche se sollevata in primo grado dalla parte originaria ricorrente e assorbita (sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si fa integrale riferimento ai capi da 18.1 a 18.3 della sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 resa nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 e parimenti chiamato in decisione alla odierna udienza pubblica);
   c) ugualmente non viene in rilievo nel presente processo la censura relativa alla illegittimità derivata per apposizione di condizione illegittima, anche se sollevata in primo grado dalla parte originaria ricorrente e assorbita;
   d) assume invece rilevanza la tematica concernente l’irretroattività del vincolo paesaggistico imposto sull’area (in ordine alla quale si è prima chiarito, in punto di fatto, orientamento del Collegio).
16. Affrontati, e ritenuti infondati, i motivi sopra esaminati (il secondo e subordinato motivo dell’appello principale, e l’articolazione del primo motivo dell’appello principale incentrata sulla preesistenza di un vincolo paesaggistico rispetto al momento di commissione dell’abuso), non rimane al Collegio che procedere nello scrutinio del primo motivo contenuto nell’appello principale.
16.1. Con detta censura l’appellante amministrazione ha dedotto che il Tar avrebbe commesso un errore fattuale, non ritenendo che alla data di commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già) interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico), vigente sin dal 1971 (quindi precedente al vincolo introdotto dalla l. n. 431/1985).
16.2. Il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 l.r. n. 17/1994.
16.2. Il Collegio ritiene, come già illustrato sopra, che fino alla l. n. 431/1985 l’area ove insiste immobile de quo non fosse gravata da alcun vincolo paesaggistico.
16.3. Il caso in esame è quindi connotato da un vincolo paesaggistico sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto abusivo (ultimata nel 1973/1976, come si evince dalla domanda di sanatoria).
17. Viene quindi in rilievo il tema, comune, come detto, a numerose altre controversie pendenti presso il CGARS, dell’applicazione dell’art. 1 della l. n. 689/1981 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994.
17.1. Come già motivato, il Collegio ritiene che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
Detta qualificazione dell’indennità in parola impone piuttosto di considerare la normativa vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, in base alla regola generale (non applicabile all’attività sanzionatoria in senso stretto) per cui la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone (Ad. Plen. n. 20/1999).
17.2. Declinando la suddetta norma di azione dell’Amministrazione nel settore di interesse l’Adunanza plenaria ha affermato che, in base alla disciplina nazionale (art. 32 della l. n. 47/1985, che fa riferimento ai vincoli paesaggistici, e successivi interventi normativi, di cui all'art. 4 del d.l. n. 146/1985, all'art. 12 del d.l. n. 2/1988, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 10.03.1988 n. 302, all'art. 2, comma 43, della l. 23.12.1996 n. 662 e all’art. 1 l. n. 449/1997) e al diritto vivente formatosi su di essa, “la disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente” (Ad. Plen. n. 20/1999).
La giurisprudenza amministrativa successiva ha seguito la suddetta impostazione (Cons. St., VI, 25.03.2019 n. 1960; 25.01.2019 n. 627 e 22.02.2018 n. 1121; IV, 14.11.2017 n. 5230). E ciò anche in relazione all’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo, comunque dovuta a livello nazionale, indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria. In tale ambito, pertanto, non si è ritenuto applicabile l’art. 1 l. n. 689/1981, anche (seppur con le contraddittorietà evidenziate sopra) nei casi in cui l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 è stata qualificata come sanzionatoria (con conseguente conferma dell’opzione ermeneutica illustrata sopra che supera le contraddittorietà della più risalente impostazione).
Il consolidarsi di tale orientamento –che il Collegio condivide- si spiega anche in ragione del portato dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio (di cui infra quanto ai rapporti con la normativa regionale) e la giurisprudenza si è conformata (Cons. St., VI, 22.07.2018 n. 4617; Id., II, 02.10.2019 n. 6605).
Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare "la natura chiaramente interpretativa”, in quanto la sanzione paesaggistica va fatta risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua applicazione retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi della legge n. 47/1985 in quanto la formula utilizzata ("qualsiasi intervento realizzato abusivamente") lascia chiaramente intendere che il perimetro applicativo della norma prescinde dall'epoca alla quale risale la presentazione della domanda di condono, venendo invero in considerazione il danno ambientale perpetrato invece che l'assetto procedimentale per il conseguimento della sanatoria urbanistica (…). La natura interpretativa della norma, quale espressione di un principio di autonomia tra sanatoria edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione anche alla sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, nel 1990, trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra procedimento paesaggistico e procedimento edilizio” (Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678).
17.3. In considerazione della disciplina vigente in ambito nazionale, quindi, ad avviso del Collegio:
   a) non troverebbe applicazione, per le già esposte ragioni, l’art. 1 della l. n. 689/1981;
   b) la controversia andrebbe decisa sulla base della legge vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, con la conseguenza che, in presenza di un vincolo attuale (nel senso appena detto), l’indennità sarebbe dovuta (e l’appello andrebbe accolto sul punto, con conseguente riforma dell’impugnata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado).
17.4. Sennonché, pur essendosi esclusa l’applicabilità dell’art. 1 l. n. 689/1981, ai fini della compiuta disamina della tematica della irretroattività occorre adesso confrontarsi con un’ulteriore disposizione normativa di matrice regionale.
Nella Regione Siciliana viene, infatti, in evidenza l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’art. 23, comma 10, della l.r. 10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 17, comma 11, l.r. 16.04.2003 n. 4) dispone che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto.
17.5. Il Collegio, prima di affrontare il tema della costituzionalità di detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima (sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni riunite, 12.05.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una duplice prospettiva.
17.6. Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del Giudice delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema delle fonti (Corte cost. 24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost. 24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003 (“Il parere dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo, dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione, riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe, disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno l’esigenza interpretativa.
Il Collegio ritiene pertanto che sia tuttora in vigore la norma contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza, determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.07.1999 n. 20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte sulla reviviscenza.
17.7. In secondo luogo, il Collegio ritiene che l’art. 2, comma 46, l. n. 662/1996 (cui la giurisprudenza ha peraltro attribuito portata interpretativa: così il già richiamato arresto, Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678), che esplicita che in caso di condono edilizio resta dovuta l’indennità per danno al paesaggio (“Per le opere eseguite in aree sottoposte al vincolo di cui alla l. 29.06.1939, n. 1497, e al d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla l. 08.08.1985, n. 431, il versamento dell'oblazione non esime dall'applicazione dell'indennità risarcitoria prevista dall'articolo 15 della citata legge n. 1497/1939”), non abbia abrogato la disposizione regionale del 1994. Ciò in quanto, in ambito di competenza legislativa esclusiva devoluta ad una regione a statuto speciale (come è nella specie) ed in presenza di legge regionale, la successiva legge statale (incompatibile) non supporta, fatta salva l’ipotesi del rinvio dinamico, il sistema della successione delle leggi nel tempo nel senso di ritenere implicitamente abrogata la legge precedente il cui contenuto sia incompatibile con il disposto della fonte primaria successiva: osta la competenza legislativa esclusiva della Regione Sicilia (di cui infra) che impone di valutare non solo l’incompatibilità ma anche la portata della successiva norma statale in termini di norma nazionale di grande riforma, richiedendo la pronuncia sul punto della Corte costituzionale.
Mentre l’ordinamento italiano devolve il primo profilo (relativo all’incompatibilità) al giudizio diffuso degli operatori del diritto che si trovino ad applicarla, non avviene così rispetto al secondo profilo di valutazione (appartenenza o meno della norma statale alla categoria delle norme di grande riforma), devoluto, anche in ragione della complessità che lo connota, alla Corte costituzionale, anche nella prospettiva della certezza del diritto. Del resto “i due istituti giuridici dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il campo dell'abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge” (Corte cost. 14.06.1956 n. 1).
Il rapporto fra l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 e l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, non trovando soluzione nelle regole che governano la successione delle leggi nel tempo, è quindi ricompreso nella questione di legittimità costituzionale che si pone alla Corte costituzionale.
18. Ritenuto quanto sopra, il Collegio intende porre la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, con specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”).
18.1. La questione è rilevante in ragione di quanto a più riprese considerato ed in quanto, in costanza della norma regionale suddetta (e pur essendo il Collegio persuaso che non trovi applicazione il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981) nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva.
Laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità (ovvero anche, semplicemente, laddove si ritenesse, difformemente da quanto ipotizzato dal questo Giudice, che la predetta disposizione non sia più in vigore in quanto implicitamente abrogata) il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado.
Non può poi sottacersi la particolare rilevanza che assume la questione per questo CGARS (oltre che per l’Amministrazione siciliana e i cittadini che afferiscono al relativo territorio), atteso che il presente giudizio è uno dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area.
19. Sembra evidente che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (nello stabilire che l’art. 23, comma 10, l.r. n. 37/1985, debba essere interpretato nel senso che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”, dispone che “nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) sia volto a impedire che dall’abuso derivino effetti negativi sul proprietario dell’immobile allorquando il vincolo paesaggistico è successivo alla realizzazione dell’abuso (e sembra altresì evidente che, in questa chiave di lettura, tale esenzione ricomprenderebbe anche eredi ed aventi causa, che altrimenti ci si troverebbe al cospetto di una illogicità incomprensibile: l’autore dell’ abuso verrebbe “privilegiato” rispetto all’avente causa di questi).
La voluntas legis regionale non pare, in tale prospettiva, attribuire un ruolo decisivo all’uso del termine “sanzione”, ritenendosi piuttosto che essa voglia impedire l’esborso di denaro, indipendentemente dalla qualificazione di quest’ultimo.
Il termine sanzione delinea la conseguenza di carattere patrimoniale derivante dall’aver realizzato un’opera abusiva ed è coerente con la qualificazione attribuita all’epoca all’indennità in discorso.
In tal senso si ritiene che la possibilità di esperire un’interpretazione costituzionalmente orientata, che, valorizzando l’utilizzo del termine “sanzione”, ritenga non applicabile all’indennità di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 la norma regionale contenuta nell’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, non sia percorribile: osta il principio della certezza del diritto. Il profilo emerge con evidenza se si considera la già richiamata circostanza relativa all’attuale pendenza di ottanta giudizi di contenuto analogo presso questo CGARS, così risaltando la rilevanza che assume il connotato della certezza del diritto non solo per l’organo giurisdizionale ma altresì per l’Amministrazione siciliana e gli abitanti del relativo territorio.
Invero, a tacere del fatto che, se si interpretasse in tal senso la disposizione regionale, si determinerebbe un’ipotesi di norma inutiliter data, si aggiunge che l’art. 5 l.r., per come è stato costantemente applicato, intende riferirsi, laddove utilizza il termine “sanzione”, proprio all’indennità per danno al paesaggio
Si ritiene pertanto che la disposizione regionale della cui legittimità costituzionale si dubita sia riferita all’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 (indipendentemente dalla qualificazione di detta indennità sulla quale ci si è prima soffermati, laddove si ritiene di avere chiarito le ragioni per le quali il Collegio non la ricompresa nella categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie normate dalla l. n. 689/1981).
Nondimeno il Collegio, pur ritenendo che detta qualificazione non abbia un rilievo così determinante in punto di valutazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ancorata alla diversità di disciplina con la normativa statale in punto di abuso paesaggistico (nei termini illustrati infra), come si dirà, non ignora che la qualificazione dell’indennità in parola in termini di sanzione amministrativa pecuniaria non è indifferente per il Giudice ad quem, come si avrà modo di illustrare nel paragrafo 21.
19.1. Premesso ciò, la valutazione della non manifesta infondatezza si articola innanzitutto nel senso che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nella formulazione ritenuta vigente, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi degli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in quanto determina una lesione diretta dei beni culturali e paesaggistici tutelati, con la conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito nell'intero territorio nazionale. La predetta norma regionale interseca la disciplina sulla protezione del paesaggio (in quanto provvede a delineare le conseguenze dell’abuso anche paesaggistico), normativa che, a sua volta, rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell'ambiente, di esclusiva spettanza statale ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione.
Ciò in quanto:
   - ai sensi dell’art. 9, comma 2, Cost. la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico della Nazione;
   - l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. attribuisce alla Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali;
   - l'art. 14, comma 1, lett. n), dello Statuto speciale della Regione Sicilia, approvato con r.d.l. 15.05.1946 n. 455 e successive modificazioni e integrazioni, riconosce una potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche.
In merito alla materia del paesaggio si rileva che:
   - l’art. 9 Cost. (la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) ha costituito, in combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost., l’asse portante per il riconoscimento del diritto primario a godere di un ambientale salubre, e ciò attraverso la lettura effettuata dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 210 e n. 641 del 1987, poi consacrato nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione, attraverso i rinvii espressi ad ambiente ed ecosistema introdotti dall’art. 117, secondo comma, lett. s);
   - la nozione di paesaggio di cui all’art. 9 Cost. ha così assunto una connotazione che partecipa sia dell’esigenza di cura di singoli beni, quindi dei valori storici, culturali ed estetici del territorio, sia quella di non pretermettere l’interesse alla tutela dell’ambiente, sia quell’attenzione alla materia dell’urbanistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74 e 17.04.2015 n. 64);
   - specularmente l’ampia nozione di ambiente, così come è stata ricostruita specie dopo il 2001, ha una morfologia complessa, capace di ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici, ma anche i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale (Corte cost. 30.03.2018 n. 66, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Detto ciò in punto di norme costituzionali di interesse nella presente controversia si rileva conseguentemente, in relazione alle soggettività coinvolte dalle suddette attribuzioni, che:
   - la tutela del paesaggio non si identifica con una materia in senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore costituzionalmente protetto, integrante una materia trasversale (Corte cost. 17.04.2017 n. 77), sulla quale lo Stato esercita, in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale (Corte cost. 01.10.2003 n. 303);
   - in molteplici occasioni, codesta Corte ha affermato che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato (Corte cost. 23.07.2018 n. 172);
   - l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale materia-obiettivo non implica una preclusione assoluta all'intervento regionale, purché questo sia volto all'implementazione del valore ambientale e all'innalzamento dei suoi livelli di tutela (sentenza 23.07.2019 n. 172, punto 6.2. del Considerato in diritto e sentenza n. 178/2018, punto 2.1. del Considerato in diritto; nello stesso senso sentenza Corte cost. 17.04.2017 n. 77, 16.07.2014, 24.10.2013 n. 246, 20.06.2013 n. 145, 26.02.2010 n. 67, 18.04.2008 n. 104 e 14.11.2007 n. 378);
   - alle regioni non è consentito modificare gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, “senza che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di tutela” (Corte cost. 21.04.2021 n. 74);
   - fra gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, che alle regioni non è consentito modificare, deve essere annoverata l'autorizzazione paesaggistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74).
Con specifico riferimento alle competenze legislative delle regioni a statuto speciale, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che il legislatore statale, tramite l'emanazione delle norme di grande riforma economico-sociale, “conserva il potere -anche relativamente al titolo competenziale legislativo "nella materia 'tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali', di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, [...]- di vincolare la potestà legislativa primaria delle regioni a statuto speciale" (sentenza n. 238/2013, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Specularmente la Regione Siciliana, con specifico riferimento alla competenza legislativa esclusiva attribuitale dallo Statuto speciale in materia di paesaggio e di urbanistica, deve rispettare, oltre che, in generale, i precetti costituzionali, anche le “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell'esercizio delle proprie competenze legislative (Corte cost. 08.11.2017 n. 232 con riferimento alla disciplina dell’accertamento di conformità).
A ciò si aggiunge che la definizione dell’ambiente quale materia trasversale porta con sé consente l’attivazione, da parte dello Stato, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà (Corte cost. 01.10.2003 n. 303).
In ragione di quanto sopra si rileva che:
   - la l. n. 431 del 1995 è stata qualificata in termini di legge di grande riforma (Corte cost. 27.06.1986 n. 151), così come il d.lgs. n. 42/2004 (Corte cost. 29.10.2009 n. 272): il codice dei beni culturali “detta le coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica affidata congiuntamente allo Stato e alle regioni” (sentenza n. 66/2018, punto 2.4. del Considerato in diritto), in coerenza con i principi delineati supra in tema di protezione del paesaggio e di tutela dell'ambiente e della valenza della disciplina statale diretta a proteggere l'ambiente e il paesaggio quale limite alla competenza legislativa in materia anche delle regioni a statuto speciale;
   - tale qualificazione discende dal fatto che il codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004 impatta in modo diretto sul valore primario e assoluto del paesaggio (“il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (così la sentenza 05.05.2006 n. 182), così come richiamato dall’art. 9 Cost. e dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e ne delinea un nuovo assetto, improntato a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione del territorio nella prospettiva estetica e culturale, intesa in senso dinamico;
   - l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, sulla quale è intervenuto l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 nei termini sopra delineati, risulta, -in ragione della funzione riparatoria rispetto all’esternalità negativa prodotta con l’abuso e in funzione general-preventiva, di dissuasione-, direttamente connessa al valore primario e assoluto che il d.lgs. n. 42/2004 attribuisce al paesaggio.
21. A fronte di ciò:
   - la disciplina sul condono edilizio è organicamente regolamentata in ambito nazionale prevedendo che l’accertamento postumo (nei termini evidenziati sopra, nei paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) della compatibilità paesaggistica sia accompagnato dal pagamento dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004;
   - è stato già illustrato, come il pagamento della somma di denaro connessa all’accertamento della compatibilità paesaggistica costituisca un tratto fondamentale dell’istituto a livello di disciplina nazionale;
   - come si è rilevato sopra, l’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo è dovuta in ambito nazionale, anche se il vincolo paesaggistico è sopravvenuto rispetto alla realizzazione dell’abuso (e ciò indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria);
   - ciò in ragione, da un lato, della richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio;
   - l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nel prevedere che la sanzione amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, si discosta dalla disciplina nazionale sopra illustrata lasciando “scoperto” il periodo precedente nel quale l’abuso è stato commesso ma l’accertamento di compatibilità non è ancora avvenuto;
   - in tal senso viene assicurata sul territorio siciliano una tutela meno elevata del valore ambiente e paesaggio rispetto a quella garantita sul rimanente territorio nazionale,
   - in ambito siciliano, infatti, la conformità attuale alla disciplina paesaggistica consente di superare il precedente abuso senza ulteriori conseguenze negative, sicché viene meno il disvalore ambientale e paesaggistico connesso a quest’ultimo, parificando la posizione di chi non ha commesso abuso alla posizione di chi lo ha commesso ma ha ottenuto l’accertamento positivo di conformità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 solo dopo averlo realizzato;
   - così non avviene, come si è già visto, sul rimanente territorio nazionale, dove la tutela del paesaggio è presidiata a livello general-preventivo anche attraverso il pagamento di un’indennità a copertura delle conseguenze pregiudizievoli dell’abuso commesso;
   - tale ultimo aspetto assume una particolare rilevanza nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (come sopra già illustrato), delineando un procedimento avente due prospettive, quella del superamento di una situazione di non conformità formale alla disciplina paesaggistica in seguito all’accertamento della compatibilità sostanziale del manufatto (questo a presidio di un principio di efficienza e di scarsità delle risorse che accomuna l’intero ordinamento giuridico e non solo la prospettiva pubblicistica) e il contrappeso del pagamento di un’indennità in funzione general-preventiva a presidio del rispetto ex ante delle regole poste a tutela del paesaggio attraverso il pagamento dell’indennità (che altrimenti viene meno la cogenza delle medesime, con conseguente intaccamento del valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio);
   - si è illustrato sopra come il procedimento e la posizione dell’Amministrazione sul punto si giustifichi e trovi le ragioni del proprio canone di azione solo nel bilanciamento fra i due aspetti sopra delineati e come non possa esservi l’uno, senza l’altro.
L’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella formulazione che si ritiene attualmente vigente (come sopra illustrato), laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, contrasta, eccedendo dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dall’art. 14 lett. n) dello Statuto in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, con le norme di grande riforma economico-sociale contenute nell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, con conseguente violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Ciò in quanto comporta una significativa alterazione del meccanismo delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
20.1. Il Collegio solleva altresì questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella ridetta formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Ciò, in quanto la norma censurata consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria negativa in caso di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Altrettanto non avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a fronte della medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del paesaggio che non può essere difforme (almeno verso il basso, essendo, come già visto, consentito alle Regioni unicamente di innalzare lo standard di tutela).
Nel meccanismo disegnato dalla norma regionale della cui costituzionalità il Collegio dubita, la regolarizzazione del fatto lesivo per il paesaggio (certamente sussistente al momento della delibazione dell’amministrazione sulla domanda di condono) avviene senza alcuna conseguenza pregiudizievole per il suo autore.
Dal che la considerazione che la disciplina qui censurata possa indebolire l’efficacia deterrente del sistema delineato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, così come interpretato dall’Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e dall’art. 2, comma 46, della l. n. 662 del 1996, con conseguente incentivazione a tenere il comportamento, confidando nella possibilità di un adempimento successivo, in grado di superare l’illecito paesaggistico commesso: così vanificando l’efficacia deterrente dell’istituto, con conseguente irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione.
Né giustifica la diversità di trattamento del danno al paesaggio sul territorio siciliano la prospettiva di un rapporto tra pubblica amministrazione e consociati imperniato su uno schema dialogico-collaborativo anziché oppositivo, che si tradurrebbe nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato circa la necessità di conformarsi al precetto, che imporrebbe la previa imposizione del vincolo paesaggistico sull’area oggetto di abuso rispetto alla realizzazione di questo.
L’argomentazione infatti non spiega la diversità della disciplina siciliana, in quanto un’argomentazione analoga potrebbe articolarsi anche in relazione al rimanente territorio nazionale.
A ciò si aggiunge, in senso inverso, che il valore del paesaggio giustifica piuttosto, per i motivi sopra esposti, l’impostazione opposta.
Non sfugge, tra l’altro, che in riferimento all’ambito del diritto penale la possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata recentemente anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale ad opera l. 23.06.2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti procedibili a querela soggetta a remissione –senza alcuna residua sanzione per il trasgressore– quando, anche in assenza di remissione della querela da parte della persona offesa, questi abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose di esso entro l’apertura del dibattimento di primo grado.
Nondimeno nel caso di specie il meccanismo introdotto dal legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994 non assicura la riparazione del danno in quanto la regolarizzazione della posizione del soggetto istante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 avviene prescindendo dalla valutazione del pregiudizio arrecato al bene ambiente, che, anzi, tale omissione costituisce l’effetto precipuo della norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale. E ciò è ancora più rilevante in quanto l’interesse pubblico al paesaggio presenta le caratteristiche dell’interesse almeno in parte adespota, potenzialmente incidente sulle generazioni future, e le cui violazioni determinano esternalità negative difficilmente apprezzabili (di talché anche la particolare modalità di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5).
Non può quindi ritenersi, in uno con la Corte costituzionale, che ha ritenuto che l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale corrisponda a legittime opzioni di politica criminale o di politica sanzionatoria (18.01.2021 n. 5), che la scelta operata dal legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 non trasmodi nella manifesta irragionevolezza o non si traduca in un evidente pregiudizio al principio del buon andamento dell’amministrazione
L'art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, eccedendo dalle competenze statutarie della Regione autonoma della Sicilia di cui all'art. 14, comma 1, lettera n), e quindi essendo privo di giustificazione, viola quindi anche gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
21.2. Da ultimo, per completezza espositiva, sarà consentita una considerazione. Si è già chiarito che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 non riveste, per il Collegio, i connotati della sanzione amministrativa in ragione delle considerazioni sopra illustrate.
Nondimeno, se anche si ritenesse di attribuire detta qualificazione all’indennità in parola, questo CGARS ritiene che la norma censurata non si presti a una interpretazione adeguatrice, che ne determini la sussumibilità nell’ambito della categoria delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali.
Detta indennità infatti si situa nell’ambito di una fattispecie (quella di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004) favorevole per il privato istante in quanto consente il superamento di un precedente illecito. Sicché l’analisi concreta delle finalità perseguite (già sopra illustrata ai paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) rende recessiva, sulla base dei parametri Engel, la finalità punitiva rispetto a quella preventiva, nel senso che l’indennità costituisce una misura a tutela del paesaggio, che consente di superare l’illecito commesso, alla quale risultano estranei gli aspetti meramente afflittivi della pena (potendosi al più rinvenire delle secondarie finalità di deterrenza).
La tecnica di quantificazione, peraltro, basata sul binomio danno arrecato-profitto conseguito, osta a ritenere particolarmente elevato il grado di afflittività in quanto la misura del dovuto non trova giustificazione nella necessità di assicurare l’effetto punitivo ma nel tentativo di rimediare a un danno arrecato. Nella determinazione dell’indennità non si ha infatti riguardo all’elemento soggettivo del fatto, né all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione e neppure alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, parametri che il legislatore ha individuato al fine di assicurare la finalità punitiva (art. 11 della l. n. 689/1981).
Detto ciò in punto di non annoverabilità dell’indennità controversa nell’ambito delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, questo CGARS ritiene che la riconducibilità della stessa nella categoria delle sanzioni amministrative (sussumibilità comunque avversata da questo CGARS, come sopra illustrato) non consentirebbe comunque di superare le questioni di legittimità costituzionale in ragione dei principi della conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
In altre parole, questo CGARS ritiene che non possa essere utilizzato, in funzione paralizzante rispetto alla questione di legittimità costituzionale della norma censurata, il rilievo che essa (laddove non consente di irrogare la “sanzione” nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico) sarebbe giustificata dalla necessità di allineare la fattispecie alla regola generale di conoscibilità del precetto la cui violazione determina la conseguenza sanzionatoria.
Piuttosto, l’ordinamento suppone (e impone) che colui che realizza un illecito edilizio si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che dalla condotta derivano nel corso del tempo, fino a che la posizione del medesimo non risulta nuovamente conforme all’ordinamento giuridico (secondo il canone del versari in re illicita): il precetto da conoscere anticipatamente non è rappresentato dal singolo vincolo paesaggistico ma dal fatto che la realizzazione del manufatto deve avvenire nel rispetto delle regole di settore, pena, quanto meno, il pagamento di un’indennità.
Il settore non risulta esposto né al rischio che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri, l’autorità amministrativa o il giudice assuma[no] un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito, né al rischio di violare la libera autodeterminazione individuale, dal momento che consente al destinatario della norma di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta (così non realizzandosi le situazioni che rappresentano la ratio dei principi della conoscibilità del precetto e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, così (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32 l. n. 47/1985 rende infatti rilevanti i vincoli di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, di tutela del patrimonio storico artistico e di tutela della salute che appongono limiti all’edificazione ai fini dell’accertamento di conformità in sanatoria: è la legge che impone quindi una corrispondenza stretta fra il vincolo edilizio e i suddetti vincoli, ritenendoli connessi quanto agli interessi pubblici coinvolti e inestricabilmente compromessi dalla concreta realizzazione illecita del manufatto.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che detta disposizione non rechi alcuna deroga al principio di legalità in quanto “è la legge che attribuisce la funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione interferisce” e che “la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone” (n. 20 del 1999).
Sicché, una volta che la cura dell’interesse paesaggistico, in uno con la cura degli altri interessi coinvolti nell’operazione, sia così realizzata dall’Amministrazione preposta, questa è tenuta a valutare anche i vincoli sopravvenuti rispetto alla costruzione, fino al momento della propria decisione. Sennonché tale incombenza (di considerare anche i vincoli sopravvenuti) non trova ragion d’essere in un comportamento della parte pubblica, essendo piuttosto ascrivibile al fatto che in precedenza il privato abbia agito in assenza di titolo, non consentendo così la verifica di quanto edificato.
Pertanto, se sanzione vi è, essa svolge la funzione di punire il trasgressore non, in via diretta, per avere violato il vincolo paesaggistico, ma per non essersi premunito del titolo edificatorio, esponendolo alle conseguenze negative che nel corso del tempo quella condotta produce, fino al momento in cui il privato non ritiene di porre fine alle conseguenze antigiuridiche della stessa,
presentando la domanda di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 e l’Amministrazione si pronunci sulla stessa.
Non si pone quindi un tema di conoscibilità del precetto, potendosi al più porre una questione di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, che questo CGARS ritiene superabile in ragione del fatto che gli interessi coinvolti, oltre a quello strettamente edificatorio, sono indicati nell’art. 32 e così sono prevedibili le conseguenze che derivano dalla violazione di detti interessi: l’unico elemento di aleatorietà attiene alla mancanza di sicurezza in ordine al fatto che l’area interessata dall’illecito sia nel corso del tempo sottoposta (o meno) a vincolo.
Detta aleatorietà, peraltro, è contenuta dalla predeterminazione della tipologia di vincoli e di conseguenze che ne derivano, da un lato, e, dall’altro lato, dal fatto che dipende proprio dal soggetto “punito” la possibilità di ridurre, se non azzerare, detta aleatorietà presentando l’istanza di compatibilità (paesaggistica, per quanto interessa nella presente controversia).
21. Detto ciò in funzione delle questioni di legittimità sollevate, proprio per quanto si è in ultimo esposto nel precedente paragrafo questo CGARS non ritiene di porre ulteriori questioni in relazione specificamente all’eventuale qualificazione (avversata dal Collegio, come sopra illustrato) dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in termini di sanzione amministrativa dal momento che la giurisprudenza costituzionale ritiene che “la competenza sanzionatoria amministrativa non è in grado di autonomizzarsi come materia a sé, ma accede alle materie sostanziali” (Corte cost. 07.06.2018 n. 121), così assorbendosi nelle questioni di costituzionalità già poste, dovendosi rilevare che le denunciate problematiche in punto di depotenziamento della tutela del paesaggio manterrebbero in simile ipotesi inalterata consistenza (cfr. Corte cost., 17.11.2020, n. 240, seppur con riferimento a Regione a Statuto ordinario).
22. Tanto premesso, richiamando quanto sopra osservato in punto di rilevanza della medesima e riassunto al paragrafo 19 (in costanza della norma regionale suddetta nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva, mentre, laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado), in punto di non manifesta infondatezza (in ragione della nozione di norma di grande riforma economico sociale, che la Regione Siciliana è tenuta a rispettare pur essendo titolare di una competenza legislativa esclusiva in materia di paesaggio, e della irragionevole disparità di trattamento), ed in punto di impossibilità di interpretazione adeguatrice della norma, il CGARS solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, per contrasto con gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97 della Costituzione ai sensi dell’art. 23, comma 2, l. 11.03.1953 n. 87, ritenendola rilevante.
Il processo deve, pertanto, essere sospeso ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c., con trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale.
Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, parzialmente e non definitivamente pronunciando:
   - respinge nei sensi di cui alla motivazione il primo motivo dell’appello principale;
   - respinge l’articolazione del primo motivo dell’appello principale volta a sostenere che al tempo dell’abuso sussistesse nell’area un vincolo paesaggistico, ovvero che il vincolo archeologico ivi sussistente fosse equiparabile ad un vincolo paesaggistico;
   - visto l’art. 23 l. 11.03.1953 n. 87,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 in relazione agli artt. 3, 9, 97 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, nei sensi di cui in motivazione;
   - sospende il presente giudizio ai sensi dell’art. 79, comma 1, c.p.a.;
   - dispone, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   - rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente ordinanza (CGARS, sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2021
dicembre 2021

EDILIZIA PRIVATA: PTP – Titolo edilizio – Assenso edilizio – Autotutela – Autorizzazione paesaggistica.
L'assenso edilizio per un intervento da realizzarsi in zona tutelata da un PTP ex art. 134, comma 1, lett c), d.lgs. n. 42/2004, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, è inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l'assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim, si è in presenza di una doppia situazione patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663).
Sicché deve ritenersi legittimo l'esercizio del potere di autotutela, sui pareri favorevoli resi dai vari organi periferici del MiBAC (oggi MIC), da parte della Direzione Generale del Ministero competente, in presenza di una erronea rappresentazione degli elementi in fatto e diritto da indurre gli uffici a ritenere non necessaria l'autorizzazione paesaggistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2021 n. 8641 - articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.01.2022).

EDILIZIA PRIVATAVa ricordato come l'assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica.
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6.1 In linea generale, va ricordato altresì come lo stesso assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2021 n. 8641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2021

EDILIZIA PRIVATARapporti tra leggi statali e leggi regionali in materia paesaggistica.
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Paesaggio – Tutela - Competenza esclusiva dello Stato – Poteri delle Regioni – Limite.
La conservazione dell’ambiente e del paesaggio è materia di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera s), Cost., con la conseguenza che il legislatore statale conserva in questa materia il potere di vincolare la potestà legislativa regionale, anche primaria, al rispetto delle norme statali qualificate come riforme economico sociali, e fra esse le disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano la gestione dei beni soggetti a tutela.
Pertanto, il legislatore regionale non può introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale e in particolare non può disciplinare in modo difforme dalla legge statale i presupposti ed il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (1).

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SENTENZA
1. La ricorrente appellante è una società immobiliare, comproprietaria di un terreno ad Asiago, distinto al catasto di quel Comune al foglio 64, mappali 84, 85, 1368, 87, 88, 206, 210, 1305, 171 e 882 e classificato dallo strumento urbanistico generale vigente all’epoca dei fatti come area Z - di trasformazione per servizi, edificabile previa approvazione di un piano urbanistico attuativo-PUA ai sensi dell’art. 40 delle norme tecniche di attuazione – NTA del piano generale.
2. Più precisamente, l’area era destinata a parco pubblico, parco attrezzato per il gioco dei bambini e impianti sportivi, con un vincolo preordinato all’esproprio; era però previsto, a titolo di incentivo, che ai privati i quali avessero ceduto gratuitamente al Comune le aree destinate ai servizi fosse riconosciuta la possibilità di realizzare alcuni edifici residenziali, da situare in un punto già previsto dal piano urbanistico generale, ovvero a 100 metri di distanza da un canale artificiale che scorre da nord verso sud lungo il confine est dell’ambito.
Il sito in questione si veniva così a trovare nella fascia di 150 metri dal corso d’acqua in questione, fascia vincolata ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera c), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che in generale prevede la necessità per edificare di seguire il relativo regime di tutela e di ottenere quindi l’autorizzazione paesaggistica (fatti pacifici in causa; cfr. comunque per tutto ciò doc. 5 in primo grado del ricorrente appellante, titolo di proprietà; doc. 6 e 7 in primo grado del ricorrente, piano urbanistico ed estratto NTA).
3. Di conseguenza, la società il giorno 22.01.2008 ha presentato al Comune, assieme agli altri comproprietari, una proposta di PUA (doc. 8 in primo grado del ricorrente appellante).
4. Su questa proposta, il Comune, con atto 17.12.2009, prot. n. 17100 (doc. 15 in primo grado del ricorrente appellante) ha espresso un parere favorevole con prescrizioni.
5. Il Comune stesso, peraltro, ricevute dalla società le integrazioni istruttorie necessarie per adeguarsi alle prescrizioni stesse, ha ritenuto, dandone atto nella nota predetta, di inviare il progetto di piano attuativo alla competente Soprintendenza, in applicazione dell’art. 16, comma 3, della l. 17.08.1942, n. 1150, per cui “I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposte alla competente soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione quando sono approvati con decreto del Ministro per i lavori pubblici”.
6. La Soprintendenza, con l’atto 04.03.2010, prot. n. 4548, indicato in epigrafe, ha espresso un parere negativo (doc. 1 in primo grado del ricorrente appellante), confermato con il successivo atto 24.04.2010, prot. n. 9310, pure indicato in epigrafe, anche dopo che la società aveva chiesto di rivederlo (doc. 3 in primo grado del ricorrente appellante). Il Comune, pertanto, con il provvedimento 30.04.2010, prot. n. 5521 a sua volta indicato in epigrafe (doc. 4 in primo grado del ricorrente appellante), ha negato la necessaria autorizzazione paesaggistica, con il risultato di bloccare il progetto.
7. Con la sentenza ancora indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso della società contro questi atti, ritenendoli legittimamente emanati.
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16. E’ infondato il primo motivo, centrato sulla presunta inapplicabilità dell’art. 16 della l. n. 1150/1942 ai piani particolareggiati come quello per cui è causa, per i quali l’autorizzazione paesaggistica non sia richiesta in modo espresso dalla legislazione regionale di riferimento.
16.1. In linea generale, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, costante giurisprudenza della Corte costituzionale afferma che la conservazione dell’ambiente e del paesaggio è materia di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione anche nelle Regioni a statuto speciale, e non solo in quelle a statuto ordinario come il Veneto.
Di conseguenza, sempre in generale, il legislatore statale conserva in questa materia il potere di vincolare la potestà legislativa regionale, anche primaria, al rispetto delle norme statali qualificate come riforme economico sociali, e fra esse le disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano la gestione dei beni soggetti a tutela.
Sempre la Corte ha in questo senso affermato per quanto qui interessa in via diretta, che il legislatore regionale non può “introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale” e in particolare non può disciplinare in modo difforme dalla legge statale i presupposti ed il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica: per tutte, da ultimo, sul punto C. cost. 22.07.2021, n. 160, da cui la citazione e ove ampi ulteriori richiami.
16.2. Ciò posto, in base alla nota regola per cui, nel dubbio, le norme vanno interpretate in senso conforme a Costituzione, il silenzio sul punto specifico della l.r. n. 11/2004 va interpretato, così come fatto dal giudice di primo grado, come privo di rilevanza, nel senso di lasciare intatta l’applicabilità della disciplina statale di cui al d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, in base al combinato disposto dell’art. 16 della l. n. 1150/1942 e dell’art. 146 dello stesso d.lgs. n. 42/2004, per l’intervento per cui è causa è stata correttamente richiesta l’autorizzazione paesaggistica, su parere vincolante della Soprintendenza: in questo senso la giurisprudenza di questo Consiglio, in particolare sez. VI, 15.03.2010, n. 1491, e 05.02.2010, n. 538.
La giurisprudenza contraria citata dalla difesa della ricorrente appellante appare invece non esattamente pertinente, dato che si tratta di sentenze di primo grado che, ove appellate, sono state riformate nel senso appena detto.
16.3. L’argomento della ricorrente appellante, secondo il quale la valutazione di compatibilità paesaggistica andrebbe invece compiuta a valle, all’atto del rilascio dei singoli permessi di costruire, non va poi condiviso, sulla base di quanto condivisibilmente affermato dalla citata sentenza n. 1491/2010.
In questo caso infatti, le valutazioni di compatibilità paesaggistica sono due distinte: la prima si compie a monte, riguarda il piano e quindi l’intervento nel suo complesso; la seconda si compie a valle, per ciascuno degli edifici previsti.
Sempre secondo la sentenza n. 1491/2010, le due valutazioni citate si pongono come il generale rispetto al particolare, nel senso che la valutazione sul piano complessivo va a fissare i limiti entro i quali si può svolgere la valutazione dei singoli interventi.
16.4. Un ulteriore argomento nel senso appena sostenuto si ricava poi dalla lettera dell’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, che contrariamente a quanto sostiene la difesa della ricorrente appellante, prevede l’autorizzazione paesaggistica in genere per i “titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”, locuzione che all’evidenza comprende anche un piano urbanistico attuativo. La durata quinquennale dell’autorizzazione, inferiore al termine di efficacia del piano attuativo, di regola pari a dieci anni, significa poi solamente che se entro i cinque anni l’intervento non fosse concluso, vi sarebbe l’onere di ottenere una nuova autorizzazione per completarlo.
16.5. Quanto sopra rende infine superfluo esaminare la questione relativa alla possibilità per il Comune di richiedere senza esservi obbligato il parere alla Soprintendenza per un dato intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.11.2021 n. 7619 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Illegittimità titolo edilizio e assenza dei titoli abilitativi – Trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia – Esecuzione di lavori sine titulo – Verifiche – Individuazione dell’elemento soggettivo quantomeno colposo – Potere-dovere del giudice penale – Artt. 12, 13, 29, 44, d.P.R. 380/2001 – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Fascia di profondità di 300 metri dalla linea di battigia – Vincolo provvedimentale ex art. 136 d.lgs. 42/2004 – Fattispecie: sequestro preventivo di un chiosco bar ricadente in fascia di profondità di 300 metri dalla linea di battigia e in zona dichiarata di notevole interesse pubblico – Artt. 136, 181 e 142 d.lgs. 42/2004.
In materia di tutela urbanistica e paesaggistica, ai fini dell’integrazione dei reati di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001, fatta salva la necessità di ravvisare in capo all’agente il necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia (oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia sostanziale di fonte normativa o risultante dalla pianificazione.
Da ciò consegue il potere-dovere del giudice penale di valutare la conformità ai modello legale del titolo edilizio (apparentemente) formatosi in relazione ad un’attività di trasformazione del suolo per poter affermare che questa si sia svolta in forza del necessario presupposto di legalità sostanziale; ciò in base al fondamentale principio contenuto nella disposizione generale secondo cui il permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001), ribadito in termini ancor più estesi –quanto alla doverosa osservanza della disciplina normativa di fonte primaria e secondaria– dall’articolo successivo («il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici»: art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Fattispecie: sequestro preventivo di un chiosco bar ricadente su un’area in cui vige non solo in vincolo di cui all’art. 142, comma 1, d.lgs. 42/2004 –per essere il luogo in una fascia di profondità di 300 metri dalla linea di battigia– ma anche il vincolo provvedimentale ex art. 136 d.lgs. 42/2004, per essere stata la zona dichiarata di notevole interesse pubblico, e ciò escluderebbe la deroga di cui al comma 2, in relazione al comma 4 dell’art. 142 ed all’art. 143, comma 1, d.lgs. 42/2004
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.11.2021 n. 39753 - link a www.ambientediritto.it).

ottobre 2021

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Lavori in zona sottoposta a vincolo paesaggistico – Assenza dell’autorizzazione – Configurabilità del reato e disciplina del c.d. “condono ambientale” – Artt. 181, 183 d.lgs. n. 42/2004 – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Nozione di superfici utili e di volumetria – Casi d’inapplicabilità delle sanzioni penale per effetto della c.d. “compatibilità paesaggistica” – Interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria – Artt. 3, 36 d.P.R. n. 380/2001.
A norma dell’art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004, la disposizione incriminatrice di cui al comma 1 del medesimo art. 181, «qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater», non si applica:
   «a) per i lavori realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l’impiego di materiali in difformità dell’autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380».
L’istituto della “compatibilità paesaggistica”, quindi, non può trovare attuazione nel caso di lavori non autorizzati che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, o che non siano configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria a norma dell’art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001.
La nozione di superfici utili e di volumetria, inoltre, deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del territorio.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Principio di prevalenza della tutela paesaggistica – Potere di incidere sulla sanzionabilità penale – Riconoscimento Statale.
Il principio di prevalenza della tutela paesaggistica deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito non solo adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto, ma, altresì, introdurre limiti o condizioni, in qualsiasi forma, senza che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di tutela, le quali possono se del caso trovare riconoscimento anche negli strumenti urbanistici regionali o comunali, tanto più, poi, se dette limitazioni trovino giustificazione in mere esigenze urbanistiche.
La Corte costituzionale, del resto, già da tempo ha chiarito che il potere di incidere sulla sanzionabilità penale spetta al solo legislatore statale, cui va riconosciuta discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Rilascio del provvedimento in sanatoria di “compatibilità paesaggistica” – Sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto – Verifiche del giudice.
Il rilascio del provvedimento di “compatibilità paesaggistica” non determina per ciò stesso l’operatività della causa di non applicazione della disposizione penalmente sanzionata di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, in quanto è comunque riservato al giudice il compito di verificare se sussistono i presupposti di fatto e di diritto dell’istituto estintivo.
Inoltre, ove la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per l’operatività dell’istituto di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 non è desumibile dal provvedimento di sanatoria, è comunque onere dell’imputato allegarne l’esistenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2021 n. 39164 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
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Non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio.
Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale».
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
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Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante».
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace.
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1. L’odierno appellante ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la -OMISSIS-, sede -OMISSIS-, avverso: il provvedimento del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «diffida all’esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande in località -OMISSIS-. Diffida al conferimento di rifiuti ai contenitori ubicati sul territorio comunale»; dell’ivi richiamato verbale di atti di accertamento del 18.05.2009, prot. n. -OMISSIS-.; la nota del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «divieto di prosecuzione dell’esercizio di attività abusiva di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande» e del richiamato verbale del 18.05.2009; all’occorrenza, l’ordinanza di sospensione lavori del Comune di Polignano a Mare n. -OMISSIS-.
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Il diniego di istanza di permesso di costruire in sanatoria è basato su plurimi motivi ostativi alla doppia conformità, trattandosi di opere realizzate su un’area in concessione demaniale e con vincolo paesaggistico ai sensi del decreto legislativo 42/2004.
Al riguardo, conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 17.02.2021, n. 1457, 04.01.2021, n. 43, e 18.07.2016, n. 3194).
Ciò posto, è assorbente quanto precisato nel parere contrario della Soprintendenza del 13.10.2010 sul riscontrato aumento di volume e superficie utile del chiosco, trattandosi di struttura chiusa su tre lati, con una conseguente variazione essenziale rispetto al progetto assentito nel 2003, a cui non è applicabile “mini-sanatoria” paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004.
In proposito va evidenziato che non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio. Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 03.06.2014, n. 2842; nello stesso senso cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 22.12.2007, n. 6615; Consiglio Stato, sezione V, decisione 12.12.2009, n. 7789; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 01.12.2014, n. 5934).
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
Nel caso di specie è stata cagionata inoltre un’alterazione dello stato dei luoghi determinata dallo scavo del banco di roccia per la realizzazione della fossa di tipo Imhoff, non prevista dalle concessioni demaniali e dal permesso di costruire, che non autorizzavano alcun tipo di scavo della roccia, ma soltanto l’installazione di bagni chimici e facendo comunque salva la necessità di realizzarle nell’ambito dell’area oggetto della concessione, e non fuori da essa, come, invece, in concreto verificatosi.
Sul punto è inconferente il richiamo all’art. 11 della legge regionale della -OMISSIS- n. 17/2006 recante l’obbligo in capo al concessionario di stabilimento demaniale marittimo di garantire i servizi minimi (igienico-sanitari, docce e chiosco-bar), poiché tale obbligo va ottemperato nel rispetto della normativa e non autorizza ovviamente la realizzazione di opere abusive.
Con riferimento all’occupazione abusiva del demanio marittimo per la realizzazione di tali opere, la normativa di settore non prevede la possibilità di una specifica sanatoria, non avendo peraltro il pagamento dell’indennità per l’occupazione abusiva alcun effetto sanante; diversamente opinando, infatti, si darebbe ingresso ad un’illegale sanatoria atipica demaniale e si aggirerebbe l’obbligo di una procedura di evidenza pubblica aperta a tutti gli operatori economici interessati propedeutica all’affidamento della concessione.
Ne deriva che l’amministrazione comunale non avrebbe potuto in alcun modo accoglier l’istanza di sanatoria edilizia, stante la natura vincolata del predetto parere negativo di compatibilità paesaggistica poiché, «nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante» (Consiglio di Stato, sezione VI, 08.08.2018, n. 5770); in ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 14.12.2015, n. 5663, 13.04.2016, n. 1436, e 21.05.2021, n. 3952).
Ne consegue peraltro che ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 qualsivoglia vizio formale e procedimentale verrebbe sterilizzato dalla natura vincolata e necessitata del diniego di sanatoria edilizia adottato dal Comune (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.10.2021 n. 6912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2021

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Condono ambientale – Nozione di volumetria – Qualificazione del fatto reato – Valutazione di compatibilità paesaggistica e rilascio dell’autorizzazione in sanatoria – Effetti – Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
Ai fini della qualificazione del fatto reato come contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di “volumetria” deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del territorio, sicché la nozione di “volumetria” –al pari di quella di “superficie utile” di cui al comma 1-ter, lett. a), della stessa disposizione– dev’essere individuata prescindendo dai suddetti criteri urbanistici.
Inoltre, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l’applicazione del cosiddetto condono ambientale.

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3.1. il primo motivo è manifestamente infondato;
3.2. l’art. 181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, consente l’accertamento di compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che «non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati»;
3.3. nel caso di specie si tratta della abusiva realizzazione di un manufatto che occupa una superficie di mq. 29 e sviluppa una volumetria di mc. 80, stabilmente ancorato alla sottostante platea di cemento e destinato al ricovero di equini; la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica era stata favorevolmente esitata sul rilievo che la volumetria, trattandosi di costruzione accessoria al deposito agricolo e di limitate dimensioni, non è urbanisticamente rilevante ai sensi della legislazione urbanistica provinciale, sicché l’intervento non avrebbe determinato creazione di superfici utili o volumi ai sensi dell’art. 181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004;
3.4. secondo il costante insegnamento di questa Corte, ai fini della qualificazione del fatto reato come contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di “volumetria” deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del territorio (Sez. 3, n. 23028 del 24/06/2020, Rv. 279708 – 01; Sez. 3, n. 16697 del 28/11/2017, dep. 2018, Rv. 272844 – 01), sicché la nozione di “volumetria” – al pari di quella di “superficie utile” di cui al comma 1-ter, lett. a), della stessa disposizione – dev’essere individuata prescindendo dai suddetti criteri urbanistici (Sez. 3, n. 9060 del 04/10/2017, dep. 2018, Rv. 272450 – 01; Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv. 251641 – 01; Sez. 3, n. 44189 del 19/09/2013, Rv. 257527 – 01);
3.5. inoltre, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l’applicazione del cosiddetto condono ambientale (Sez. 3, n. 13730 del 12/01/2016, Rv. 266955 – 01; Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv. 251640 – 01; Sez. 3, n. 27750 del 27/05/2008, Rv. 240822 – 01; in senso analogo, Sez. 3, n. 36454 del 31/05/2019, Rv. 276758 – 01);
3.6. correttamente, di conseguenza, la Corte di appello ha disatteso il provvedimento (che si deduce travisato per omissione) che ha erroneamente ritenuto l’intervento non produttivo di superfici utili o volumi ai sensi dell’art. 181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2021 n. 34585 - link a www.ambientediritto.it).

luglio 2021

ATTI AMMINISTRATIVI: L’assenza di una esplicita motivazione non può neanche essere compensata dal fatto che il potere esplicitato in materia edilizia o paesaggistica si possa configurare come sostanzialmente vincolato o, comunque a ridotti margini di discrezionalità, poiché nel caso di specie risulta carente qualsiasi certazione in ordine alla rilevanza della abusività (sul piano edilizio e paesaggistico) dell’opera realizzata. Anche in tali casi, infatti, l’onere motivazionale ed istruttorio resta imprescindibile.
Tali principi sono stati costantemente ribaditi anche dalla giurisprudenza più recente.
   - “La motivazione costituisce infatti il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti”.
   - “I provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione, intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell'interesse pubblico al ripristino dell'ordine giuridico infranto, all'esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco, bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole”.
   - “L'ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato. Infatti, la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato, con la conseguenza che essa è già dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro abusività”.

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5. Con il secondo ed il terzo motivo, trattati unitamente per ragioni di connessione oggettiva si lamenta la violazione degli artt. 22 e 33 del DPR n. 380/2001 e s.m.i., dell’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 nonché eccesso di potere per difetto dei presupposti, travisamento dei fatti, carenza istruttoria e difetto di motivazione.
Il provvedimento impugnato ordina di provvedere “ai sensi dell'art 33 D.P.R. 380/2001 e dell'art. 167, comma 1, D.Lgs. 42/2004, alla rimozione della catena”.
I ricorrenti sostengono che il provvedimento sarebbe carente di motivazione ed istruttoria per quanto riguarda le violazioni disciplinate e sanzionate nelle due disposizioni richiamate nel provvedimento. In ogni caso le opere contestate rientrerebbero tra gli interventi di edilizia libera (ai sensi del punto n. 49 del glossario dell’edilizia libera approvato con D.M. 02.03.2018) per cui non sarebbe corretto il richiamo all’art. 33 del DPR n. 380/2001, avente ad oggetto “interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”; del pari non sarebbe applicabile (né risulta mai contestata una violazione in tal senso) l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, anche in ragione della tipologia di opera che non assumerebbe rilevanza paesaggistica.
Anche in questo caso le doglianze colgono nel segno in punto di assenza di motivazione e carenza istruttoria.
Come sopra evidenziato il provvedimento incentra il suo percorso istruttorio sulla fondatezza dei poteri di autotutela possessoria e sulla presenza dell’uso pubblico che legittimerebbe l’intervento ingiuntivo. Non è dato rinvenire alcun riferimento alle fattispecie inerenti la rilevanza edilizia o paesaggistica dell’opera realizzata.
L’assenza di una esplicita motivazione sui punti in argomento non può neanche essere compensata dal fatto che il potere esplicitato in materia edilizia o paesaggistica si possa configurare come sostanzialmente vincolato o, comunque a ridotti margini di discrezionalità, poiché nel caso di specie risulta carente qualsiasi certazione in ordine alla rilevanza della abusività (sul piano edilizio e paesaggistico) dell’opera realizzata. Anche in tali casi, infatti, l’onere motivazionale ed istruttorio resta imprescindibile.
Tali principi sono stati costantemente ribaditi anche dalla giurisprudenza più recente.
La motivazione costituisce infatti il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti” (TAR Calabria Catanzaro Sez. II, 22/03/2021, n. 634, conforme Cons. Stato Sez. II, 18/06/2020, n. 3909).
I provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione, intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell'interesse pubblico al ripristino dell'ordine giuridico infranto, all'esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco, bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole” (TAR Campania Napoli Sez. VI, 20/11/2020, n. 5395).
L'ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato. Infatti, la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato, con la conseguenza che essa è già dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro abusività” (Cons. Stato Sez. VI, 27/01/2020, n. 631).
Per tali ragioni anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso risultano fondati
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.07.2021 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2021

EDILIZIA PRIVATA: I beni immobili posseduti da enti pubblici o persone giuridiche private senza scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni, sono da considerare beni culturali ope legis, fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 dlgs 42/2004.
Il D.Lgs. n. 42/2004, all’art. 10, comma 1, prevede che sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
L’art. 12 prevede che “Le cose indicate all’art. 10, c. 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2”; il successivo comma 2 prevede che “i competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione”.
Dal quadro normativo succintamente riportato emerge che il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero dei beni immobili posseduti da enti pubblici o privati senza scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni) è imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo.
In altre parole, tali beni, se appartenenti a soggetti pubblici, sono da considerare beni culturali ope legis, fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12.
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E' impugnata
la nota del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo con la quale ha dichiarato l’insussistenza dell’interesse storico-artistico relativamente all’immobile di proprietà del Comune deducendo il vizio di motivazione, non essendo compiutamente evincibile, dall’esame del provvedimento impugnato, la ragione per cui è stata denegata l’apposizione del vincolo, frutto di una valutazione non puntuale e, comunque, difettosa e carente.
Secondo la prospettazione attorea, il parere reso dalla Soprintendenza non ha distinto e adeguatamente motivato circa la rilevanza storica e culturale del bene in questione, non essendovi traccia, nel diniego impugnato, delle ragioni ostative volte al riconoscimento della rilevanza storico-culturale, pur trattandosi di un “immobile particolarmente identitario per la cultura coriglianese”.
Il Comune di Corigliano contesta la illegittimità del provvedimento anche sotto il profilo della valutazione dell’interesse artistico ed architettonico, in ragione degli elementi strutturali e decorativi dell’edificio.
Invero, reputa il Collegio che sia meritevole di accoglimento il profilo del difetto di motivazione in cui è incorsa l’Amministrazione, limitatamente alla mancata valutazione del valore storico-culturale e identitario del bene oggetto di verifica laddove gli artt. 10 e seguenti del Codice dei beni culturali legittimano l’adozione di provvedimenti di vincolo, che possono fondarsi sulle varie tipologie d’interesse previste dal legislatore, qualificando alternativamente un certo bene e conferendo ad esso, in via esclusiva o concorrente, un interesse connotato ora in senso artistico, ora storico, ora archeologico, ora etnoantropologico.
In particolare, l’art. 10, comma 3, lett. d), assoggetta a tutela cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che “rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”.
Con riferimento a questo aspetto, oggetto di specifica previsione normativa, sussiste il denunciato difetto di motivazione, poiché la P.A. non ha in alcun modo argomentato -neppure nel parere della Soprintendenza, richiamato per relationem- circa la eventuale rilevanza storico-culturale e identitaria del bene oggetto di verifica, per come rimarcata dall’Ente richiedente, essendosi viceversa limitata ad argomentare, negli atti gravati, unicamente sugli elementi di interesse architettonico e storico-artistico dell’opera edilizia, in sé considerata.
Ed invero, con l’istanza di verifica dell’interesse culturale ex art. 12 D.Lgs. n. 42/2004, il Comune di Corigliano d’Otranto aveva puntualmente segnalato la rilevanza storica del bene di cui si controverte, evidenziando nella apposita sezione del modulo che la struttura “ha esercitato le proprie normali funzioni, rappresentando spettacoli di prosa, spettacoli musicali (opera, operetta, musical, concerti, balletto) e la proiezione di film […]. Il “Super Cinema” è stato un contenitore architettonico e artistico che si contraddistingueva per la sua vivacità culturale".
Il provvedimento de quo si limita, invece, a motivare che “non è stata dimostrata la sussistenza del requisito dei 70 anni dalla sua esecuzione, così come previsto dall’art. 12, co. 1, del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i. Inoltre, lo stesso immobile non presenta sufficienti elementi di interesse architettonico e storico-artistico di particolare rilevanza culturale, così come previsto dal succitato D.Lgs. trattandosi di edilizia presumibilmente risalente alla metà degli anni ‘50 del Novecento priva di particolari elementi di pregio”.
La circostanza assume rilevanza dirimente, nell’ottica di un possibile valore storico dell’edificio -oggi di proprietà comunale- nella evoluzione culturale della comunità coriglianese, ben evidenziata nella relazione tecnica di parte, prodotta in giudizio, nei seguenti termini: “il Supercinema di Corigliano d’Otranto rappresenta un luogo d’interesse storico, artistico e architettonico nonché di pregio culturale e testimoniale; l’edificio ha, infatti, un grande potere evocativo di monumento nel senso pieno del termine, che perpetua con la sua presenza il ricordo dell’istituzione che ha rappresentato, ovvero di luogo di cultura, di arte, di spettacolo e di socialità [… ]. È l’unico cinema sopravvissuto a Corigliano d’Otranto e la sua presenza ha rappresentato un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale della comunità che in esso da sempre si è identificata e che oggi lo riconosce come luogo di memoria collettiva”.
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... per l’annullamento:
   - della nota del 20.12.2019, prot. n. 38437, trasmessa a mezzo PEC in pari data, con la quale il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha dichiarato l’insussistenza dell’interesse storico-artistico relativamente all’immobile denominato “Supercinema” di proprietà del Comune di Corigliano d’Otranto;
...
3. Nel merito, il ricorso è affidato ai seguenti motivi:
   I. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 10-bis l. n. 241/1990. Violazione del principio di buon andamento dell’attività amministrativa. Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 12, 13 e seguenti del D.Lgs. 42/2004. Violazione delle regole procedimentali. Eccesso di potere per carenza di presupposti. Difetto d’istruttoria. Difetto di motivazione. Illogicità manifesta;
   II. Violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12 e ss. del D.Lgs. 42/2004. Illogicità manifesta. Contraddittorietà. Anche con riferimento alla Direttiva del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo concernente le sale cinematografiche di interesse storico del 26.08.2014. Difetto e carenza di motivazione.
4. Il ricorso è meritevole di accoglimento, nei termini di seguito esposti.
4.1. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente sostiene che il Ministero dei Beni Culturali sia incorso in un errore procedurale, avendo ritenuto che non sia stata offerta prova in ordine alla sussistenza del requisito temporale, previsto dall’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 42 del 2004, per la sottoposizione a vincolo dell’immobile in questione.
4.2. Il motivo è fondato.
4.3. Si deve premettere che il D.Lgs. n. 42/2004, all’art. 10, comma 1, prevede che sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
4.4. L’art. 12 prevede che “Le cose indicate all’art. 10, c. 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2”; il successivo comma 2 prevede che “i competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione”.
4.5. Dal quadro normativo succintamente riportato emerge che il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero dei beni immobili posseduti da enti pubblici o privati senza scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni) è imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo.
4.6. In altre parole, tali beni, se appartenenti a soggetti pubblici, sono da considerare beni culturali ope legis, fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 5934/2014; TAR Salerno, Sez. I, sent. n. 517/2016)
5. Ciò premesso, osserva il Collegio che agli atti di causa è provato che i lavori di costruzione dell’immobile de quo hanno avuto inizio nell’anno 1947 e sono stati completati nell’anno 1949; pertanto, alla data di presentazione dell’istanza di riconoscimento del valore storico culturale del bene in questione (ossia alla data del 30.04.2019), si era compiuto il periodo di 70 anni dalla data della sua edificazione, per come richiesto dalla normativa sopra richiamata.
5.1. Infatti, nel documento “Elenco delle nuove costruzioni sorte a Corigliano d’Otranto dal primo gennaio 1947 al 31.12.1949”, estratto dall’Archivio Storico Comunale (Collocazione Fasc. 2414; Titolario X, 10° Fasc. 2395-2426), è testualmente riportato nella pagina a destra, rigo 15: «Do.Gi. fu An. - inizio 1947-1949 vani 1 con antispettatoio piano T. uso ‘Supercinema’ in via Madonnella”».
5.2. Si deve, quindi, convenire con gli esiti della relazione tecnica, depositata dalla difesa ricorrente e redatta dal Prof. Ing. Fr.Ma., nel senso che l’edificio denominato “Supercinema” di Corigliano d’Otranto -realizzato negli anni della rinascita postbellica ed appositamente progettato come sala cinematografica- “viene costruito tra il 1947 e il 1949 in via Madonnella (oggi via Francesco Saverio Nitti) per volere di Gi.Do.”, per essere poi acquistato nel 1955 dalla famiglia De.Sa. e, infine, donato all’Amministrazione comunale di Corigliano d’Otranto nel 2015 (cfr. paragrafi 1 e 2 relazione cit.).
6. Con il secondo ordine di doglianze, viene dedotto, invece, il vizio di motivazione, non essendo compiutamente evincibile, dall’esame del provvedimento impugnato, la ragione per cui è stata denegata l’apposizione del vincolo, frutto di una valutazione non puntuale e, comunque, difettosa e carente.
6.1. Secondo la prospettazione attorea, il parere reso dalla Soprintendenza non ha distinto e adeguatamente motivato circa la rilevanza storica e culturale del bene in questione, non essendovi traccia, nel diniego impugnato, delle ragioni ostative volte al riconoscimento della rilevanza storico-culturale, pur trattandosi di un “immobile particolarmente identitario per la cultura coriglianese”.
6.2. Il Comune di Corigliano contesta la illegittimità del provvedimento anche sotto il profilo della valutazione dell’interesse artistico ed architettonico, in ragione degli elementi strutturali e decorativi dell’edificio, adducendo a sostegno gli esiti della relazione tecnica di parte, depositata in atti.
7. Tali doglianze sono in parte fondate.
7.1. Reputa il Collegio che sia meritevole di accoglimento il profilo del difetto di motivazione in cui è incorsa l’Amministrazione, limitatamente alla mancata valutazione del valore storico-culturale e identitario del bene oggetto di verifica.
7.2. Ed invero, gli artt. 10 e seguenti del Codice dei beni culturali legittimano l’adozione di provvedimenti di vincolo, che possono fondarsi sulle varie tipologie d’interesse previste dal legislatore, qualificando alternativamente un certo bene e conferendo ad esso, in via esclusiva o concorrente, un interesse connotato ora in senso artistico, ora storico, ora archeologico, ora etnoantropologico.
7.3. In particolare, l’art. 10, comma 3, lett. d), assoggetta a tutela cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che “rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”.
7.4. Con riferimento a questo aspetto, oggetto di specifica previsione normativa, sussiste il denunciato difetto di motivazione, poiché la P.A. non ha in alcun modo argomentato -neppure nel parere della Soprintendenza, richiamato per relationem- circa la eventuale rilevanza storico-culturale e identitaria del bene oggetto di verifica, per come rimarcata dall’Ente richiedente, essendosi viceversa limitata ad argomentare, negli atti gravati, unicamente sugli elementi di interesse architettonico e storico-artistico dell’opera edilizia, in sé considerata.
7.5. Ed invero, con l’istanza di verifica dell’interesse culturale ex art. 12 D.Lgs. n. 42/2004, il Comune di Corigliano d’Otranto aveva puntualmente segnalato la rilevanza storica del bene di cui si controverte, evidenziando nella apposita sezione del modulo che la struttura “ha esercitato le proprie normali funzioni, rappresentando spettacoli di prosa, spettacoli musicali (opera, operetta, musical, concerti, balletto) e la proiezione di film […]. Il “Super Cinema” è stato un contenitore architettonico e artistico che si contraddistingueva per la sua vivacità culturale".
7.6. Il provvedimento de quo si limita, invece, a motivare che “non è stata dimostrata la sussistenza del requisito dei 70 anni dalla sua esecuzione, così come previsto dall’art. 12, co. 1, del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i. Inoltre, lo stesso immobile non presenta sufficienti elementi di interesse architettonico e storico-artistico di particolare rilevanza culturale, così come previsto dal succitato D.Lgs. trattandosi di edilizia presumibilmente risalente alla metà degli anni ‘50 del Novecento priva di particolari elementi di pregio”.
7.7. La circostanza assume rilevanza dirimente, nell’ottica di un possibile valore storico dell’edificio -oggi di proprietà comunale- nella evoluzione culturale della comunità coriglianese, ben evidenziata nella relazione tecnica di parte, prodotta in giudizio, nei seguenti termini: “il Supercinema di Corigliano d’Otranto rappresenta un luogo d’interesse storico, artistico e architettonico nonché di pregio culturale e testimoniale; l’edificio ha, infatti, un grande potere evocativo di monumento nel senso pieno del termine, che perpetua con la sua presenza il ricordo dell’istituzione che ha rappresentato, ovvero di luogo di cultura, di arte, di spettacolo e di socialità [… ]. È l’unico cinema sopravvissuto a Corigliano d’Otranto e la sua presenza ha rappresentato un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale della comunità che in esso da sempre si è identificata e che oggi lo riconosce come luogo di memoria collettiva”.
8. Non sono invece positivamente apprezzabili gli ulteriori profili di censura, contenuti nel secondo motivo di ricorso, con cui si stigmatizza la circostanza che la verifica operata dal Ministero, sulla base del parere della Soprintendenza, non abbia tenuto conto delle caratteristiche peculiari ed idonee a riconoscere la sussistenza della rilevanza artistica ed architettonica dell’opera, anche in relazione alla Direttiva del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo concernente le sale cinematografiche di interesse storico del 26.08.2014.
8.1. Infatti, il Comune ricorrente contesta in vario modo le valutazioni della Soprintendenza, ma restando pur sempre nel perimetro della disputabilità delle valutazioni artistiche e architettoniche, senza addurre elementi che possano dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente del tutto inaccettabile, oppure che possano indurre a escludere in radice l’attendibilità della valutazione tecnico-discrezionale operate dalla P.A.
8.2. Fino a quando si fronteggiano soltanto “opinioni” divergenti, al Giudice Amministrativo è preclusa la sindacabilità della posizione espressa dall’organo statale appositamente investito ex lege della competenza ad operare siffatta valutazione, posta a base dell’esercizio del potere.
9. Per quanto innanzi, il ricorso va accolto ai sensi e nei termini in precedenza indicati, con conseguente annullamento degli atti gravati e con la precisazione che, in sede di riedizione del potere, l’Amministrazione dovrà vagliare –previa idonea attività istruttoria, anche in rapporto alla accertata risalenza ultra settantennale dell’epoca di costruzione del c.d. “Supercinema”– l’eventuale rilevanza sotto il profilo storico-culturale dell’immobile de quo agitur (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 24.05.2021 n. 786 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2021

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere in merito al procedimento concernente l’approvazione di impianti di distribuzione di carburante in aree sottoposte a vincoli paesaggistici – l.r. 8/2001(Regione Lazio, nota 22.04.2021 n. 362589 di prot.).
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L’Area in indirizzo ha chiesto il parere di questa Direzione Regionale in merito alle procedure da seguire per l’approvazione in variante urbanistica semplificata di impianti di distribuzione di carburante da realizzare in aree soggette a vincolo paesaggistico. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Riscontro alla richiesta di parere dell’Ente Regionale Parco di Veio trasmessa alla Direzione Tecnica del Municipio XV con prot. CU/22096 del 10.03.2021, inviata a questa Struttura con prot. CU/25495 del 19.03.2021, pervenuta con prot. QI/54038 del 21.03.2021, inerente l’applicabilità dell’intervento di Ristrutturazione Edilizia inteso come Demolizione e Ricostruzione, previsto dall’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR 380/2001 (come modificato ed integrato dalla L. n. 120/2020), ai soli edifici vincolati ai sensi del D.Lgs. 42/2004, ovvero anche a quelli non vincolati ai sensi di quest’ultimo Decreto ma ricadenti all’interno del Parco Naturale Regionale di Veio (Comune di Roma, nota 19.04.2021 n. 75658 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere in merito al regime autorizzatorio per la realizzazione di campi da paddle tennis in aree sottoposte a vincolo paesaggistico con riferimento all’applicabilità del d.P.R. 31/2017 (Regione Lazio, nota 16.04.2021 n. 343445 di prot.).
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Con nota del 14.01.2021 prot. 2025 Roma Capitale ha chiesto il parere di questa Direzione regionale in merito a quanto riportato in oggetto.
In particolare, si chiede se la realizzazione di un campo da paddle tennis possa rientrare tra gli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o in quelli sottoposti alla procedura autorizzatoria semplificata elencati negli Allegati A e B al Regolamento emanato con Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Qualificazione di un intervento di parziale demolizione e ricostruzione di edificio in area paesaggistica (Regione Emilia Romagna, nota 01.04.2021 n. 296941 di prot. unitamente al relativo allegato).
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1. Si forniscono i chiarimenti richiesti con due e mail del XXX e del XXX scorsi circa la qualificazione giuridica da dare ad un intervento di parziale demolizione e ricostruzione di un edificio ubicato:
   - in ambito rurale dove la nuova costruzione è consentita solo per l'esercizio dell'attività agricola;
   - in area soggetta a vincolo paesaggistico, ai sensi della parte terza del D.Lgs. n. 42 del 2004;
   - in area parzialmente instabile
   - all'interno della fascia di rispetto stradale.
L'intervento ipotizzato prevede il mantenimento della parte accessoria del fabbricato esistente la demolizione del la parte abitativa e la sua ricostruzione con un sedime diverso ma sempre in aderenza alla parte conservata L edificio verrebbe diversamente posizionato rispetto a quello attuale in ragione dell'instabilità del terreno che non consente di eseguire né un intervento conservativo dell'esistente né di fedele ricostruzione.
Il quesito posto è volto dunque a conoscere la qualificazione edilizia dell'intervento parzialmente ricostruttivo ed in particolare se lo stesso possa essere ricondotto nella ristrutturazione edilizia essendo preclusa la possibilità di realizzare una nuova costruzione, in quanto riservata dallo strumento urbanistico agli imprenditori agricoli (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti preoccupati: «Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel cappotto termico. Ma vai a capire.
La circolare 04.03.2021 n. 4 del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945, non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti - coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata. Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le sovrintendenze di una massa di carta
» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021).

marzo 2021

EDILIZIA PRIVATASuperbonus, edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.

Secondo la circolare 04.03.2021 n. 4, del Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere “contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale “patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto” (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti” o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021).

EDILIZIA PRIVATA: Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl cappotto. Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945. Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4 dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
La circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B del Dpr 31/2017. E la circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità»
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2021).

EDILIZIA PRIVATAPer l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza, ciò si sostanzia in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche.
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia: essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici.
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9. – Il motivo è fondato.
E’ incontestato che il progetto per la realizzazione dell’area di servizio attrezzata in fregio alla S.S. 38 non sia stato mai approvato, pur avendo ricevuto l’autorizzazione paesaggistica.
Per l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, ciò si sostanzia in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche (ex aliis, C.d.S., sez. I, 18.01.2019, n. 232; C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2568; C.d.S., sez. IV, 09.02.2016, n. 521).
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia (C.d.S., sez. IV, 27.11.2010, n. 8260): essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti (C.d.S., sez. VI, n. 2568/2016).
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici (C.d.S., sez. VI, n. 2568/2016).
Nel caso in esame, il progetto di realizzazione dell’area di servizio comprensiva di impianti tecnologici e di pubblica utilità (servizio di autolavaggio; officina, elettrauto, gommista; servizi igienici di uso pubblico; area attrezzata per camper; impianto di distribuzione di carburante; edificio per la somministrazione di alimenti e bevande e ristorazione; aree a parcheggio pubblico; area destinata a parco giochi–giardino di sosta; opere varie di sistemazione e compensazione ambientale), di cui alle tavole progettuali prodotte agli atti del giudizio (doc. 14 della produzione di primo grado di parte ricorrente), pur assentito per il profilo paesaggistico, non era stato approvato sotto quello urbanistico-edilizio.
Pertanto, alla base della richiesta di permesso di costruire per la «realizzazione del rilevato al fine di adeguare le quote dell’area di intervento al piano stradale esistente», mediante l’innalzamento del terreno per un’altezza media di ml. 4,00 su una superficie di mq 11.750 e la costruzione di un muro di contenimento delle terre all’interno della fascia di rispetto stradale, difettava, sotto il profilo urbanistico-edilizio, l’approvazione del progetto finale, senza il quale la trasformazione dello stato dei luoghi, con la mera creazione di un terrapieno privo di uno scopo autonomo, non rispondeva ad alcuna funzione, se non futura e sperata, e non poteva certamente giovarsi delle previsioni specifiche dettate per la costruzione di impianti di distribuzione di carburante, ragion per cui, già solo per questo motivo, si palesava illegittimo.
Si tratta di un motivo di censura su cui, in effetti, il giudice di primo grado ha omesso di pronunciarsi e che possiede portata assorbente di tutte le altre censure relative alla impugnazione del titolo edilizio per vizi propri: dunque, anche degli ulteriori profili fatti valere in questa sede sia col primo motivo di appello (supra, § 8) che col secondo motivo di appello (nel quale, come poc’anzi detto al § 5, parte appellante critica la decisione di primo grado per non aver accolto le censure di inosservanza delle norme e delle regole generali dell’azione amministrativa in materia idrogeologica) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.03.2021 n. 2553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di affidamento. La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei due titoli.
Nelle ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe sempre intervenire.
Invero, “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”.
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Stante il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico, in virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.

Tale considerazione trova appiglio per quanto statuito dal Consiglio di Stato. Invero:
«È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985;
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto. Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale:
«la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica».

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4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la insufficiente, contraddittoria e carente motivazione dell’ordinanza impugnata, nonché la violazione di una aspettativa giuridicamente qualificata in capo alla ricorrente ritenuta, nel caso di specie, prevalente rispetto all’interesse pubblico da tutelare.
In particolare si censura l’ordinanza con riferimento alla tardiva contestazione dell’assenza di autorizzazione paesaggistica che, a fronte di un permesso a costruire favorevole (il n. 5/2008) che avrebbe ingenerato una aspettativa giuridicamente qualificata, condurrebbe l’amministrazione a ledere il legittimo affidamento della ricorrente (del resto, sottolinea sempre la ricorrente, il PDC non è mai stato annullato proprio in ragione del tempo trascorso).
Il titolo abilitativo alla costruzione dell’immobile sarebbe stato regolarmente emesso e l’attività di costruzione posta in essere sarebbe stata svolta dalla ricorrente nel legittimo affidamento di essere pienamente autorizzata ad operare in un’area priva di vincolo.
Anche alla luce del tempo trascorso, la ricorrente sostiene infine che la motivazione dell’ordinanza di demolizione avrebbe dovuto essere completa ed esaustiva, oltre che in punto di affidamento, anche sull’interesse pubblico alla demolizione.
Le doglianze non colgono nel segno.
In primo luogo il fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei due titoli. Nelle ipotesi, come nel caso di specie, in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe sempre intervenire. “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori” (TAR Piemonte, 07/11/2012, sent. n. 1166; conformi Cons. Stato, sez. IV 14/12/2015, sent. n. 5663; TAR Campania, Salerno, 01/08/2020, sent. n. 973).
Su tale filone si è espressa recentissima giurisprudenza sostenendo che “7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati. In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto. Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166,
«la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)» (TAR Campania, Salerno, 29/01/2021, sent. n. 266)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Disposizioni integrative alla Circolare n. 42 del 21.07.2017, applicativa del DPR n. 31 del 2017. Linee di indirizzo "interventi di coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica" di cui alla voce A2 dell'allegato A, da effettuarsi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, parte III in applicazione della Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (MiC, circolare 04.03.2021 n. 4).

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La suddetta circolare è l'epilogo (intermedio) di pregressa corrispondenza finalizzata ad avere chiarimenti in materia. Segnatamente, nell'ordine:
   1 -
Oggetto: Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (superbonus 110%). Indicazioni attuative (MiBACT, circolare 23.10.2020 n. 45).

   2 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e documentale ai fini dell’applicazione della Legge 27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) (MiBACT, Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona, nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.).

   3 - Oggetto: Riscontro alla nota 17.02.2021 n. 2310 di prot. della
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona (Federazione Regionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Liguria, nota 12.03.2021 n. 1248 di prot.).

   4 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e documentale ai fini dell’applicazione della Legge 27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) - Precisazioni in merito alla nota 2310 del 17.02.2021 (MiC, Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona, nota 15.03.2021).

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Da ultimo, in argomento, si è aggiunta anche la Soprintendenza di Brescia con una propria nota:
  
Oggetto: Applicazione della Legge n. 160 del 27.12.2019 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) negli ambiti tutelati ai sensi del D.lgs. 42/2004 e patrimonio edilizio diffuso di valore storico architettonico, storico artistico e storico-testimoniale. Linee di indirizzo (MiC, Soprintendenza per le province di Bergamo e Brescia, nota 07.05.2021 n. 8143 di prot.),

nella cui nota si menzionano due altri documenti e cioè:

      ► Oggetto: Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale allineate alle nuove Norme tecniche per le costruzioni (d.m. 14.01.2008) (MiBAC, circolare 02.12.2010 n. 26) ... per maggiori informazioni consulta anche la pagina web dedicata del MiBACT;
   
  ►
G.U. 26.02.2011 n. 47, suppl. ord. n. 54, "Valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale con riferimento alle Norme tecniche per le costruzioni di cui al decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 14.01.2008" (Direttiva P.C.M. 09.02.2011).
      ► Linee di indirizzo per il miglioramento dell'efficienza energetica nel patrimonio culturale - Architettura, centri e nuclei storici ed urbani (MiBACT, 2015).

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In origine (intermedia) si frappone anche un'ulteriore nota del MiBACT in risposta ad un quesito della Regione Lazio:
  
Oggetto: Inquadramento in senso al dpr 31/2017 degli interventi di efficientamento energetico comportanti la realizzazione di un rivestimento "a cappotto" sul fronte esterno degli edifici a fini di coibentazione termica (MiBACT, nota 24.12.2020 n. 37730 di prot.).
febbraio 2021

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAQuella dell’art. 17-bis L. 241/1990, come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici”, è una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento.
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni, ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della decisione finale.
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Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di applicazione della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti amministrativi generali ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni deputate alla cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito dal comma terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve ritenersi che l'istituto del silenzio-assenso tra pubbliche Amministrazioni di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in fattispecie relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale generale al piano paesaggistico territoriale).
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La scelta della Soprintendenza di rinvio di ogni valutazione paesaggistica sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die” dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L. 241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento d’ufficio) e al potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio all’inerzia della p.a..
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha rilevato, con considerazioni di carattere generale, che:
   - “il ‘fattore-tempo' assume un ‘valore ordinamentale fondamentale' quale componente determinante per la vita e l'attività dei cittadini e delle imprese, per i quali l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi può costituire un costo che incide sulla libertà di iniziativa privata ex art. 41 Cost.”;
   - "Tale fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo moderno, e si connette a principi fondamentali di rango costituzionale (quali l'efficienza e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che vanno declinati ‘in concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche sovranazionale (cfr. in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che riconosce al cittadino un diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate dall'amministrazione pubblica, oltre che con imparzialità ed equità, anche “entro un termine ragionevole”)”.
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante, se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
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In sede di rilascio del parere prescritto dall’art. 16 L. 1150/1942 la mancata adozione da parte della Soprintendenza di un tempestivo atto di dissenso congruamente motivato comporta l’effetto tipico dell’assenso ai sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990, non diversamente peraltro da quanto previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in tema di conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e ambientale, fatto qui salvo il rimedio dell’opposizione di cui all’art. 14-quinquies L. 241/1990.
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1.- E’ materia del contendere la legittimità del parere espresso ai sensi dell'art. 146, c. 5, del D.Lgs. n. 42/2004 dalla locale Soprintendenza nell'ambito della Conferenza di servizi asincrona convocata dal Comune di Casalecchio per il rilascio del titolo abilitativo relativo alle opere di urbanizzazione relative all'attuazione del PUA “SA.”.
Si duole la società ricorrente dall’avere la Soprintendenza motivato il proprio parere negativo con valutazioni proprie della fase urbanistica attinente all’esame della variante al Piano particolareggiato, nel convincimento -a suo dire del tutto erroneo- della mancata consumazione del proprio potere consultivo in seguito al parere soprassessorio rilasciato il 23.04.2018.
2.- Preliminarmente può prescindersi dall’eccezione di tardività ex art. 73 c.p.a. sollevata dalla difesa di parte ricorrente, avendovi essa rinunciato all’udienza pubblica e avendo comunque diffusamente replicato a tutte le argomentazioni difensive dell’Autorità tutoria.
3.- Venendo al merito il ricorso è fondato e va accolto.
3.1. - In punto di fatto, va evidenziato come con il parere 9250 del 23.04.2018 rilasciato ai sensi dell’art. 16 L. 1150/1942, sulla variante al Piano Particolareggiato la Soprintendenza abbia affermato testualmente che “Con riferimento agli aspetti di tutela paesaggistica si rinvia il parere alla fase di ordinario procedimento ai sensi del Codice Beni Culturali e Paesaggio”.
Ad avviso dell’Amministrazione tale asserzione non potrebbe avere alcun valore legale tipico, valendo tuttalpiù come silenzio-rifiuto.
3.2. - Non ritiene il Collegio di poter condividere tale assunto.
Ai sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990 come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici”: “1. Nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell'amministrazione procedente. Esclusi i casi di cui al comma 3, quando per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi è prevista la proposta di una o più amministrazioni pubbliche diverse da quella competente ad adottare l'atto, la proposta stessa è trasmessa entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta da parte di quest'ultima amministrazione. Il termine è interrotto qualora l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; lo stesso termine si applica qualora dette esigenze istruttorie siano rappresentate dall'amministrazione proponente nei casi di cui al secondo periodo. Non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
   2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito. Esclusi i casi di cui al comma 3, qualora la proposta non sia trasmessa nei termini di cui al comma 1, secondo periodo, l'amministrazione competente può comunque procedere. In tal caso, lo schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, è trasmesso all'amministrazione che avrebbe dovuto formulare la proposta per acquisirne l'assenso ai sensi del presente articolo. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
   3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta e' di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
   4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui disposizioni del diritto dell'Unione europea richiedano l'adozione di provvedimenti espressi
.”
Trattasi di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti disegnati dalla specifica disposizione normativa. Per tale motivo viene definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento (ex plurimis TAR Puglia Bari, sez. II, 06.02.2020, n. 194).
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni, ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della decisione finale.
3.3. - Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di applicazione della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti amministrativi generali (ex plurimis Consiglio di Stato sez. VI, 08.06.2020, n. 3632) ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni deputate alla cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito dal comma terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve ritenersi che l'istituto del silenzio assenso tra pubbliche Amministrazioni di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in fattispecie relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale generale al piano paesaggistico territoriale).
3.4. - Tanto doverosamente premesso, la scelta della Soprintendenza espressa con la nota del 23.04.2018 di rinvio di ogni valutazione paesaggistica sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die” dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L. 241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento d’ufficio cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 14.10.2019, n. 6975) e al potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio all’inerzia della p.a. (ex multis TAR Campania Napoli sez. I, 07.01.2016, n. 2).
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha rilevato, con considerazioni di carattere generale, che “il ‘fattore-tempo' assume un ‘valore ordinamentale fondamentale' quale componente determinante per la vita e l'attività dei cittadini e delle imprese, per i quali l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi può costituire un costo che incide sulla libertà di iniziativa privata ex art. 41 Cost.”; “Tale fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo moderno, e si connette a principi fondamentali di rango costituzionale (quali l'efficienza e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che vanno declinati ‘in concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche sovranazionale (cfr. in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che riconosce al cittadino un diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate dall'amministrazione pubblica, oltre che con imparzialità ed equità, anche “entro un termine ragionevole”)” (Consiglio di Stato comm. spec., 15.04.2016, n. 929).
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante, se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
3.5. - E’ altrettanto condivisibile poi l’assunto della ricorrente di netta distinzione tra le valutazioni paesaggistiche da effettuarsi in sede di approvazione di piani urbanistici e quelle in sede di parere ex art. 146 d.lgs. 42/2004 sull’autorizzazione adottata dalla Regione o dall'Ente locale subdelegato di compatibilità di un singolo intervento, non essendo consentita una arbitraria commistione tra le due diverse fasi procedimentali peraltro in evidente quanto immotivato pregiudizio degli interessi privati coinvolti.
3.6. - Può semmai discutersi della legittimità, sotto un profilo strettamente costituzionale, della scelta invero non episodica operata dal legislatore statale di estendere forme di silenzio-assenso ad atti emanati da amministrazioni deputate alla cura degli interessi c.d. sensibili.
In realtà la giurisprudenza costituzionale ha più volte escluso quanto al parametro degli artt. 9 e 32 Cost. l’incostituzionalità del silenzio-assenso in materia ambientale e di interessi sensibili, limitandosi invero ad escludere l’introduzione di forme di assenso tacito da parte delle Regioni per contrasto (art. 117 Cost.) con le competenze statali in materia ambientale (Corte Costituzionale 01.07.1992, n. 306; Id. 12.02.1996, n. 26; Id. 27.04.1993 n. 194, Id. 08.11.2017, n. 232; Id. 18.07.2014, n. 209; Consiglio di Stato, Comm. spec., 13.07.2016, n. 1640; Id. Adunanza plen., 27.07.2016, n. 17).
La Consulta, pur qualificando gli interessi sensibili come “valori costituzionali primari”, ha d’altronde chiarito che la “primarietà” non legittima un primato assoluto, incondizionato e aprioristico in un'ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma, piuttosto, impone più limitatamente che essi siano effettivamente presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni (Corte Cost. 09.05.2013, n. 85 sul c.d. caso Ilva). Di contro la semplificazione amministrativa, sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, è principio di diretta rilevanza costituzionale (C. Cost. sent. n. 81/2013) e comunitaria (C. Cost. sent. n. 164/2012).
3.7. - Va pertanto ribadito che in sede di rilascio del parere prescritto dall’art. 16 L. 1150/1942 la mancata adozione da parte della Soprintendenza di un tempestivo atto di dissenso congruamente motivato comporta l’effetto tipico dell’assenso ai sensi dell’art 17-bis L. 241/1990, non diversamente peraltro da quanto previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in tema di conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e ambientale, fatto qui salvo il rimedio dell’opposizione di cui all’art. 14-quinquies L. 241/1990.
3.8. - Ne consegue la fondatezza del primo motivo di gravame, di natura assorbente (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 27.02.2021 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Parere della Soprintendenza sui piani attuativi.
L’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942 prevede che sui piani particolareggiati riguardanti zone sottoposte a vincolo paesistico sia acquisito il parere della Soprintendenza. Essendo identico l’interesse pubblico tutelato, la norma è applicabile a qualsiasi piano attuativo, indipendentemente dalla qualificazione formale e dall’autorità competente all’approvazione.
In ogni caso, il potere della Soprintendenza può essere consumato solo dalla Soprintendenza, rendendo oppure omettendo di rendere il parere richiesto.
Se il parere non viene richiesto, non si determina automaticamente l’illegittimità del piano attuativo, ma più semplicemente la concentrazione dell’intera funzione di controllo sui provvedimenti a valle, ossia sui titoli edilizi.
Se, dunque, la Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le valutazioni sulle scelte pianificatorie che non sia stata messa in condizione di formulare nei confronti del piano attuativo.
Per questa ragione, non è necessario annullare il piano attuativo allo scopo di recuperare il parere della Soprintendenza. Il mancato coinvolgimento della Soprintendenza rende infatti inopponibile alla stessa il piano attuativo, e impedisce il consolidamento delle aspettative dei lottizzanti.

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Sul parere della Soprintendenza
17. Secondo i ricorrenti, la circostanza che sul progetto di piano attuativo non sia stato chiesto il parere della Soprintendenza dovrebbe condurre all’annullamento tanto del piano attuativo quanto degli atti connessi. La tesi non è però condivisibile.
18. L’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942 prevede che sui piani particolareggiati riguardanti zone sottoposte a vincolo paesistico sia acquisito il parere della Soprintendenza. Essendo identico l’interesse pubblico tutelato, la norma è applicabile a qualsiasi piano attuativo, indipendentemente dalla qualificazione formale e dall’autorità competente all’approvazione.
19. Tuttavia, è necessario inserire il contributo della Soprintendenza nel mutato quadro regolatorio della pianificazione urbanistica. Il passaggio dalla pianificazione generale a quella di dettaglio è infatti accompagnato da nuovi strumenti di controllo dell’utilizzazione del territorio (VIA, VAS, VIC), all’interno dei quali trova posto anche la valutazione degli interessi pubblici di natura paesistica. Alla Soprintendenza è chiesto un pronunciamento con un grado di dettaglio corrispondente alla scala della previsione urbanistica oggetto di esame.
A questo proposito, occorre sottolineare che, secondo la più recente tecnica di redazione dei piani urbanistici, sono inserite nello strumento urbanistico generale, ossia nel PGT, anche le schede dei piani attuativi, talvolta con previsioni estremamente puntuali. Quando si pronuncia sui progetti di variante al PGT, la Soprintendenza deve quindi rendere un parere esteso all’intero contenuto delle innovazioni, valutando anche le specifiche previsioni sui diritti edificatori, senza potersi riservare l’esercizio del medesimo potere per il successivo esame dei piani attuativi e dei titoli edilizi.
20. Nello specifico, la Soprintendenza, partecipando alla verifica di assoggettabilità alla VAS, ha espresso sulla variante al PGT un parere in data 12.01.2017, concentrandosi prevalentemente sui profili archeologici della tutela. Poiché la scheda dell’ambito AT10 era inserita nella variante, con l’esatta indicazione dei diritti edificatori, si può ritenere che già in quella fase alla Soprintendenza fosse stata data l’opportunità di esprimersi, in via anticipata, su una parte essenziale del contenuto del piano attuativo.
Non sembra quindi corretto affermare che il Comune abbia approvato la trasformazione di un’area vincolata privandosi del tutto del contributo della Soprintendenza.
21. In ogni caso, il potere della Soprintendenza può essere consumato solo dalla Soprintendenza, rendendo oppure omettendo di rendere il parere richiesto.
Se il parere non viene richiesto, non si determina automaticamente l’illegittimità del piano attuativo, ma più semplicemente la concentrazione dell’intera funzione di controllo sui provvedimenti a valle, ossia sui titoli edilizi. Se dunque la Soprintendenza non è stata coinvolta in precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le valutazioni sulle scelte pianificatorie che non sia stata messa in condizione di formulare nei confronti del piano attuativo.
Per questa ragione, non è necessario annullare il piano attuativo allo scopo di recuperare il parere della Soprintendenza. Il mancato coinvolgimento della Soprintendenza rende infatti inopponibile alla stessa il piano attuativo, e impedisce il consolidamento delle aspettative dei lottizzanti (v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2013 n. 443) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.02.2021 n. 150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2021

EDILIZIA PRIVATAA ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
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1. Col ricorso in epigrafe, la Ru. s.a.s. (in appresso, R.) impugnava, chiedendone l’annullamento, la nota del 06.06.2019, prot. n. 13186, con la quale la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino (in appresso, Soprintendenza di Salerno e Avellino) aveva espresso il proprio parere sfavorevole in merito all’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica prot. n. 897 del 07.02.2019, avente per oggetto il fabbricato ad uso abitativo-rurale, assentito giusta permessi di costruire (PdC) n. 40 del 14.09.2007 e n. 3 dell’08.02.2012, ubicato in Mugnano del Cardinale, via ..., censito in catasto al foglio 8, particella 174, e ricadente in fascia di rispetto fluviale ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004 dall’alveo del Lagno di Sciminaro e Acqualonga.
2. L’impugnato diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica risultava motivato in base al rilievo che il fabbricato anzidetto risultava ab origine sprovvisto della propedeutica e necessaria autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, cosicché esso non avrebbe potuto essere legittimato ex post a norma del successivo art. 167, commi 4 e 5, non rientrando in alcuna delle fattispecie contemplate da quest’ultima disposizione.
3. Nell’avversare siffatta determinazione declinatoria, la R. lamentava, in estrema sintesi, che:
   a) la costruzione controversa rinverrebbe comunque la propria fonte abilitativa nei PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, la quale avrebbe ingenerato il legittimo affidamento dell’interessata nella conformità dell’intervento non solo sotto il profilo urbanistico-edilizio, ma anche sotto il profilo paesaggistico;
   b) tale legittimo affidamento sarebbe stato precipuamente salvaguardabile attraverso lo strumento apprestato dall’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004, a fronte dell’incertezza circa la perdurante sussistenza di un vincolo paesaggistico connesso ad un alveo ormai abbandonato;
   c) il parere del 06.06.2019, prot. n. 13186, difetterebbe di adeguata motivazione, non avendo tenuto, segnatamente, conto delle concrete caratteristiche del contesto territoriale tutelato.
...
7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)
».
7.2. Ora, la Soprintendenza di Salerno e Avellino risulta aver fatto, nel caso in esame, buon governo delle direttive ermeneutico-applicative dianzi declinate.
Ed invero, se l’intervento progettato dalla R., pur essendo assistito dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, difettava ab origine della necessaria autorizzazione paesaggistica, siccome giammai richiesta dall’interessata, e se, ciononostante, lo stesso è stato comunque portato ad esecuzione, sulla base di un titolo edilizio rimasto inefficace (per mancanza di quello paesaggistico), la costruzione realizzata, per le relative caratteristiche tipologiche e dimensionali, non avrebbe potuto, ictu oculi, fruire della minisanatoria ambientale ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004.
7.3. Non vale a menomare il superiore approdo l’arresto sancito da Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4759 e invocato da parte ricorrente a suffragio della propria tesi.
La pronuncia in parola radica, infatti, in capo al soggetto beneficiario di permesso di costruire non accompagnato da autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, il legittimo affidamento nella conformità anche paesaggistica dell’edificazione posta in essere, con riferimento ad una ipotesi in cui il titolo paesaggistico risultava prescritto non già –come, appunto, nella specie– all’epoca della presentazione dell’istanza, bensì, soltanto successivamente, all’epoca del rilascio di quello edilizio (
TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.01.2021 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Emergenza da COVID-19 – Pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani nei Centri Storici – Beni di interesse storico-artistico qualificabili come beni culturali ope legis – Esecuzione di opere e lavori d’installazione dehors – Autorizzazione – Necessaria – Eccezione effetti del cd. decreto rilancio – Fattispecie: installazione di strutture amovibili esterne (dehors) – L. 17.07.2020, n. 77 – Artt. 10, 12, 13, 21, 45-47, 169, 172 d.lgs. 42/2004.
Le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lett. g), dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004, sono qualificabili come beni culturali ope legis, indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice.
Sicché, ai sensi dell’art. 21, comma 4, del d.lgs. 42/2004, l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. L’esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché ricompresi nell’art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita ex art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio.
Nella specie, la diversità della struttura realizzata rispetto a quelle descritte dalla norma per le sue caratteristiche oggettive non rientrava tra quelle descritte nell’art. 181, comma 3, del d.l. 34/2020 (l’art. 181, comma 3, del d.l. n. 34 del 2020 (cd. decreto rilancio) convertito con modificazioni dalla L. 17.07.2020, n. 77, ha stabilito che «Ai soli fini di assicurare il rispetto delle misure di distanziamento connesse all’emergenza da COVID-19, e comunque non oltre il 31.12.2020, la posa in opera temporanea su vie, piazze, strade e altri spazi aperti di interesse culturale o paesaggistico, da parte dei soggetti di cui al comma 1, di strutture amovibili, quali dehors, elementi di arredo urbano, attrezzature, pedane, tavolini, sedute e ombrelloni, purché funzionali all’attività di cui all’articolo 5 della legge n. 287 del 1991, non è subordinata alle autorizzazioni di cui agli articoli 21 e 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42»)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2021 n. 3583 - link a www.ambientediritto.it).
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1. Il primo motivo è infondato.
1.1. Va premesso che questa Corte si è già occupata dei dehors realizzati nel centro storico di Benevento con più sentenze, fra cui quelle richiamate dal ricorrente.
I ricorsi del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento sono stati dichiarati inammissibili, ma si è però rilevato che il principio di diritto, posto a base delle ordinanze del Tribunale del riesame di Benevento e richiamato nel ricorso, era errato.
1.2. Si è, infatti, affermato il principio per cui (cfr. Sez. 3, n. 31760 del 21/10/2020, D’Aniello) le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell’articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004, sono qualificabili come beni culturali indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 (TAR Veneto Sez. III n, 927 del 08.10.2018; Cons. Stato, VI, sent. 5934/2014; Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id., VI, sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013).
1.3. È inconferente il richiamo a Sez. 3, n. 42899 del 24/10/2008, Valente, Rv. 24161801: tale sentenza ha affermato, in tema di tutela penale delle cose di antichità e d’arte, che ai fini della operatività della cosiddetta tutela «diretta» sui beni immobili, qualificati come beni culturali, appartenenti allo Stato ed agli altri Enti pubblici, la cui violazione integra il reato di esecuzione di opere illecite (artt. 3 10, 21 e 169, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42), è necessario che siano soddisfatte tre condizioni: a) che i predetti beni siano stati realizzati da oltre cinquanta anni; b) che il loro autore non sia più vivente; c) che abbia dato esito positivo la verifica dell’interesse culturale secondo la procedura di cui all’art. 12 del D.Lgs. citato.
Però tale principio di diritto si riferisce ad un immobile e non alle strade del centro storico.
1.4. Va pertanto ribadito che, ai sensi dell’art. 21 comma 4, del d.lgs. 42/2004, l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. L’esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché ricompresi nell’art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita ex art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio.
1.5. Va altresì rilevato che effettivamente manca la motivazione sul fumus del reato sub a) ex art. 172 in relazione all’art. 45 del d.lgs. 42/2004; inoltre, il riconoscimento della tutela diretta è in contrasto con la contemporanea sussistenza della tutela indiretta, senza per altro che sia specificato concretamente in cosa sarebbe consistita la violazione.
Però, il ricorrente non ha interesse a dedurre tale omissione, perché da essa non deriva alcun effetto restitutorio, persistendo il fumus del reato ex art. 169 d.lgs. 42/2004.

EDILIZIA PRIVATAIl valore identitario non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela.
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Paesaggio – Tutela - Valore identitario – Insufficienza ex se.
Il solo valore identitario non è sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, d.lgs. n. 42 del 2004, essendo richiesto anche lo specifico requisito estetico della “bellezza naturale” dei luoghi (1).
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   (1) Ha ricordato la sentenza che la Sezione ha avuto modo di inaugurare la giurisprudenza sul primo “vincolo vestito” costituito dal d.m. 25.01.2010, con cui è stato dichiarato bene paesaggistico, ai sensi dell’art. 136 del Codice, l’Agro Romano tra la via Laurentina e Ardeatina –atto con cui è stato avviato un processo di tutela dell’intera Campagna Romana, proseguito con la dichiarazione delle Tenute Storiche di Torre Maggiore con d.m. 27.10.2017 e di recente con il vincolo della parte tra Via Nettunense e l’Agro Romano apposto con d.m. 11.03.2020– risolvendo le numerose controversie intercorse tra il Comune, la Regione, le Associazioni e privati proprietari con una serie di sentenze che hanno definito un quadro di principi per l’interpretazione e l’applicazione delle novità codicistiche.
Ha aggiunto la sentenza che a distanza di dieci anni da quelle pronunce sono intervenuti nuovi ed ulteriori elementi che meritano di essere considerati con particolare attenzione.
Innanzitutto è stata meglio focalizzata la nozione di paesaggio a seguito dell’analisi delle diverse versioni dell’art. 131 del Codice, in cui è stata approfondita la distinzione tra paesaggio inteso come “forma del territorio” (come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”, che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità”) ed i beni paesaggistici veri e propri (oggetto di tutela del Codice), ulteriormente differenziando, nell’ambito di tale ultima categoria, le “bellezze di natura” contemplate dall’art. 136, di cui è stato di recente rivalutato il valore estetico-percettivo-storico-culturale, rispetto ai beni ambientali-culturali (cd. beni paesaggistici diffusi), tutelati ex lege, per l’appartenenza alle categorie indicate dall’art. 142 (con molti ripensamenti per quanto riguarda l’eventuale “riassorbimento” delle zone di interesse archeologico nell’ambito dei beni ex art. 136), a prescindere da qualunque “pregio intrinseco”, solo in considerazione dell’essere “elementi costitutivi del paesaggio” (di valore identitario in quanto ne determinano la fisionomia).
In particolare quest’ultima distinzione, nell’ambito della composita ed eterogenea nozione di beni paesaggistici, risulta ancora attuale, come si evince dal fatto che l’art. 138 sancisce che “La proposta di vincolo è formulata con riferimento ai valori storici, culturali, naturali, morfologici, estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli immobili o delle aree considerati ed alla loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono”, in cui la congiunzione “e” ha valore aggiuntivo e non avversativo.
Nel regolamento approvato con r.d. 03.06.1940, n. 1357 (da qui Regolamento) –le cui previsioni restano in vigore, ai sensi dell’art. 158 del Codice, “fino all'emanazione di apposite disposizioni regionali di attuazione”, “in quanto applicabili”- viene altresì precisato, all’art. 9, che nella scelta se assoggettare o meno a vincolo l’immobile o l’area, si deve tener presente.
   “1) che fra le cose immobili contemplate dall'art. 1, n. 1, della legge sono da ritenersi compresi quegli aspetti e quelle conformazioni del terreno o delle acque o della vegetazione che al cospicuo carattere di bellezza naturale uniscano il pregio della rarità; 2) che la singolarità geologica è determinata segnatamente dal suo interesse scientifico;
   3) che a conferire non comune bellezza alle ville, ai giardini, ai parchi concorrono sia il carattere e l'importanza della flora sia l'ambiente, soprattutto se essi si trovino entro il perimetro di una città e vi costituiscano una attraente zona verde;
   4) che nota essenziale d'un complesso di cose immobili costituenti un caratteristico aspetto di valore estetico e tradizionale è la spontanea concordanza e fusione fra l'espressione della natura e quella del lavoro umano;
   5) che sono bellezze panoramiche da proteggere quelle che si possono godere da un punto di vista o belvedere accessibile al pubblico, nel qual caso sono da proteggere l'uno e le altre
.”
Pertanto il solo valore identitario non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” (nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo stesso paesaggio-territorio privo di qualità).
In tale prospettiva è stato opportunamente chiarito che “la eliminazione con la lettera d) del comma 1 dell'art. 136 del riferimento alle bellezze panoramiche "considerate come quadri naturali", dapprima previsto nell'art. 1 della legge 1497 del 1939 (poi limitato alla sola parola "quadri" nel d.lgs. n. 490 del 1999), non comporta, di per sé, effetti di limitazione della proprietà privata equivalendo sempre la visione delle bellezze panoramiche a quella di quadri naturali ed essendo perciò siffatta nozione, in quanto ulteriormente esplicativa di un già chiaro contenuto estetico, priva di valenza giuridica aggiuntiva, tanto più essendo rimasta identica la restante parte della disposizione”.
È stato perciò ribadito che “il vincolo paesaggistico relativo alle bellezze naturali (art. 136, comma 1, lett. d) del D.Lgs. n. 42/2004) riguarda la bellezza estetica e panoramica offerta dalla natura, il c.d. “quadro naturale”, salvaguarda il panorama e le visuali e protegge “il paesaggio quale interesse pubblico alla tutela della bellezza dei luoghi nel loro insieme, quindi rispetto alla sua fruibilità visiva da parte della collettività” (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2013, n. 1022).
E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza, quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136 lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi “valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito, dovendo il giudizio sul notevole interesse paesaggistico soddisfare non solo il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di requisiti cumulativamente richiesti.
Si tratta di una precisazione che va tenuta in particolare considerazione nel caso in esame, in cui, appunto, il compendio immobiliare dell’Università ricorrente viene ad essere assoggettato a vincolo con il provvedimento in esame proprio ai sensi all’art. 136, lett. c), del Codice, oltre che dell’art. 136, lett. d), come bellezza panoramica o punto di vista panoramico.
È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” -cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione agricola”- nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del “rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo, scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR.
In conclusione, l’evoluzione recente delle riflessioni sul tema in esame ha progressivamente messo a fuoco l’esigenza di differenziare la gravosità del regime giuridico vincolistico in corrispondenza del grado di valore del bene paesaggistico protetto -che deve rispondere alle ragioni dell’estetica, quale “causa” del vincolo, non riducibili, pertanto, al mero valore identitario dei luoghi, che costituisce solo un motivo “aggiuntivo”, incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale, mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi, ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini)- facendo implicitamente richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (ad esempio nello scegliere tra sottoporre a vincolo un fondo come bene culturale di tipo archeologico oppure come mera zona di interesse archeologico, oppure tra vincolare un sistema lacuale solo come bene paesaggistico o come bene culturale, nel vincolo di destinazione di uno studio di artista etc.), per evitare di incorrere in quegli “eccessi di tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela perseguite.
Tali principi hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136 ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso, indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della “valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) –cioè a “verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di valore” e non di “giudizio di fatto”)- e la successiva fase della “gestione del vincolo” –che attiene propriamente alle “scelte d’azione”– in cui si ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale” anche di altri interessi co-primari concomitanti.
Anche se l’inclusione nel medesimo Codice tende a sfumare la differenza tra i beni paesaggistici ed i beni culturali, accomunati nella prima fase (quella dell’individuazione ed assoggettamento a vincolo) dall’utilizzo del medesimo strumento giuridico (la cd. “dichiarazione” del loro valore), occorre considerare che, nella seconda fase (quella della gestione del vincolo), sono sottoposti a regimi differenti.
I primi, infatti, si caratterizzano per essere costituti da beni che per loro stessa natura non sono destinati esclusivamente ad un mera “fruizione contemplativa” (come nel caso della maggior parte dei beni culturali, quelli mobili), ma per essere sfruttati anche per altre utilità, ove interessino terreni (in primis per attività produttive), che possono essere d’interesse anche generale (a differenza dello sfruttamento edificatorio che risponde all’interesse particolare del solo proprietario).
Analogie e differenze che li caratterizzano rispetto ai beni ambientali culturali di cui all’art. 142, che lo stesso legislatore del 1985 aveva considerato anche sotto il profilo della loro naturale destinazione alla fruizione pubblica in quanto “beni comuni”, la cui valorizzazione risponde ad un interesse generale, che viene riproposta dallo stesso Codice.
L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del “principio dello sviluppo sostenibile”, rischia di risultare controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio –in particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle forze della natura– che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni.
Pertanto, se da un lato si valorizza l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva, imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno dell’abbandono dei campi.
Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili (esemplare la vicenda del vincolo sull’ex Cinema America) che confermano la ragionevolezza della scelta del legislatore del 1939 di limitare la tutela ai soli beni che presentano valore paesistico o culturale di grado eminente (per cui non è sufficiente un interesse culturale o paesaggistico “semplice”, ma questo deve essere ulteriormente qualificato in considerazione del suo “grado”, che deve essere di rango eminente, come precisato dal legislatore con vari aggettivi: “particolare, rilevante/notevole/non comune” etc.), al fine di scongiurare il rischio di “vincolare tutto per non tutelare nulla”.
In tale prospettiva, lo stesso legislatore ha indicato la necessità di fare applicazione, nel procedimento di vincolo, di criteri di valutazione che facessero riferimento al pregio, alla rappresentatività ed alla rarità tenendo conto delle particolari caratteristiche e tipologie del bene da proteggere (specificamente individuati per i beni culturali sin dalla CM 1974 e desumibili per i beni paesaggistici dalla legge 1939 e regolamento del 1940, applicabile fino all’adozione delle norme attuative delle Regioni) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 27.01.2021 n. 1080 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020
dicembre 2020

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 42/2004, art. 49, comma 3. Utilizzo ai fini pubblicitari per le coperture dei ponteggi predisposti per l'esecuzione di interventi di conservazione - Indicazioni operative (MiBACT, circolare 07.12.2020 n. 49).

EDILIZIA PRIVATAVincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo paesaggistico – Aree boscate – Presupposto – Individuazione.
  
Urbanistica – Piano paesaggistico territoriale – Bosco – Individuazione.
  
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti, con efficacia ex tunc, l'effettiva esistenza (1).
  
E’ legittimo il Piano paesaggistico territoriale (PPTR) che classifica una intera area come “bosco” includendo in tale classificazione anche particelle sulle quali sono stati realizzati fabbricati, previo rilascio del permesso di costruire, e ciò in quanto tali particelle non possono essere considerate avulse dall’intero contesto; né la zonizzazione come bosco è contraddetta dalla parziale assenza di vegetazione boschiva, atteso che dal combinato disposto degli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34 del 2018 e 149, d.lgs. 42 del 2004 si evince l’assimilazione al bosco sia delle aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva, sia delle radure e di tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 mq che interrompono la continuità del bosco (1).
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   (1) La Sezione ha ricordato che sulla nozione di bosco vi è un orientamento consolidato nella giurisprudenza nazionale. Infatti, ormai da anni, si ritiene che la nozione di "bosco", richiamata ai fini della tutela paesaggistica è, in principio, nozione normativa perché fa espresso riferimento alla definizione oggi dettata dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34 del 2018, postulanti la presenza di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea e -tendenzialmente almeno- da arbusti sottobosco ed erbe.
In particolare, il giudice amministrativo ha affermato che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l'idea che per bosco debba intendersi l'insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname (Cons. Stato, sez. IV, 04.03.2019 n. 1462). Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. n. 201 del 2018) rammenta che l'art. 149, d.lgs. 42 del 2004 ha escluso dall'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione ordinaria della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi (Cons. Stato, sez. VI, 02.12.2019, n. 8242).
Sempre in tema di definizione di bosco, accanto alla nozione normativa di bosco, la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” (Cons. Stato, sez. V, 10.08.2016 n. 3574); il che equivale a dire che la nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del vincolo di tutela paesaggistica.
La Corte di Cassazione, in sede penale, con sentenza sez. III, 17.10.2019, n. 9402, ha poi aggiunto che solo le Regioni possono, nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia, integrare per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree; conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall’art. 142, d.lgs. n. 42 del 2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone, dunque, a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti con efficacia ex tunc l'effettiva esistenza (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 04.12.2020 n. 1962 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
3. La Sezione ritiene opportuno premettere brevemente il quadro normativo e giurisprudenziale che viene in rilievo in questa materia.
3.1. A livello normativo la nozione di bosco può essere desunta dal combinato disposto di alcune norme. Si ricordi che il d.lgs. 22.01.2004, n. 42 -“Codice dei beni culturali e del paesaggio”– all’articolo 134, relativo ai beni paesaggistici, al comma 1, lett. b), dispone che sono beni paesaggistici, tra gli altri, anche le aree indicate all'articolo 142.
Quest’ultimo articolo, dedicato alle “aree tutelate per legge”, al primo comma, lett. g), prevede che fino all'approvazione del piano paesaggistico sono comunque sottoposti alle disposizioni per il loro interesse paesaggistico “i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18.05.2001, n. 227”.
L’articolo 142 rimanda, dunque, alla nozione recepita dal legislatore nazionale con l’articolo 2 (“Definizione di bosco e di arboricoltura da legno”) del d.lgs. n. 227/2001 che tuttavia è stato abrogato dal d.lgs. n. 34/2018.
Tale ultimo decreto, all’articolo 3, comma 3, definisce bosco “le superfici coperte da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento”. Al successivo articolo 4, “Aree assimilate a bosco”, il legislatore assimila a bosco, tra l’altro, “le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o come prati o pascoli arborati” (comma 1 lett. e).
L’articolo 143 del codice dei beni culturali e del paesaggio si occupa, infine, del piano paesaggistico e dispone al comma 1, per quanto di interesse, che l'elaborazione del piano paesaggistico comprende almeno: a) ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l'analisi delle sue caratteristiche paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni, ai sensi degli articoli 131 e 135; b) ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell' articolo 136; c) ricognizione delle aree di cui al comma 1 dell' articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d'uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione; d) eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini dell' articolo 134 , comma 1, lettera c); e) individuazione di eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all'articolo 134 , da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione; f) analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio; g) individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree; h) individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio; i) individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità, a termini dell' articolo 135 , comma 3.
3.2.
Sulla nozione di bosco vi è un orientamento consolidato nella giurisprudenza nazionale. Infatti, ormai da anni, si ritiene che la nozione di "bosco", richiamata ai fini della tutela paesaggistica è, in principio, nozione normativa perché fa espresso riferimento alla definizione oggi dettata dagli articoli 3 e 4 del d.lgs. n. 34/2018, postulanti la presenza di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea e -tendenzialmente almeno- da arbusti sottobosco ed erbe.
In particolare, il giudice amministrativo ha affermato che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l'idea che per bosco debba intendersi l'insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname
(Cons. Stato, sez. IV, 04.03.2019 n. 1462).
Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., n. 201/2018) rammenta che l'art. 149 d.lgs. 42/2004 ha escluso dall'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione ordinaria della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi (così Consiglio di Stato, sez. VI, 02.12.2019, n. 8242).
Sempre in tema di definizione di bosco, accanto alla nozione normativa di bosco, la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità (Cons. Stato, sez. V, 10.08.2016 n. 3574); il che equivale a dire che la nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del vincolo di tutela paesaggistica.
La Corte di Cassazione
, in sede penale, con sentenza sez. III, 17.10.2019, n. 9402, ha poi aggiunto che solo le Regioni possono, nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia, integrare per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree; conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dal d.lgs. n. 42 del 2004, art. 142, produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone, dunque, a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti con efficacia ex tunc l'effettiva esistenza.

4. Venendo all’esame delle doglianze di parte ricorrente, con un unico motivo di ricorso, sostanzialmente si deduce che nella cartografia del PPTR “la classificazione del compendio immobiliare de quo come "bosco" e come "area di rispetto dei boschi" e in stridente contrasto con la realtà fattuale dei luoghi. Ed infatti, non soltanto il bosco normativamente inteso non esiste, ma addirittura l'intera area è, da sempre, priva di coperture vegetali, ad eccezione di sporadiche essenze spontanee molto rade e distanziate tra loro. E non potrebbe essere diversamente atteso che il terreno ha natura in parte pietrosa e in parte sabbiosa e tufacea, non presentando quindi, le condizioni basilari per l'attecchimento e la riproduzione di specie vegetali” (pagina 8 del ricorso).
Il motivo è infondato.
Sul punto, la regione Puglia, nelle controdeduzioni, ha chiarito che “i rilievi per verificare la non rispondenza del bosco ai criteri previsti dalla normativa vigente in materia avrebbero dovuto riguardare l'intera area a bosco e non singole particelle”.
In sostanza, parte ricorrente ha contestato la mancata corrispondenza delle aree alla definizione normativa di bosco con esclusivo riferimento alle particelle di sua proprietà e non all’intera area individuata dal PPTRP e qualificata come bosco; le particelle, infatti, farebbero parte di una più vasta area a bosco che si sviluppa lungo la costa ed è caratterizzata da formazioni a macchia mediterranea.
Prosegue l’Amministrazione spiegando che “l'analisi del ricorrente incentrata esclusivamente sulle particelle di suo interesse sortirebbe l'effetto di suddividere le aree a bosco in tante piccole porzioni sulle quali effettuare rilievi finalizzati alla loro esclusione dal bene paesaggistica Bosco individuato nelle cartografie del PPTR, eludendo il vincolo forestale complessivo relativo all'area estesa 21 ha”.
La Regione infine chiarisce che nell’area interessata vi è “la presenza di diffusa formazione a macchia mediterranea dominata da cespugli di lentisco (Pistacia lentiscus) dalla tipica forma rotondeggiante accompagnati da altre specie tipiche della macchia mediterranea ben superiori al 20% di copertura della superficie” e smentisce, sulla base dei rilievi fotografici, la circostanza dedotta dalla ricorrente che anche i fabbricati sono stati individuati come bosco.
Osserva la Sezione che le particelle di proprietà della società ricorrente non possono essere considerate avulse dall’intero contesto e che la zonizzazione come bosco o come area di rispetto dei boschi non è contraddetta dalla parziale assenza di vegetazione boschiva. La definizione normativa contenuta nelle norme sopra riportate assimila al bosco sia le aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva, sia le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 mq che interrompono la continuità del bosco.
Attesa anche la natura discrezionale della scelta compiuta dall’amministrazione con conseguente sindacato solo per macroscopici vizi di irrazionalità o irragionevolezza, si può quindi ritenere che la decisione adottata sia esente da illegittimità.

Sul piano materiale, è accertata la presenza della macchia mediterranea che il legislatore include nella nozione di bosco e sul piano logico-giuridico è necessario assimilare al bosco anche le aree vicine, per ricostituire e salvaguardare la continuità delle aree boscate.
Pertanto, è del tutto coerente che, come provato dall'amministrazione regionale, l'area in questione sia gravata da un vincolo boschivo.

5. Conclusivamente, per le considerazioni sino a qui espresse, il Consiglio esprime parere nel senso che il ricorso vada respinto (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 04.12.2020 n. 1962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2020

EDILIZIA PRIVATASecondo il costante orientamento della giustizia amministrativa, che la Corte condivide, le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell'ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lett. g), dell'articolo 10 del d.lgs. n. 42 del 2004, sono qualificabili come beni culturali indipendentemente dall'adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12.
Ai sensi dell'art. 21, comma 4, l'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. L'esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché ricompresi nell'art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita ex art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio.
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1. L'impugnazione del pubblico ministero è limitata alla ritenuta insussistenza del fumus del reato ex art. 169 d.lgs. 74/2000.
1.1. In estrema sintesi, il Tribunale del riesame di Benevento ha annullato il decreto genetico di sequestro preventivo ritenendo insussistente il fumus dei reati contestati ex art. 172, in relazione all'art. 45 del d.lgs. 42/2004 e 169, in relazione all'art. 21 del d.lgs. 42/2004, in base a due presupposti normativi.
1.2. Ha ritenuto il Tribunale del riesame che, poiché la struttura è stata realizzata in una strada del centro storico, la strada stessa non sarebbe bene culturale in sé ma richiederebbe la definizione del procedimento amministrativo di verifica dell'interesse pubblico ed il provvedimento di dichiarazione dell'interesse culturale ex art. 12 e 13 d.lgs. 42/2004. Tali provvedimenti non sarebbero stati emessi, sicché le strade del centro storico di Benevento non potrebbero essere qualificate bene culturale.
1.3. Su tale punto della decisione il ricorso è fondato perché secondo il costante orientamento della giustizia amministrativa, che la Corte condivide (richiamato per altro nel ricorso), le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell'ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lett. g), dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004, sono qualificabili come beni culturali indipendentemente dall'adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice. Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 (TAR Veneto Sez. III n, 927 del 08.10.2018; Cons. Stato, VI, sent. 5934/2014; Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id., VI, sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013).
1.4. Ai sensi dell'art. 21, comma 4, l'esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente. L'esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché ricompresi nell'art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita ex art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.11.2020 n. 31763).

ottobre 2020

EDILIZIA PRIVATA: Il parere favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto di assentimento del titolo edilizio.
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”.
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004- atto presupposto del titolo edilizio
”.

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V.3. Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente si duole dell’eccesso di potere per contrasto con i precedenti atti amministrativi adottati.
Evidenzia, in particolare, che già nel 2011 e, poi, nel 2013 aveva presentato progetti identici a quello attuale per la realizzazione del distributore di carburanti in questione, per i quali aveva ottenuto il parere favorevole della Soprintendenza “considerato che l’intervento in oggetto è da considerarsi ammissibile perché compatibile con i valori paesaggistici riconosciuti dal vincolo e che opere non apportano modifiche significative al contesto, si esprime parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per le opere in oggetto” (provvedimento prot. n. 5019 del 03.03.2014).
A tale parere era seguita l’autorizzazione paesaggistica n. 2901 del 18.03.2014, rilasciata dal medesimo Comune di Sant’Anastasia, nell’ambito della quale dovrebbe ritenersi accertata anche la regolarità urbanistica dell’intervento.
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Come correttamente controdedotto dall’Amministrazione comunale, l’avere acquisito il parere favorevole dal punto di vista ambientale non equivale all’accertamento della corrispondenza anche alla conformità urbanistica del progetto presentato, nel caso, dalla Soc. La Pr. S.r.l., attuale ricorrente.
Secondo principi applicabili anche al caso di specie, infatti, “il parere favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto di assentimento del titolo edilizio” (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 08/03/2013, n. 396).
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti. Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici” (Consiglio di Stato, sez. VI, 16/06/2016, n. 2658).
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004- atto presupposto del titolo edilizio” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 04/07/2018, n. 4422; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 12/09/2018, n. 2058).
Non vi è allora alcuna irragionevolezza nel comportamento dell’Ente che, in presenza di un'autorizzazione paesaggistica riferita, peraltro, ad altra pratica urbanistica, abbia respinto dal punto di vista urbanistico l’istanza in esame, in quanto il predetto nulla osta paesaggistico non si estende anche all’asserito rilascio di un titolo abilitativo edilizio, per il quale valgono, invece, le regole sancite dal D.P.R. n 380 del 2001 e dalla strumentazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 14.10.2020 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2020

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALa natura “artificiale” del bosco, infatti, non esclude a priori la speciale tutela accordata dal d.lgs. 42/2004, con possibilità per l'Amministrazione, in sede di pianificazione, di dare rilievo alle superfici boschive oramai esistenti in loco.
L'art. 142, lett. g), comma 1, del Codice Urbani, invero, nel prevedere genericamente quali beni paesaggistici "i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18.05.2001, n. 227", di fatto non limita l'operatività del relativo regime normativo alla vegetazione spontanea.
Ai sensi della norma da ultimo citata, infatti, "Nelle more dell'emanazione delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti".
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Il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce con efficacia vincolante i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio (sia contenute in un atto di pianificazione, sia espresse in atti autorizzativi puntuali) secondo un modello di prevalenza delle prime sulle seconde.
La natura sovraordinata del PPTR rispetto alla pianificazione urbanistica discende, infatti, dalla piana interpretazione del codice Urbani secondo cui "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette” (art. 145, comma 3, Dlgs 42/2004).
Di qui gli obblighi conformativi posti a carico dei Comuni degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione (art. 145, comma 4, Dlgs 42/2004).
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12. Ciò posto, è oggetto di contestazione non già l’esistenza in rerum natura del bosco ma solo la natura non spontanea dello stesso che, nella prospettazione di parte ricorrente, non consentirebbe l’imposizione del vincolo.
12.1.La tesi, tuttavia, non può essere condivisa.
12.2. La natura “artificiale” del bosco, infatti, non esclude a priori la speciale tutela accordata dal d.lgs. 42/2004, con possibilità per l'Amministrazione, in sede di pianificazione, di dare rilievo alle superfici boschive oramai esistenti in loco (Tar Bari, sez. III, n. 03.01.2019 n. 7, Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2013 n. 1815; Id., sez. IV, 18.11.2013 n. 5452).
12.3. L'art. 142, lett. g), comma 1, del Codice Urbani, invero, nel prevedere genericamente quali beni paesaggistici "i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18.05.2001, n. 227", di fatto non limita l'operatività del relativo regime normativo alla vegetazione spontanea.
Ai sensi della norma da ultimo citata, infatti, "Nelle more dell'emanazione delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti".
12.4. Tale essendo il contenuto della disciplina applicabile alla fattispecie, non risultano, nel caso in esame, né errate né irragionevoli le determinazioni regionali adottate a seguito della ricognizione delle aree boscate in questione, tenuto conto delle specifiche censure e dell’impianto complessivo del ricorso introduttivo.
12.5. In primo luogo, infatti, va evidenziato che le ricorrenti non hanno specificamente contestato le dimensioni della superficie boscata come rilevata dalla Regione (ai fini della rispondenza dell’area ai relativi parametri normativi).
12.5. Se è vero, poi, che l’area in questione (che dai rilievi fotografici di parte appare come una folta ed alta pineta) è coperta prevalentemente dalle piante di pino d’Aleppo, è altrettanto provata in atti (cfr. consulenza tecnica di parte) la presenza di ulteriori formazioni arboree (piante di cipresso ed eucalipto).
12.6. Lo stesso consulente di parte ricorrente, poi, qualifica il pino di Aleppo come specie indigena presente comunque nel territorio della Puglia (pag. 9), nonché pianta a rapido accrescimento e “pioniera”, cioè in grado di adattarsi anche a fattori ambientali estremi, sì da non potersi escludere –contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente- la capacità di rinnovamento spontaneo e, quindi, il carattere permanente del bosco, ancorché di origine non spontanea (in senso conforme con riferimento alla presenza del Pino di Aleppo nel territorio salentino, cfr: TAR Lecce sez. I, 04/05/2017, n. 670).
12.7. Ora, è proprio il consulente di parte ricorrente a chiarire che l’area boscata in questione non è inidonea in sé a produrre sottobosco in quanto l’assenza dello stesso è imputabile a sistematiche operazioni di sarchiatura praticate annualmente, ancorché non sia stata provata in giudizio la legittima destinazione ad arboricoltura.
13. Posto, quanto sopra, non rileva l’asserita vocazione edificatoria e l’operatività del Piano di rigenerazione urbana con riferimento ai suoli oggetto di causa (aspetti, peraltro, entrambi rimasti comunque non sufficientemente provati nel presente giudizio), in quanto il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce con efficacia vincolante i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio (sia contenute in un atto di pianificazione, sia espresse in atti autorizzativi puntuali) secondo un modello di prevalenza delle prime sulle seconde (ex multis, TAR Napoli, sez. VII, 24/12/2018, n. 7322).
13.1 La natura sovraordinata del PPTR rispetto alla pianificazione urbanistica discende, infatti, dalla piana interpretazione del codice Urbani secondo cui "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette” (art. 145, comma 3, Dlgs 42/2004).
Di qui gli obblighi conformativi posti a carico dei Comuni degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione (art. 145, comma 4, Dlgs 42/2004).
14. Per quanto concerne, infine, la dedotta deroga dei c.d. "Territori costruiti" di cui all'art. 1.03, comma 5, del PUTT/P, in disparte la genericità e astrattezza della censura formulata, la circostanza risulta del tutto irrilevante in sede di pianificazione regionale, potendo eventualmente incidere solo sulle future autorizzazioni edilizie e paesaggistiche (in termini TAR Lecce, sez. I, 04/11/2019, n. 1683).
15. Alla luce delle superiori considerazioni il ricorso deve essere respinto siccome infondato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.08.2020 n. 1073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto di essa.
Invero, «È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”
».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme".

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L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica.

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Osserva, al riguardo, il Collegio che la contestazione formulata con l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 ha espressamente per oggetto l’esecuzione di una nuova costruzione, all’indomani dell’introduzione del vincolo paesaggistico ex art. 82, comma 5, lett. c), del d.p.r. n. 616/1977, in assenza dell’autorizzazione all’uopo prevista.
E’ evidente, dunque, che l’adottata misura repressivo-ripristinatoria non è venuta ad incidere sul perimetro abilitativo della rilasciata concessione edilizia n. 17 del 07.08.1990, ma concerne il distinto profilo dell’illecito paesaggistico, autonomamente sanzionabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 («1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4. 2. Con l'ordine di rimessione in pristino è assegnato al trasgressore un termine per provvedere. 3. In caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica provvede d'ufficio per mezzo del prefetto e rende esecutoria la nota delle spese. Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale competente, su richiesta della medesima autorità amministrativa ovvero, decorsi centottanta giorni dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla suddetta autorità competente a provvedervi nei successivi trenta giorni, procede alla demolizione avvalendosi dell'apposito servizio tecnico-operativo del Ministero, ovvero delle modalità previste dall' articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a seguito di apposita convenzione che può essere stipulata d'intesa tra il Ministero e il Ministero della difesa»).
In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”
».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
      a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815).
I superiori approdi non restano, infine, menomati dalla circostanza che l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 menzioni l’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, anziché l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Ciò, in quanto gli atti amministrativi vanno interpretati risalendo al relativo contenuto e al potere in concreto esercitato dall’autorità promanante, dovendosi prescindere dall’appropriato utilizzo o meno del nomen iuris o dei formali richiami normativi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; TAR Lazio, Roma, sez. III, 17.06.2008, n. 5916; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4977). E in quanto, appunto, nella specie, la gravata misura repressivo-ripristinatoria figura incontrovertibilmente motivata in base all’esclusivo ed assorbente rilievo dell’esecuzione di opere «in assenza del prescritto nulla osta paesaggistico» in area vincolata ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c), della l. n. 431/1985 (ora art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004), senza alcun riferimento ad ipotetici profili di illiceità edilizia, ossia, all’evidenza, irrogata nell’esercizio del potere sanzionatorio di cui all’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.08.2020 n. 973 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2020

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Realizzazione abusiva di un’opera – Qualificazione del fatto reato – Configurabilità del delitto paesaggistico – Disciplina applicabile – Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
Integra il delitto contemplato dall’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2006, per gli immobili preesistenti la realizzazione abusiva dell’opera che abbia comportato: a) un aumento volumetrico superiore al trenta per cento rispetto alla volumetria della costruzione originaria, ovvero b) un ampliamento della volumetria superiore a settecentocinquanta metri cubi; con riferimento alle nuove opere, l’aumento di volumetria superiore ai mille metri cubi.
Inoltre, ai fini della qualificazione del fatto reato come contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art. 181, comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di “volumetria” deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del territorio.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela paesaggistica – Ipotesi delittuose alternative – Opere preesistenti e nuove costruzioni- Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In materia di tutela paesaggistica, le ipotesi delittuose alternativamente previste dall’art. 181, d.lgs. n. 42/2004 sono tre, le prime due si riferiscono alle opere preesistenti, la terza alle nuove costruzioni; il superamento volumetrico è delineato, nel primo caso, in via alternativa, ossia in percentuale superiore al 30% oppure in termini assoluti (oltre 750 mc.), mentre nel secondo caso solo in termini assoluti (oltre i 1.000 mc.).
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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 – Istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna – Poteri e limiti del giudice dell’esecuzione.
In tema di esecuzione, il giudice, adito con istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna a seguito della sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, deve dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della predetta sentenza, riqualificato come contravvenzione, ai sensi del comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti.
Ciò comporta che, in tal caso, il giudice dell’esecuzione deve verificare se il fatto, per il quale è intervenuta sentenza definitiva di condanna, sia qualificabile come contravvenzione con conseguente declaratoria di prescrizione del reato “ora per allora”, ovvero se sia sussumibile in una delle tre ipotesi delittuose alternativamente considerate dall’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, nel quale caso non può ovviamente trovare applicazione il termine di prescrizione più favorevole previsto per le contravvenzioni.
Per operare tale accertamento, il giudice dell’esecuzione deve valutare tutti gli elementi di fatto accertati con la sentenza definitiva di condanna, oltre a quelli eventualmente acquisiti, nel contraddittorio tra le parti, nel procedimento di esecuzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2020 n. 23028 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Inefficace la DIA (ora SCIA) in assenza dell'autorizzazione paesaggistica.
Come evidenziato da un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi in assenza dei quali la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni)».
Sicché, l’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo abilitativo i lavori realizzati e, quindi, legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal Comune.
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La qualificazione del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris assegnatogli dall’Autorità emanante.
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Non assume rilievo determinante, in senso opposto, l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un permesso di costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990) che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura privata della d.i.a. genera una differenziazione del trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui necessariamente discende una parziale divergenza di regime; in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a. (art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a. in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo) in un ambito sottoposto a vincolo, in assenza della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
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2. Con le prime tre doglianze proposte dalle parti ricorrenti, da trattare contestualmente in quanto strettamente e logicamente connesse, si assume l’illegittimità dei provvedimenti comunali impugnati, poiché la d.i.a. in base alla quale è stato realizzato, in maniera del tutto conforme al titolo, il box sarebbe assolutamente legittima, come sarebbe dimostrato anche dalle plurime verifiche effettuate dall’Ufficio tecnico comunale nel corso del tempo e dalla circostanza che nel termine previsto dalla normativa non sarebbe stata effettuata alcuna attività di autotutela nel rispetto dei presupposti individuati dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, non potendo assumere rilevanza, in senso contrario, il tardivo sollecito dei poteri di controllo del Comune da parte dei vicini controinteressati; infine, non sarebbe giustificata la circostanza assunta a fondamento degli atti impugnati, in origine nemmeno presa in considerazione dallo stesso tecnico comunale, ovvero che l’autorimessa dei ricorrenti rientri tra i beni di cui agli art. 10-13 del D.Lgs. n. 42 del 2004 o tra quelli di cui all’art. 134 del medesimo Decreto (rientrando nel perimetro del Parco Agricolo Sud Milano).
2.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che, in data 06.05.2019, in esecuzione dell’ordinanza n. 428/2019, il Comune di Lacchiarella ha depositato in giudizio una Relazione attraverso la quale ha segnalato la sussistenza di un vincolo indiretto gravante sugli immobili limitrofi alla Chiesa di San Martino ed imposto dal P.G.T. entrato in vigore il 01.01.2013.
Nello specifico, nel paragrafo “3.4 Vincoli gravanti sul territorio comunale” dell’elaborato “Piano delle regole- RP.03- Relazione”, si è evidenziato che, “per effetto del DLgs 42/2004 (codice Urbani), oltre al territorio compreso nel Parco regionale: - uno specifico vincolo di rispetto della chiesa di San Martino è in vigore per effetto dell’art. 10 e riguarda le modalità di intervento negli isolati al contorno della chiesa”.
L’art. 28.1 (“Immobili assoggettati a tutela”) delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano delle Regole prescrive che “sono assoggettati alla tutela prevista dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42: - ai sensi degli artt. 10-13, gli immobili identificati nella tav. DA. 02, nonché gli immobili di proprietà pubblica nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico e di persone giuridiche private senza fine di lucro, anche in assenza della dichiarazione di sussistenza di specifico interesse”.
La Tavola “DA. 02- Vincoli gravanti sul territorio comunale” inserisce i fondi di proprietà dei ricorrenti Tr./Ta. (e delle controinteressate Bo. e Ri.) tra gli “Isolati interessati dal vincolo ex art. 136 del d.lgs. 42/2004”. Anche la tavola “RP 01-bis Carta di sintesi dei contenuti del PGT” inserisce le residenze dei ricorrenti e delle controinteressate all’interno degli isolati soggetti al vincolo ex art. 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (“Vincoli ambientali e monumentali”).
Pertanto, si è al cospetto di un vicolo diretto (assoluto) sulla Chiesa di San Martino e indiretto (relativo) sugli isolati posti nell’intorno, in cui è collocata anche l’area di proprietà dei ricorrenti su cui è stato realizzato il box oggetto del presente contenzioso. Ne discende che, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, in presenza di un intervento che altera lo stato dei luoghi dei fondi interessati dal vincolo, si impone il previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica.
2.2. Trattandosi di intervento effettuato con d.i.a. n. 26/2013 del 15.04.2013, lo stesso è assoggettato alla disciplina urbanistica vigente a quella data e quindi al richiamato P.G.T., entrato in vigore il 01.01.2013. È altrettanto pacifico tra le parti di causa che nessuna autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e ottenuta per la realizzazione del box.
Tuttavia, le parti ricorrenti ritengono che la mancanza della predetta autorizzazione non abbia alcuna conseguenza sulla validità ed efficacia della d.i.a. n. 26/2013 (e sulla successiva variante, n. 50/2013), poiché lo stesso Tecnico comunale, all’atto della presentazione del titolo edilizio, ne aveva escluso la indispensabilità, e in ogni caso sarebbe maturato un affidamento legittimo in capo ai ricorrenti in ordine alla regolarità dell’intervento edilizio posto in essere, anche in relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra la sua realizzazione e la conclusione dell’attività sanzionatoria comunale, avvenuta nel mese di febbraio 2019.
I predetti rilievi non appaiono persuasivi, atteso che, come evidenziato da un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione. Detti requisiti sono precisati nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni)» (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2013, n. 5513; altresì, IV, 11.10.2018, n. 5841; VI, 24.03.2014, n. 1413).
L’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo abilitativo i lavori di realizzazione del box e quindi legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal Comune. La circostanza che nel provvedimento di chiusura del procedimento impugnato sia stata eccepita la “carenza di un requisito di legittimità” e non sia invece stata prospettata l’inefficacia della d.i.a. non appare invalidante, atteso che comunque era evidente e nettamente percepibile il riferimento alla carenza dell’autorizzazione paesaggistica (punto 1 del provvedimento); del resto, la qualificazione del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris assegnatogli dall’Autorità emanante (Consiglio di Stato, IV, 13.04.2017, n. 1718; TAR Lombardia, Milano, IV, 18.03.2019, n. 567).
Infine, non assume rilievo determinante, in senso opposto, l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un permesso di costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990; Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019; Consiglio di Stato, II, 12.03.2020, n. 1795; TAR Lombardia, Milano, II, 26.06.2020, n. 1205) che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura privata della d.i.a. genera una differenziazione del trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui necessariamente discende una parziale divergenza di regime; in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a. (art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a. in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo, come evidenziato in precedenza) in un ambito sottoposto a vincolo, in assenza della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” (sulla prevalenza della disciplina paesaggistica su quella edilizia, cfr. Consiglio di Stato, IV, 08.07.2019, n. 4778; anche, TAR Lombardia, Milano, II, 11.03.2020, n. 471; 21.01.2019, n. 118).
2.3. Ciò determina il rigetto delle scrutinate censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.07.2020 n. 1303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2020

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATADeroga all’annullamento ex tunc dell’atto impugnato: il Piano antincendio della Toscana.
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Processo amministrativo – Decisione – Di accoglimento – Effetti ex tunc – Deroga – Possibilità.
La regola dell'annullamento con effetti ex tunc dell'atto impugnato può essere derogata allorché, nel caso di atti normativi o generali, l’annullamento dell’atto possa generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio, tale da determinare effetti peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato aspira a conseguire o mantenere (1).
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   (1) La Sezione ha accolto il ricorso nella parte in cui si considerano paesaggisticamente irrilevanti -e perciò sottratti alla preventiva autorizzazione- tutti gli interventi previsti, omettendo un'adeguata analisi e valutazione dell'impatto paesaggistico, e nella parte in cui la valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000 interessati dalle misure è carente nell'istruttoria e nelle motivazioni, oltre che corredata da semplici raccomandazioni di buona esecuzione degli interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
La Sezione però -nel particolare caso in esame- consapevole dell'importanza del piano antincendi predisposto dalla Regione e dell'inizio della stagione estiva, innovando la giurisprudenza sul punto, ha differito l'annullamento di 180 giorni per consentire alle amministrazioni l'adozione di un nuovo Piano senza rinunciare alla lotta agli incendi nel periodo estivo.
In particolare dovranno essere adottate tutte le misure per mettere in sicurezza il sito e dovranno essere posti in essere gli interventi improcrastinabili e indifferibili relativi ad aree -soprattutto vicine ad insediamenti antropici- che presentano rischi elevati (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 30.06.2020 n. 1233 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
1. Il ricorso è in parte fondato e deve pertanto essere accolto, nei limiti di seguito precisati.
2. È incontroverso tra le parti che la Pineta del Tombolo, oggetto del piano specifico di prevenzione AIB per il comprensorio territoriale delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, oggetto di lite, previsto nella delibera di giunta della Regione Toscana n. 355 del 18.03.2019, è sottoposta a vincolo paesaggistico di tipo provvedimentale (ai sensi dell'articolo 136 del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, giusta sei decreti ministeriali degli anni dal 1958 al 1967), è inserita nel piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico della Regione Toscana e ricade nella rete ecologica europea denominata “Natura 2000” [ZSC/ZPS Tombolo da Marina di Grosseto a Castiglione della Pescaia (IT51A0012), ZSC/ZPS Diaccia Botrona (IT51A0011) e ZSC punta Ala e Isolotto dello Sparviero (IT51A0007)].
3. È altresì incontroverso in atti che il piano specifico di prevenzione AIB oggetto di lite prevede, in sintesi, come denunciato dalle associazioni ricorrenti e riferito nella relazione ministeriale, il taglio di circa il 70% dei pini esistenti e di circa l’80% della vegetazione arbustiva del sottobosco.
Nella memoria difensiva regionale (pag. 7) si afferma che “È da sottolineare che le aree soggette agli interventi strategici, contrariamente a quanto riportato nel presente ricorso, non arrivano nemmeno al 15% della superficie totale complessiva dell'area considerata, da trattarsi nei 10 anni di validità del Piano ed impossibile che si verifichi la lamentata scomparsa delle aree di Rete Natura 2000”. Ma tale rilievo non contesta tuttavia quanto affermato in ricorso, riguardo alle percentuali di pini e di sottobosco destinati al taglio, sia pur limitatamente alle aree interessate dagli interventi programmati.
Il piano, inoltre, qualifica espressamente gli interventi previsti come “non soggetti ad autorizzazione paesaggistica”, ai sensi dell’articolo 149 del citato d.lgs. n. 42 del 2004, la cui lettera b) del comma 1 esclude la necessità dell’autorizzazione paesaggistica per gli “interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio”.
4. Il piano specifico di prevenzione AIB oggetto di lite costituisce uno strumento introdotto dalla legge regionale della Toscana 20.03.2018, n. 11, pubblicata nel B.U. Toscana 26.03.2018, in vigore dal 10.04.2018, che, con l’articolo 12, aggiunge nella legge regionale forestale della Toscana 21.03.2000, n. 39 un nuovo articolo 74-bis del seguente tenore: “Piani specifici di prevenzione AIB. 1. Nelle aree individuate dal piano AIB sono approvati dalla Giunta regionale i piani specifici di prevenzione AIB riferiti a un periodo minimo di dieci anni. Il piano specifico di prevenzione può essere aggiornato nell'arco temporale della sua validità. Il regolamento forestale disciplina le modalità per la realizzazione dei piani specifici di prevenzione AIB”.
Nella relazione ministeriale si riferisce che questo “piano specifico di prevenzione AIB” costituisce un piano operativo di prevenzione, riferito alle aree “ritenute ad alto rischio per l'intensificarsi di fenomeni dovuti agli incendi boschivi, stante le mutate condizioni climatiche e l'acuirsi di fenomeni estremi che negli ultimi anni hanno colpito anche il territorio toscano”, basato sul regime storico degli incendi boschivi ricorrenti in un determinato comprensorio territoriale, al fine di individuare e gestire i punti strategici dove realizzare adeguati interventi di prevenzione per contenere gli incendi boschivi, entro la capacità di estinzione del sistema e per salvaguardare l'incolumità pubblica e l'ambiente naturale.
In questa prima fase sono stati individuati venti comprensori territoriali -soggetti ad alto rischio incendi boschivi, espressi in termini di frequenza, vulnerabilità e pericolosità potenziale- per i quali la Regione ha ritenuto opportuno procedere prioritariamente con la predisposizione, entro la fine del 2020, di altrettanti piani specifici di prevenzione AIB.
5. Quasi contemporaneamente alla emanazione della legge regionale n. 11 del 2018 è intervenuto a livello di legislazione statale il nuovo d.lgs. 03.04.2018, n. 34, recante il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali, pubblicato nella Gazz. Uff. 20.04.2018, n. 92 ed entrato in vigore il 05.05.2018.
È indispensabile ai fini dell’esame dei motivi di ricorso svolgere una breve descrizione del quadro normativo come ridefinito dal suddetto d.lgs. n. 34 del 2018.
5.1.
È ormai un dato acquisito nella dottrina e nella giurisprudenza che il patrimonio forestale nazionale reca in sé ed esprime una pluralità di valori, interessi, beni, che chiamano in causa plurimi campi di materia e titoli di potestà legislativa, essendo ormai superata la tradizionale visione che relegava questo settore al solo campo dell’agricoltura (silvicoltura).
È dunque pacifico che, oggi, il patrimonio forestale nazionale intreccia titoli di competenza statale [in particolare, quelli di cui alla lettera s) del comma 2 dell’articolo 117, Cost.: tutela dell’ambiente e del paesaggio, in quanto componente del patrimonio culturale] e di competenza concorrente Stato-regioni, in particolare le politiche agricole contemplate dal comma 3 del citato articolo 117, Cost.
Lo stesso articolo 1 del d.lgs. n. 34 del 2018
(“Principi”) non manca di esplicitare che “La Repubblica riconosce il patrimonio forestale nazionale come parte del capitale naturale nazionale e come bene di rilevante interesse pubblico da tutelare e valorizzare per la stabilità e il benessere delle generazioni presenti e future (comma 1) e che lo Stato e le regioni, nell'ambito delle rispettive competenze, perseguono il “fine di riconoscere il ruolo sociale e culturale delle foreste, di tutelare e valorizzare il patrimonio forestale, il territorio e il paesaggio nazionale, rafforzando le filiere forestali e garantendo, nel tempo, la multifunzionalità e la diversità delle risorse forestali, la salvaguardia ambientale, la lotta e l'adattamento al cambiamento climatico, lo sviluppo socio-economico delle aree montane e interne del Paese (comma 3).
Coerentemente, nell’articolo 2 (“Finalità”) sono enumerati scopi sia di tipo conservativo-ambientale ([lettera a) del comma 1: “garantire la salvaguardia delle foreste nella loro estensione, distribuzione, ripartizione geografica, diversità ecologica e bio-culturale”], sia di tipo economico-produttivo [ad es., le lett. b) e c): “promuovere la gestione attiva e razionale del patrimonio forestale nazionale al fine di garantire le funzioni ambientali, economiche e socio-culturali; promuovere e tutelare l'economia forestale, l'economia montana e le rispettive filiere produttive ... etc.”].
5.2. Conseguentemente, nella premessa al testo dell’articolato vi è un generico richiamo all’articolo 117 della Costituzione, ma sono significativamente richiamati sia il d.lgs. 22.01.2004, n. 42, recante codice dei beni culturali e del paesaggio, sia il decreto d.lgs. 03.04.2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, ed è stata acquisita l'intesa della Conferenza unificata, espressa nella seduta dell'11.01.2018.
Non può pertanto condividersi la tesi svolta nella memoria difensiva regionale, secondo la quale “il d.lgs. n. 34 del 2018 (Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali) non ha altresì innovato la legge n. 353 del 2000 (Legge quadro sugli incendi boschivi) in quanto tratta di materie diverse”, poiché “il d.lgs. n. 34 del 2018 ha carattere di norma di orientamento facendo salve le competenze esclusive della Regione sancite dalla Costituzione”.
In realtà, il nuovo testo unico, aggiornando la normativa nazionale al mutato quadro interpretativo e alle più recenti acquisizioni sulle valenze ambientali e paesaggistiche del patrimonio forestale, ha largamente superato la vecchia impostazione (risalente alla seconda metà del secolo scorso, il cui precipitato giuridico conclusivo si era depositato nel d.lgs. 31.03.1998, n. 112), che configurava il bosco come una mera risorsa agricola in un’ottica di sfruttamento economico, cui era legata la competenza legislativa regionale concorrente nella tradizionale materia della “agricoltura e foreste” dell’originario testo dell’articolo 117 della Costituzione (materia da intendersi nella sua proiezione esclusivamente economica, oggi rifluita nella potestà legislativa residuale regionale, di cui al comma 4 dell’articolo 117 della Costituzione, nel testo novellato con la riforma del 2001).
5.3. Il d.lgs. n. 34 del 2018, in considerazione di questo inestricabile intreccio di valori-beni-interessi espressi dal patrimonio forestale e delle annesse e conseguenti competenze normative e amministrative, ha avuto cura di costruire un sistema volto ad assicurare che tutti i diversi (e a volte confliggenti) interessi generali-pubblici messi in gioco dal tema della gestione del patrimonio forestale fossero adeguatamente rappresentati, acquisiti e valutati nei procedimenti attuativi, al fine di garantire, per quanto possibile, un ragionevole equilibrio tra le esigenze gestionali, anche di tipo economico-produttivo, e quelle di tutela ambientale e paesaggistica.
5.4. In particolare, come bene illustrato anche negli scritti difensivi delle parti, il decreto legislativo prevede un complesso percorso attuativo che si snoda attraverso i seguenti passaggi essenziali:
   a) l’adozione, da parte del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, d'intesa con la Conferenza unificata ed in coordinamento, per quanto di rispettiva competenza, con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, di appositi atti di indirizzo e coordinamento delle attività necessarie a garantire il perseguimento unitario e su tutto il territorio nazionale delle finalità enunciate nel decreto legislativo;
   b) l’adozione, con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, adottato di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Ministro dello sviluppo economico e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, di una “Strategia forestale nazionale” (art. 6, Programmazione e pianificazione forestale), che definisce, con validità ventennale soggetta a revisione e aggiornamento quinquennale, gli indirizzi nazionali per la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva del patrimonio forestale nazionale e per lo sviluppo del settore e delle sue filiere produttive, ambientali e socio-culturali;
   c) l’adozione da parte delle Regioni, in coerenza con la Strategia forestale nazionale, di Programmi forestali regionali per individuare i propri obiettivi e definire le relative linee d'azione;
   d) la predisposizione da parte delle Regioni, nell'ambito di comprensori territoriali omogenei, di piani forestali di indirizzo territoriale, che “concorrono alla redazione dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 145 del medesimo decreto legislativo”;
   e) la promozione, da parte delle Regioni, della redazione di piani di gestione forestale o di strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, quali strumenti indispensabili a garantire la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva delle risorse forestali (per i quali è richiesto il parere del Soprintendente, salvo che per la parte inerente la realizzazione o l'adeguamento della viabilità forestale di cui al punto A.20 dell'Allegato A del d.P.R. 13.02.2017, n. 31, ove i piani di gestione forestale siano conformi ai piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3 dell’art. 6).
5.5. I commi 6 e 7 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 34 del 2018 prevedono che gli strumenti pianificatori sopra indicati (i piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3 e i piani di gestione forestale, o strumenti equivalenti, di cui al comma 6) debbano essere conformi ai “criteri minimi nazionali di elaborazione” da adottarsi con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, al fine di armonizzare le informazioni e permetterne una informatizzazione su scala nazionale, con previsione dell’obbligo delle regioni di adeguarsi alle suddette disposizioni entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il comma 8 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 34 del 2018 prevede, inoltre, che le regioni, in conformità a quanto statuito al comma 7, definiscono i criteri di elaborazione, attuazione e controllo dei piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3 e dei piani di gestione forestale o strumenti equivalenti di cui al comma 6, definiscono, altresì, i tempi minimi di validità degli stessi e i termini per il loro periodico riesame, garantendo che la loro redazione e attuazione venga affidata a soggetti di comprovata competenza professionale, nel rispetto delle norme relative ai titoli professionali richiesti per l'espletamento di tali attività.
6. Di particolare rilievo, ai fini della decisione della controversia in esame, sono infine le previsioni contenute nei commi 12 e 13 dell’articolo 7 (“Disciplina delle attività di gestione forestale”) del d.lgs. n. 34 del 2018: “12. Con i piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi di collaborazione stipulati tra le regioni e i competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, vengono concordati gli interventi previsti ed autorizzati dalla normativa in materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, da eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi dell'articolo 136 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente compatibili con i valori espressi nel provvedimento di vincolo. Gli interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel rispetto delle linee guida nazionali di individuazione e di gestione forestale delle aree ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
13. Le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all'articolo 3, comma 2, lettera c), eseguiti in conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
”.
7. Così definito e chiarito il quadro giuridico di riferimento, è ora possibile procedere alla trattazione dei singoli motivi di ricorso.
8. Con il primo motivo le associazioni ricorrenti assumono che i piani AIB impugnati si porrebbero in violazione della legge nazionale e del riparto di competenze stabilito dalla Costituzione in materia di antincendio boschivo per i vari profili ambientali, paesaggistici, sanitari, di protezione civile oltre che forestali in esso coinvolti. La Regione Toscana non avrebbe quindi potuto adottare un piano antincendio boschivo specifico prima del completamento del quadro normativo attuativo nazionale, come previsto dal d.lgs. n. 34 del 2018.
In ogni caso, il piano specifico in oggetto sarebbe stato approvato in violazione della stessa legge regionale forestale n. 39 del 2000 (come modificata dalla legge regionale 20.03.2018, n. 11, che per la prima volta ha introdotto lo strumento dei piani specifici), il cui articolo 74-bis prevede che un piano specifico di prevenzione AIB può essere approvato solo se esista un presupposto vigente piano AIB che ne abbia individuato l’area, piano generale che, al momento dell’approvazione del piano specifico, non era in vigore.
La tesi di parte ricorrente non è condivisibile, poiché lo stesso articolo 17 del decreto legislativo da essa invocato, recante le disposizioni applicative e transitorie, nel prevedere che “nelle more dell'adozione dei decreti ministeriali e delle disposizioni di indirizzo elaborate ai sensi del presente decreto restano valide le eventuali normative di dettaglio nazionali e regionali vigenti” (comma 2), fa salva, contrariamente all’assunto delle associazioni ricorrenti, la previsione della legge regionale n. 11 del 2018 e i piani specifici di prevenzione AIB in forza di tale nuova legge adottati (tra i quali vi è quello qui oggetto di lite).
Parimenti non condivisibile deve giudicarsi la tesi secondo la quale il piano specifico di prevenzione AIB relativo alla Pineta del Tombolo sarebbe illegittimo in quanto adottato prima del piano AIB pluriennale generale 2019-2021, che doveva costituire il suo presupposto, approvato dalla giunta regionale solo successivamente, in data 23.04.2019.
In senso contrario persuade la tesi difensiva secondo la quale il piano AIB “generale” preesisteva, nel sistema normativo regionale, alla novella introdotta dalla legge regionale n. 11 del 2018, poiché già la legge forestale della Toscana n. 39 del 2000 prevedeva, nell’articolo 74, la “Pianificazione dell'AIB”.
Era dunque già vigente, all’atto dell’adozione della delibera di giunta n. 355 del 18.03.2019, il precedente piano AIB 2014-2016 approvato con delibera di giunta n. 50 del 28.01.2014, variamente prorogato fino al 2019. Inoltre, come evidenziato nelle difese regionali, il nuovo piano AIB è intervenuto dopo pochi giorni rispetto al piano specifico relativo alla Pineta del Tombolo e lo ha sostanzialmente recepito, con un indiretto effetto, ove necessario, di sanatoria.
La stessa delibera n. 355 del 18.03.2020 dà inoltre conto, nelle premesse, “che sono in corso le attività di redazione del testo definitivo del nuovo piano AIB che, come previsto all’articolo 74-bis, comma 1, individua le aree soggette ad alto rischio incendi boschivi, espresso in termini di frequenza, vulnerabilità e pericolosità potenziale”, ed ha espressamente valutato, in modo non irragionevole, “la necessità di dover procedere, nelle more dell’approvazione del suddetto piano AIB, alla realizzazione di uno specifico piano di prevenzione del rischio incendi boschivi per il comprensorio territoriale delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia che presenta un’alta incidenza e pericolosità relativa al fenomeno degli incendi boschivi”.
9. Il secondo motivo di ricorso introduce due distinte censure: la mancata sottoposizione a VAS e la ritenuta non necessità di controllo paesaggistico degli interventi. Tali censure devono essere partitamente esaminate, essendo infondata la prima e in parte fondata la seconda.
10. Sotto un primo profilo, le associazioni ricorrenti, con il secondo motivo in esame, hanno censurato gli atti gravati per la omessa valutazione ambientale strategica (VAS, ai sensi degli articoli 5, 11 e 15 del d.lgs. n. 152 del 2006), a loro dire necessaria (in luogo del mero studio di incidenza con valutazioni relative ai SIC/ZPS ai sensi delle direttive Natura 2000 “habitat” e “uccelli” esperito dalla Regione) giusta la previsione dell’articolo 5, comma 2, lett. a), della legge regionale della Toscana 12.02.2010, n. 10.
La norma, riproducendo peraltro il testo della legge nazionale [art. 6, comma 2, lettera a) del d.lgs. n. 152 del 2006], impone la sottoposizione a VAS, tra gli altri, dei piani e dei programmi elaborati per i settori agricolo e forestale e prevede la VAS obbligatoria [lett. b)] anche per “i piani e i programmi per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e di quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali, della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione di incidenza, ai sensi dell'art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica 08.09.1997, n. 357”, come invero avvenuto nel caso di specie.
L’assunto non è condiviso dalla Sezione.
Deve infatti ritenersi fondata la replica regionale, che invoca l’eccezione costituita dalla previsione della lettera c-bis) del comma 4 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152 del 2006, [“Sono comunque esclusi dal campo di applicazione del presente decreto:… c-bis) i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o dagli organismi dalle stesse individuati”] ed evidenzia come il piano specifico di prevenzione AIB costituisce uno strumento equivalente al piano di gestione forestale, in quanto contiene gli interventi selvicolturali e le opere necessarie alla prevenzione AIB, ed è redatto secondo i criteri della gestione forestale sostenibile.
10.1. Aggiunge al riguardo il Ministero che, per i siti compresi nella rete ecologica europea denominata “Natura 2000” [Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e Zone speciali di Conservazione (ZSC), di cui alla direttiva 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche (“Direttiva Habitat”); Zone di Protezione Speciale (ZPS) previste dalla direttiva 79/409/CEE, ora 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (“Direttiva Uccelli”)], disciplinati, a livello di normativa nazionale, dal d.P.R. 08.09.1997, n. 357, dalla legge 11.02.1992, n. 157, dai decreti ministeriali 03.09.2002 (recante “Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000”) e 17.10.2007 (relativo ai criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative di detti siti), qualsiasi piano o progetto che possa pregiudicare significativamente il sito non può essere autorizzato senza una preventiva valutazione della sua incidenza (articolo 6, comma 3, della direttiva habitat).
Nel caso di specie risulta formalmente svolto uno studio di incidenza per la realizzazione del piano oggetto di lite, ciò che -in disparte la questione della sufficienza di tale studio di incidenza, che costituisce l’oggetto di una separata e autonoma censura di parte ricorrente- consentirebbe di giudicare rispettati i canoni normativi invocati a parametro di legittimità dalle associazioni ricorrenti.
10.2. Benché lo stesso disposto normativo dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152 del 2006 rechi in sé un elemento di interna contraddittorietà tra il comma 2 e la lettera c-bis) del comma 4 (aggiunta, senza un adeguato coordinamento, dall'art. 4-undecies, comma 1, del d.l. 03.11.2008, n. 171, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.12.2008, n. 205), tuttavia, seguendo in ciò l’impostazione sottesa alla relazione ministeriale che privilegia il profilo di conformità comunitaria, può pervenirsi alla soluzione negativa della necessità nella fattispecie della previa VAS.
Ed invero l’articolo 6 del d.lgs. n. 152 del 2006 da un lato afferma che è necessaria la VAS “per tutti i piani e i programmi che sono elaborati ... per i settori agricolo, forestale, ... etc.” [comma 2, lett. a)] e che tale valutazione è altresì necessaria per i piani e i programmi che presentano “possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici ... etc.” [lett. b)]; dall’altro lato, afferma che sono comunque esclusi dalla VAS “i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o dagli organismi dalle stesse individuati” (comma 4, lettera c-bis).
Onde l’evidente contraddizione con il combinato disposto delle lettere a) e b) del comma 2, poiché pressoché tutti i siti della rete “Natura 2000” sono “di livello locale” e dunque, dovendo prevalere la ora detta lettera c-bis) in quanto disposizione speciale-derogatoria, nessun piano o programma di gestione forestale o strumento equivalente, ancorché molto impattante su uno di tali siti, essendo inevitabilmente di livello locale, potrà mai essere sottoposto a VAS [il che svuota di senso, in una parte consistente, il disposto della lettera b) del comma 2].
Nondimeno, come anticipato sopra e come in qualche modo prospettato nella relazione ministeriale, ciò che soprattutto rileva è il dettato della direttiva europea, che non richiede la VAS, ma la valutazione di incidenza ambientale. In questo senso può confermarsi la non fondatezza della censura in esame, pur, deve darsene atto, a fronte di un quadro normativo al riguardo non privo di elementi di contraddittorietà.
11. Fondato e meritevole di accoglimento viene invece giudicato dalla Sezione il secondo profilo di censura articolato dalle ricorrenti nel motivo di ricorso in esame, riguardo alla insufficiente considerazione dei vincoli paesaggistici gravanti sulla Pineta del Tombolo.
La contestazione in esame fa emergere due distinti (anche se connessi e conseguenziali) elementi di illegittimità riguardo al trattamento dei suddetti vincoli paesaggistici: l’erronea presupposizione (poi esplicitata in puntuali note del dirigente del settore regionale competente) della piena riconducibilità di tutti gli interventi previsti nel piano nell’esclusione dalla previa autorizzazione paesaggistica ai sensi delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149 del codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004; la (connessa e conseguente) assenza, negli atti istruttori, di una analisi e valutazione adeguate degli impatti paesaggistici dei medesimi interventi sui beni vincolati (analisi e valutazione che, per quanto si dirà, avrebbero dovuto comunque coinvolgere i competenti uffici territoriali del Ministero di settore).
11.1. È in particolare illegittima la previsione, implicita nel piano specifico di prevenzione AIB impugnato, della esclusione della previa autorizzazione paesaggistica per tutti indistintamente gli interventi programmati, secondo la tesi per cui tali interventi si configurerebbero come pratiche selvicolturali, in quanto tali rientranti tutti nell’ambito delle misure non soggette ad autorizzazione ai sensi dell’articolo 149, comma 1, lettera c) del d.lgs. n. 42 del 2004.
11.1.2. È vero che né la delibera di giunta n. 355 del 2019, né l’allegato piano specifico di prevenzione AIB con essa approvato contengono un’espressa affermazione in questo senso. Ma che questa tesi sia acquisita implicitamente negli atti impugnati e ne costituisca il presupposto logico-giuridico fondamentale, per quanto attiene al profilo paesaggistico, è dimostrato e reso esplicito dalle note a firma del dirigente della Direzione agricoltura e sviluppo rurale - settore forestazione - usi civici - agroambiente della Regione Toscana, di riscontro (rispettivamente) delle domande di accesso agli atti del 4 e del 17.04.2019 presentate dal Tavolo permanente di amministrazione e di governo della Pineta da Castiglione della Pescaia ai Monti dell'Uccellina (allegati nn. 19 e 21 della produzione di parte ricorrente), nelle quali si precisa che “gli interventi previsti dal Piano Specifico di prevenzione AIB si configurano come pratiche selvicolturali e in quanto tali rientranti nell’ambito degli interventi non soggetti ad autorizzazione, ai sensi dell’articolo 149, comma 1, lettera c) del Codice dei beni culturali e del paesaggio. (d.lgs. n. 42 del 2004)” e, inoltre, che “ai sensi del Regolamento Forestale, articolo 61-bis, comma 4, l'attuazione dei singoli interventi previsti dal Piano è soggetta a una dichiarazione, quale forma semplificata di autorizzazione. Pertanto, al momento della realizzazione dei singoli interventi, resta a carico dell’ente competente rilasciare le relative autorizzazioni”.
Che la costruzione del piano si fondi su questo errato presupposto interpretativo è infine dimostrato ulteriormente dalle stesse difese regionali, dove si sostiene (pag. 9-10 della memoria difensiva) che “lo stesso articolo 7, comma 13, prevede per le tipologie di interventi di cui all'articolo 3, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 34 del 2018 (tra i quali rientrano anche gli interventi volti alla prevenzione incendi) l'equiparazione ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera c) del d.lgs. n. 42 del 2004 (interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica” (tesi poi ribadita nella pag. 16 della memoria, con riferimento alla legge regionale n. 39 del 2000).
11.1.3. La tesi regionale non ha pregio e non può essere condivisa, e ciò sia per ragioni legate alla lettera delle disposizioni normative di riferimento sia per ragioni discendenti dall’interpretazione sistematica e finalistica del complesso normativo in cui tali disposizioni si inquadrano, come tratteggiato nel precedente par. 5 di questa motivazione.
In estrema sintesi,
l’errore interpretativo che inficia la posizione regionale consiste nell’aver esteso ai boschi e foreste sottoposti a vincolo provvedimentale (articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, già legge 29.06.1939, n. 1497) il regime (meno severo) previsto per i boschi e le foreste sottoposti a vincolo ex lege [articolo 142, comma 1, lettera g) del predetto d.lgs. n. 42 del 2004, già legge 08.08.1985, n. 431].
11.1.4. Sul piano letterale,
occorre considerare che l’articolo 149 del codice dei beni culturali e del paesaggio, a proposito dell’esclusione della preventiva autorizzazione paesaggistica, distingue chiaramente, nelle lettere b) e c) del comma 1, il regime proprio degli interventi “inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio” rispetto a quello degli interventi consistenti nel taglio colturale, nella forestazione, riforestazione, in opere di bonifica, antincendio e di conservazione “da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1, lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia” (lett. c).
Questo diverso regime deriva dalla distinzione (articolo 134 del medesimo codice del 2004) tra i boschi e le foreste vincolati sulla base di un apposito provvedimento amministrativo, che ne abbia acclarato il notevole interesse pubblico paesaggistico (articolo 136 dello stesso codice), e i boschi e le foreste vincolati indistintamente ex lege, come categoria geografica, in base alla cosiddetta legge “Galasso [d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, nella legge 08.08.1985, n. 431, oggi rifluita nell’articolo 142, comma 1, lett. g) del codice].
Il combinato disposto delle sopra riportate lettere b) e c) dell’articolo 149 dimostra in tutta evidenza che per la prima tipologia di boschi e foreste (vincolati con apposito provvedimento amministrativo) l’esclusione della necessaria autorizzazione paesaggistica preventiva prevista dalla lettera b) dell’articolo 149 per gli interventi “inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale” vale solo per gli interventi “minori”, che non si traducano nel “taglio colturale, [nel]la forestazione, [nel]la riforestazione, [nel]le opere di bonifica, antincendio e di conservazione”, i quali sono sottratti all’obbligo della previa autorizzazione paesaggistica solo ed esclusivamente quando siano “da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1, lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia [articolo 149, lettera c)].
Con la conseguenza che le ora dette tipologie di interventi -tra i quali rientra senz’altro la maggior parte di quelli previsti dal piano oggetto di lite- riguardando un bosco vincolato con apposito provvedimento amministrativo, ai sensi dell’articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, qual è pacificamente la pineta del Tombolo, non possono in alcun modo considerarsi senz’altro e a priori sottratti all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica preventiva prevista dall’articolo 146 del decreto legislativo da ultimo citato.
Il che trova una sua evidente spiegazione razionale nel fatto che sia il taglio colturale, sia quello antincendio, nella modalità prevista nel piano in esame, se può presumersi compatibile con la nozione generica di territorio coperto da foreste e da boschi, considerati in astratto, come tipologia generale, senza alcuno specifico accertamento tecnico-discrezionale in loco, non può logicamente ammettersi, senza un previo controllo puntuale di compatibilità esercitato in concreto dagli organi a ciò preposti, nel caso di boschi e foreste dichiarati di notevole interesse pubblico e paesaggistico con apposito provvedimento motivato, nel qual caso è coessenziale al vincolo il controllo preventivo tecnico-discrezionale di compatibilità dei tagli proposti rispetto alla consistenza e alla fisionomia paesaggisticamente percepibile del bene protetto, come accertata e dichiarata nel provvedimento di vincolo.
Coerente con questo sistema normativo e con le sue finalità logiche si pone altresì il Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, di cui al d.P.R. n. 31 del 2017, nel cui allegato A (di cui all'art. 2, comma 1 - Interventi ed opere in aree vincolate esclusi dall'autorizzazione paesaggistica), non a caso e significativamente, sono bene distinti e graduati, nelle voci A.19 e A.20, rispettivamente, gli interventi sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell’ambito degli interventi di cui all'art. 149, comma 1, lettera b) del codice” e quelli sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell'ambito degli interventi di cui all'art. 149, comma 1, lettera c) del Codice”.
Al riguardo le difese regionali propongono, invece, un’erronea lettura di tale previsione regolamentare, lì dove (pag. 17) si pretende di riferire anche ai boschi vincolati con apposito provvedimento la voce A.20, che è invece testualmente riferita solo ai boschi e alle foreste vincolati ex lege.
Il regime di tutela “rafforzato” che, limitatamente a certi aspetti, assiste i beni paesaggistici dichiarati con apposito provvedimento motivato, rispetto a quelli tutelati ex legeGalasso”, trova ulteriori espressioni nel diverso trattamento previsto nell’ambito della pianificazione paesaggistica [articolo 143, comma 4, lettera a) del codice di settore del 2004].
11.1.5. In questo senso torna ad acquistare rilievo l’ampia premessa sopra svolta (sub par. 5) -sull’abbrivio delle specifiche censure pure prospettate dalle ricorrenti- riguardo all’inestricabile intreccio di competenze che caratterizza la disciplina della gestione del patrimonio forestale nazionale, che implica (sul piano sistematico e teleologico dell’interpretazione) l’esigenza di garantire comunque il coinvolgimento degli organi tecnico-scientifici statali ai quali la legge riserva, nella cooperazione delle regioni e degli altri enti territoriali (articolo 5 e Parte III del d.lgs. n. 42 del 2004), l’esercizio delle funzioni di tutela paesaggistica.
Significativamente e non a caso, anche il nuovo Testo unico in materia di foreste e filiere forestali del 2018 stabilisce che le regioni e i competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, “con i piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi di collaborazione stipulati ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241”, concordino “gli interventi previsti ed autorizzati dalla normativa in materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, da eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi dell'articolo 136 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente compatibili con i valori espressi nel provvedimento di vincolo” (articolo 7, comma 12).
Per completezza di esame della fattispecie, deve inoltre evidenziarsi che la previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 12 ora esaminato (secondo la quale “Gli interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel rispetto delle linee guida nazionali di individuazione e di gestione forestale delle aree ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano”), contrariamente alla tesi regionale (secondo la quale non sarebbe “vigente in quanto collegato al D.M. non ancora promulgato”), non introduce un vincolo impeditivo della possibilità di stipula, già prima dell’emanazione delle suddette linee guida, di appositi accordi tra l’amministrazione regionale e quella ministeriale, atteso che l’articolo 15 della legge n. 241 del 1990 costituisce un potere implicito di carattere generale delle amministrazioni, attivabile anche indipendentemente da specifiche norme autorizzative, ed esistendo ed essendo già operanti, inoltre, anche sulla base della nuova pianificazione paesaggistica regionale e della relativa legislazione regionale della Toscana, diversi organismi a partecipazione mista che curano la gestione e l’attuazione del piano paesaggistico e delle problematiche di comune interesse inerenti la tutela dei paesaggi, in seno alle quali ben sarebbe stato possibile ricercare forme di concordamento in attuazione della previsione della norma del decreto del 2018 sopra richiamata.
11.1.6. Diventa recessiva, al cospetto di questo coerente sistema, la tesi interpretativa proposta dalle difese regionali, secondo la quale l’articolo 7, comma 13 del d.lgs. n. 34 del 2018, nel prevedere che “le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all'articolo 3, comma 2, lettera c), eseguiti in conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera c), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42”, avrebbe escluso la previa autorizzazione paesaggistica anche per gli interventi sui boschi e le foreste vincolati ai sensi dell’art. 136 del codice di settore del 2004.
Proprio alla luce di quanto osservato e considerato nel precedente paragrafo 11.1.4, risulta chiaro, invece, che questa previsione si riferisce solo ed esclusivamente ai boschi e alle foreste vincolati ex lege (art. 142, comma 1, lett. g) del codice del 2004), come è del resto reso evidente dal puntuale richiamo in essa contenuto alla lettera c) del comma 1 dell’art. 149 che, come si è visto sopra, riguarda esclusivamente i boschi e le foreste ex lege Galasso.
Questa lettura, oltre che dalla coerenza del sistema, è imposta anche dal dato topografico del testo dell’articolo 7 del d.lgs. n. 34 del 2018, che antepone la norma speciale prevista dal comma 12 (relativo ai boschi e alle foreste tutelati in base a un vincolo di tipo provvedimentale) a quella generale di cui al seguente comma 13, erroneamente invocato dalle difese regionali.
Una diversa e più ampliativa interpretazione del d.lgs. n. 34 del 2018, quale quella che sembra essere ipotizzata dalla Regione Toscana, tale da derogare alle più stringenti norme di tutela prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, renderebbe inoltre incostituzionale per eccesso di delega il decreto del 2018, nella cui delega di legge non vi era in alcun modo il potere di incidere in senso riduttivo sui livelli di tutela del paesaggio.
11.2. La diversa –ma non condivisa dalla Sezione– lettura del combinato disposto delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149 del d.lgs. n. 42 del 2004 (e del d.lgs. n. 34 del 2018), con conseguente confusione tra il regime di tutela paesaggistica del patrimonio forestale vincolato con apposito provvedimento rispetto a quello proprio del patrimonio forestale vincolato ex lege Galasso, ha ingenerato, come prima anticipato, un secondo elemento di illegittimità del piano impugnato, nella parte in cui ha condotto a una sottovalutazione degli aspetti paesaggistici, con conseguente carenza istruttoria e motivazionale sul punto.
11.2.1. È da notare che nulla è detto nella delibera di giunta n. 355 del 2019, né nell’allegato piano specifico di prevenzione AIB con essa approvato, in tema di valutazione paesaggistica degli interventi. Nelle premesse della delibera compare solo la seguente considerazione: “Preso atto che sono stati acquisiti con esito favorevole tutti gli atti e pareri previsti dalla normativa vigente in relazione alla tipologia degli interventi colturali straordinari e delle opere destinati alla prevenzione e lotta agli incendi boschivi”.
Di tali atti e pareri non è tuttavia fornita alcuna indicazione specifica.
Nella parte finale del piano, alla voce “Quadro normativo e bibliografia” (pag. 138), figura solo un generico richiamo dei vincoli paesaggistici provvedimentali imposti sulle aree interessate dal piano, nonché al codice di tutela del 2004 (e al regolamento di semplificazione di cui al d.P.R. n. 31 del 2017).
Inoltre, nello studio di incidenza presentato ai sensi dell’articolo 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, si afferma “gli interventi per cui viene valutata l’incidenza vertono perlopiù sull’attività di ordinaria coltivazione di soprassuoli boschivi all’interno del sito di interesse comunitario” (pag. 5).
Nel medesimo studio di incidenza risultano solo citate le misure di conservazione contenute nel piano paesaggistico della Regione Toscana, in particolare rispetto all’Ambito di Paesaggio 18 ovvero “Maremma Grossetana” (pagg. 49 -53), ma -in disparte la considerazione che ogni valutazione di tutela paesaggistica avrebbe dovuto essere acquisita presso gli organi competenti e nell’ambito delle procedure appropriate e non avrebbe potuto comunque essere utilmente svolta nello studio di incidenza- il suddetto documento si è limitato in proposito a una mera riproduzione testuale della relativa scheda di piano paesaggistico, con annesse “Criticità” e “Obiettivi di qualità e direttive - Obiettivo 4”, senza alcuna aggiunta o considerazione sulla compatibilità degli interventi.
Nella pag. 149 vi è poi un breve paragrafo intitolato “Incidenza degli interventi proposti rispetto al piano paesaggistico” del seguente tenore: “Nella parte inerente gli Obiettivi di qualità e direttive si legge al punto 4: Salvaguardare e valorizzare i rilievi dell’entroterra e l’alto valore iconografico e naturalistico dei ripiani tufacei, reintegrare le relazioni ecosistemiche, morfologiche, funzionali e visuali con le piane costiere 1.13 - tutelare l’elevato grado di panoramicità del sistema costiero e le relazioni visuali con il mare e con le aree retrostanti. Gli interventi previsti sono volti alla conservazione dell’ambiente pineta così come appare oggi, grazie ad azioni selvicolturali volte alla lotta contro gli incendi boschivi. Incidenza Positiva”.
La disamina ora compiuta del modo in cui i profili paesaggistici sono stati presi in considerazione nei documenti di piano dimostra, ad avviso della Sezione, la fondatezza della censura di insufficienza istruttoria e motivazionale su tali, pur essenziali, profili di tutela.
12. Con il terzo motivo di ricorso le associazioni ricorrenti hanno lamentato che la Regione Toscana avrebbe condotto l’istruttoria in modo carente, ostacolando la partecipazione delle associazioni e dei cittadini interessati alla tutela delle aree in questione, comprimendo i tempi procedimentali per consentire l’accesso ai finanziamenti comunitari e trascurando l’istruttoria relativa ai vincoli ambientale, paesaggistico e idrogeologico.
Sarebbero state sottovalutate la reale consistenza del monumento naturale in questione, l’insistenza sul medesimo di domini collettivi ai sensi della legge n. 168 del 2017 e l’eventuale presenza di piante monumentali previste dall’articolo 7 della legge n. 10 del 2013 per il rilascio di esemplari vetusti e di ricovero.
In sostanza, con il mezzo di censura in esame, corroborato e integrato con i numerosi rilievi puntuali svolti nel paragrafo del ricorso introduttivo denominato “Conclusioni tecnico-scientifiche”, le associazioni ricorrenti denunciano una complessiva carenza istruttoria, che si sarebbe tradotta in una sostanziale sottovalutazione e non adeguata considerazione dei vincoli ambientali e paesaggistici esistenti sulla pineta del Tombolo.
Rinviando ai paragrafi precedenti per gli aspetti paesaggistici, già ivi trattati, occorre qui esaminare l’adeguatezza istruttoria e motivazionale del piano specifico impugnato relativamente ai profili di tutela ambientale, segnatamente quelli legati alla inclusione di parti delle aree interessate dal piano AIB in ambiti ricomprese nel sistema Natura 2000.
12.1. Fermo restando che, come chiarito supra al par. 10, nella fattispecie non era necessaria la VAS, risultano tuttavia dagli atti significativi elementi che depongono nel senso dell’inadeguatezza istruttoria e motivazionale della valutazione d’incidenza svolta dalla Regione Toscana.
Ed invero dall’esame dell’atto di autorizzazione regionale emerge che si risolve in un riscontro piuttosto formalistico di corrispondenza degli interventi, singolarmente considerati, ad alcune voci tipologiche desunte dalla modulistica di settore, senza un’adeguata valutazione d’insieme –con conseguente difetto di motivazione– della reale dimensione degli impatti del piano.
12.2. Nello studio di incidenza, nel capitolo intitolato “Fase 2. Valutazione "appropriata": Stima degli effetti degli interventi proposti”, compaiono alcune indicazioni di “incidenza negativa” (evidenziate in rosso) e numerose indicazioni di “incidenza non significativa” (in verde) o “positiva” (in colore scuro).
Nella parte dedicata alla incidenza sulla fauna (pagg. 150 ss.) figura una sola ipotesi di incidenza negativa sugli insetti (per la specie Chalcophora detrita, pag. 151) e nessuna incidenza negativa sugli uccelli (riguardo ai quali ricorre, invece, sistematicamente, la valutazione di incidenza positiva degli interventi, con la ripetitiva motivazione per cui “Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie troverà beneficio, in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno salvaguardati dalla distruzione - Incidenza Positiva”). Per i mammiferi ricorre una sola incidenza negativa (pag. 160, per il topo quercino).
In senso opposto le associazioni ricorrenti hanno sottolineato come la previsione del taglio del 70% dei pini (con eliminazione progressiva dei pini marittimi, molti dei quali molto vetusti e di ricovero per molte specie animali) e dell’80% del sottobosco (habitat elettivo di numerose specie di insetti, di rettili, di uccelli e di mammiferi), nonché l’ampio ricorso al cosiddetto “fuoco prescritto”, non possono realisticamente essere valutati pressoché tutti e interamente con “incidenza non significativa” o “positiva”, con pochissime eccezioni di “incidenza negativa”, come si è visto sopra.
Ritiene il Collegio che, escluso in questa sede ogni inammissibile giudizio di merito che spetta all’amministrazione effettuare e che non può essere qui compiuto, la valutazione svolta, in ragione dell’entità degli interventi programmati, non sia adeguatamente motivata.
Ad esempio la frase ricorrente –“Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie troverà beneficio, in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno salvaguardati dalla distruzione - Incidenza Positiva"– avrebbe meritato un maggiore approfondimento perché, per un verso, è certo che con la lotta agli incendi boschivi la fauna ne ricaverà beneficio ma, fermo tale punto, per altro verso, non è chiarito se ciò rimane vero –ed eventualmente in che termini– anche a seguito del diradamento degli alberi e delle altre misure contemplate.
12.3. Conseguenziale e specularmente aderente alla prospettazione molto favorevole contenuta nello studio di incidenza si rivela la trattazione fattane dall’amministrazione regionale in sede di “autorizzazione VINCA” (doc. n. 4 allegato alla produzione regionale).
Questo provvedimento, riscontrando “l'istanza in oggetto, acclarata con Prot. n. 31847 del 23.01.2019, per la quale lo scrivente Settore ha ricevuto dagli Uffici Regionali la modulistica e lo studio di incidenza per la realizzazione di un Piano di prevenzione AIB dei punti strategici nelle pinete litoranee dei comuni di Grosseto e Castiglione della Pescaia”, prende atto “dello Studio di incidenza e della modulistica presentata, in cui si analizza compiutamente l’opera proponendo misure di mitigazione” e, viste le misure di conservazione mediante interventi selvicolturali individuate per l’habitat “2270 - Dune con foreste di Pinus pinea e Pinus pinaster” dalla delibera regionale n. 1223/2015, ritenuto che “gli interventi risultano coerenti con le misure di conservazione vigenti e le incidenze negative rilevate risultano essere non significative per la loro transitorietà ed estensione”, che, anzi, “gli interventi previsti determineranno anche incidenze positive per la conservazione attiva dell'habitat 2270 a medio termine e quindi delle specie di interesse conservazionistico che utilizzano tale habitat”, che “la realizzazione degli interventi previsti seguendo le prescrizioni indicate nella parte dispositiva del presente provvedimento non determinerà effetti negativi sugli obiettivi di conservazione, sulla disponibilità di siti per la nidificazione e/o il rifugio della fauna, sulla complessità delle reti alimentari ivi presenti, sulla struttura e funzioni necessarie alla conservazione a lungo termine degli habitat e delle specie tutelati presenti nei siti Natura 2000 in oggetto”, ha espresso una valutazione positiva “in base alle informazioni fornite”.
È mancata dunque la necessaria considerazione e valutazione unitaria dell’impatto delle attività proposte sugli habitat oggetto di protezione che, si ripete ancora una volta, spettava all’amministrazione compiere e non certo a questo Decidente
12.3.3. Anche le prescrizioni —riassumibili in sintesi nei seguenti quattro punti:
   1) salvaguardare i periodi di nidificazione (eseguire dunque gli interventi possibilmente tra il 1 ottobre ed il 28 febbraio di ogni anno, salvo estensioni e deroghe motivate, con alcuni accorgimenti);
   2) evitare la perdita di lubrificanti e carburante e limitare l’emissione di gas di scarico e di rumori durante l’esecuzione dei lavori;
   3) avvisare il Servizio regionale competente qualora siano rinvenuti, durante l’esecuzione dell'intervento, nidi o cavità sulle piante da abbattere;
   4) verificare la sussistenza sull’area delle condizioni indicate dal progetto per applicare la tecnica del “fuoco prescritto”, facendo attenzione a monitorare durante l’esecuzione i parametri più importanti per l’utilizzo di questa tecnica, quali il vento, la temperatura, l’umidità, etc.— avrebbero meritato maggiore attenzione, e comunque migliore motivazione, perché, lungi dal costituire “specifiche prescrizioni” come affermato nella memoria difensiva regionale, non sembrano avere alcun contenuto prescrittivo autonomo rispetto a quelle che sono le comuni buone regole tecniche minimali già implicite negli interventi antincendio boschivo presi in considerazione.
Si tratta, quindi, di mere raccomandazioni generiche di eseguire a regola d’arte i lavori che non aggiungono e non tolgono alcunché a quanto già previsto nel piano. Anche sotto tale aspetto è necessario che, coerentemente alla regola generale, sia fornita una migliore motivazione della scelta fatta.
13. L’enucleazione, svolta nei precedenti paragrafi, dei rilevati vizi di carenza istruttoria e motivazionale, tradottisi in una sostanziale sottovalutazione dei profili paesaggistici e ambientali degli interventi antincendio programmati, fa emergere anche
un ulteriore profilo, diffusamente proposto nel ricorso introduttivo, concernente la mancata partecipazione al percorso elaborativo delle associazioni di tutela ambientale, le quali pure avevano più volte chiesto di essere ascoltate e di poter contribuire al procedimento.
Se è vero che non si rinvengono nel panorama normativo (nazionale e regionale) specifiche previsioni che impongano tale partecipazione -sicché deve escludersi la sussistenza di puntuali vizi di violazione di legge sotto questo profilo- è altrettanto vero che non è conforme a criteri generali di buona amministrazione non prendere in considerazione i possibili contributi delle associazioni ambientaliste che abbiano chiesto di essere sentite o che abbiano prodotto memorie e documenti.
Si ricordi, a tale riguardo che, ai sensi dell’articolo 9 l. 07.08.1990, n. 241, qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento e che è loro riconosciuto, giusta il disposto del successivo articolo 10, il diritto di presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Ciò peraltro risponde ai canoni di buona amministrazione sanciti dall’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, come è noto, ai sensi dell’articolo 6 TUE, ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Fermo restando che l’amministrazione ha il dovere di procedere, anche celermente quando necessario, in vicende come queste sarebbe stato utile garantire la possibilità di ascolto e di presa in considerazione dei punti di vista diversi da quelli dell’amministrazione quando ciò non si traduce esclusivamente in ostacoli al compimento del procedimento amministrativo.
14. In conclusione, per tutte le esposte ragioni
il ricorso deve giudicarsi fondato e merita pertanto accoglimento, con conseguente annullamento della delibera di giunta regionale n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso “Piano Specifico di Prevenzione AIB per il comprensorio territoriale delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, nella parte in cui considera erroneamente come paesaggisticamente irrilevanti -e perciò sottratti alla preventiva autorizzazione paesaggistica- tutti gli interventi previsti nel piano, omettendo un’adeguata analisi e valutazione dell’impatto paesaggistico di tali interventi, nonché nella parte in cui si fonda su una valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000 interessati dalle misure rivelatasi carente nell’istruttoria e nelle motivazioni, oltre che corredata da mere raccomandazioni di buona esecuzione degli interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
15. L’annullamento della delibera n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso piano si riverbera sulla delibera n. 564 del 23.04.2019 (di approvazione del piano AIB 2019-2021) nella sola parte in cui tale ultima delibera recepisca, approvi, ratifichi o comunque faccia propri i contenuti della delibera n. 355 del 2019 e dell’annesso piano specifico AIB.
16. La Regione Toscana ha più volte sottolineato, nella sua memoria difensiva, l’estrema urgenza di eseguire interventi AIB a tutela della pubblica incolumità e della sicurezza di persone e cose seriamente minacciate dal rischio sempre più urgente e pressante di devastanti incendi boschivi, molto probabili (se non, pare di capire, inevitabili) a causa del mutamento climatico, non senza evocare scenari tragici, quali quelli di recente verificatisi in Grecia, in Spagna e in Portogallo (per guardare solo alle aree mediterranee e per non parlare della California o dell’Australia).
Scrive, ad esempio, la Regione Toscana (pag. 6 della memoria in data 29.11.2019): “È evidente che in tali condizioni, eventuali decisioni di rinuncia agli interventi di prevenzione comportano l'assunzione di responsabilità in merito alle conseguenze di eventi che dovessero accadere” e, ancora (ivi): “Nel corso del 2017 un incendio ad alta intensità e di limitata superficie (3,5 ha) ha danneggiato case e veicoli in località Marina di Grosseto, mentre a Castiglione della Pescaia si è verificato un incendio boschivo di 75,9 ettari che ha raggiunto una velocità di propagazione di 20 metri/minuto”, sicché le delibere impugnate e il piano specifico di prevenzione AIB delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia “sono volti ad assicurare la salvaguardia dell'incolumità di residenti e turisti; una loro mancata attuazione esporrebbe al permanere delle condizioni di rischio come sopra evidenziate” (pag. 7).
16.1. A fronte di tali impegnative affermazioni dell’Amministrazione regionale,
il Collegio deve porsi la questione di come poter in qualche modo bilanciare le contrapposte esigenze di tutela giurisdizionale degli interessi dei ricorrenti (e di ripristino della legittimità dell’azione amministrativa) con quelle di tutela della pubblica incolumità e della sicurezza delle persone e dei beni patrimoniali delle concentrazioni antropiche che insistono nella (o in prossimità della) pineta oggetto del piano AIB impugnato.
In particolare,
il Collegio non può sottrarsi alla responsabilità di esplorare a fondo la possibilità, per le suddette finalità, di graduare l’effetto caducatorio degli atti impugnati discendente dal disposto annullamento, in modo da scongiurare effetti di paralisi, che potrebbero rivelarsi dannosi per gli stessi interessi ambientali fatti valere dalle Associazioni ricorrenti.
Soccorre all’uopo, ad avviso del Collegio, la possibilità di calibrare l’effetto di annullamento, al fine di consentire alla Regione Toscana di disporre di un congruo lasso di tempo per rivedere ed emendare, in linea con i precetti regolativi desumibili dalla presente decisione, il piano specifico AIB oggetto della presente pronuncia di annullamento, consentendone, nelle more, interventi di messa in sicurezza o che si presentino come particolarmente urgenti e ineludibili.
16.2. Com’è noto,
la facoltà di modulare gli effetti demolitori delle sentenze di annullamento è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato con la sentenza 10.05.2011, n. 2755. In quella sede, la Sezione VI, accertata l’illegittimità del piano faunistico venatorio della regione Puglia a cagione dell’omesso svolgimento del procedimento di valutazione ambientale strategica (VAS), accoglieva il ricorso e dichiarava la perdurante efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’adozione di un nuovo provvedimento programmatorio sostitutivo.
A tali conclusioni il Collegio giudicante perveniva non soltanto sul rilievo della potenziale compromissione degli equilibri ambientali derivante dall’eliminazione degli effetti del piano originariamente approvato, ma anche in ragione del contenuto delle pretese fatte valere dalla parte ricorrente. In quella sede si sosteneva infatti che il principio di effettività della tutela giurisdizionale, nella declinazione desumibile tanto dalle fonti sovranazionali (articoli 6 e 13 della CEDU), quanto da quelle interne (articoli 24 e 113 della Costituzione), imponeva una modulazione temporale dell’efficacia tipica del dictum giudiziale, in vista della necessità di assicurare una soddisfazione non meramente formale dell’interesse fatto valere con la domanda.
La Sezione VI osservava altresì che il riconoscimento di deroghe alla naturale retroattività degli effetti caducatori non incontrerebbe alcuna preclusione nelle norme sostanziali e processuali, laddove rispettivamente disciplinano l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi (articolo 21-nonies, legge n. 241 del 1990) ed i contenuti delle sentenze che dispongono l’eliminazione dalla realtà giuridica del provvedimento impugnato (articolo 34, comma 1, lettera a), c.p.a.).
Parimenti, i poteri valutativi esercitabili dal giudice in ordine all’efficacia del contratto stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima (articoli 121-122, c.p.a.) costituirebbero un ulteriore indice normativo a sostegno della compatibilità sistematica di pronunce che, accertata la difformità dell’atto a contenuto generale rispetto al parametro legale, escludono la produzione di effetti caducatori sino all’adozione del nuovo provvedimento da parte dell’Amministrazione.
In virtù dell’ascrivibilità della disciplina ambientale al novero delle competenze concorrenti fra gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione europea, questo Consiglio affermava inoltre che gli interessi fatti valere in tale ambito materiale dovessero essere tutelati dai giudici nazionali secondo livelli di garanzia non inferiori rispetto a quelli assicurati dal diritto eurounitario. In tal senso, le disposizioni di cui all’articolo 264 del TFUE, specie nella parte in cui affidano alla Corte di giustizia la facoltà di precisare “gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi” (paragrafo 2), troverebbero ingresso nell’ordinamento interno in qualità di principi idonei a garantire una “tutela piena ed effettiva” delle situazioni giuridiche soggettive dedotte in giudizio (articolo 1, c.p.a.).
16.3.
Giova osservare come, sulla base degli argomenti posti a fondamento della sentenza 10.05.2011, n. 2755, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato abbia ammesso la configurabilità di deroghe all’efficacia retroattiva delle pronunce con cui il giudice della nomofilachia modifica orientamenti giurisprudenziali consolidati (Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Se il contenuto di un siffatto richiamo vale indubbiamente a rafforzare l’apparato argomentativo della citata decisione del 2017, non può tuttavia omettersi di precisare come il cosiddetto prospective overruling non condivida con la graduazione della portata caducatoria delle sentenze di annullamento null’altro che la comune riconducibilità alle tecniche di governo dell’efficacia delle pronunce giurisdizionali.
L’elaborazione di principi di diritto innovativi rispetto all’orientamento precedentemente consolidato, in quanto formulati in sentenze dichiarative di interpretazione intese a rendere manifesto il significato dell’originario dato normativo, esprime una naturale tendenza alla retroazione dei nuovi canoni esegetici. Tuttavia, a fronte della potenziale lesione di controinteressi di rango costituzionale, l’operatività del revirement giurisprudenziale può essere limitata alle sole fattispecie che vengano in rilievo posteriormente alla pubblicazione della nuova decisione.
Muovendo dalla risalente tradizione pretoria della Corte suprema statunitense, la giurisprudenza non ha tuttavia mancato di delimitare puntualmente le condizioni di praticabilità del prospective overruling. Sin dalla sentenza 11.07.2011, n. 15144, il Giudice di legittimità ha costantemente sostenuto che l’ammissibilità di interventi nomofilattici con efficacia ex nunc sia subordinata alla cumulativa presenza dei seguenti requisiti:
   a) la nuova interpretazione incida su norme processuali;
   b) il mutamento giurisprudenziale sia stato imprevedibile e sopravvenga ad un distinto orientamento consolidato nel tempo, in modo da indurre la parte ad un ragionevole affidamento sulla perdurante validità dell’indirizzo anteriore;
   c) l’overruling precluda l’esercizio del diritto di azione o di difesa delle parti (da ultimo, cfr. Cass. civ., Sez. II, ordinanza 10.05.2018, n. 11300; Cass. civ., Sez. un., sentenza 03.10.2018, n. 24133; Cass. civ., Sez. un., sentenza 12.02.2019, n. 4135; Cass. civ., Sez. lav., ordinanza 13.01.2020, n. 403).
Ad analoga definizione dei presupposti fondativi dell’istituto in esame è pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Ad. plen., 02.11.2015, n. 9; Cons. St., Sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138). E in applicazione delle medesime condizioni questo Consiglio ha recentemente escluso la differibilità nel tempo dei principi di diritto enunciati in tema di riapertura delle graduatorie ad esaurimento (Cons. St., Ad. plen., 27.02.2019, n. 4; Cons. St., Sez. VI, sentenza 08.04.2019, n. 2266), nonché di superamento della pregiudiziale amministrativa nella domanda di risarcimento del danno (Cons. St., Sez. III, sentenza 22.02.2019, n. 1230; Cons. St., Sez. IV, sentenza 28.06.2018, n. 3977).
Rispetto a tale assetto giurisprudenziale si distingue invece la citata sentenza n. 13 del 2017, con la quale l’Adunanza plenaria, accogliendo la tesi della cosiddetta “discontinuità” dell’efficacia del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico anteriori all’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, giunge ad estendere la portata del prospective overruling anche all’esegesi di norme a contenuto sostanziale.
Conoscendo di una fattispecie rientrante nella sfera di vincolatività dei principi di diritto formulati dall’Adunanza plenaria n. 13 del 2017, la Sezione VI del Consiglio di Stato, con sentenza 03.12.2018, n. 6858, ha parimenti sostenuto che “anche nell’ambito del procedimento amministrativo (nel caso in esame, di conclusione del procedimento di vincolo), come in ambito processuale, la modifica del precedente orientamento non può che comportare che la parte (nella specie, l’Amministrazione) incorra in decadenze fino allora non prevedibili”.
In altri termini, giova in questa sede evidenziare con forza che
il potere di disporre la decorrenza ex nunc degli effetti delle sentenze a contenuto interpretativo non possa assimilarsi alle tecniche di modulazione della portata caducatoria delle pronunce costitutive di annullamento degli atti illegittimi. Queste ultime, lungi dall’incidere sulla stabilità di precedenti giurisprudenziali consolidati, contengono indefettibilmente un accertamento circa la legittimità/illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato in vista della soddisfazione di un interesse protetto dall’ordinamento sostanziale. Le prime, invece, individuano il momento a partire dal quale il nuovo orientamento interpretativo deve essere applicato.
Deve in conclusione ritenersi che l’indagine sulla graduazione degli effetti dell’annullamento non possa che essere condotta sulla base di criteri distinti rispetto a quelli cui la giurisprudenza ordinaria e amministrativa ricorre per giustificare la praticabilità del prospective overruling.
16.4. La Sezione è consapevole dei rilievi critici mossi da una parte della dottrina avverso la graduazione degli effetti caducatori delle sentenze di annullamento.
Si è osservato, in primo luogo, come nel sistema della giustizia amministrativa il contenuto tipico dell’azione di annullamento, consistente nell’eliminazione del provvedimento illegittimo dalla realtà giuridica, sarebbe violato dalle decisioni con cui il giudice dispone il mantenimento dell’efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’ulteriore esercizio del potere. Le conseguenze caducatorie dell’accoglimento della domanda, benché non puntualmente desumibili dalla disciplina processuale, sarebbero imposte dalla natura costitutiva della sentenza di annullamento, dei cui effetti demolitori dovrebbe dunque predicarsi la radicale indisponibilità.
Con un secondo argomento critico si è inoltre ritenuto che le tesi sostenute dalla Sezione VI del Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 2755 del 2011 presenterebbero profili di contrasto con l’articolo 113, comma 3 della Costituzione, ai sensi del quale “la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. La necessaria intermediazione legislativa nella definizione dei poteri di annullamento osterebbe infatti all’autonoma gestione giudiziaria dell’efficacia delle pronunce costitutive, dal momento che la produzione del risultato demolitorio potrebbe essere legittimamente escluso nelle sole ipotesi predeterminate dalla fonte primaria.
Una terza censura di matrice dottrinale è stata avanzata in relazione alla pretesa violazione del carattere dispositivo del processo amministrativo. Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112, c.p.c.) non consentirebbe al giudice di modulare il contenuto del decisum in senso difforme rispetto alla pretesa annullatoria fatta valere con la domanda di parte.
Anche gli argomenti di diritto positivo posti a fondamento del percorso motivazionale della sentenza n. 2755 del 2011 non hanno mancato di suscitare la disapprovazione di alcuni esponenti della dottrina.
Non persuasivo è ritenuto il riferimento ai poteri esercitabili della Corte di giustizia nel giudizio sulla legittimità degli atti delle istituzioni eurounitarie (articolo 264, paragrafo 2, TFUE). Né il richiamo ai principi di derivazione europea, previsto dall’articolo 1 del codice del processo amministrativo, consentirebbe per ciò solo di trasporre nell’ordinamento interno gli istituti tipici di un distinto sistema processuale. Sulla base delle norme di matrice eurounitaria non potrebbe infatti imporsi ai giudici nazionali la temporanea conservazione dell’efficacia di atti illegittimi in vista della necessaria protezione di controinteressi meritevoli di tutela.
Quanto alla disciplina speciale di cui agli articoli 121-122 del codice del processo amministrativo, la previsione di una deroga espressa all’inefficacia retroattiva del contratto stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima costituirebbe un significativo indice dell’eccezionalità del rimedio pretorio in esame, non invece la esplicitazione settoriale di un generale potere di valutazione circa la perduranza o meno degli effetti del provvedimento annullato.
Da ultimo, la radicale distinzione tra le funzioni giurisdizionali e quelle di amministrazione attiva precluderebbe l’assimilazione tra la rimozione in autotutela degli atti illegittimi (articolo 21-nonies, legge n. 241 del 1990) e le sentenza costitutive di annullamento.
16.5. La Sezione ritiene che tali rilievi critici non debbano essere condivisi.
16.5.1 Con riguardo alla pretesa violazione del contenuto tipico delle pronunce costitutive di annullamento, occorre osservare quanto segue.
In esito al complesso percorso evolutivo che ha visto la pretesa alla soddisfazione del bene della vita progressivamente acquisire una valenza centrale entro la struttura dell’interesse legittimo, la disciplina processuale delle azioni esperibili a fronte dell’esercizio del potere richiede un costante adeguamento interpretativo alle esigenze di effettività imposte dalla cognizione di una posizione giuridica soggettiva sostanziale.
È noto che il modello rimediale pluralistico originariamente accolto dalla bozza del codice del processo amministrativo licenziata l’08.02.2010 dalla Commissione insediata presso il Consiglio di Stato sia stato solo parzialmente recepito nella versione definitiva del testo legislativo. Ove tuttavia si ritenesse che il riferimento alle azioni di annullamento (articolo 29, c.p.a.) e di condanna (articolo 30, c.p.a.), nonché a quelle in materia di silenzio-inadempimento (articolo 31, commi 1-3, c.p.a.) e di nullità (articolo 31, comma 4, c.p.a.), sia espressivo di un sistema di tutela tipico e conchiuso, dovrebbe al contempo ammettersi la validità di una configurazione meramente processuale dell’interesse legittimo.
Per converso, e in modo più condivisibile, la considerazione del moderno schema dei rapporti di diritto pubblico, nel quale il bene della vita inciso dall’esercizio del potere diviene l’elemento costitutivo di una situazione giuridica soggettiva sostanziale, esige la costruzione di un apparato rimediale idoneo ad assicurare a quest’ultima una protezione adeguata alla sua intrinseca natura.
In forza dei criteri direttivi di cui all’articolo 44 della legge 18.06.2009, n. 69, nonché del richiamo ai principi costituzionali e comunitari previsto dall’articolo 1 del codice del processo amministrativo, deve dunque ritenersi che il canone di effettività della tutela giurisdizionale si ponga a fondamento di un sistema atipico di azioni, la cui esperibilità garantisce la soddisfazione di interessi giuridicamente rilevanti mediante strumenti processuali non necessariamente coincidenti con quelli espressamente previsti dalla legge.
Con specifico riguardo all’azione generale di accertamento, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 29.07.2011, n. 15, ha infatti autorevolmente sostenuto che “nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’azione generale di accertamento non preclude la praticabilità di una tecnica di tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo (articoli 24, 103 e 113).
Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone di riconoscere l'esperibilità dell'azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente
”.
Così delineato il quadro dei mezzi di tutela esperibili nell’attuale sistema di giustizia amministrativa, deve ulteriormente osservarsi come l’atipicità dell’apparato rimediale possa presentare anche una declinazione di tipo contenutistico, nella misura in cui la decisione del giudice esprime una sintesi degli interessi in conflitto non astrattamente predeterminabile dal legislatore.
Ed in specie, l’estensione dell’oggetto della cognizione al rapporto giuridico controverso, al di là dei confini imposti dal mero scrutinio di legittimità dell’atto impugnato, può giustificare il riconoscimento di poteri valutativi in ordine alla perduranza degli effetti dell’atto illegittimo, nell’ottica del bilanciamento fra le esigenze di tutela fatte valere dalla parte ricorrente ed i controinteressi generali e particolari rilevanti nel caso concreto.
Il governo degli effetti delle sentenze costitutive di annullamento appare dunque ammissibile nel quadro di atipicità rimediale e contenutistica che permea la moderna struttura del processo amministrativo.
Del resto -come è stato notato- sotto il profilo dell’azione proposta, la domanda di annullamento contiene sempre il quid minus della domanda di mero accertamento dell'illegittimità con effetti non retroattivi o non eliminatori e, sotto il profilo dei poteri del giudice, l'attribuzione del potere di decidere quando annullare l'atto illegittimo implica (rectius: può implicare) anche il potere, meno incisivo, di stabilire da quando far decorrere la portata della sentenza di annullamento dell'atto.
16.5.2 Con il secondo degli esaminati rilievi critici si sostiene che i poteri di modulazione riconosciuti dalla sentenza n. 2755 del 2011 configurerebbero una violazione della riserva di legge prevista dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui affida all’intermediazione legislativa la determinazione dei casi e degli effetti dell’annullamento giurisdizionale.
Anche la suddetta censura di matrice dottrinale non appare persuasiva.
Deve in primo luogo osservarsi che nessuna norma di diritto sostanziale o processuale espressamente preclude l’individuazione di deroghe alla portata retroattiva delle pronunce a contenuto demolitorio.
In secondo luogo il vigente assetto processuale, oltre a rimettere al giudice la valutazione circa la necessità dell’annullamento dell’atto illegittimo (articolo 34, comma 3, c.p.a.), accentua il carattere conformativo delle decisioni adottabili. A questo proposito giova infatti ricordare che il combinato disposto dell’articolo 30, comma 1 e dell’articolo 34, comma 1, lettera c), primo periodo del codice del processo amministrativo consente la proposizione di domande atipiche di condanna, le quali, se formulate contestualmente ad altra azione, possono condurre alla pronuncia di sentenze di accoglimento che obbligano l’Amministrazione “all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”.
Lungi dall’integrare una violazione della riserva di legge prevista dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, la dichiarazione di efficacia dell’atto illegittimo sino al nuovo esercizio del potere da parte dell’Amministrazione rinviene quindi nella disciplina processuale di rango primario un fondamento normativo.
16.5.3 Il terzo profilo di criticità interpretativa contestato da una parte della dottrina attiene all’asserita incompatibilità fra le tecniche di modulazione degli effetti demolitori e il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112, c.p.c.).
Anche tale argomento va superato.
L’oggetto dell’azione di annullamento comprende indefettibilmente la domanda di accertamento circa l’illegittimità dell’atto impugnato. La pronuncia con cui il giudice, pur dichiarando la sussistenza di profili di contrasto rispetto al parametro legale, sospende provvisoriamente la produzione dell’effetto eliminatorio della sentenza, o stabilisce che l’atto illegittimo sia annullato senza far retroagire gli effetti della caducazione, non può ritenersi difforme rispetto ai contenuti del petitum.
Né, in senso diverso, possono ricavarsi argomenti da una sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che –statuendo in ordine ad una controversia nella quale si discuteva della possibilità di sostituire l’annullamento degli atti di una procedura concorsuale con il “semplice” risarcimento dei danni– è giunta a formulare il seguente principio di diritto: “sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita” (Cons. St., Ad. plen., sentenza 13.04.2015, n. 4).
Proprio dalle motivazioni della citata sentenza del giudice della nomofilachia si desume peraltro che la condivisibile preclusione alla sostituzione officiosa delle forme di tutela richieste dalla parte ricorrente (risarcimento al posto dell’annullamento) non può in alcun modo estendersi alla modulazione degli effetti caducatori delle pronunce di annullamento, con la quale il giudice amministrativo assicura una protezione effettiva alle pretese dedotte in giudizio, senza travalicare i limiti imposti dall’oggetto e dalle ragioni della domanda (cfr. paragrafo n. 7 delle motivazioni in diritto).
In chiave sistematica, poi, le deroghe alla retroattività delle sentenze di annullamento del contratto, previste dagli articoli 1443 e 1445 del codice civile rispettivamente a tutela dell’incapace e del terzo subacquirente, confermano la validità dell’orientamento che ammette la modulazione degli effetti delle pronunce demolitorie, ove tale soluzione sia imposta dalla necessità di proteggere adeguatamente gli interessi dedotti in giudizio.
Per il giudice ordinario, infatti, in materia di annullamento del contratto, l'art. 1445 c.c., escludendo gli effetti dell'annullamento nei confronti dei terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso, sancisce implicitamente l'efficacia dell'annullamento nei confronti degli acquirenti rispetto ai quali non ricorra tale requisito soggettivo (Cass. civile, sez. II, 10.09.2019, n. 22585), così confermando che gli effetti possono essere calibrati in ragione degli interessi coinvolti.
Si tratta, peraltro, di soluzione immanente all’ordinamento giuridico, come confermato da una non recente decisione: "La disposizione dell'articolo 2652, n. 6, c.c., riguardante l'onere della trascrizione delle domande dirette a far dichiarare la nullità o far pronunziare l'annullamento di atti soggetti a trascrizione, ha lo scopo di limitare l'efficacia retroattiva e l'opponibilità della pronuncia dichiarativa della nullità, in quanto fa salvi i diritti che i terzi di buona fede abbiano acquistato in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità, qualora quest'ultima sia stata trascritta dopo decorsi cinque anni dalla trascrizione dell'atto impugnato. Il verificarsi del duplice presupposto della trascrizione del titolo di acquisto e dell'omissione della trascrizione della domanda di dichiarazione di nullità entro il quinquennio attribuisce pertanto sia al primo acquirente sia ad ogni altro successivo avente causa una posizione di piena tutela nei confronti della pretesa di invalidità del titolo del dante causa" (Cass. civ., Sez. I, sentenza 20.05.1967, n. 1095).
16.6. La soluzione inaugurata dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n. 2755/2011, con tutta evidenza, trae fondamento nell'evoluzione del sindacato del giudice che si è trasformato da giudizio di mera conformità dell’atto ad un determinato parametro normativo a giudizio sul legittimo esercizio della funzione amministrativa con riferimento al rapporto.
Nella prospettiva tradizionale –e ormai superata perché incentrata esclusivamente sulla legittimità/illegittimità dell’atto– la posizione di sovraordinazione, propria dell’amministrazione, impediva di individuare vincoli in capo all’ente nel rapporto con il privato (prima suddito e poi cittadino) e conseguentemente nessuno spazio vi era per una “relazione giuridica in senso proprio”. Come affermato dalla dottrina, “l’ordinamento giuridico poteva anche disciplinare il potere dell’amministrazione con norme volte ad orientare l’attività della medesima nell’interesse della stessa amministrazione (norme d’azione), ma senza che si instaurasse una relazione giuridica in senso proprio”.
Con l’affermarsi dello Stato di diritto –e poi con alcune rilevanti modifiche normative (possibilità di risarcire i danni cagionati da lesioni agli interessi legittimi, impugnazione di atti connessi con l’istituto dei motivi aggiunti, possibilità di valutare la fondatezza della pretesa e non annullabilità degli atti illegittimi che non potevano avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato)– l’interesse legittimo ha assunto un’indiscutibile valenza sostanziale consentendo di ricostruire “i termini dialettici … di una relazione giuridica bilaterale” in cui è essenziale penetrare nel rapporto tra amministrazione e cittadino per saggiarne la reale consistenza. Emblematico in tal senso è la disposizione che esclude l’annullamento dell’atto illegittimo quando il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Altra dottrina –dopo aver distinto il “rapporto dinamico (procedimento) e quello statico (provvedimento), poiché nella dinamica procedimentale il privato, parte del rapporto, interagisce col responsabile del procedimento, mentre nel provvedimento è solo destinatario rispetto all'assetto degli interessi”– ha insistito per la costruzione di un più maturo quadro di tutele che, ad avviso della Sezione, non può che passare per un ampliamento degli schemi consolidati.
Anche la giurisprudenza ha rilevato che “l'interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell'azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio”; conseguentemente si aprono le porte ad un “giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata” (Cons. St., a.p., 23.03.2011, n. 3).
È bene precisare però che quanto sino ad ora affermato non deve mai travalicare i confini del merito amministrativo, se non nei rari casi previsti dalla legge (articolo 134 c.p.a).
16.7. Non può inoltre omettersi di osservare come l’impostazione accolta in questa sede si ponga in continuità con l’indirizzo accolto dalla giurisprudenza eurounitaria.
La Corte di Giustizia, prima in applicazione dell’articolo 231 Trattato CE, poi in ossequio a quanto stabilito dall’articolo 264 TFUE, ritiene di poter decidere, di volta in volta, sugli effetti dell’annullamento nel caso di riscontrata invalidità di un regolamento e “anche nei casi di impugnazione delle decisioni, delle direttive e di ogni altro atto generale”.
A tale riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 264 TFUE, se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato. Viene altresì precisato che, ove lo reputi necessario, la Corte precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi.
Con la sentenza 10.01.2006, in causa C-178/03, la Corte, richiamando l’articolo 231, secondo comma, allora vigente, ha mantenuto gli effetti dell’atto annullato “sino all’adozione, entro un termine ragionevole, di un nuovo regolamento basato su fondamenti normativi adeguati”.
Con altra sentenza, sempre la Corte di Giustizia, ha mantenuto gli effetti dell’atto impugnato “per un periodo non eccedente i tre mesi”, a decorrere dalla data di pronuncia della sentenza, sul presupposto che l'annullamento con effetto immediato avrebbe potuto “arrecare un pregiudizio grave ed irreversibile all'efficacia delle misure” imposte dall’atto caducato (Corte di giustizia, sentenza 03.09.2008, in cause riunite C‑402/05 P e C‑415/05 P).
Di particolare interesse è altra pronuncia con la quale la Corte di Giustizia, dopo aver riscontrato l’illegittimità di una decisione, ha sospeso “gli effetti della constatazione d’invalidità”, per un periodo non superiore a due mesi, stabilendo altresì alcune eccezioni in considerazione della particolare posizione di determinati ricorrenti (Corte di giustizia, sentenza 22.12.2008, in causa C-333/07).
Parimenti, l’analisi delle tradizioni giurisprudenziali straniere (in specie francese) dimostra il diffuso riconoscimento di deroghe alla retroattività delle sentenze di annullamento.
In particolare, il Conseil d'Etat, in data 11.05.2004, Association Ac ed Autres, ha ritenuto che “Se l'annullamento di un atto amministrativo implica in linea di principio che tale atto non si considera mai avvenuto, quando le conseguenze di un annullamento retroattivo sarebbero manifestamente eccessive per gli interessi pubblici e privati coinvolti, il giudice può, in via eccezionale, modulare nel tempo gli effetti dell’annullamento che pronuncia”.
16.8. La Sezione non ignora che le tesi sostenute con la citata sentenza n. 2755 del 2011 siano state solo occasionalmente accolte dalla giurisprudenza amministrativa di primo grado (cfr. TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.12.2011, n. 700; TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 09.04.2014, n. 3838; TAR Molise, sentenza 21.11.2014, n. 637).
E ciò ancorché ancora recentemente la Sezione VI del Consiglio di Stato, con sentenza 06.04.2018, n. 2133, ha affermato che “il giudice amministrativo -anche in sede di cognizione- può comunque determinare se, nel caso di fondatezza delle censure poste a base di una domanda di annullamento, sussistano i presupposti per applicare il principio generale per il quale l’atto illegittimo vada rimosso con effetti ex tunc, oppure vada rimosso con effetti ex nunc, ovvero l’atto stesso non vada rimosso, ma debba o possa essere sostituito, con un ulteriore provvedimento, a sua volta se del caso avente effetti ex nunc (cfr. Cons. St., Sez. VI, sentenza 10.05.2011, n. 2755; Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Anche in considerazione del principio di effettività della tutela del ricorrente vittorioso (richiamato dall’articolo 1 del codice del processo amministrativo), in rapporto alla consistenza dei poteri comunque esercitabili dall’Amministrazione a seguito della rilevata illegittimità del suo provvedimento, il giudice amministrativo -con la sentenza di cognizione o d’ottemperanza- nell’esercizio dei propri poteri conformativi e se del caso di merito può determinare quale sia la regola più giusta, che regoli il caso concreto.
Tale ampio potere del giudice amministrativo deve però tenere conto della normativa applicabile nella materia in questione e non deve condurre a conseguenze incongrue o asistematiche
”.
In effetti il giudice amministrativo fa un uso molto avveduto del potere in esame, limitandolo alle sole ipotesi in cui un temperamento alla regola della caducazione retroattiva degli atti illegittimi si renda strettamente necessario per la tutela degli interessi rilevanti nel caso concreto, così come s’è visto accade oltralpe.
16.9.
In conclusione reputa la Sezione che risponda meglio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale la possibilità di “modulare” gli effetti dell’annullamento.
Tale potere, tuttavia, dovrà essere utilizzato in modo accorto e solo nelle ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati coinvolti.
E ciò anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della tutela trasmodino –com’è stato giustamente paventato- in situazioni di incertezza giuridica o amministrativa.
In particolare
tale possibilità soccorrerà allorché -come nel caso in esame- occorre evitare che l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio (in caso di annullamento di atti normativi o generali), tale da determinare effetti peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato aspira a conseguire o mantenere.
Sotto questo profilo, il caso qui all’odierno esame della Sezione appare paradigmatico: l’annullamento del piano specifico AIB potrebbe indurre indirettamente un effetto di paralisi dell’azione amministrativa di prevenzione incendi, impedire dunque anche quegli interventi urgenti, necessari a mitigare il rischio di incendi boschivi e, con l’approssimarsi della stagione estiva, aumentare di fatto ancor di più il rischio di devastanti incendi, difficilmente controllabili, con il risultato paradossale che l’accoglimento del ricorso proposto dalle associazioni ambientaliste per garantire più elevati livelli di tutela del paesaggio tutelato e delle aree naturali protette che ospitano specie vegetali e animali nel sistema Rete Natura 2000 potrebbe finire per (con)causare indirettamente la distruzione definitiva di quei paesaggi e di quegli habitat naturali.
16.10. Per le considerazioni sino a qui espresse, quindi,
il Consiglio esprime parere nel senso che il ricorso vada accolto, disponendo l'annullamento degli atti impugnati, nei limiti delle censure accolte e solo a decorrere dall'approvazione del nuovo piano AIB, approvazione che dovrà avvenire nel rispetto dei principi affermati con la presente decisione nel termine di 180 giorni dalla comunicazione del decreto che decide il ricorso.
Per garantire la piena tutela degli interessi fatti valere col ricorso e degli interessi pubblici coinvolti, dunque, il piano qui annullato rimane in vigore durante il predetto periodo di 180 giorni. Resta chiaro che le Autorità competenti, in tale lasso temporale, hanno l’obbligo di adottare tutte le misure e le azioni, eventualmente anche in attuazione parziale del piano qui annullato, per mettere in sicurezza il sito nonché per fronteggiare gli interventi improcrastinabili e indifferibili relativi ad aree -soprattutto vicine ad insediamenti antropici- che presentano rischi elevati secondo la prudente e responsabile valutazione delle amministrazioni che certamente non compete a questo Decidente.
Decorso il predetto termine, il piano oggetto del ricorso rimane definitivamente annullato e privo di effetti con la conseguenza che, qualora l’amministrazione non dovesse ottemperare alla decisione, parte ricorrente potrà agire in sede di ottemperanza secondo il costante orientamento della giurisprudenza (ex multis, Cons. St., ad. plen., 05.06.2012, n. 18; Cons. St., ad. plen., 06.05.2013, n. 9; Cons. St., ad. plen., 14.07.2015, n. 7).
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto esclusivamente nei limiti e con le prescrizioni indicati in motivazione.

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Sanatoria degli interventi definibili “minori” – Speciale causa di non punibilità – Rilascio della valutazione paesaggistica – Effetti – Accertamento del giudice dei presupposti di fatto e di diritto – Operatività automatica – Esclusione – Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il rilascio della valutazione paesaggistica, all’esito della specifica procedura, disciplinata dall’art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. n. 42/2004, non determina sic et simpliciter l’operatività della speciale causa di non punibilità per la contravvenzione addebitata, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la “sanatoria” quale, ad esempio, la riconducibilità dell’opera contestata alla categoria degli interventi definibili “minori”.
Pertanto, anche il rilascio della valutazione di compatibilità paesaggistica all’esito della procedura prescritta, non determina automaticamente la non punibilità del reato paesaggistico.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi edilizi realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica – Inapplicabilità della sanzione penale – Presupposti.
L’art. 181, co. 1-ter, esclude l’applicabilità del co. 1 dell’art. 181, d.Lgs.. n. 42 del 2004, qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater” alle seguenti opere;
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380″.
Ne consegue che, ove si accerti in fatto che l’intervento edilizio rientri in una delle ipotesi indicate dal predetto co. 1-ter, ne discenderebbe l’inapplicabilità della relativa sanzione penale.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Parere di compatibilità paesaggistica rilasciato nelle more del giudizio di Cassazione – Effetti – Non punibilità dell’autore del reato.
In materia edilizia, con argomentazione adattabile perfettamente a quella paesaggistica, nell’ipotesi in cui il parere di compatibilità paesaggistica, rilasciato nelle more del giudizio di Cassazione, venga quivi depositato, occorre annullare la sentenza impugnata e trasmettere gli atti al giudice del merito, perché espleti le opportune indagini di fatto (corrispondenza tra il bene oggetto dell’imputazione e quello di cui al parere di compatibilità paesaggistica; accertamento della legittimità del provvedimento) e dichiari, ove ne sussistano gli estremi, la non punibilità dell’autore del reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.06.2020 n. 19363 - link a www.ambientediritto.it).

maggio 2020

EDILIZIA PRIVATAOggetto: parere in merito alla normativa da applicare alla domanda di condono edilizio in caso di vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto all’abuso – G.d.F., Tenenza di Ponza (Regione Lazio, nota 06.05.2020 n. 401878 di prot.).

marzo 2020

EDILIZIA PRIVATALa giustificazione della esistenza di una disciplina speciale si spiega non tanto per i caratteri che contraddistinguono la materia naturalistica da quella paesaggistica (che effettivamente presentano molti tratti in comune) quanto per la circostanza che ricadendo l’abuso commesso in area protetta (Parco Nazionale del Vesuvio) esso resta soggetta alla disciplina della L. 394/1991 sulle aree protette che, d’altronde, non è incompatibile con l’autorizzazione di cui all’art. 7 L. n. 1497 del 1939, in presenza della quale, nel caso di aree di particolare interesse ambientale, può derogarsi alla immodificabilità delle suddette aree.
Deve conseguentemente ritenersi che sono del tutto autonomi e non sovrapponibili i relativi procedimenti, essendo le diverse autorità chiamate a compiere autonome valutazioni: mentre l'ente Parco deve valutare la compatibilità dell'intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di zona, l'autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina della compatibilità dell'intervento proposto, che ha come parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene paesaggistico;
E' indubbio, quindi, che il titolo naturalistico è autonomo dal titolo edilizio come da quello paesaggistico e non vi è alcuna correlazione automatica tra gli interventi edilizi liberi, interventi assoggettati ad autorizzazione paesaggistica semplificata e interventi soggetti al preventivo nulla-osta dell'ente Parco.
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Ciò precisato, parte ricorrente lamenta, nello specifico, la violazione del D.P.R. n. 31/2017, in particolare art. 3, all. B e art. 17, nonché la violazione dell'art. 167 D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), ritenendo che le opere oggetto di ordinanza di demolizione rientrerebbero in quelle indicate al punto B.14 dell'Allegato B del D.P.R. citato e quindi non sarebbero soggette al preventivo nulla osta dell'Ente Parco.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
In punto di diritto vi osta l'art. 146 del D.Lgs. 22.04.2004, n. 42, in materia di tutela paesistica, che ha posto la regola generale secondo cui ogni intervento che comporti modificazioni o rechi pregiudizio all'aspetto esteriore delle aree vincolate è assoggettato al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, prevedendo, poi, al comma 9, che <<sono stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti>>.
In attuazione di detta norma è stato emanato il D.P.R. 09.07.2010, n. 139 al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.
Orbene, in attuazione di detta nuova disciplina, è stato emanato il D.P.R. 13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), che ha individuato gli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica ovvero sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
Da quanto si è andato esponendo ultroneo e non conferente è il richiamo di parte ricorrente alla disciplina regolamentare dettata dal citato DPR 31/2017, essendo del tutto diversi i presupposti, le finalità e gli ambiti di operatività di detta disciplina rispetto a quella dettata per la tutela dei parchi nazionali ex L. 341/1991 e s.m.i, oltre che distinte le autorità (Regione/Ente delegato/Soprintendenza ed Ente Parco, rispettivamente) preposte all'esercizio dei relativi poteri.
Osserva il Collegio che parte ricorrente si duole per la mancata applicazione di una ipotetica e generica normativa in tema di tutela del paesaggio che, però non trova alcun riscontro nel provvedimento impugnato, ma non censura la motivazione posta puntualmente a fondamento dell’ordinanza impugnata .
In tal modo resta incontestata la disciplina, sopra riferita, in base alla quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, racchiusa nella legge speciale sulle aree protette n. 394/1991, che, a differenza della normativa di diritto comune, è volta a salvaguardare le prerogative ed i poteri conferiti all’Ente Parco in ragione della gestione del vincolo di tutela dell’area protetta ad esso affidata.
Ancora, nella memoria finale di replica la ricorrente asserisce che, attesa la contiguità della materia naturalistica a quella paesaggistica, non si giustificherebbe una diversità di disciplina basata unicamente su tale dato sostanziale
Tuttavia la giustificazione della esistenza di una disciplina speciale si spiega non tanto per i caratteri che contraddistinguono la materia naturalistica da quella paesaggistica (che effettivamente presentano molti tratti in comune) quanto per la circostanza che ricadendo l’abuso commesso in area protetta (Parco Nazionale del Vesuvio) esso resta soggetta alla disciplina della L. 394/1991 sulle aree protette, che, d’altronde –come sopra rilevato– non è incompatibile con l’autorizzazione di cui all’art. 7 L. n. 1497 del 1939, in presenza della quale, nel caso di aree di particolare interesse ambientale, può derogarsi alla immodificabilità delle suddette aree.
Deve conseguentemente ritenersi che sono del tutto autonomi e non sovrapponibili i relativi procedimenti, essendo le diverse autorità chiamate a compiere autonome valutazioni: mentre l'ente Parco deve valutare la compatibilità dell'intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia, fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di zona, l'autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina della compatibilità dell'intervento proposto, che ha come parametro i valori paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene paesaggistico (Cons. Stato Sez. VI Sent. 06/05/2013, n. 2410); è indubbio, quindi, che il titolo naturalistico è autonomo dal titolo edilizio come da quello paesaggistico e non vi è alcuna correlazione automatica tra gli interventi edilizi liberi, interventi assoggettati ad autorizzazione paesaggistica semplificata e interventi soggetti al preventivo nulla-osta dell'ente Parco (cfr. Tar Lombardia, Brescia, Sez. II, 11.06.2013, n. 557) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.03.2020 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Area boschiva e vincolo paesaggistico – BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Intervento edilizio su zona vincolata – Disboscamento del terreno – Piano paesaggistico – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Realizzazione dei capannoni in un’area boscata – Permesso di costruire – Fattispecie – Artt. 146, 153, 154, 159 e 181, d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 5 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela dei beni culturali e ambientali, i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, dell’articolo 146 d.lgs. 42/2004, hanno l’obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione, ne deriva che costituisce onere dell’interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l’intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l’intervento deve essere realizzato.
Nella specie, il ricorrente non poteva sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un’area boscata trincerandosi dietro un’insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell’autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando era lui stesso ad aver taciuto quale fosse l’effettivo stato dei luoghi al momento della domanda.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Funzioni e limiti dello Sportello Unico per l’Edilizia – Cura dei rapporti fra il privato, l’amministrazione e le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi – VIA VAS AIA – Taglio di un’area boscata – Impatto sul contesto ambientale – Fattispecie: preventiva modifica abusiva dello stato dei luoghi a fini edilizi (taglio di un bosco senza richiedere l’autorizzazione).
Lo Sportello Unico per l’Edilizia, in conformità a quanto previsto dall’art. 5 d.P.R. 380/2001, assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l’amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all’intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l’amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi, ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell’interessato.
Nella specie, invece, l’interessato era ben consapevole dell’esistenza di un bosco sull’area destinata ad intervento edilizio essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l’autorizzazione.
Diversamente opinando, verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell’impatto sul contesto ambientale circostante dell’opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all’evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l’imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un’area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Area boscata – Vincolo paesaggistico – T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 – Art. 142 d.Lgs. 42/2004 – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Altra definizione contenuta nei PRG e strumenti urbanistici comunali – Irrilevanza.
Il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente l’art. 2 d.Lgs. 227/2001, come un “terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento”, definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null’altro evincendosi dall’art. 142 d.Lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale.
Pertanto, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo o da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Titoli abilitativi ai fini urbanistici e paesaggistici – Differenza – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Provvedimenti abilitativi – Procedimento di rilascio – Rapporto di autonomia e non di interdipendenza – Natura dell’autorizzazione paesaggistica – Atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire – Responsabile del procedimento – Individuazione.
Il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro che i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa.
Del resto, nella fattispecie, che la procedura per il rilascio del permesso di costruire sia ontologicamente diversa e comunque autonoma rispetto a quella per l’autorizzazione paesaggistica, trova conferma nella stessa legge regionale della Toscana 1/2015 che all’art. 88, terzo comma, prevede espressamente che “il responsabile del procedimento amministrativo in materia urbanistico-edilizia non può essere responsabile del procedimento amministrativo in materia di autorizzazione paesaggistica”
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale.
Invero, sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
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Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al momento della domanda.
Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico, consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e vincolo paesaggistico.
L'autorizzazione paesaggistica è un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa.

Muovendo dalla disposizione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione”, ne deriva che costituisce onere dell’interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l’intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l’intervento deve essere realizzato.
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L'
autorizzazione paesaggistica si configura quale presupposto di efficacia del permesso di costruire.
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Il ricorso non può essere ritenuto ammissibile.
L'assunto della difesa, secondo il quale la delega da parte della Regione della funzione autorizzatoria di cui agli articoli 146, 153 e 154 del Codice dei beni culturali e del paesaggio ai comuni imporrebbe di individuare nell'ente locale, proprio in quanto preposto al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, il soggetto chiamato a valutare in primis la necessità o meno del suddetto titolo abilitativo e in caso affermativo ad attivarsi motu proprio per acquisire il parere della competente Soprintendenza, risulta manifestamente infondato.
Quand'anche all'epoca del commesso reato competesse al Comune, e non già alla Regione, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica secondo la legge regionale toscana n. 1 del 2005, ciò non toglie che trattasi di un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa (cfr. in termini la pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5016/2017, nonché Consiglio di Stato, Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4234 del 21.08.2013).
Del resto che la procedura per il rilascio del permesso di costruire sia ontologicamente diversa e comunque autonoma rispetto a quella per l'autorizzazione paesaggistica, del resto trova conferma nella stessa legge regionale della Toscana 1/2015 che all'art. 88, terzo comma prevede espressamente che "il responsabile del procedimento amministrativo in materia urbanistico-edilizia non può essere responsabile del procedimento amministrativo in materia di autorizzazione paesaggistica".
Muovendo infatti dalla disposizione dell'art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale "i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione", ne deriva che costituisce onere dell'interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l'intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l'intervento deve essere realizzato.
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali. Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico, consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione paesaggistica costituisce un atto autonomo rispetto al permesso di costruire: si tratta, infatti, di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
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Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico, consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402).

febbraio 2020

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla richiesta di accesso all'elenco delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate ex art. 146, comma 13, d.lgs. n. 42/2004 – Richiesta di accesso formulata in modo poco chiaro – Sostanziale esercizio del diritto di cui all’art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013 – Obbligo, a carico dell’amministrazione, di interpretazione quale istanza di accesso civico generalizzato.
Nel caso di istanza di accesso formulata dal in modo poco chiaro (nella fattispecie non recante riferimenti all’accesso civico generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative all’accesso documentale) il comune deve interpretare l’istanza, tenuto conto che il cittadino può anche non possedere particolari conoscenze giuridiche e che sussiste un dovere di soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una istanza di accesso civico generalizzato.
Questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal rilievo che appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare interesse alla conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne la qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”;
In questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire prontamente al ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una propria inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico aggiornamento dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia affermato da un lato l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e dall’altro affermato che il ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso civico ai documenti (in pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non per il mero riferimento formale all’accesso civico generalizzato a quella già presentata);
Questo modo di operare appare espressione di una concezione burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza necessità di farne esplicita richiesta al comune).
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Espone il ricorrente di aver presentato al comune di Solopaca in data 17.09.2019 una istanza di accesso con cui chiedeva –avendo notato la realizzazione di lavori edili su un immobile appartenente alla controinteressata– l’accesso all’autorizzazione paesaggistica, se esistente, e all’elenco delle autorizzazioni paesaggistiche previsto dall’articolo 146, comma 13, d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il successivo 23.10.2019 il responsabile dell’ufficio tecnica dava riscontro all’istanza con una nota in cui faceva presente che: a) “per i provvedimenti finali di autorizzazione e concessione …. non sussiste un obbligo di pubblicazione trattandosi di atti già soggetti ad accesso civico”; b) che “resta ferma la possibilità di esercitare il diritto di accesso civico generalizzato …. ai sensi degli articoli 5, co. 2 e 5-bis del d.lgs. 33/2013”; c) sarebbe comunque stato in “corso di predisposizione” la pubblicazione sul sito web comunale dell’elenco nella sezione dedicata alla trasparenza.
Di qui il ricorso all’esame, notificato il 19.11.2019 e depositato il 26.11.2019 con cui il ricorrente denuncia che la nota in questione è illegittima per violazione dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, dell’articolo 5 d.lgs. 14.03.2013, n. 33 e degli articoli 22, 24 e 25 della legge 07.08.1990, n. 241.
Né il comune di Solopaca né la controinteressata si sono costituiti in giudizio.
Il ricorso è fondato e va accolto, ritenendo il collegio che sussista la violazione della normativa in materia di accesso civico generalizzato.
Va premesso che l’istanza di accesso è stata formulata dal ricorrente in modo poco chiaro, dato che essa non reca riferimenti all’accesso civico generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative all’accesso documentale.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, il comune avrebbe potuto e dovuto interpretare l’istanza, tenuto conto che il cittadino può anche non possedere particolari conoscenze giuridiche e che sussiste un dovere di soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una istanza di accesso civico generalizzato; questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal rilievo che appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare interesse alla conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne la qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”; in questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire prontamente al ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una propria inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico aggiornamento dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia affermato da un lato l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e dall’altro affermato che il ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso civico ai documenti (in pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non per il mero riferimento formale all’accesso civico generalizzato a quella già presentata); questo modo di operare appare espressione di una concezione burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza necessità di farne esplicita richiesta al comune).
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente ordine al comune di Solopaca di fornire al ricorrente la documentazione che ha richiesto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 28.02.2020 n. 928 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: richiesta di chiarimenti in merito all'applicazione del c.d. "bonus facciate" (MIBACT, Ufficio di Gabinetto, nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASecondo la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio dell’autorizzazione definitiva.
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Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso.
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero.
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie, alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo.

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Secondo la consolidata giurisprudenza, in presenza di provvedimenti con motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi.
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze.

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1. La società ricorrente ha impugnato, assieme a tutti gli atti inerenti e presupposti, la determina dirigenziale specificata in epigrafe, con la quale l’amministrazione comunale ha concluso negativamente la conferenza di servizi indetta in relazione al procedimento di rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006.
La determinazione conclusiva della conferenza ha fondato il diniego sulla ritenuta assenza dei requisiti urbanistici e ambientali previsti per la realizzazione degli impianti di autodemolizione dalla normativa vigente e, in particolare, dal citato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006 e dal D.Lgs. n. 209/2003.
In fatto, ha dedotto la ricorrente di svolgere attività di autodemolizione da circa trent’anni in virtù di una serie di autorizzazioni provvisorie, sempre di volta in volta rinnovate, e di aver presentato vari progetti di adeguamento in linea con le normative succedutesi nel tempo e a seguito delle relative richieste da parte dell’amministrazione.
Ha altresì affermato di aver accettato la prefigurata delocalizzazione degli impianti di autodemolizione, così come era stato previsto nell’ambito dell’accordo di programma intervenuto tra Comune e Regione, ratificato con delibera del Consiglio comunale n. 263 del 02.10.1997.
Ha pure sostenuto di aver presentato nel 2004 un apposito progetto di adeguamento dell’attuale impianto ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 209/2003, impianto che risulterebbe idoneo ad ottenere l’autorizzazione definitiva, titolo che tuttavia non è stato mai rilasciato; che anzi Roma Capitale, sin dal 2016, ha continuato a pretendere le garanzie fideiussorie e ha imposto anche la presentazione di un progetto definitivo (la ricorrente ha presentato un progetto per la delocalizzazione di Casal Selce, località indicata dal Comune e mai effettivamente assegnata).
Nelle more, l’istante ha svolto la propria attività, come detto, sulla base di titoli provvisori, rilasciati dapprima dal Commissario Straordinario per l’emergenza rifiuti a Roma e dalla Provincia e quindi da Roma Capitale (una volta cessato il regime commissariale del 2013).
Inopinatamente e inaspettatamente -deduce la società esponente in ricorso- il Dipartimento Tutela Ambientale Direzione Rifiuti Risanamenti e Inquinamenti – U.O. Rifiuti e Risanamenti ha adottato la determina n. QL315/2018 dell’01.03.2018, con la quale ha richiesto in tempi brevi la presentazione di un progetto definitivo di impianto per l’area attuale, ai fini dell’approvazione ai sensi dell’art. 208 D.Lgs. 152/2006.
...
2. Il ricorso non può essere accolto.
3. Il Collegio ritiene utile, in primo luogo, riepilogare la normativa applicabile alla fattispecie in esame.
Il più volte citato art. 208 del D.lgs. n. 152/2006, al primo comma, recita che “I soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare apposita domanda alla regione competente per territorio, allegando il progetto definitivo dell'impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica. Ove l'impianto debba essere sottoposto alla procedura di valutazione di impatto ambientale ai sensi della normativa vigente, alla domanda è altresì allegata la comunicazione del progetto all'autorità competente ai predetti fini (...)”.
Al comma quarto il medesimo articolo stabilisce che “Entro novanta giorni dalla sua convocazione, la Conferenza di servizi: a) procede alla valutazione dei progetti; b) acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall'articolo 177, comma 4; c) acquisisce, ove previsto dalla normativa vigente, la valutazione di compatibilità ambientale; d) trasmette le proprie conclusioni con i relativi atti alla regione”.
Con l’art. 6, comma 2, lettere b) e c), della L.R. n. 27/1998 la Regione Lazio ha delegato ai Comuni “b) l'approvazione dei progetti degli impianti per lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti provenienti dalla demolizione degli autoveicoli a motore e rimorchi, dalla rottamazione dei macchinari e delle apparecchiature deteriorati ed obsoleti e la relativa autorizzazione alla realizzazione degli impianti, nonché l'approvazione dei progetti di varianti sostanziali in corso di esercizio e la relativa autorizzazione alla realizzazione;” e “c) l'autorizzazione all'esercizio delle attività di smaltimento e recupero dei rifiuti di cui alle lettere a) e b)”.
Ne discende, pertanto, che nel caso di specie l’amministrazione procedente è correttamente Roma Capitale.
Occorre, infine, rammentare l’art. 177, comma 4, del D.lgs. n. 152/2006, richiamato dal su citato art. 208, ai sensi del quale “I rifiuti sono gestiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare: a) senza determinare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, nonché per la fauna e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori o odori; c) senza danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse, tutelati in base alla normativa vigente”.
4. Secondo la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio dell’autorizzazione definitiva.
Nella specie, come emerge dalla parte motiva della determina impugnata, nell’ambito della conferenza sono stati valutati gli aspetti urbanistici ed ambientali, le cui risultanze non potevano che condurre ad un esito negativo per assenza dei predetti requisiti.
4.1. In detto provvedimento viene riportato il parere del Dipartimento PAU, il quale ha rilevato che il sito ricade in un’area con la seguente destinazione di PRG: Sistema Insediativo, Citta della Trasformazione, Ambiti a Pianificazione Particolareggiata definita, di all’art. 62 delle N.T.A. di P.R.G. vigente, in quanto risulta inserita nel Piano Particolareggiato di Zona “O” P.P. n. 12- Casalotti Mazzalupo, approvato con Deliberazione di Giunta Regionale n. 536 del 04/08/2006.
Nell’elaborato Tav. B del P.T.P.R. – Beni paesaggistici del Piano territoriale Paesistico Regionale, l’area presenta il seguente Bene Paesaggistico: Protezione dei corsi delle acque pubbliche, di cui all’art. 35 delle N.T.A. di P.T.P.R., denominato “Fosso della Magliana di Maglianella, di S. Spirito e della Palmarola”. Pertanto, considerata l’inclusione dell’area nel perimetro del Piano Particolareggiato denominato “Casalotti Mazzalupo”, avente destinazione a Zona di Conservazione, Completamento e nuova Edificazione residenziale, non residenziale e Mista, e minima parte destinata a Verde Pubblico e il contesto edilizio circostante, si è ritenuto che la localizzazione di un impianto di autodemolizione risultasse non compatibile.
Il Dipartimento PAU, inoltre, ha evidenziato che non risultava dimostrata la legittimità della preesistenza dell’impianto.
4.2. Inoltre, l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere ha elaborato un’analisi di dettaglio, dalla quale si desume che l’impianto ricade all’interno di un “corridoio ambientale”, per cui viene dichiarato non compatibile con la pianificazione di bacino, “poiché per la sua tipologia non persegue le finalità PS5 Piano di Bacino del fiume Tevere – Piano stralcio per il tratto metropolitano del Tevere da Castel Giubileo alla foce”.
4.3. Quanto agli aspetti ambientali, ARPA Lazio ha evidenziato che il progetto risulta incompleto degli elementi necessari rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente e, in particolare, dall’art. 208 del D.Lgs. 152/2006 e dal D.Lgs. 209/2003, specificando il dettaglio delle carenze riscontrate nella documentazione progettuale.
4.4. La Regione Lazio, nel parere relativo alla Valutazione di Impatto Ambientale ha rilevato la necessità che la documentazione fosse integrata con elementi fondamentali a valutare l’assoggettabilità a VIA.
4.5. La Città Metropolitana di Roma Capitale ha poi sostenuto che devono essere sottoposte a trattamento depurativo non soltanto le acque di prima pioggia, ma tutte le acque meteoriche di dilavamento, così come previsto dalla Circolare del Ministero dell’Ambiente prot. 4084 del 15/03/2018, recante “Linee Guida per la gestione Operativa degli Stoccaggi negli impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”, qualora vi siano depositi di rifiuti sui piazzali scoperti, concludendo che l’autorizzazione allo scarico in copro idrico delle sole acque di prima pioggia rilasciata a favore della Società con D.D. R.U. 4249 del 06/10/2017 non potesse più ritenersi esaustiva.
Per quanto concerne le emissioni in atmosfera, essa ha rilevato la carenza della documentazione integrativa richiesta alla Società.
5. Deve considerarsi che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, VI, 11.06.2012, n. 3401; Consiglio di Stato, VI, 15.06.2011, n. 3644).
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (cfr. TAR Lazio, Roma, II-quater, 30.10.2018, n. 10466).
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie, alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo.
5.1. Il parere nel caso in esame è di segno negativo.
6. In ogni caso occorre evidenziare che il provvedimento gravato è un atto plurimotivato in quanto basato su molteplici ragioni.
Secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, in presenza di provvedimenti con motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr. Cons. St., V, 10.03.2009 n. 1383; Cons. St., V, 28.12.2007, n. 6732; Tar Campania, Napoli, VII, 28.07.2014, n. 4349; Tar Campania, Napoli, VII, 09.12.2013 n. 5632).
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. Cons. St., IV, 05.02.2013, n. 694; Cons. St., IV, 08.06.2007 n. 3020; Tar Campania, Napoli, III, 09.02.2013, n. 844; Tar Campania, Napoli, II, 15.01.2013, n. 304).
6.1. Fatte queste premesse, deve considerarsi che, come si è evidenziato in precedenza, il diniego di autorizzazione definitiva relativo all’impianto gestito dalla ditta ricorrente, in cui si sostanzia la conclusione negativa del procedimento di autorizzazione ai sensi dell'art. 208 del dlgs 152/2006 e ss.mm.ii. di cui alla determina qui impugnata, si fonda in primo luogo sull’incompatibilità urbanistica dell’impianto stesso, profilo, che, all’esito dello scrutinio eseguito in questa sede, è risultato esente da vizi.
7. Deve poi sottolinearsi che non può ritenersi sussistente alcun tipo di affidamento in capo alla ricorrente circa la localizzazione dell’impianto, proprio in quanto la stessa ha sempre operato in forza unicamente di autorizzazioni provvisorie che non sono idonee a legittimarne l’ubicazione.
Dal che la piena legittimità del provvedimento impugnato.
8. Né può ritenersi un’invalidità dell’atto per effetto dell’inerzia palesata dalle amministrazioni comunale e regionale nel provvedere alla delocalizzazione.
8.1. Al riguardo, sotto un primo profilo, deve evidenziarsi come gli stessi titolari degli impianti di autodemolizione potevano attivarsi al fine di ottenere l’adempimento dell’accordo di programma e dunque sollecitare nelle dovute sedi e con gli opportuni strumenti (anche giudiziali) gli enti che rimanevano inerti.
8.2. Sotto altro profilo, una eventuale responsabilità potrà essere fatta valere, se del caso e laddove sussistente in tutti i suoi elementi costitutivi, in altra e separata sede, non potendo tuttavia ridondare l’inadempimento dell’amministrazione quale motivo di illegittimità dell’odierno provvedimento.
9. Resta fermo come sia auspicabile la doverosa conclusione del procedimento di delocalizzazione degli impianti che risultino ubicati in aree incompatibili, perché aventi una diversa destinazione urbanistica o perché gravati da vincoli statali di natura paesaggistica o archeologica.
Sia il D.Lgs. 209/2003, sia l’art. 6-bis introdotto dalla LR n. 13/2018 nella LR n. 27/1998, sollecitano una rilocalizzazione degli impianti in quanto solo in questo modo si può addivenire ad una disciplina di settore che contemperi le esigenze pubbliche con quelle economiche e produttive delle attività.
E del resto i principi di efficienza, buon andamento ed efficacia dell’azione amministrativa inducono ad una celere definizione della annosa vicenda de qua, la quale paralizza sine die le attività di trattamento dei veicoli fuori uso e/o di trattamento dei rifiuti metallici ferrosi e non ferrosi che, seppure private e con finalità di lucro sono comunque funzionali anche ad esigenze di smaltimento di rifiuti e sanitarie del territorio metropolitano.
10. Né possono accogliersi le doglianze mosse dal ricorrente, segnatamente sotto il profilo procedimentale.
11. Quanto alla dedotta violazione del contraddittorio procedimentale (art. 10-bis e 14 ss. Legge 241/1990), si tratta, con tutta evidenza, di mere irregolarità emendabili ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 2, Legge 241/1990, che non possono condurre a ritenere il contenuto sostanziale dell’atto illegittimo.
11.1. Peraltro il privato aveva partecipato agli sviluppi della conferenza; ergo non si può dire che la determina finale sia un sorta di atto “a sorpresa” (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 10.02.2020 n. 1780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2020

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Primo aggiornamento 2020 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 21.01.2020 n. 574).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.01.2020 n. 16 "Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance" (D.P.C.M. 02.12.2019 n. 169).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo in area vincolata – Sbancamento e livellamento del terreno per uso non agricolo – Autorizzazione paesaggistica – Permesso di costruire – Necessità – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 3, 10 44, D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Così come per la realizzazione di una stradina di accesso al fondo, è del pari evidente la necessità del permesso di costruire, essendo la costruzione di reti viarie, sia pur in terra battuta, riconducibile agli interventi di urbanizzazione (art. 3, comma 1, lett. e.2, T.U.E.) ovvero infrastrutturali che comportano la trasformazione in via permanente di suolo inedificato (art. 3, comma 1, lett. e.3, T.U.E.), come pure si è ritenuto nel caso di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio.
Del resto, il permesso di costruire (come pure l’autorizzazione paesaggistica, se si tratti di area vincolata) è necessario anche nel caso di mera modificazione o allargamento di una strada preesistente
(Cass. Sez. 3, n. 26193 del 28/03/2019, Vullo).

...
Interventi in zone protette e/o vincolate – Titoli abilitativi – Autonomia dei profili paesaggistici ed ambientali da quelli urbanistici – Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata – Individuazione – Evidente insignificante impatto paesaggistico – D.P.R. n. 31/2017 – Art. 149 d.lgs. n. 42/2004.
Le previsioni contenute nel d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), avendo natura regolamentare rispetto alle disposizione di legge di cui al d.lgs. 42/2004, individuano, tra l’altro, interventi che non richiedono la necessità dell’autorizzazione paesaggistica, o per loro riconducibilità alle tre categorie delineate dall’art. 149 d.lgs. 42/2004, ovvero perché, già in astratto, ne è evidente l’insignificante impatto paesaggistico.
Tenendo, comunque, presente che la realizzazione di interventi in zone protette e/o vincolate deve di regola essere sottoposta al preventivo rilascio di distinti provvedimenti, ciascuno dei quali segue regole proprie, vale a dire il permesso di costruire (o altro titolo edilizio) disciplinato dal T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e l’autorizzazione paesaggistica di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (eventualmente, se ne ricorrano le condizioni, il nulla osta dell’ente parco, di cui alla L. 06.12.1991 n. 394), stante l’autonomia dei profili paesaggistici ed ambientali da quelli urbanistici
(Corte di Cassazione, Sez. III poenale, sentenza 14.01.2020 n. 1053 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate – Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22, 37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincolo, ai fini della configurabilità del reato paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra elementi ambientali ed antropici che caratterizza il paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla disciplina di settore, con la conseguenza che anche interventi non esternamente visibili, quali quelli interrati, possono determinare una alterazione dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio tecnico regionale.

...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo paesaggistico – Interventi “precari”, opere facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il bene protetto – Causazione di un danno – Necessità – Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo l’interesse protetto, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi “precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili interrati.

...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate – Incidenza del principio di offensività – Natura di reato di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza  09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi, il Tar traccia i confini tra accertamento di conformità paesaggistica e urbanistica. I due procedimenti hanno effetti diversi sulle ordinanze di demolizione.
A volte si crea confusione tra l'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica -disciplinata dall'art. 167 del DLgs n. 42/2004- e l'istanza di accertamento di conformità -ex art. 31 comma 3, del d.P.R. 380/2001.
Con la sentenza in commento (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34) il giudice amministrativo interviene sull'argomento fornendo alcuni utili chiarimenti.
Tutto nasce con l'ispezione dei Vigili
A seguito di un sopralluogo, il Comando della Polizia Municipale accerta la realizzazione abusiva di un manufatto, da parte del conduttore del fondo, che aveva realizzato un manufatto di circa 45 mq adibito a residenza del custode dell'area.
Il Comune ordina la demolizione delle opere abusivamente realizzate ed il ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dalla notifica dell'ordinanza, avvertendo che, in caso di non ottemperanza, avrebbe provveduto all'acquisizione dell'area ai sensi dell'art. 31, co. 3, del d.P.R. 380/2001.
Il destinatario del provvedimento presenta richiesta di accertamento di conformità della compatibilità paesaggistica ed impugna l'ordinanza comunale dinanzi al Tar.
La tesi del ricorrente
Il conduttore del fondo ritiene che l'istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica (ex art. 167, DLgs n. 42/2004) produca gli stessi effetti della domanda di accertamento di conformità (ex art. 36 Dpr 380/2001) rendendo inefficace l'ordinanza di demolizione.
Di conseguenza, a suo parere, l'amministrazione avrebbe dovuto rigettare con un atto formale l'istanza di compatibilità paesaggistica, emettere una nuova ordinanza di demolizione, a cui il cittadino avrebbe potuto uniformarsi senza incorrere nella ulteriore (e più grave) sanzione dell'acquisizione.
Il Tar rigetta il ricorso Il Tar Campania ritiene che la tesi del ricorrente sia priva di fondamento.
In primo luogo, il giudice amministrativo sottolinea che la parte non ha provato di aver presentato l'istanza di sanatoria ex art. 36, Dpr n. 380 del 2001. Risulta invece presentata (solo) l'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica (ex art. 167, DLgs n. 42/2004).
Il giudice amministrativo ricorda che le due procedure hanno effetti diversi e che l'istanza di compatibilità paesaggistica non produce alcun effetto rispetto all'ordinanza di demolizione.
L'istanza di sanatoria sospende l'ordinanza
Il Tar ricorda che la domanda di sanatoria (art. 36 del Dpr n. 380/2001) si limita a sospendere l'ordinanza di demolizione per un periodo di tempo di 60 giorni; decorso tale termine, sull'istanza si considera formato il silenzio-rigetto che la parte può decidere di impugnare.
Tale tesi troverebbe il proprio fondamento in alcuni precedenti dello stesso giudice amministrativo (Tar Napoli sez. III, 02.04.2015, n. 1982; Consiglio di Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1951; Tar Napoli sez. III, 02.12.2014, n. 6302).
L'accertamento di compatibilità paesaggistica
L'art. 167, comma 4, del DLgs n. 42/2004 prevede che possa essere accertata la compatibilità paesaggistica:
   (a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   (b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   (c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del Dpr n. 380/2001.
L'art. 167, comma 5, prevede che, a fronte di una istanza del richiedente, l'autorità competente (la stessa titolare della competenza al rilascio di autorizzazione paesaggistica) si determini entro 180 giorni acquisendo il parere favorevole della Commissione Paesaggio ed il parere vincolante della Soprintendenza (reso entro 90 giorni perentori). Ove l'accertamento sia favorevole, si applica una sanzione amministrativa; ove l'accertamento sia negativo, si applica la rimessione in pristino.
La presentazione dell'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica non incide sull'efficacia o sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione precedentemente emanata, determinando soltanto la temporanea sospensione della sua esecuzione.
Si tratta di nuova opera
Sostanzialmente il cittadino ha realizzato un intervento edilizio rientrante nel quadro delle "nuove opere", disciplinato dall'art. 3, comma 1, lett. e), Dpr 380/2001; tale intervento deve essere considerato abusivo in quanto realizzato in assenza del preventivo ottenimento di un permesso di costruire. L'abuso, di conseguenza, è stato legittimamente sanzionato dal comune con una ordinanza di demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell'art. 31 del Testo Unico.
Occorre evidenziale che opera, ricadente in area sottoposta a vincolo, non solo è stata realizzata in assenza del prescritto PdC, ma anche in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo sotto il profilo paesaggistico.
Irrilevante il trascorrere del tempo
Il ricorrente sfodera il proprio asso nella manica: a suo avviso l'opera sarebbe stata realizzata da oltre un decennio senza alcuna contestazione da parte dell'amministrazione. Il trascorrere del tempo, accompagnato all'inerzia dell'amministrazione, avrebbe ingenerato nel privato la convinzione della legittimità dell'intervento.
In tale circostanza, secondo il ricorrente, il Comune avrebbe potuto disporre la demolizione delle opere solo comparando l'interesse del privato al mantenimento dell'opera con l'interesse pubblico alla sua demolizione. L'ordine di demolizione, inoltre, avrebbe dovuto specificare la prevalenza dell'interesse pubblico rispetto a quello del privato cittadino.
Anche questo profilo viene respinto dal giudice amministrativo. L'ordine di demolizione è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati; non sarebbe configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Tar Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; Tar Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; Tar Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
Il Tar ricorda che l'Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato, A.P., 17.10.2017, n. 9; Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2017 n. 908) ha chiarito che il decorso del tempo non priva la Pa del potere di adottare l'ordinanza di demolizione, ma, al massimo, determina la responsabilità del dirigente (articolo Edilizia e Territorio del 13.01.2020).
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SENTENZA
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori.
...
Orbene, in disparte i profili di inammissibilità della censura che appare più propriamente da riferire al silenzio-rifiuto formatosi sulle istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica e di conformità urbanistica, silenzio tuttavia rimasto inoppugnato, decisivo è il rilievo che parte ricorrente non ha offerto adeguata prova (come era suo onere) della c.d. doppia conformità urbanistica, sia al momento della realizzazione dello stesso, che al momento della presentazione dell’istanza per la sua sanatoria, (non avendo, certo, l’Autorità urbanistica alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità dell’opera abusiva, prima di ingiungerne la demolizione), né la natura pertinenziale dell’intervento realizzato (abitazione del custode), dovendo, senz’altro, escludersi a priori che nel nostro ordinamento positivo vi sia posto per un c.d. abuso di necessità.
Trattasi, all’evidenza, di intervento di nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. e), d.P.R. 380/2001, realizzato in assenza di permesso di costruire previsto dall’art. 22, da sanzionarsi unicamente con la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi del successivo art. 31.
Inoltre le argomentazioni dei ricorrenti non tengono conto che essi hanno realizzato una nuova opera (“manufatto in muratura delle dimensioni di circa m. 7 x mt. 6,40 ed altezza variabile da mt. 3,20 a mt. 2,85 (……..)”, completo di intonaci, infissi ed impianti), in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo sotto il profilo paesaggistico, in zona interessata da una pluralità d vincoli puntualmente elencati nell’ordinanza impugnata alla quale si rinvia, sul punto richiamandosi la giurisprudenza di questa Sezione per la quale; <<I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
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Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua realizzazione risulta non databile, nulla al riguardo, i ricorrenti avendo provato, decisivo è il rilievo che, in materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso. Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>.

EDILIZIA PRIVATAL’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004, quanto alle conseguenze della mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato: in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione, con indirizzo ormai consolidatosi, ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione.
Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio.
In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego.
Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori.
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Ciò posto con la prima censura si deduce l’illegittimità o l’inefficacia dell’impugnata ordinanza di demolizione stante l’intervenuta proposizione nei termini di legge dell’istanza di accertamento ex art. 167, D.L.vo 42/2004, con sospensione del procedimento amministrativo sanzionatorio fino alla decisione dell’istanza in sanatoria, al riguardo rilevandosi che, per costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, la proposizione nei termini della richiesta ex art. 36 D.P.R. 380/2001 come anche quella di quella ex art. 167 su citato, hanno come conseguenza giuridica implicita, di spostare l'interesse del soggetto colpito da ordinanza di demolizione, dal provvedimento stesso alla decisione della P.A. sull'istanza avanzata.
Secondo parte ricorrente, corollario di tale condivisibile assunto è che viene fatto carico alla P.A., dopo l'eventuale diniego di sanatoria, di procedere nuovamente all'irrogazione della primigenia sanzione, onde consentire alla parte di ottemperare all'ingiunzione senza incorrere nell' acquisizione.
Nella specie, essendo intervenuta nei termini un'istanza di accertamento, l'ordine di demolizione irrogato con il provvedimento impugnato, dovrebbe essere considerato sospeso di diritto fino alla decisione del Comune sull'istanza avanzata dalla parte, e comunque sarebbe divenuto inefficace.
La censura è priva di fondatezza.
Al riguardo, in disparte che non risulta provata da parti ricorrenti la presentazione e la pendenza dell’istanza di sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004 allegata al ricorso, quanto alle conseguenze della mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato: in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio - rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
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Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

anno 2019
ottobre 2019

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
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La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
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1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
...
16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo, contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo 142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso. Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico, tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n. 2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

settembre 2019

ATTI AMMINISTRATIVIConferenza di servizi, il Comune non può opporsi davanti la presidenza del Consiglio dei Ministri.
È esclusa la legittimazione dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri opposizione in base all'articolo 14-quinquies, della legge 241/1990 a tutela di interessi cosiddetti «sensibili» (tutela dell'ambiente, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini) in quanto la norma si riferisce a pareri di amministrazioni «preposte» esclusivamente alla tutela di detti interessi.
Tuttavia, poiché non può escludersi l'ipotesi che siffatta legittimazione sia attribuita da norme speciali, statali o regionali, è necessario che la presidenza del Consiglio dei ministri, ogni qual volta pervenga un'opposizione comunale, «dovrà effettuare […] una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di dette norme».

Questi i termini in cui il Consiglio di Stato -Sez. I- ha risposto, con il parere 30.09.2019 n. 2534, a due quesiti proposti da palazzo Chigi in ordine alla possibilità per le amministrazioni comunali di attivare lo strumento dell'opposizione previsto dall'articolo 14-quinquies, introdotto dal Dlgs 127/2016 «Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi».
Possibilità che i magistrati di palazzo Spada hanno escluso perché ciò «finirebbe per complicare il quadro regolatorio di riferimento e per rallentare, anziché snellire i procedimenti, in evidente contraddizione con la ratio sottesa alla riforma», che persegue «la deflazione del carico gravante sul consiglio dei ministri».
Fermo restando che a sfavore di questa possibilità militano le previsioni della disciplina di settore (codice dell'ambiente, testo unico degli enti locali, testo unico in materia edilizia e urbanistica, codice dei beni culturali e del paesaggio e testo unico delle leggi sanitarie) da cui si evince che l'ente locale non possiede né gli strumenti, né le competenze per svolgere «in proprio» le funzioni oggetto di questa disciplina (Consiglio di Stato, sentenza 15.12.2011, n. 6612).
Senza considerare che la legittimazione ad agire «non implica affatto il riconoscimento di una corrispondente competenza di amministrazione attiva comunale in quelle materie e su quegli interessi».
Cornice normativa
L'articolo 14-quinquies prevede:
   • l'inversione del potere di opposizione: se prima della riforma del 2016 spettava all'amministrazione procedente il ricorso al consiglio dei ministri per superare i dissensi proposti in sede di conferenza di servizi dai titolari degli interessi sensibili, attualmente questo potere spetta alle amministrazioni dissenzienti;
   • la proposizione dell'opposizione sospende l'efficacia della determinazione conclusiva della conferenza;
   • l'opposizione deve essere proposta entro dieci giorni dalla comunicazione della determinazione conclusiva, sempre che il dissenso sia stato espresso «in modo inequivoco prima della conclusione dei lavori della conferenza
»;
   • qualora le amministrazioni giungano ad un accordo, non è più necessaria la presa d'atto del Consiglio dei ministri, ma i contenuti dell'accordo sono trasmessi all'amministrazione procedente, che li assume nel nuovo provvedimento di conclusione della conferenza.
Il parere di palazzo Spada
Il Consiglio di Stato ha invitato il Governo ad accertare che la norma invocata dai Comuni «a supporto» dell'opposizione attribuisca agli stessi il potere di pronunciare «pareri o atti di assenso comunque denominati in conferenze di servizi per progetti, interventi o attività da approvare o autorizzare».
Non a caso l'alto Collegio ha segnalato, a titolo esemplificativo, la legge della Regione Piemonte 42/2020, che ha delegato ai Comuni le funzioni in materia di bonifica dei siti inquinati, di approvazione del progetto e di autorizzare degli interventi previsti, nonché in tema di realizzazione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale.
Legge che non appare «rilevante e risolutiva» ai fini della proponibilità dell'opposizione in base all'articolo 14-quinquies in quanto pone il Comune delegato nella posizione di «autorità procedente» e non di autorità titolare di questa funzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.11.2019).

EDILIZIA PRIVATAOpposizione alla decisione assunta in sede di conferenza di servizi dalle Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
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Conferenza di servizi – Dissenso - Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità - Individuazione.
Le Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241 del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990- in quelle amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui all’art. 13, d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale (1).
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   (1) La Sezione ha affermato la tesi che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241 del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili”.
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare” tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”, con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente tecnico-scientifiche (art. 17, comma 2, l. n. 241 del 1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost..
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e, in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art. 14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle coordinate ermeneutiche qui elaborate.
Ha poi affermato la sezione che la “preposizione” di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme speciali.
Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17, l. n. 241 del 1990, che distingue e qualifica in termini “
forti”, rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo, un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art. 14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi. Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art. 14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal comma 2 dell’art. 17 della stessa l. n. 241 del 1990, “preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”, le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.) utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma (di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente deputate alla cura di determinati interessi sensibili (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 30.09.2019 n. 2534 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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parere
OGGETTO: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per il coordinamento amministrativo. Richiesta di parere sulla “Legittimazione del comune dissenziente a proporre opposizione avverso la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, ai sensi dell'articolo 14-quinquies, della legge 07.08.1990, n. 241, come introdotto dall'articolo 7 del decreto legislativo 30.06.2016, n. 127.
...
Premesso:
1. Riferisce l’Amministrazione richiedente che le pervengono numerose opposizioni, ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, formulate da amministrazioni comunali a vario titolo chiamate ad esprimersi in seno a conferenze di servizi aventi ad oggetto impianti od opere da autorizzare da parte di amministrazioni prevalentemente regionali (ad es., impianti di smaltimento di rifiuti, impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile, opere di mitigazione del rischio idrogeologico, etc.), sicché è emersa la questione della possibilità, per le amministrazioni comunali che hanno manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi di primo livello, di attivare lo strumento dell’opposizione davanti al Consiglio dei ministri previsto dall’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, come introdotto dal decreto legislativo n. 127 del 2016.
2. Dopo aver raffrontato il nuovo regime introdotto dalla riforma del 2016 con quello previgente e dopo aver illustrato le opposte tesi che sono state al riguardo prospettate –dichiarando di optare per la tesi negativa– la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha posto i seguenti due quesiti:
2.a. In linea generale, se le amministrazioni comunali possano a pieno titolo rientrare tra i soggetti deputati alla cura di taluni interessi sensibili e, dunque, risultare conseguentemente legittimate a sollevare opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990;
2.b. con particolare riguardo al procedimento AIA, se valgano le eventuali stesse limitazioni di cui al punto A oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
Considerato:
1. Anticipando (in estrema sintesi) il risultato dell’indagine, è parere della Sezione -riguardo al primo quesito, di carattere generale- che sia sostanzialmente da condividersi la tesi, sostenuta da codesta Presidenza del Consiglio, che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili” (ossia, secondo il testo qui pertinente del medesimo art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, gli interessi di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini”).
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare” tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”, con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente tecnico-scientifiche (cfr. art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 della Costituzione.
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e, in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art. 14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle coordinate ermeneutiche qui elaborate.
2. Fatta questa premessa chiarificatrice e precisante, ritiene la Sezione, come anticipato, che un primo criterio orientativo per la soluzione del quesito si rinvenga nella stessa lettera della disposizione oggi recata dal testo dell’art. 14-quinquies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, che attribuisce il potere di proporre opposizione dinanzi al Consiglio dei Ministri avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza alle “amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza).
Il participio “preposte”, infatti, riveste un suo significato proprio, idoneo a designare non già una generica e generale rappresentanza di interessi riconoscibile sul piano politico all’ente territoriale, ma una specifica e puntuale attribuzione normativa di competenza amministrativa, di solito caratterizzata da una netta connotazione tecnica, in favore di determinati enti e plessi amministrativi, che presentano sotto questo profilo un’apposita specializzazione nella cura di determinati interessi “sensibili” (tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini).
3. In prima approssimazione e in sintesi, può ritenersi che la “preposizione” di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme speciali.
4. Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che distingue e qualifica in termini “forti”, rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo, un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art. 14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi. Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art. 14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal comma 2 dell’art. 17 della stessa legge n. 241 del 1990, “preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”, le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.) utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma (di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente deputate alla cura di determinati interessi sensibili.
5. Conforta la tesi negativa anche la considerazione della “storia” recente della disciplina della conferenza di servizi, anteriormente alla riforma del 2016, che aiuta altresì a penetrare la ratio dell’istituto: come bene evidenziato anche nella richiesta di parere, nel regime anteriore alla riforma del 2016 (si veda l’antevigente art. 14-quater, comma 3), era inconfigurabile un potere del Comune di provocare l’esame dell’affare da parte del Consiglio dei Ministri facendo valere un interesse “sensibile” oppositivo alla realizzazione del progetto.
Il “ricorso” a questo rimedio era infatti riservato, in termini speculari rispetto al regime attuale, non già all’amministrazione contraria alla conclusione positiva della conferenza, bensì all’amministrazione procedente che intendesse superare il parere negativo di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini, parere negativo che determinava un effetto ostativo alla conclusione positiva della conferenza e impeditivo dell’approvazione del progetto, dinanzi al quale l’amministrazione procedente, interessata invece alla conclusione positiva della conferenza, non aveva altro rimedio se non la rimessione dell’affare alla sede “politica” del Consiglio dei Ministri.
6. La competenza del Consiglio dei Ministri (che si esprime in un atto di alta amministrazione connotato da discrezionalità amministrativa, in veste quasi sostitutiva della ordinaria sede tecnico-discrezionale: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2012, n. 3039: Id., 15.01.2013, n. 220; sez. IV, 12.06.2014, n. 2999; sez. VI, 04.02.2014, n. 505, sez. IV, 24.08.2017, n. 4062; Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 12.07.2019, n. 18829) “scattava” dunque solo a fronte di un parere negativo vincolante, non ordinariamente superabile, opposto da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini. E dunque, nel sistema della conferenza di servizi antevigente alla riforma introdotta dal decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 in attuazione dell’articolo 2 della legge di delega 07.08.2015, n. 124, la competenza sussidiaria del Consiglio dei Ministri poteva attivarsi solo se “innescata” (indirettamente) da un’amministrazione titolare di un siffatto potere di “veto”, ossia di pronuncia di un parere (o di un diniego di un atto di assenso) vincolante (in senso negativo) l’esito del procedimento.
Orbene, in quel sistema ai Comuni non sembra sia stato mai riconosciuto un siffatto potere di veto tramite un parere negativo vincolante a tutela dei ripetuti interessi “sensibili” (l’art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241 del 1990 nel testo antevigente alla riforma del 2016 prevedeva che “ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, che ha natura di atto di alta amministrazione”; la norma peraltro contemplava espressamente il caso del dissenso motivato “espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza”, ma non considerava il caso di dissenso manifestato da un Comune).
7. La ratio della riforma di cui al d.lgs. n. 127 del 2016 -che ha ribaltato quel sistema, privilegiando l’esito positivo della conferenza di servizi e onerando della rimessione dell’affare al Consiglio dei Ministri non più l’amministrazione procedente, ma quella preposta alla tutela di interessi sensibili il cui parere negativo sia stato giudicato superabile nel meccanismo di prevalenza quali-quantitativa che caratterizza il modulo decisionale della conferenza di servizi– risiede nello snellimento e nell’accelerazione dei procedimenti, con deflazione del carico gravante sul Consiglio dei Ministri, anche in considerazione del fatto che la rimessione dell’affare amministrativo alla suddetta sede “politica” (di alta amministrazione connotata da discrezionalità amministrativa e non più tecnica) dovrebbe costituire l’eccezione e non la regola, trattandosi pur sempre di una deroga alla regola generale di riserva del provvedimento di gestione agli organi amministrativi ordinari e non al vertice dell’indirizzo politico-amministrativo.
Sarebbe dunque paradossale una soluzione interpretativa che, ammettendo per la prima volta una tale competenza comunale di “veto” ostativo alla conclusione della conferenza di servizi per profili di tutela di interessi “sensibili” e la conseguente legittimazione a opporsi alla decisione favorevole dinanzi al Consiglio dei Ministri, finirebbe per complicare il quadro regolatorio di riferimento e per rallentare, anziché snellire i procedimenti, in evidente contraddizione con la ratio sottesa alla riforma.
8. Così fissate le linee argomentative generali che definiscono la logica di base del presente parere, occorre ora indagare più nel dettaglio l’ambito e la natura delle possibili competenze riconoscibili in capo ai Comuni nelle materie di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini: ed invero, come già preannunciato nel par. 1, la vastità e l’eterogeneità delle fonti di possibili attribuzioni di competenze comunali non consentono di enunciare in termini assoluti in questa sede una regola di necessaria esclusione della legittimazione comunale a proporre opposizione; una tale conclusione, come tratteggiata nei precedenti paragrafi, vale sicuramente in linea di massima, ma non esime dalla necessità di effettuare un approfondimento analitico caso per caso alla luce anche della specifica legislazione regionale applicabile.
La Sezione potrà, dunque, in questa sede solo dettare l’impostazione generale di tale indagine, ma essa, per la sua ampiezza, non potrà certo concludersi in termini esaustivi, residuando comunque uno spazio di ulteriore verifica caso per caso che dovrà necessariamente essere compiuta da codesta Presidenza nel singolo procedimento concreto.
8.1 Occorre in primo luogo operare una fondamentale distinzione, nell’ambito delle competenze degli enti locali, tra le funzioni così dette storiche, “proprie” e/o “fondamentali” [art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.; Corte cost., sentenze n. 179 del 2019, n. 160 del 2016, n. 378 del 2000, nn. 83 del 1997 e 286 del 1997], nonché le funzioni speciali attribuite da particolari norme, e la generale competenza di rappresentanza degli interessi della popolazione locale.
Al riguardo, come condivisibilmente annotato dalla Presidenza nella richiesta di parere, non va confuso l’ambito della legittimazione procedimentale e anche processuale (sotto il profilo della legittimazione a ricorrere dinanzi al Giudice amministrativo), riconosciuta al Comune in termini molto ampi a “tutela” di tutte le situazioni soggettive di carattere collettivo e di interesse generale locale facenti capo alla comunità territoriale rappresentata, con l’attribuzione specifica (preposizione) di competenze “tecniche” di tutela di particolari beni-interessi pubblici.
È noto e incontroverso che è consentito, ad esempio, ai Comuni di impugnare dinanzi al Giudice amministrativo provvedimenti dell’autorità statale o regionale che, operando una riorganizzazione territoriale degli uffici, possano determinare una riduzione della prestazione dei servizi offerti a livello comunale (si pensi ai noti e numerosi casi di chiusura di strutture sanitarie pubbliche, di posti di polizia, di uffici postali, di uffici giudiziari, di plessi scolastici, etc.), ma non si è mai per questo sostenuto che i Comuni fossero titolari di una corrispondente funzione amministrativa propria di tutela (sanitaria, di pubblica sicurezza, in materia postale, giudiziaria, scolastica, etc.).
La legittimazione dei Comuni a impugnare atti e provvedimenti di altre amministrazioni (soprattutto statali) storicamente è stata sempre ammessa sulla base della previsione generale (poi rifluita nell’art. 26 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato di cui al regio decreto n. 1054 del 1924) che accordava il ricorso a tutti gli “individui o enti morali giuridici” titolari di un interesse che fosse oggetto di atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante.
Su questa base è stata sempre ripetuta in giurisprudenza la massima secondo cui al Comune, quale ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini, istituzionalmente legittimato a curarne e a difenderne gli interessi e a promuoverne lo sviluppo, deve riconoscersi la legittimazione ad agire contro tutti gli atti ritenuti in qualche modo lesivi di quegli interessi.
Ma tale legittimazione ad agire non implica affatto, evidentemente, il riconoscimento di una corrispondente competenza di amministrazione attiva comunale in quelle materie e su quegli interessi.
8.2. Operata questa fondamentale chiarificazione, occorre adesso richiamare il quadro costituzionale di riferimento per l’attribuzione delle funzioni agli enti locali territoriali.
L’art. 114, secondo comma della Costituzione, nel testo risultante dalla riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. L’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle materie “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”. L’art. 118, nei commi primo e secondo, stabilisce che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
8.3. A livello di legge ordinaria deve essere menzionato, benché sostanzialmente superato dalla riforma costituzionale del 2001, il decreto legislativo n. 112 del 1998 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15.03.1997, n. 59), che, all’art. 3 (Conferimenti alle regioni e agli enti locali e strumenti di raccordo), commi 1 e 2, anticipando per certi aspetti la riforma del titolo V della Costituzione, stabiliva che “Ciascuna regione, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 5, della legge 15.03.1997, n. 59, entro sei mesi dall'emanazione del presente decreto legislativo, determina, in conformità al proprio ordinamento, le funzioni amministrative che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale, provvedendo contestualmente a conferire tutte le altre agli enti locali, in conformità ai principi stabiliti dall'articolo 4, comma 3, della stessa legge n. 59 del 1997, nonché a quanto previsto dall'articolo 3 della legge 08.06.1990, n. 142” e che “2. La generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è attribuita ai comuni, alle province e alle comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo 4, comma 3, della legge 15.03.1997, n. 59, secondo le loro dimensioni territoriali, associative ed organizzative, con esclusione delle sole funzioni che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale”.
8.4. Viene dunque in rilievo soprattutto il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, il quale stabilisce, all’art. 3, commi 2 e 5, che “2. Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo” e che “5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”.
L’art. 13 (Funzioni) prevede che “1. Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
L’art. 50, comma 5, prevede poi il potere del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale (o in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche).
L’art. 112 (Servizi pubblici locali) prevede che “1. Gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”.
8.5. L’art. 11 della legge 05.05.2009, n. 42 (recante Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione) prevedeva, tra i princìpi e criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, che i decreti legislativi attuativi del federalismo fiscale dovessero classificare le spese relative alle funzioni di comuni, province e città metropolitane, in: “1) spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, come individuate dalla legislazione statale; 2) spese relative alle altre funzioni”.
8.6. Il decreto legislativo 26.11.2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), all’art. 3, ha previsto che “fino alla data di entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province, le funzioni fondamentali ed i relativi servizi presi in considerazione in via provvisoria, ai sensi dell'articolo 21 della legge 05.05.2009, n. 42, sono: a) per i Comuni: 1) le funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della legge 05.05.2009, n. 42; 2) le funzioni di polizia locale; 3) le funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l'edilizia scolastica; 4) le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; 5) le funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell'ambiente, fatta eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; 6) le funzioni del settore sociale”, mentre le “funzioni nel campo della tutela ambientale” sono attribuite dal n. 5) della lettera b) del comma 1 alle Province.
8.7. Il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, all’art. 14 (Patto di stabilità interno ed altre disposizioni sugli enti territoriali), comma 27 (come modificato dall’art. 19 del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012), stabilisce che “sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica”.
9. Le norme, costituzionali e di legge ordinaria, sopra passate in rassegna, dimostrano che i Comuni in generale non sono preposti –nel senso tecnico e specifico del termine– ad alcuna delle funzioni di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
Naturalmente, secondo il disegno istituzionale chiaramente delineato nell’art. 118 Cost., la legge nazionale e la legge regionale, ciascuna per le materie rientranti nella rispettiva competenza legislativa, possono attribuire le funzioni amministrative, per assicurarne l'esercizio unitario, alle Regioni, alle Province, alle Città metropolitane, in attuazione dei principi di differenziazione e adeguatezza (che bilanciano e fanno da contrappeso al principio di sussidiarietà verticale).
Ne consegue, come già avvertito nei paragrafi 1 e 8, che la seguente disamina, che non può evidentemente spingersi fino alla verifica delle leggi regionali di tutte le Regioni, non può escludere del tutto il caso –per il quale si deve dunque lasciare aperto uno spazio ipotetico residuale– in cui le leggi regionali, nelle materie di competenza legislativa regionale (o in caso di delega delle funzioni di tutela prevista nella legge statale), possano aver attribuito talune competenze di tutela ai Comuni.
Si segnala, a mero titolo di esempio, la legge della Regione Piemonte n. 42 del 2000, che ha delegato ai Comuni le funzioni, in materia di bonifica dei siti inquinati, di approvazione del progetto e di autorizzare degli interventi previsti, nonché in tema di realizzazione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, che costituiscono sicuramente competenze di tutela ambientale.
E tuttavia, anche in un caso del genere, in cui si assiste a una delega regionale di funzioni di tutela ambientale in favore dei Comuni, occorre rilevare –come già chiarito nel par. 4, ultimo periodo- che una siffatta attribuzione non pare rilevante e risolutiva ai fini della proponibilità dell’opposizione al Consiglio dei Ministri ex art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché, a tal fine, si deve trattare non già di competenze “qualsiasi”, purché in materia di tutela ambientale, ma occorre che si tratti, evidentemente, di competenze a pronunciare pareri o atti di assenso comunque denominati in conferenze di servizi per progetti, interventi o attività da approvare o autorizzare. Nell’esempio proposto della legge regionale del Piemonte, invero, la tutela delegata in materia di bonifica dei siti inquinati pone il Comune delegato nella posizione di autorità procedente e non di autorità chiamata a rendere un parere o un atto di assenso comunque denominato, e dunque non rileva ai fini del presente quesito.
10. Fatte queste ulteriori considerazioni di carattere generale, che avvertono (nuovamente) della necessità che sia condotta caso per caso una verifica puntuale circa l’eventuale sussistenza di attribuzioni comunali, anche delegate, di funzioni di tutela di “interessi sensibili”, che si traducano nel potere di rendere pareri o atti di assenso comunque denominati (ma a particolare connotazione tecnica), occorre ora procedere a una disamina più di dettaglio con riguardo alla principale legislazione di settore nelle materie della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini.
10.1. Guardando alla “tutela ambientale”, occorre fare riferimento soprattutto al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale.
10.1.a. Volendo svolgere una rapida disamina dei principali istituti di tutela disciplinati in detto decreto legislativo, seguendo l’ordine del suo indice sommario, emerge in primo luogo che, in materia di V.I.A., di V.A.S. e di A.I.A., l’art. 7 prevede (comma 6) che “In sede regionale, l'autorità competente ai fini della VAS e dell'AIA è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome” e che (comma 7) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le competenze proprie e quelle degli altri enti locali in materia di VAS e di AIA”; l’art. 7-bis, analogamente, stabilisce per la V.I.A. (comma 5) che “In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome” e che (comma 8) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi o regolamenti l'organizzazione e le modalità di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di VIA, nonché l'eventuale conferimento di tali funzioni o di compiti specifici agli altri enti territoriali sub-regionali”.
Ai fini che qui interessano le eventuali attribuzioni ai Comuni di talune delle ora dette funzioni non parrebbero rilevanti sotto il profilo della legittimazione a proporre l'opposizione ex art. 14-quinquies, poiché si tratterebbe di funzioni di autorità precedente e non di autorità titolare di poteri di rendere atti di assenso comunque denominati. Tuttavia, nel caso in cui il Comune fosse delegato alla conclusione di un procedimento di valutazione di impatto ambientale, che si conclude con un atto che diviene presupposto per l’autorizzazione dell’intervento, non potrebbe evidentemente negarsi la legittimazione comunale ad opporsi nel caso in cui l’autorità che ha indetto la conferenza di servizi (ad es., la Provincia o la Regione) ritenga di poter superare la V.I.A. negativa e di poter comunque pervenire (non interessa qui se legittimamente o illegittimamente) a una conclusione favorevole della conferenza.
10.1.b. In materia di difesa del suolo l’art. 62 (Competenze degli enti locali e di altri soggetti) prevede che “1. I comuni, le province, i loro consorzi o associazioni, le comunità montane, i consorzi di bonifica e di irrigazione, i consorzi di bacino imbrifero montano e gli altri enti pubblici e di diritto pubblico con sede nel distretto idrografico partecipano all'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle regioni singolarmente o d'intesa tra loro, nell'ambito delle competenze del sistema delle autonomie locali”.
Sembra tuttavia che si tratti di competenze di tutela di regola concentrate in capo alle apposite Autorità di bacino distrettuale istituite per ciascun distretto idrografico.
10.1.c. In materia di tutela delle acque dall’inquinamento l’art. 75 (Competenze), comma 1, lettera b), stabilisce che “le regioni e gli enti locali esercitano le funzioni e i compiti ad essi spettanti nel quadro delle competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni statali”.
In tema di autorizzazione agli scarichi è dunque possibile che sussistano, in base alle pertinenti leggi regionali, attribuzioni comunali. Ma non sembra che tali funzioni autorizzatorie possano assumere la consistenza specifica e tecnica che è necessaria agli effetti del meccanismo della conferenza di servizi. L’eventuale diniego comunale sembra superabile con gli ordinari mezzi decisionali della conferenza di servizi e non può, dunque, dare ingresso a un potere comunale di opposizione dinanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
10.1.d. In materia di servizio idrico integrato e di gestione dei rifiuti il “codice ambiente” prevede sostanzialmente compiti gestionali dei relativi servizi, non compiti di tutela.
10.1.e. Neppure in materia di tutela dell’aria si rinvengono in capo ai Comuni specifici compiti di tutela, al di là del monitoraggio, di solito svolto in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente o con le Aziende sanitarie locali, in disparte i poteri di ordinanza
10.1.f. Le funzioni di tutela ambientale a livello locale sono state del resto tradizionalmente attribuite alle Province, enti territoriali di area vasta: il TUEL (d.lgs. n. 267 del 2000), all’art. 19, attribuisce alla provincia “le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; ... e) protezione della flora e della fauna parchi e riserve naturali; ... g) ... disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; h) servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale”. Tali attribuzioni non risultano peraltro escluse dalla legge 07.04.2014, n. 56 (recante Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni).
10.2. Guardando alla “tutela paesaggistico-territoriale”, essa, riferita [pur nell’improprietà lessicale della disposizione) alla tutela paesaggistica e non alla ordinaria “tutela” (recte: “vigilanza”) in materia edilizia e urbanistica (di cui al capo I del titolo IV - Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001), sicuramente spettante ai Comuni, ma irrilevante agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 qui in esame], deve osservarsi, come già rilevato, che, nel testo normativo speciale di riferimento, costituito dal codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, le “funzioni amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice” (art. 5, comma 6) e (art. 146, comma 6) “La regione esercita la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali. Può tuttavia delegarne l'esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia, in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite”.
In ogni caso, nel procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica è tuttora previsto il parere vincolante degli organi periferici ministeriali. Deve dunque escludersi che, tecnicamente, il Comune possa dirsi “preposto” alla tutela dei beni paesaggistici e del paesaggio, agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
10.3. Analoghe conclusioni devono a fortiori valere per le funzioni di tutela dei beni culturali, pacificamente riservate agli organi statali (art. 5 cit. e parte seconda, titolo primo, del codice di settore)
10.4. Riguardo alle funzioni di tutela della salute ritiene la Sezione che analoghe considerazioni debbano valere in relazione alle funzioni in materia di igiene e sanità riconosciute al Sindaco dagli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, in tema di lavorazioni insalubri, e al Comune dagli artt. 218 ss. stesso testo unico, in tema di igiene degli abitati urbani e rurali e delle abitazioni.
Come si chiarirà anche nei paragrafi 13 ss., a proposito del secondo quesito proposto da codesta Presidenza, tali poteri sindacali e comunali devono infatti essere correttamente inquadrati nel più ampio contesto normativo di riferimento, come si è evoluto ed è oggi vigente; essi, in particolare, in presenza di competenze statali e regionali fondate su titoli speciali di attribuzione normativa di tutela ambientale, devono ritenersi recessivi rispetto ai pareri e agli atti di assenso o di diniego provenienti dalle autorità tecniche, e ciò anche in relazione alle già richiamate previsioni dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che rendono non superabili (e imprescindibili) le valutazioni tecniche di organi od enti appositi richieste per l'adozione di un provvedimento allorquando tali valutazioni debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini, nonché in base al già richiamato (par. 8.4) art. 13 del TUEL (ove si precisa che spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, “salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”).
10.5. Sempre in materia sanitaria, non costituisce idonea preposizione ai fini dell’art. 14-quinquies in esame la norma, richiamata anche nella relazione della Presidenza del Consiglio, contenuta nell’art. 50, comma 5, del TUEL: essa prevede infatti un potere straordinario del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, potere però, come detto, straordinario e come tale inidoneo a fondare un titolo di preposizione specifica alla tutela ordinaria di quegli interessi; il potere sindacale de quo, invero, si pone ed opera “a valle” dell’ordinaria funzione di tutela sanitaria ed ambientale, quale rimedio “di chiusura” del sistema, per il caso in cui debba farsi fronte ad eventuali situazioni imprevedibili che, eccedendo il quadro dell’ordinarietà della gestione e cura di quegli interessi, richiedano interventi contingibili e urgenti per porre rimedio a eventi che li minaccino o pregiudichino; si tratta, dunque, di un potere che non riguarda il momento (ex ante) della valutazione e dell’approvazione dei progetti degli interventi e delle attività potenzialmente idonee a incidere sui suddetti profili sanitari e ambientali.
10.6. Riguardo alle funzioni di tutela della pubblica incolumità dei cittadini, in disparte le funzioni di ordinanza contingibile e urgente del Sindaco, non rilevanti, per quanto detto sopra, ai fini della questione all’esame del Collegio, occorre domandarsi se le numerose funzioni comunali che direttamente o indirettamente attengono alla tutela della pubblica incolumità dei cittadini siano tali da poter fondare la legittimazione comunale a proporre l’opposizione contemplata dall’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
A giudizio della Sezione la risposta deve al riguardo essere negativa, poiché, in particolar modo in questo campo, emerge e viene in rilievo quella particolare connotazione tecnica e specialistica delle funzioni di tutela –presa in considerazione dal ripetuto art. 14-quinquies– di cui si è già detto sopra nei paragrafi 4, ultimo periodo, e 9, ultimo periodo, connotazione che sembra mancare affatto nelle competenze comunali in esame, appartenendo, invece, a speciali corpi e complessi organizzativi statali (ad es., Vigili del fuoco) e di altre amministrazioni (si pensi alla Protezione civile).
Non v’è dubbio sul fatto che anche i Comuni partecipino, e con compiti di indubbio rilievo, alla “filiera” territoriale del sistema di protezione civile, ma con compiti e funzioni di primo intervento, oltre che di monitoraggio e di allerta, gestionali e organizzativi, ma mai tecnici in quel senso proprio di cui agli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
11. Concludendo sul primo quesito, la Sezione ritiene che in linea di massima debba escludersi una competenza comunale idonea a legittimare la proposizione dell’opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, ma che tale possibilità non possa essere esclusa a priori con assoluta certezza, residuando comunque la possibilità che essa possa trovare il suo fondamento in attribuzioni o deleghe di funzioni di tutela ad opera di leggi statali o regionali settoriali. Con l’ulteriore corollario conclusivo per cui codesta Presidenza, pur nell’ambito delle coordinate interpretative generali qui fornite, tendenzialmente negative di una siffatta competenza comunale, dovrà in ogni caso, riguardo al singolo affare concreto, svolgere una puntuale disamina sulla legislazione settoriale e regionale applicabile alla fattispecie.
12. Con il secondo quesito specifico codesta Presidenza ha domandato, con particolare riguardo al procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), se valgano le eventuali stesse limitazioni sopra dette oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
13. Più nel dettaglio codesta Presidenza ha osservato che, ai sensi dell’art. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice dell'ambiente), nel combinato disposto con gli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie, la posizione del Comune in seno alla conferenza preordinata al rilascio della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.) appare “connotata da elementi di una certa particolarità”, poiché è previsto (comma 6 dell’art. 29-quater) che siano acquisite nell'ambito della conferenza dei servizi “le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265” e che (comma 7) “In presenza di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all’autorità competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo 29-octies”.
14. Anche rispetto a questa tematica specifica, come riferisce la Presidenza, si sarebbero proposte due soluzioni alternative, l’una affermativa della piena legittimazione delle amministrazioni comunali a sollevare, sempre e comunque, il ridetto strumento dell’opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, dal momento che il Sindaco agirebbe come autorità sanitaria ai sensi e per gli effetti di cui ai citati artt. 216 e 217 del testo unico leggi sanitarie del 1934, l’altra, invece, tendente a configurare questa ipotesi come eccezionale e comunque limitata al potere di richiedere “determinate cautele”, senza il potere di “preventiva inibitoria”, limitata dunque a un parere sul quomodo, mediante l’indicazione di specifiche modalità o misure ritenute necessarie per la tutela della salute dei residenti, con esclusione del dissenso sull’an, ossia del potere di opporre veti assoluti sulla fattibilità in sé del singolo impianto.
15. Osserva al riguardo la Sezione che il caso specifico sottoposto a parere con il secondo quesito rappresenta un esempio applicativo degli indirizzi sopra formulati e può agevolmente risolversi alla stregua di tali criteri interpretativi: ai fini della “legittimazione” a proporre l’opposizione non basta una qualsiasi attribuzione di funzioni di tutela ambientale e sanitaria, ma occorre una particolare attribuzione di competenza, caratterizzata altresì da quelle connotazioni tecniche e specialistiche evincibili dal parallelo tra il testo dell’art. 14-quinquies e quello dell’art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990.
L’esame delle norme recate dagli artt. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 216-217 del testo unico delle leggi sanitarie dimostra, alla luce della condivisibile prospettazione operata da codesta Presidenza delle modifiche normative successivamente intervenute, che le competenze attribuite dalle suddette disposizioni al Sindaco del Comune nel cui territorio ricade l’insediamento di un’industria insalubre non presentano più le suddette caratterizzazioni di specificità e tecnicità, tali da renderle idonee a legittimare all’opposizione ex art. 14-quinquies in esame. Rispetto ad esse, infatti, da un lato opera la prevalenza della competenza tecnica rimessa dalla norma speciale all’autorità decidente o ad altre autorità tecniche chiamate ad esprimersi in sede di conferenza di servizi (ARPA, ASL, Vigili del fuoco, etc.), dall’altro lato opera la delimitazione introdotta dalla disciplina speciale della procedura di A.I.A. contenuta nel così detto “codice ambiente” del 2006, che comporta necessariamente l’esclusione che la conclusione favorevole della conferenza di servizi, basata sui pareri tecnici favorevoli, possa essere impedita dal dissenso del Sindaco, espresso in base all’art. 216 del ripetuto testo unico del 1934.
16. Vengono in rilievo, sotto questo profilo, da un lato il già citato art. 19 del TUEL, nella parte in cui, come si è visto ai par. 8.4 e 10.4, chiarisce che le funzioni amministrative generali spettanti al Comune sono da valere salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze; dall’altro lato l’art. 14-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, che non consente logicamente di ipotizzare come ancora applicabile un potere inibitorio del Sindaco, ammettendo solo eventuali poteri di richiedere prescrizioni e il riesame successivo dell’A.I.A. in caso di sopravvenienze e di emissioni ritenute insalubri che si discostino dai valori e dai parametri approvati.
17. I commi 6 e 7 del citato art. 14-quater prevedono, rispettivamente, che “Nell'ambito della Conferenza dei servizi di cui al comma 5, vengono acquisite le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, etc.” e che “In presenza di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo 29-octies”.
Appare dunque evidente che, sotto il primo profilo (comma 6), la partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi non può assumere carattere ostativo della (eventuale) conclusione favorevole (che deve fondarsi evidentemente sui pareri e sugli altri atti di assenso tecnici delle amministrazioni preposte in modo specifico e ordinario alla tutela ambientale e sanitaria), ma deve limitarsi a richiedere le prescrizioni di cui agli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie; e che, sotto il secondo profilo (comma 7), il Sindaco non ha più il potere di inibire successivamente la prosecuzione dell’attività, ma può solo, a fronte di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione, chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione.
18. In tal senso paiono condivisibili le conclusioni prospettate da codesta Presidenza, che mostra di aderire alla tesi restrittiva, secondo la quale “non sembra essere ulteriormente consentita neppure la "successiva inibitoria" ex art. 217, primo comma, TULS, ma soltanto la "richiesta di riesame" del provvedimento AIA già rilasciato”, poiché il potere del Sindaco di cui agli artt. 216 e 217 del r.d. n. 1254 del 1934 “sembra essere stato ridisegnato o meglio fortemente ridimensionato dalla stessa normativa in tema di AIA”, essendo passato “da un potere misto di "preventiva inibitoria" e "determinate cautele" da impartire (art. 216, sesto comma, TULS, cit.) ... a sole prescrizioni (ossia quelle che prima erano considerate le "determinate cautele")”, nonché da un potere di "successiva inibitoria" ex art. 217, primo comma, TULS, a un potere di "richiesta di riesame" del provvedimento AIA già rilasciato.
Risultano condivisibili le indicazioni in tal senso provenienti dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamate nella richiesta di parere (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612), secondo le quali il Comune non possiede né strumenti, né competenze per accertare “in proprio” le condizioni sanitarie di una industria insalubre ed è tenuto ad attenersi alle prescrizioni dell'autorità sanitaria, pena lo stravolgimento dell'ordine delle competenze.
19. Non sembra, invece, condivisibile la proposta conclusiva prospettata da codesta Presidenza, riguardo alla tipologia di affari in esame, secondo la quale “l'eventuale valutazione (negativa) espressa dalla amministrazione comunale in difformità rispetto al parere (positivo) della ASL dovrebbe essere analiticamente istruita e motivata, ai fini del riconoscimento della legittimazione di cui in questa sede si discute, soprattutto in termini di sicura inattendibilità della posizione manifestata dalla amministrazione istituzionalmente competente alla tutela della salute”.
Una tale soluzione, oltre che di complessa e incerta applicazione pratica, non pare persuasiva poiché anticipa al procedimento amministrativo quel giudizio di legittimità, sotto il profilo del non eccesso di potere per inattendibilità manifesta dell’esercizio della discrezionalità tecnica dell’organo specialistico (nell’esempio, la ASL), che appartiene in realtà al processo e al sindacato giurisdizionale sull’esercizio della funzione dell’organo tecnico.
In sostanza, in un caso del genere, il Comune potrà se del caso agire dinanzi al Tar, in forza della sua ampia legittimazione ad agire (di cui qui si è detto nel par. 8.1), avverso la conclusione favorevole della conferenza di servizi e il provvedimento di A.I.A. nella parte in cui abbiano acquisito e condiviso un parere tecnico (nell’esempio, della ASL) in realtà affetto da illegittimità per eccesso di potere per erroneo uso della discrezionalità tecnica, ma non potrà logicamente per tali motivi essere ammesso a proporre l’opposizione ex art. 14-quinquies di cui si discute. Un siffatto giudizio di inattendibilità delle conclusioni cui è pervenuto l’organo tecnico, dunque, non può essere rimesso a codesta Presidenza per essere usato come criterio per decidere in sede amministrativa dell’ammissibilità o della inammissibilità dell’opposizione comunale.
20. In conclusione,
le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990- in quelle amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Qualificazione giuridica di bosco – Nozione di bosco ai fini penali – AGRICOLTURA – Lavori di bonifica agraria in area boschiva – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Trasformazione bosco a prato – Assenza della autorizzazione paesaggistica – Rimessione in pristino dello stato dei luoghi – D.lgs. n. 227/2001 – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18.05.2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco –meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42– ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento (Sez. 3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 1874 del 16/11/2006, dep. 2007, Monni).
Le leggi regionali possono dettare una diversa disciplina ai fini dell’individuazione delle zone assoggettate a vincolo paesaggistico e classificate “bosco” e, ai fini penali, tale nozione deve intendersi in senso normativo e non naturalistico, in quanto finalizzata ad evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive.
La disposizione normativa prende in considerazione le caratteristiche di tutte le aree omogenee limitrofe a quelle interessate dalla opere, e non solo queste ultime, giacché in tal caso si potrebbero realizzare senza autorizzazione interventi di modifica di territori aventi estensione inferiore ai 2000 metri quadrati, ancorché limitrofi a più ampie aree omogenee ed aventi copertura boschiva, ciò che la normativa citata ha appunto voluto vietare
(Cass. Sez. 3, n. 28135 del 11/01/2012, Galluccio; Sez. 3, n. 28928 del 18/05/2011, Sardu)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1.- Edilizia ed Urbanistica – “volume utile” – nozione – rilievo ai fini edilizi e paesaggistici – differenza.
La nozione di superficie e volume utile rilevante a fini urbanistici deve considerarsi esclusivamente in relazione all’estensione dei diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico: ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo paesistico.
Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi di qualsiasi natura, in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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14. Nel merito il ricorso è infondato.
15. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente stante la loro evidente connessione logica.
16. Il gravato provvedimento della Soprintendenza, cui correttamente si è adeguata l’Amministrazione civica, come anticipato, ha ritenuto insussistenti le condizioni di legge per procedere alla richiesta di autorizzazione paesaggistica in sanatoria limitatamente al pergolo ligneo a giorno, al relativo pavimento, al muretto a parziale contorno e, infine, ai telai in anticorodal.
17. Parte ricorrente, viceversa, ritiene in primis, che le opere in questione non sarebbero soggette alla tutela paesaggistica, non costituendo una nuova superficie utile ai sensi del DPR 31/2017, All. A) -lettere A19, A10 e A12.
La Soprintendenza, poi, non solo non avrebbe rispettato l’obbligo di comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990 espressamente richiamato dall’art. 146, comma 8, del D.lgs 42/2004, ma avrebbe violato l’obbligo di puntuale istruttoria e motivazione del provvedimento. Il parere della Soprintendenza, infine, risulterebbe in contrasto con le valutazioni della Commissione Paesaggistica.
18. Le censure in questione non meritano favorevole apprezzamento.
19. Premesso che risulta incontestato che le opere insistano su area sottoposta a vincolo paesaggistico (ex D.M del 01.08.1985, ex lett. a), comma 1, art. 142, del dlgs 42/2004 ed ex art. 38, comma 3, delle NTA del PPTR), l'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede il possibile accertamento postumo della compatibilità paesaggistica solo nei seguenti tassativi casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (art. 3 D.P.R. 06.06.2001, n. 380, T.U. Edilizia).
19.1. In tali ipotesi non rientrano le opere realizzate dal ricorrente dato che la creazione della zona d’ombra a giorno realizzata con materiale ligneo e sovrastante cannucciato, delimitata da un muretto e realizzata lungo il lato sud del lotto di intervento, in adiacenza al trullo in uno alla relativa pavimentazione, attesa l’effettiva e non irrilevante percettibilità visiva –anche a distanza- dell’intervento e, soprattutto, la modifica dell’originarie caratteristiche morfologiche dell’area (cfr. la documentazione fotografica in atti), integrano certamente aumento di superficie utile con conseguente obbligo di rimozione ex art. 167 Dlgs 42/2004.
20. Al riguardo, infatti, non rileva la circostanza che l’intervento predetto non sia stato considerato dall’Autorità comunale preposta ai fini urbanistici quale aumento di superficie.
20.1. La nozione di superficie e volume utile, infatti, rilevante a fini urbanistici viene considerata esclusivamente in relazione all’estensione dei diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico (conforme, TAR Firenze, sez. III, 22/02/2019, n. 276)
Ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo paesistico. Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi di qualsiasi natura, “in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio” (ex multis, TAR Friuli Venezia Giulia, 31/05/2019 n. 239).
21. D’altra parte, l’Amministrazione ha correttamente e dettagliatamente motivato in ordine all’incidenza dell’intervento progettato dal punto di vista paesistico, precisando che la zona d’ombra a giorno va a modificare l’originaria conformazione morfotipologica del trullo in pietra, “identificato nella sua preesistenza come elemento isolato e ben percettibile esternamente su tutti i lati e pertanto tipologicamente compromesso dalla presenza della suddetta struttura lignea, che, tra l’altro non risulta essere allineata né orizzontalmente né verticalmente ai preesistenti gradoni lapidei conformanti la costruzione originaria”.
22. In riferimento, invece, alla realizzazione del pavimento in gres (ceramica), al muretto di calcestruzzo sagomato e ai telai in anticorodal (alluminio), a dispetto delle valutazioni effettuate dalla Commissione locale per il paesaggio (il cui parere, tuttavia, è consultivo e non esplica alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, cfr. TAR Campania, Napoli sez. III, 03/09/2018 n. 5317), dalla documentazione fotografica versata in atti se ne desume l’immediata percettività e la natura paesaggisticamente impattante degli stessi perché composti da materiali non tradizionali e diversi rispetto a quelli tipici dei luoghi.
23. Per quanto sopra, non può trovare applicazione alla fattispecie in esame l’Allegato A del DPR 31/2017 ove sono indicati gli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica.
23.1. Quanto al pavimento in gres, la lettera A10 dell’Allegato A al dpr 31/2017, sebbene riguardi opere di manutenzione ed adeguamento di spazi esterni, limita, tuttavia, l’esclusione dall’autorizzazione paesaggistica ad opere diverse da quelle realizzate nel caso in esame (manufatti esistenti, quali marciapiedi, banchine stradali, aiuole, componenti di arredo urbano), e in ogni caso eseguite “nel rispetto delle caratteristiche morfo-tipologiche, dei materiali e delle rifiniture preesistenti e dei caratteri tipici del contesto locale”, che l’utilizzo del gres (più precisamente ceramica, come indicato nella relazione allegata all’istanza di accertamento di conformità), non è idoneo a garantire.
23.2. Inconferente è poi il richiamo alla disposizione contenuta nella lettera A12 in considerazione della modifica non insignificante degli assetti planimetrici e vegetazionali esistenti in precedenza.
23.3. Neppure il pergolato, delimitato da un muretto (ove in sede di sopralluogo disposto dal Comune di Manfredonia è stata riscontrata la presenza di un piano di lavoro su cui sono posizionati un lavello e una cucina) può farsi rientrare nella disciplina della lettera A 19 dell’allegato A al dpr 31/2017, riferendosi tale ultima disposizione esclusivamente ai pergolati realizzati in legno per il ricovero di attrezzi agricoli (là dove, al contrario, il ricorrente ha dichiarato l’utilizzazione dello stesso per la preparazione del cibo) e ancorati al suolo senza opere di fondazione o opere murarie (mentre nel caso in esame, è stato realizzato un muretto con anima di calcestruzzo in funzione di chiusura del pergolato).
23.4. Le connotazioni strutturali del muretto, peraltro, determinano l’inapplicabilità del procedimento autorizzatorio semplificato previsto per gli interventi di lieve entità di cui Allegato B, lettera B21, del citato dpr 31/2017, che si riferisce, invece, precipuamente alla diversa ipotesi dei muri di cinta o di contenimento del terreno.
23.5. In ogni caso, le singole opere realizzate non possono essere isolatamente considerate, ma deve effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione ai fini della corretta tutela del paesaggio (conforme, TAR Napoli, sez. VI, 12/05/2016, n. 2433).
Il che conduce ad escludere che la zona d’ombra (pergolato e opere connesse) possa essere ritenuta irrilevante sul piano della tutela paesaggistica e della modifica dell'assetto del territorio ovvero che possa essere ricompreso sotto lo scudo degli interventi di minima importanza di cui all’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, proprio nella considerazione delle significative modifiche all’originario assetto del territorio che l’intervento oggetto di causa ha effettivamente prodotto (TAR Napoli, sez. II, 16/07/2019, n. 3917).
24. Ne deriva l'infondatezza di ogni ulteriore doglianza articolata in ricorso, non potendosi ritenere, per le ragioni anzidette, il provvedimento della Soprintendenza impugnato ed il conseguenziale atto comunale, affetti da illogicità o da insufficienza motivazionale. Sicché, la carica ostativa prodotta dal richiamato art. 167, comma 4 rende del tutto ininfluente l’indicazione da parte del ricorrente della possibile parziale utilizzazione di materiali diversi rispetto a quelli originariamente previsti in progetto (rimozione dei telai in anticorodal e rivestimento del muretto con materiale diverso dal cemento).
25. Né coglie nel segno la lamentata violazione da parte della Soprintendenza delle garanzie partecipative: trattandosi, infatti, di attività vincolata, in quanto le opere realizzate non rientrano nelle ipotesi dei commi 4 e 5 dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 il provvedimento emanato non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, con conseguente operatività dell’art. 21-octies L. 241/1990 (Consiglio di Stato sez. IV, 03/09/2019, n. 6073).
Tanto più che l’art. 167 dlgs 42/2004, sulla cui base è stato richiesto dal ricorrente l’accertamento ex post di conformità paesaggistica, -a differenza della diversa ipotesi disciplinata dall’art. 146, comma 8, Dlgs 42/2004- non prevede a carico della Soprintendenza la comunicazione di preavviso di rigetto, che, invece, spetta, piuttosto, al termine del procedimento, all’autorità competente alla gestione del vincolo paesaggistico ai fini accertamento della compatibilità paesaggistica (ex art. 167, comma 5, dlgs 42/2004), e la cui violazione non è stata lamentata nel caso in esame.
26. Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.09.2019 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

luglio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza paesistica dell’opera.
Ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9. Venendo al terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, deve escludersi l’affidamento, per le motivazioni già indicate in precedenza: irrilevanza dell’assenso espresso nell’esame paesistico del progetto perché è un procedimento diverso dall’autorizzazione paesistica ed irrilevanza del tempo trascorso perché la DIA non ha mai prodotto effetto in mancanza della richiesta dell’autorizzazione paesistica.
10. Per quanto riguarda la supposta irrilevanza paesistica dell’opera, in quanto il sottotetto non sarebbe visibile dalla strada (oggetto del terzo motivo di ricorso principale e del quarto per motivi aggiunti), la giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento, e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato (cfr. TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 1819; Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id., 10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002, n. 5881).
Nel caso di specie è chiaro il fatto che l’innalzamento della copertura per una sua parte ha alterato l’aspetto esteriore dell’edificio e che tale modifica, incidendo sulla facciata del fabbricato, è visibile quanto meno dagli edifici posti di fronte e sui lati, quindi si presenta idonea a modificare il paesaggio.
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto inserimento ambientale del manufatto, in quanto –una volta accertato che la variazione c’è stata– il giudizio di compatibilità è poi in concreto rimesso all’Autorità amministrativa a ciò competente, sempre chE sussistano i requisiti espressamente previsti dalla legge per l’avvio del procedimento di sanatoria.

EDILIZIA PRIVATA: La richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il giudizio positivo espresso dalla Commissione urbanistica comunale integrata non sono equipollenti dell’autorizzazione paesistica in quanto attengono ad immobili che non sono soggetti a vincolo paesistico.
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L
a giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in presenza di zona vincolata, si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica e che l’assenza della stessa rende doverosa l’applicazione della sanzione demolitoria, tenuto conto che non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa DIA, poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.
Né tanto meno deve ritenersi necessario che, in presenza di un vincolo paesistico, l’amministrazione debba motivare l’ordine di demolizione con riferimento alla mancanza di autorizzazione, dando compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi.
Infatti la giurisprudenza, alla quale il Collegio si conforma, afferma che in presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
Come è stato ulteriormente precisato, il fatto che l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica per ciò solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, Cost., rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo.

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2. Venendo al secondo motivo di ricorso esso è infondato in quanto risulta dagli atti che la DIA presentata dal ricorrente Pe. su delega del proprietario Sc. non reca alcuna indicazione dell'esistenza del vincolo paesistico gravante sull’immobile.
In merito occorre precisare che la richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il giudizio positivo espresso dalla Commissione urbanistica comunale integrata non sono equipollenti dell’autorizzazione paesistica in quanto attengono ad immobili che non sono soggetti a vincolo paesistico. Infatti ai sensi dell’art. 35 delle Norme di Attuazione del Piano Territoriale Paesistico Regionale (P.T.P.R.) approvato con d.C.R. 06.03.2001, n. 43749 nelle aree assoggettate a specifica tutela paesaggistica di legge, la procedura preordinata al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’articolo 146 del d.lgs. 42/2004, e succ. mod. ed int., sostituisce l’esame paesistico.
Ne consegue che tale atti non sono idonei a fondare l’affidamento del privato nella formazione di un titolo paesistico per la differenza di oggetto e di procedura.
Né tanto meno può ritenersi formato un affidamento fondato sul mancato controllo della DIA per diversi anni, non essendo, il titolo edilizio, mai divenuto efficace.
Infatti più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in presenza di zona vincolata, si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica e che l’assenza della stessa rende doverosa l’applicazione della sanzione demolitoria, tenuto conto che non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa DIA, poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (ex plurimis TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 04/01/2019 n. 56).
Né tanto meno deve ritenersi necessario che, in presenza di un vincolo paesistico, l’amministrazione debba motivare l’ordine di demolizione con riferimento alla mancanza di autorizzazione, dando compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi.
Infatti la giurisprudenza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 17.04.2014 n. 642) alla quale il Collegio si conforma, afferma che in presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
Come è stato ulteriormente precisato, il fatto che l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica per ciò solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, Cost., rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - link a www.giustizia-amministrativa
).

giugno 2019

EDILIZIA PRIVATA: E’ principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe necessario per la realizzazione delle stesse.
Ciò in quanto le opere realizzate in aree vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali.

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6. Per ragioni di ordine logico il Collegio ritiene di dover procedere preliminarmente all’esame del terzo motivo del ricorso n. 363/2017, con cui la ricorrente impugna il diniego di autorizzazione paesaggistica. Tale censura ha carattere assorbente rispetto a quelle formulate nel primo e nel secondo motivo di ricorso, entrambe rivolte a contestare l’applicabilità della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 DPR 380/2001, in ragione della natura della opere realizzate.
E’, infatti, principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe necessario per la realizzazione delle stesse (ex multis Cons. Stato Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874). Ciò in quanto le opere realizzate in aree vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio, prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica, i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
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Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che seguono.
Come esposto in fatto l’oggetto del presente giudizio verte sulla legittimità, contestata sotto più profili dal ricorrente, del provvedimento di diniego ad istanza di condono assunto dal Comune di Colognola ai Colli, a fronte della realizzazione, in assenza di alcun titolo, dell’intervento edilizio sopra meglio descritto.
Con le prime censure, il ricorrente deduce il vizio di violazione dell’art. 32, co. 27, lett. d), legge 326/2003 e della legge regionale Veneto 21/2004, contestando la circostanza che il diniego non ha tenuto in debito conto il nulla osta paesaggistico previsto dall’art. 7 della L. n. 1497/1939, rilasciato dalla Provincia di Verona.
Il Collegio ritiene priva di fondamento tale asserzione, in quanto tale atto di per sé non è sufficiente ad abilitare alla realizzazione di opere, essendo contestualmente necessario un titolo edilizio.
Il sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio, prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica, i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino. Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo paesaggistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001.
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5) Con il terzo motivo e il quarto motivo, il ricorrente sostiene che la DIA 03/09/2012 si sarebbe consolidata per effetto del mancato esercizio del potere inibitorio comunale.
In ogni caso, la mancanza del titolo paesaggistico non avrebbe comportato l’inefficacia della DIA, ma soltanto la sua “annullabilità” e non risulta che sia stato adottato alcun provvedimento in autotutela da parte del Comune di Loano.
L’esponente dubita anche dell’effettiva esistenza di un vincolo gravante sull’area di intervento, la cui natura non è stata individuata nel contesto dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Tali rilievi non colgono nel segno.
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo paesaggistico, infatti, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 (cfr., fra le ultime, TAR Campania, Napoli, sez. III, 28.11.2018, n. 6897).
L’intervento indicato nella DIA inefficace, pertanto, è stato correttamente sanzionato con la demolizione in quanto realizzato in mancanza del titolo abilitativo obbligatorio.
Gli ulteriori rilievi inerenti all’effettiva sussistenza del vincolo hanno carattere congetturale e perseguono finalità essenzialmente esplorative: in quanto tali, essi non possono trovare ingresso nel presente giudizio.
Ha chiarito la difesa comunale, comunque, che l’area oggetto di intervento è assoggettata a vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42 del 2004, poiché compresa nella fascia di 150 metri dall’alveo del torrente Nimbalto, iscritto nell’elenco delle acque pubbliche della Provincia di Savona (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Soprintendenza è onerata, alla luce dei canoni di leale collaborazione e proporzionalità, a proporre soluzioni alternative per l'esecuzione dell'intervento edilizio richiesto dal cittadino.
A quest’ultimo riguardo:
   (b) gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente;
   (c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie.
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I ricorrenti censurano i provvedimenti della Soprintendenza e della Comunità montana, che hanno rigettato l’istanza per la realizzazione di una nuova rimessa interrata.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Sotto il primo profilo, la relazione paesaggistica attesta che sul versante la vegetazione non è particolarmente fitta, e che la percettibilità da Via Coste è limitata e marginale (cfr. materiale fotografico doc. 11, individuato nella narrazione in fatto).
La foto-simulazione delle pagine 13 e 14 restituisce in effetti un’incidenza sullo stato dei luoghi di non particolare rilievo, tenuto conto dei muri di contenimento già esistenti lungo via Coste, cosicché il giudizio negativo per “perdita materica e testimoniale” della storia del piccolo ambito non appare allineato con l’effettiva interferenza (anche visiva) dell’opera rispetto al contesto in cui si inserirebbe.
Sul punto, la Soprintendenza non produce alcun documento (fotografia o altra rappresentazione utile alla scopo), né chiarisce in concreto come possono evincersi l’impatto del manufatto in progetto e la sua seria percettibilità dalle strade all’intorno (in particolare da Via Coste).
Ferma la potestà attribuita dal legislatore all’autorità preposta alla tutela del vincolo, si rivela indispensabile una riedizione del potere che prenda in considerazione, in modo puntuale, lo stato dei luoghi e le caratteristiche dell’intervento quale rappresentato nel progetto e illustrato con il materiale fotografico, salvi ulteriori approfondimenti.
2. Acquista altresì rilevanza, ai fini di un giudizio d’insieme, il contesto circostante, caratterizzato da un limitrofo complesso residenziale edificato alla fine degli anni 80 del secolo scorso e da un’area in costruzione a fini residenziali, come da rappresentazione fotografica del 22/05/2014 (doc. 15) e del 09/01/2015 (doc. 16).
E’ ben vero che una situazione paesaggistica compromessa o seriamente incisa non giustifica ulteriori interventi dannosi per l’ambiente, e pur tuttavia l’autorità preposta deve illustrare in modo esauriente i connotati dei luoghi e motivare una decisione sfavorevole malgrado la presenza di un’edificazione diffusa.
3. Se la parte ricorrente ha offerto solide argomentazioni (ed elementi probatori) a sostegno della scarsa visibilità e incidenza dell’intervento, l’amministrazione non ha suggerito (pur essendone onerata alla luce dei canoni di leale collaborazione e proporzionalità) soluzioni alternative per la sua esecuzione.
A quest’ultimo riguardo, può essere richiamata la recente sentenza di questa Sezione 08/06/2018 n. 552, che a sua volta ha evocato il precedente 09/02/2016 n. 228 (che risulta oggetto di appello), secondo il quale <<(b) gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14);
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie
>>.
4. In conclusione, la pretesa avanzata merita apprezzamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si rivolge verso il paesaggio circostante.
L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale.
Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
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Sulle conseguenze paesistiche del progetto di ampliamento
23. Passando al progetto di ampliamento del porto turistico, la tesi del ricorrente è in sostanza che le nuove opere inciderebbero negativamente sia sul vincolo paesistico relativo alla sponda bresciana del lago di Iseo sia sul pregio monumentale di Villa Mazzucchi. Gli argomenti proposti non sono però condivisibili.
24. In primo luogo, è necessario evitare equivoci e sovrapposizioni tra la tutela paesistica e la tutela monumentale.
Il vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si rivolge verso il paesaggio circostante. L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale. Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
25. A favore di Villa Mazzucchi non è stato disposto un vincolo indiretto sulla sponda del lago, e tanto meno sul lago stesso, e dunque il proprietario dell’immobile non ha un’aspettativa a opporsi con successo, per un interesse proprio, agli strumenti urbanistici e alle concessioni demaniali che consentono l’occupazione di una maggiore superficie lacuale per l’ampliamento del porto turistico.
Una tutela è invece possibile entro limiti più ristretti, ossia qualora venga fornita la dimostrazione che le nuove opere potrebbero alterare in modo rilevante, non per un singolo proprietario ma per tutti gli osservatori collocati in punti accessibili al pubblico, lo scenario sottoposto a vincolo paesistico (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 467 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio (13.05.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Zona paesaggisticamente vincolata - Interventi che incidono sull'aspetto esteriore degli edifici - Natura di reato di pericolo - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione Art. 181 d.lgs. 42/2004.
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon e a.), tali certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici (Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it).

gennaio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata - Permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica - Necessità - Art. 167 e 181 D.Lgs. n. 42/2004.
La realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004).
...
Intervento edilizio - Piscina interrata e pertinenze - Valutazione unitaria delle opere - Artt. 3, 10, 11, 44, d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze (Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363).
Nella fattispecie, anche per una piscina interrata e i locali annessi dal momento che modifica in modo permanente il suolo, è necessario il permesso di costruire (Cass. pen. sez. III 27.01.2004, n. 6930)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere che comportano la trasformazione permanente del suolo inedificato necessitano del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi di nuova costruzione".
Tali interventi, come è noto, sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e), la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo dell'avverbio "comunque").

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E' pacifico che la realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria. Invero, la realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria.
In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n. 42/2004).
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7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa, peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è necessaria per le opere interne, che non sono neppure astrattamente idonee a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede ricordare come non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza 29.05.2018 n. 3545: "
Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità"; detto principio è enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze: Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo, consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una valutazione unitaria, è evidente che dette opere comportassero la trasformazione permanente del suolo inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto, sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio". Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e), la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un superamento della "soglia" indicata dall'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita alla piscina (che, considerate le sue dimensioni, determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con superficie tutt'altro che modesta), conducevano necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di appello, essendo pacifico che anche la realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria (v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep. 22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n. 1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che espressamente afferma come la realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n. 42/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913).

anno 2018
dicembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in cui il permesso di costruire è rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l'intervento.
In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo.
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Nulla di tutto ciò, evidentemente, è dato ravvisare nell'ordinanza di demolizione gravata nel presente processo, sicché si ritiene fondata la censura articolata da parte ricorrente.
A conferma di quanto appena affermato può riportarsi un precedente del TAR Veneto, Sez. II, 07/11/2018, n. 1033, che, in un caso simile, ha disposto che “Nel caso in cui il permesso di costruire è rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l'intervento. In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.12.2018 n. 1799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione del punto A.31. dell'Allegato A del d.P.R. 31/2017. Traslazione dell'area di sedime - Comune di Marino (Regione Lazio, nota 09.11.2018 n. 705371 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Per ragioni di carattere testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione dell’assenza di un vincolo paesaggistico, l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia– condizione di validità del permesso di costruire.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica il permesso di costruire rilasciato antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato nella consapevolezza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art. 159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto legislativo per il quale, “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica. In un caso come questo, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la nullità degli atti amministrativi), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza, non è accettabile perché “l'estensione della sanzione della nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di certezza del diritto pubblico.
Tranne queste ipotesi tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave, determina la annullabilità del provvedimento, con la conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta alla sua esecuzione”.

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Con permesso di costruire n. 56 del 17.10.2009, la ricorrente è stata autorizzata a realizzare un fabbricato residenziale con annesso deposito agricolo nel territorio del comune di Gazzo Veronese.
Il comune con ordinanza n. 4 del 16.03.2017, ha ingiunto la demolizione e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi perché l’immobile è stato realizzato in area soggetta a vincolo paesaggistico in assenza della necessaria autorizzazione paesaggistica.
La sussistenza del vincolo paesaggistico è ricondotta all’esistenza in prossimità dell’immobile di un corso d’acqua denominato “Dugal Zimel” che ricade negli appositi elenchi dei corsi d’acqua tutelati ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. c), del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, originariamente non rilevato dal Comune.
Tale provvedimento è impugnato per le seguenti censure:
...
III) violazione degli artt. 5, 20, 27 e 31 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 146 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, sotto altro profilo, perché non è corretta l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica rende ex se da sempre irreversibilmente inefficace il permesso di costruire; il Comune pertanto avrebbe dovuto agire in autotutela per rimuovere la validità del permesso di costruire in base al quale è stato realizzato l’immobile;
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure, che hanno carattere assorbente, di cui al terzo motivo.
Infatti la tesi del Comune secondo la quale il permesso di costruire rilasciato senza autorizzazione paesaggistica sarebbe nullo o inefficace non è condivisibile.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica il permesso di costruire rilasciato antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato nella consapevolezza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art. 159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto legislativo per il quale, “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la nullità degli atti amministrativi; cfr. ad esempio quanto previsto dall’art. 5, comma 4, del testo originario del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, il quale, relativamente alla valutazione di impatto ambientale, disponeva che “i provvedimenti di autorizzazione o approvazione adottati senza la previa valutazione di impatto ambientale, ove prescritta, sono nulli”), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167), non è accettabile perché “l'estensione della sanzione della nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di certezza del diritto pubblico. Tranne queste ipotesi tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave, determina la annullabilità del provvedimento, con la conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta alla sua esecuzione”.
Sotto tale profilo il Collegio, per ragioni di carattere testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione dell’assenza di un vincolo paesaggistico, aderisce pertanto all’orientamento giurisprudenziale per il quale, l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia– condizione di validità del permesso di costruire (sul punto cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 17.12.2014, n. 3062 e i numerosi riferimenti giurisprudenziali ivi richiamati).
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione adottata senza il previo esercizio dei poteri di autotutela, nei confronti del titolo edilizio in base al quale è stato realizzato l’immobile rilasciato sul presupposto che quella determinata porzione di territorio non fosse sottoposta ad alcun vincolo, deve essere annullata per le assorbenti censure di cui al terzo motivo (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2018 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2018

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004, al comma 4, statuisce che “L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce requisito di efficacia del permesso di costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua efficacia”.
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... per l'annullamento della determinazione n. 305 del Funzionario del Settore 4 – Sviluppo del Territorio, Urbanistica, Ambiente-Edilizia e Innovazione – del Comune di Gallipoli datata 15/02/2018, notificata il 06.03.2018, avente ad oggetto “Annullamento Autorizzazione Paesaggistica n. 18/2010 del 05/01/2012 in esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 – Spiaggia Libera Attrezzata denominata “Sp.Cl.” in loc. “S. Giovanni alla Pedata” – ditta C.R. legale rappresentante della società Sp.Cl. srl” e contestuale ordinanza di rimozione della struttura balneare nonché di tutti gli atti preordinati, connessi e consequenziali a quello oggi impugnato.
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1. I fatti oggetto della odierna controversia sono i seguenti.
La società Sp.Cl. S.r.l. è titolare di Concessione Demaniale Marittima n. 12/2008 rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Gallipoli in data 10.04.2008 (rinnovo della precedente concessione n. 19/2006) ed avente scadenza il 31.12.2013, termine prorogato ex lege sino al 31.12.2020 in forza del disposto di cui all’art. 1, comma 18, del D.L. n. 194/2009, convertito con legge n. 25/2010.
Con istanza del 05.10.2007, l’esponente ha chiesto al Comune di Gallipoli il rilascio del titolo edilizio necessario per il mantenimento, per l’intera durata della concessione demaniale marittima, delle strutture funzionali all’attività balneare, comunicando altresì di non avere apportato alcuna variazione ai progetti già presentati al Comune di Gallipoli e regolarmente autorizzati. Il tutto in forza del disposto di cui all’art. 11, comma 4-quater e 4-quinques, della L.R. Puglia n. 17/2006.
Con successiva istanza del 12.08.2009, ha chiesto il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’uopo necessaria.
Con nota del 20.01.2011 la S.B.A.P. delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto ha espresso parere contrario motivando che: “[...] le opere di progetto consistenti nel mantenimento annuale di strutture balneari, per dimensioni planovolumetriche alterano il contesto naturalistico e paesistico caratterizzato da litorale sabbioso con vegetazione autoctona ostacolandone le visuali”.
Quindi, con provvedimento n. 18/2010 del 09.03.2011 il Comune di Gallipoli ha negato l’autorizzazione paesaggistica, condividendo il citato parere della Soprintendenza.
Avverso il predetto provvedimento la Sp.Cl. s.r.l. ha presentato ricorso innanzi al TAR di Lecce (RG n. 902/2011), conclusosi con sentenza di accoglimento n. 1284/2011, successivamente appellata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Lecce Brindisi e Taranto.
Nelle more del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, il Comune di Gallipoli, al fine di dare attuazione alla sentenza del Tar di Lecce, in data 05.01.2012 ha emesso nuova autorizzazione paesaggistica n. 18/2010, finalizzata al mantenimento annuale delle struttura balneare ubicata su area in concessione alla ricorrente.
Con sentenza n. 4762/2012, pubblicata il 07.09.2012, il Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR di Lecce, ha accolto l’appello proposto dalla Soprintendenza.
In attuazione di tale ultimo provvedimento giurisdizionale, ormai definitivo, con la determinazione n. 305 del 15.02.2018, notificata in data 06.03.2018, il Comune di Gallipoli ha annullato l’autorizzazione paesaggistica n. 18/2010 del 05.01.2012 per il mantenimento annuale della struttura balneare denominata Sp.Cl. e, per l’effetto, ne ha ordinato la rimozione.
Di qui l’odierna impugnativa con la quale Sp.Cl. s.r.l. ha chiesto, previa sospensione dell’efficacia, l’annullamento di detta determinazione, articolando i seguenti motivi di diritto: ...
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In estrema sintesi, la ricorrente asserisce innanzitutto che la sentenza del TAR Lecce n. 1284/2011 sarebbe divenuta definitiva nei confronti dell’Amministrazione Comunale “poiché da quest’ultima mai appellata”.
Quindi censura il provvedimento oggetto di gravame in quanto in contrasto con la previsione dell’art. 21-octies e nonies della legge 241/1990: l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica sarebbe stato disposto senza che ricorressero i vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere, né ragioni di interesse pubblico.
Sarebbe stato leso, altresì, il legittimo affidamento della ricorrente, in quanto il provvedimento autorizzatorio non avrebbe contenuto alcun espresso riferimento al giudizio pendente innanzi al Consiglio di Stato.
Ancora, il Comune avrebbe dovuto chiedere un nuovo parere alla Soprintendenza e avrebbe dovuto tenere conto del fatto che, nelle more, la nuova Legge Regionale Puglia n. 17/2015 ha previsto che “le strutture funzionali all’attività balneare, purché di facile amovibilità, possono essere mantenute per l’intero anno solare”. Nello stesso senso, sarebbe la previsione di cui all’intesa interistituzionale sulle problematiche degli stabilimenti balneari del 27.10.2014.
Non si è costituito in giudizio il Comune di Gallipoli.
Con Decreto monocratico n. 160/2018 del 27.03.2018, il Presidente di questo Tribunale ha accolto l’istanza di sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati, limitatamente all’ordine di rimozione delle strutture di cui trattasi, rilevando che esse “risultano supportate da provvedimenti ulteriori, che sembrerebbero non incisi dall’annullamento disposto in sede giurisdizionale”.
Alla camera di consiglio del 18 aprile, la ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare, chiedendo una fissazione a breve per la trattazione del merito e, nella pubblica udienza del 26.09.2018, la causa è stata introitata per la decisione.
2. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni che si vengono ad evidenziare.
2.1 Del tutto infondata è la tesi a dire della quale la sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 non avrebbe portata giuridicamente rilevante per il Comune di Gallipoli, stante la mancata impugnativa della sentenza di primo grado da parte di quest’ultimo.
Invero, l’art. 2909 c.c. dispone che “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”, ed il Comune di Gallipoli è parte processuale della sentenza citata pur non essendosi costituito in giudizio e non avendo proposto appello.
Peraltro, anche a voler sottacere tale circostanza, deve ricordarsi che la decisione del Consiglio di Stato citata ha comportato la reviviscenza del diniego espresso dalla Soprintendenza, a cui il Comune era ed è vincolato alla presa d’atto.
In ogni caso, risulta del tutto sfornita di riscontri probatori la circostanza che l’autorizzazione paesaggistica n. 18/2010 del 05.01.2012 e l’appendice al permesso di costruire n. 27190/2007, datata 12.03.2012, siano stati rilasciati senza specificare alcuna condizione legata al giudizio d’appello, non essendo stata prodotta nel giudizio in esame detta autorizzazione.
Risulta quindi evidente che l’atto in questione sia stato emesso al mero fine di dare attuazione al decisum giurisdizionale di primo grado, provvisoriamente esecutivo e cogente.
In ogni caso, la reviviscenza dell’autorizzazione paesaggistica negativa (ad opera della sentenza del Consiglio di Stato), vincolante per l’amministrazione comunale, obbligava comunque la stessa al doveroso ripristino della legalità, dato che l'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004 al comma 4, statuisce “L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce requisito di efficacia del permesso di costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua efficacia” (Cass. sent. n. 6671/1998) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.10.2018 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' necessaria l’autorizzazione paesaggistica per la demolizione di immobili vincolati?
La mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, in ordine all’intervento di demolizione di un immobile vincolato, determina l’illegittimità derivata di quella adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla base di un presupposto errato.
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Con motivi aggiunti, i ricorrenti impugnavano altresì il permesso di costruire, conclusivo del procedimento, deducendo, oltre le censure già proposte nell’originaria impugnazione, la violazione degli artt. 142, 146 e 167 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, argomentata sull’assunto che non era stato richiesto e ottenuto il nulla osta necessario per demolire la preesistente costruzione, insistente su area gravata da vincolo paesaggistico.
L’area interessata dall’intervento si colloca infatti ad una distanza inferiore a 150 mt. dal corso dei Torrenti Piscio e Chiappe senza che, ratione temporis, possa trovare applicazione l’esclusione dal vincolo per le zone territoriali omogenee A e B di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444.
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18. Nel merito, ai fini del decidere, riveste carattere logicamente pregiudiziale, come del resto messo in luce dallo stesso TAR per la Liguria nella sentenza n. 1002 del 25.06.2014, la questione relativa alla necessità dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento di demolizione.
La mancanza di quest’ultima, ove effettivamente necessaria, appare infatti idonea a determinare l’illegittimità dell’intervento nel suo complesso, sia sotto il profilo edilizio che paesaggistico.
Al riguardo, le doglianze svolte dagli appellanti, appaiono manifestamente fondate.
18.1. Come noto, ai sensi dell’art. 1 del 27.06.1985, n. 312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1 della l. n. 431 del 1985 (che ha aggiunto 9 commi all’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977) «Sono sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497», tra gli altri, «c) i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna».
Tuttavia «Il vincolo di cui al precedente comma non si applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865».
Tali disposizioni sono state poi riprodotte nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004 (così come sostituito dall'art. 12, comma 1, d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008), in particolare nel comma 2, secondo cui, «La disposizione di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica alle aree che alla data del 06.09.1985:
   a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B;
   b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
   c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge 22.10.1971, n. 865
».
Le specificazioni contenute in tali disposizioni, come noto, rappresentano la trasposizione dell’interpretazione delle norme originariamente contenute nella legge Galasso, quale consolidatasi nell’elaborazione giurisprudenziale.
La tesi sostenuta dalle parti resistenti in primo grado e avallata dal TAR è che ai fini dello sgravio dal vincolo, rileverebbe anche solo il piano adottato in quanto, da un lato, la delimitazione delle zone A e B avrebbe natura meramente “accertativa” delle zone antropiche ed urbanizzate, dall’altro «l’approvazione del PRG –oltretutto confermativa […] delle opzioni contenute nella delibera di adozione– nulla aggiunge in termini di delimitazione delle aree urbanizzate sottratte (per loro intrinseca caratteristica) al vincolo. In ogni caso, trattandosi d’accertamento dichiarativo, la delimitazione opera ex tunc: ossia, fin dall’adozione del P.R.G. cui faccia seguito l’approvazione».
E’ tuttavia destituita di fondamento, in primo luogo, l’argomentazione secondo cui, sia pure ai soli fini di cui trattasi, l’approvazione del P.R.G. abbia efficacia retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto pacifica quella secondo cui il piano regolatore (oggi variamente denominato nelle legislazioni regionali) è un atto complesso, il cui procedimento si conclude solo con l’approvazione da parte della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano adottato dal Consiglio comunale concernono le misure di salvaguardia le quali giustificano il diniego di concessioni difformi (cfr. Cons. St., Adunanza plenaria, n. 1 del 09.03.1983; cfr. anche cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226, relativa a vicenda per certi versi speculare a quella qui in esame).
In secondo luogo, le previsioni del Piano regolatore non possono avere effetti “dichiarativi”, semplicemente perché la loro funzione è quella di disciplinare e ordinare gli usi e le trasformazioni del territorio.
Come, ancora da ultimo, ricordato da questo Consiglio, anche «la c.d. “zonizzazione” non postula e non presuppone solo l’individuazione di un territorio -ossia una operazione puramente ricognitiva- bensì la qualificazione di esso, e pertanto una valutazione, alla stregua delle categorie offerte dal legislatore» (Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987).
Per quanto poi specificamente concerne i vincoli paesistici ex lege, si è già accennato al fatto che, secondo la giurisprudenza amministrativa formatasi in merito alla legge Galasso, «la possibilità di deroga al vincolo paesaggistico riguarda soltanto le aree comprese in previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi atti programmatori» (Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n. 2015, che richiama Sez. VI, 04.12.1996, n. 1679; id., 22.04.2004, n. 2332, secondo cui la disciplina statale ancora l’esclusione dal vincolo paesaggistico predisposto per legge alla delimitazione dei terreni negli strumenti urbanistici come zone A e B ad una data determinata, e cioè al 06.09.1985, epoca di entrata in vigore della l. n. 431 del 1985).
Non appare poi inutile ricordare quale fosse la ragione della deroga ivi introdotta al regime ordinario di tutela paesistica.
Essa aveva infatti lo scopo di consentire la realizzazione di opere già avviate in esecuzione dei piani vigenti all’entrata in vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI, 02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai piani pluriennali di attuazione) nonché in relazione ad aree già urbanizzate o comunque «oggetto di una pianificazione che ha ritenuto maturo il tempo dell’esecuzione di interventi sul territorio» (Cass. pen., Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche 30.03.1999, n. 5923).
Va ancora soggiunto, nel caso di specie, che -anche a volere operare una comparazione tra la disciplina del piano vigente nel Comune di Rapallo all’epoca per cui è causa e le classificazioni contenute nel d.m. 02.04.1968 relativamente alle zone territoriali omogenee- non vi è alcuna prova, in atti, che il borgo di Case di Noè, all’epoca di entrata in vigore della legge Galasso, fosse una zona già urbanizzata ovvero matura per l’edificazione (nei sensi cui di cui al suddetto d.m., alla stregua del quale le zone B sono «le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq»).
Semmai, vi è prova del contrario.
Dalla nota dell’Ufficio Gestione del Territorio del Comune di Rapallo in data 17.06.2016, prodotta dagli appellanti, si evince infatti che, alla stregua del P.R.G. approvato nel 1961, l’immobile oggetto dell’intervento all’odierno esame era «ricompreso in zona “G rurale”.
Al riguardo, è poi significativo che, ancora in una delibera comunale dell’anno 2009 (n. 188 del 29.12.2009) e quindi, in epoca ben successiva all’entrata in vigore della Legge Galasso, il borgo di Case di Noé venga descritto come un insediamento «di particolare pregio e valore storico» nonché rappresentativo «di un modello aggregativo del sistema insediativo agricolo rurale nella cui strutturazione formale e d'immagine, episodi di accorpamento ed integrazione volumetrica potrebbero inserire elementi di incongruità e discontinuità tali da comprometterne l'unitarietà percettiva».
Tali espressioni, invero, mal si attagliano ad una zona urbanizzata, quale ipotizzata dalle decisioni impugnate.
19. I rilievi che precedono appaiono invero assorbenti ai fini dell’accoglimento degli appelli, poiché la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento di demolizione determina l’illegittimità derivata di quella adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla base di un presupposto errato (cfr., per una compiuta analisi del rapporto tra i due titoli abilitativi Cons. St., Sez. IV, 14.12.2015, n. 5663) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2018 n. 5945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2018

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Comune di Civitavecchia - rapporto tra le disposizioni di cui agli articoli 14-ter della l. n. 241 del 1990 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 - effetti della mancata partecipazione del rappresentante del Ministero alle riunioni della conferenza di servizi o della mancata espressione della relativa posizione di competenza all'esito della ultima riunione - parere (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 27.09.2018 n. 23231 di prot.).
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Si riscontra la nota di codesto Comune prot. 49442 del 05.06.2018, con la quale si chiede se la mancata partecipazione del Ministero alle conferenze di servizi, qualificandosi quale "assenza-assenso", possa comportare il superamento dell'avviso negativo al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del codice di settore da parte dell'autorità preposta (regione o comune subdelegato) in ragione della mancata conformità dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nel Piano paesaggistico regionale e se la determinazione favorevole della conferenza di servizi possa sostituire l'autorizzazione paesaggistica, ove l'amministrazione procedente si sia espressa negativamente e il Ministero non abbia partecipato alla riunione e non abbia espresso alcun parere.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
In primo luogo, onde evitare equivoci interpretativi, si precisa che l'operatività dell'istituto del "silenzio-assenso", di cui all'art. 17-bis della 1. n. 241 del 1990, all'interno del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del codice di settore, è limitata alla sola ipotesi di proposta positiva da parte dell'amministrazione procedente.
Infatti, il procedimento delineato dall'art. 146 del codice di settore, come è noto, prevede ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIOggetto: decreto interministeriale n. 154 del 22.08.2017 recante: "Regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali tutelati ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42" — art. 22 — restauratori - direzione dei lavori (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 19.09.2018 n. 22280 di prot.).
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Si riscontra la nota, qui pervenuta in data 30 maggio u.s., con la quale codesta Federazione evidenzia l'insorgere di dubbi interpretativi relativi all'art. 22, comma 2, del regolamento in oggetto. Nello specifico in detta nota si rappresenta che "risulta non chiaro ad alcune Stazioni Appaltanti se il Restauratore possa assumere o meno la funzione di Direttore dei Lavori".
Al riguardo si osserva quanto segue.
L'art. 22, comma 2 cit. recita: "La direzione dei lavori, il supporto tecnico alle attività del responsabile unico del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale comprendono un restauratore di beni culturali qualificato ai sensi della normativa vigente, ovvero, secondo la tipologia dei lavori, altro professionista di cui all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio. In ambedue i casi sono richiesti un'esperienza almeno quinquennale e il possesso di specifiche competenze coerenti con l'intervento" ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili su area vincolata - Intervento eseguito in assenza di titolo abilitativo.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Nozione di precarietà di un intervento - Nozione di opera precaria - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. 42/2004 e 30, co. 1, e 8 legge 394/1991 - AREE PROTETTE - Parco naturale regionale - Disciplina per le opere precarie - Artt. 44, lett. e), 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 è comunque integrato anche dalla realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili, essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni intervento modificativo, con esclusione delle condotte che si palesino inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio.
Inoltre, la precarietà di un intervento non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore e che sono irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, in quanto è richiesta una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e l'opera deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2018 n. 39429 - link a www.ambientediritto.it).

agosto 2018

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio (abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della legge 394/1991.
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La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla-osta ed istanza di accertamento in sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria”.
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari: l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della specialità a quello della temporalità. Accertata la violazione, in assenza di nulla osta, all’ente Parco è conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in pristino.
Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che l'istanza di accertamento in sanatoria sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica in osservanza del requisito della doppia conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante (astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
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Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del 05.09 2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego, intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso, non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
Giova premettere che l’intervento è avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della legge 394/1991.
Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 36 d.p.r. 380/2001; violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. 241/1990, eccesso e sviamento di potere. Con ricorso straordinario vengono impugnate sia l’ordinanza di demolizione e riduzione in pristino sia il silenzio provvedimentale relativo all’istanza di accertamento in sanatoria su cui si era formato silenzio-rigetto.
Il ricorrente afferma che avrebbero errato il Comune di Terzigno e l’Ente Parco Vesuvio ad ordinare la demolizione delle opera abusive dovendo attendere la richiesta di istanza di nulla osta ai sensi dell’art. 13. Il motivo di gravame non è fondato.
La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla osta ed istanza di accertamento in sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania 3166/2018).
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari: l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della specialità a quello della temporalità. Accertata la violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in pristino. Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa (cfr. Cons. Stato, Parere sez. II, 23.02.2015, n. 449)”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato la istanza di accertamento in sanatoria sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica in osservanza del requisito della doppia conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante (astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi” (Cons. di stato, Parere sez. II, 1568/2011.)
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Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che il ricorso vada considerato in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio (abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette.
Ai sensi di tale normativa gli interventi edilizi richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri dell’Ente.
La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991 deve precedere la richiesta delle concessioni ed autorizzazioni necessarie agli interventi. L’accertamento di compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte dell’ente parco.
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La richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino all’emanazione del provvedimento o alla formazione del silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non incide sulla validità o efficacia del provvedimento sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie che riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale diniego della sanatoria”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
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L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n. 394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
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La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria”.
L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Invero, “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa”.
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Giova premettere che l’intervento edilizio è avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi di tale normativa interventi edilizi richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri dell’Ente. La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991 deve precedere la richiesta delle concessioni ed autorizzazioni necessarie agli interventi. Precisa correttamente l’amministrazione che l’accertamento di compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte dell’ente parco.
Tutto ciò premesso il ricorrente non aveva richiesto il nulla osta ai sensi dell’articolo 13 e neppure acquisito l’accertamento di compatibilità paesaggistica prima di promuovere l’istanza di accertamento in sanatoria ai sensi dell’art. 36. Come puntualizzato dall’amministrazione la richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino all’emanazione del provvedimento o alla formazione del silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non incide sulla validità o efficacia del provvedimento sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie che riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale diniego della sanatoria (v. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203 e n. 1204)”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n. 394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
Lamenta il ricorrente che l’Ente Parco avrebbe dovuto attendere il risultato dell’accertamento dell’istanza di costruire in sanatoria prima di emanare l’ordine di demolizione.
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania, 3166/2018).
Si duole il ricorrente che la sanzione prescelta sia quella ripristinatoria e non quella pecuniaria. La doglianza è priva di fondamento. L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Come si afferma nella giurisprudenza di questo Consiglio: “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa” (Cons. Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449).
Sussistevano dunque i presupposti di fatto e di diritto per l’emanazione dell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
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Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.

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L’intervento posto in essere, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.

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L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
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L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
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... per la riforma della sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez. II.
...
Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo (Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“
protezione delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali – insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la zona] “è costituita dalle parti del territorio interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto, secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga alle norme della zona territoriale omogenea della quale fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse demolizioni con successive ricostruzioni, se non specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri. Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto i lavori di ristrutturazione con ampliamento e sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po., con esecuzione delle opere come richieste secondo gli allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d. del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica, come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con edificio attiguo) non potessero essere demolite e ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto- non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non ammessa dal piano regolatore generale per il valore paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici, il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche, integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa degli interessati. Nello stesso senso va inteso il riferimento alla fattispecie della “distruzione” dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro., in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove progressivamente è stata sostituita la parte povera di parametro murario senza alcun elemento di pregio … e successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe., asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità dell’intera struttura, non risultava proponibile né realizzabile, in concreto, un intervento di recupero conservativo delle parti di muratura non previste da demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile- l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto senza avere preventivamente avanzato istanza di variante (istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto trovare accoglimento in applicazione degli strumenti urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza, tale decisione, sia pure supportata da considerazioni tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la prospettazione di parte, alla base della decisione di far abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha indicato che “la situazione di crollo parziale e di non recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato perché non potessero essere attivate procedure di salvaguardia e di restauro, certo costoso più della demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno detto circa pericoli od altro; hanno riferito della condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV, 07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta- era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva, alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del 07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della sentenza con cui sono state respinte le censure proposte avverso il diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a differenza di quanto prospettato dagli appellanti, l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente (ndr: installazione di una tettoia con copertura retrattile -cd. “pergotenda”- della superficie di 16 mq) impedisce solo che questa debba essere assoggettata a provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione del fatto che l’intera area comunale è sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento -non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse assoggettato a tali vincoli.
Sicché, risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da parte dell'autorità competente”.

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La Soprintendenza di Messina ha respinto l’istanza presentata dal ricorrente D’Al., con la quale si richiedeva il parere di compatibilità paesaggistica ai fini dell’installazione di una tettoia con copertura retrattile (cd. “pergotenda”), della superficie di 16 mq, da collocare su una terrazza posta all’ultimo piano di un edificio sito nel Comune di Castelmola.
Il provvedimento, in particolare, rilevava l’esistenza di un vincolo di notevole interesse pubblico apposto su tutto il territorio del Comune di Castelmola con DPRS 2976/1978, e del Piano Paesaggistico Ambito 9 approvato con D.A. 6682/2016; aggiungeva inoltre la circostanza che l’intervento proposto ricade in area soggetta al livello di tutela 1 del citato P.P.A.
In applicazione di tali strumenti di tutela del territorio, la Soprintendenza ha ritenuto di dover esprimere –con l’atto ora impugnato– parere contrario al progetto, trattandosi di intervento che “comporterebbe un notevole impatto negativo al paesaggio tutelato” essendo “ricadente in zona di notevole intervisibilità panoramica ai margini del tessuto urbano di Castelmola”.
Il ricorrente ha allora impugnato in questa sede il parere negativo espresso dalla Soprintendenza, assumendo che sia affetto dai seguenti vizi: ...
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
La indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente impedisce solo che questa debba essere assoggettata a provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione del fatto che l’intera area comunale di Castelmola è sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978, nonché inquadrata nel Piano Paesaggistico Ambito 9, più di recente varato dalla Regione Sicilia con riferimento alla provincia di Messina.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento -non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse assoggettato a tali vincoli.
A ben vedere, tale distinguo risulta ben conosciuto dal ricorrente, che non a caso ha inviato richiesta di nulla osta alla Soprintendenza di Messina prima di avviare alcun tipo di attività, salvo poi dolersi del parere contrario espresso dall’amministrazione.
Alla luce di quanto esposto risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”. Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da parte dell'autorità competente” (Tar Veneto 1007/2017)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 30.07.2018 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ormai pacifica ha ritenuto che in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico, preclude la maturazione degli effetti abilitativi della d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa autorizzazione paesaggistica …”.
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame, eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Invero, “… In ogni caso dirimente è la considerazione che in presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere sanzionato”.
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È evidente che rispetto alla recinzione in cemento armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna autorizzazione paesaggistica e, quindi, la DIA va considerata tam quam non esset.
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
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Altresì, «… Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria. …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate.
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune. Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato, non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune si tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza.
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della quale la stessa DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la sanzione pecuniaria.
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4.2.1. - Relativamente al primo motivo del ricorso introduttivo, va evidenziato quanto segue.
Tutte le aree, oggetto della D.I.A del 17.07.2009, sono parte di un percorso antico utilizzato per la transumanza.
Tali percorsi sono tutelati, oltre che con decreti ministeriali del 15.06.1976, del 20.03.1980 e del 22.12.1983, anche dalla più recente normativa di cui al dlgs n. 42/2004 e da varie norme regionali.
Per quel che qui rileva la Regione Puglia, con DGR n. 1748/2000 ha approvato il P.U.U.T, che ha inserito i percorsi armentizi, appartenenti al demanio, tra i beni culturali vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939.
Tra l’altro la recinzione, oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata, è tutta collocata in zona vincolata in quanto ricade interamente nel tracciato del Regio Tratturo Foggia-Ofanto, così come si evince dal provvedimento della Regione Puglia di riorganizzazione dell’assetto dei Tratturi e dalla planimetria allegata (cfr. documenti nn. 6 e 7 depositati dal controinteressato Novelli Antonio in data 30.04.2018, peraltro non specificamente contestati da alcuna delle parti costituite).
Per cui la situazione sopra descritta (i.e. realizzazione di opera permanente in cemento armato in zona vincolata) ha determinato la legittima adozione dell’ordinanza di demolizione e dei successivi provvedimenti comunali.
Alla luce di quanto sin qui esposto e dell’iter procedimentale non è, pertanto, condivisibile l’affermazione della società ricorrente secondo cui l’intervento de quo sarebbe stato realizzato su un suolo di proprietà privata non assoggettato ad alcun vincolo.
E’, infatti, certo che vi sia stata la realizzazione in area vincolata di un intervento idoneo ad alterare l’aspetto del territorio in contrasto con il parere espresso dall’Autorità preposta alla tutela del vincolo e ciò di per sé legittima l’emissione dell’ordinanza di demolizione oggetto di impugnativa, non risultando fondata alcuna delle censure formulate da parte ricorrente.
Sul punto la giurisprudenza ormai pacifica ha -come sopra visto- ritenuto che in presenza di aree, assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico, preclude la maturazione degli effetti abilitativi della d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa autorizzazione paesaggistica …” (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295).
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame, eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.12.2016, n. -OMISSIS-59).
Si richiama altresì TAR Campania, Napoli, Sez. III, 02.03.2018, n. 1352: “… In ogni caso dirimente è la considerazione che in presenza di zona vincolata -come nella specie- si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere sanzionato. (cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 15/09/2016, n. 4319). …”.
Ne consegue che in applicazione del principio di diritto affermato dalla costante giurisprudenza amministrativa, il motivo di gravame sub 1) va disatteso, a fronte di una DIA (quella del 17.07.2009) avente espressamente ad oggetto la realizzazione di una recinzione in cemento armato.
Per quanto detto si tratta di una DIA certamente inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 (“Nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell’esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti”) poiché in difformità rispetto alla autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Soprintendenza avente ad oggetto una recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili (rete metallica), come espressamente evidenziato nella nota del 02.02.2016.
È quindi evidente che rispetto alla recinzione in cemento armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna autorizzazione paesaggistica e quindi la DIA del 17.07.2009 va considerata tam quam non esset.
Va, inoltre, evidenziato che, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, la DIA del 2009 non è stata confermata nel 2011.
Infatti, la determina dirigenziale dell’11.01.2011 revoca la precedente diffida del 02.09.2009 e l’ordinanza dirigenziale di sospensione dei lavori del 09.09.2009, comunque precisando che la recinzione sarebbe potuta essere realizzata con le caratteristiche costruttive indicate nelle premesse, vale a dire nei termini autorizzati dalla Soprintendenza con nota prot. n. -OMISSIS- del 29.07.2010 (recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili).
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
...
Inoltre, come evidenziato da TAR Puglia, Bari, Sez. III, 09.03.2017, n. 223: «… Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del 02.12.2016). …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune. Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...
».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune di Cerignola si tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza (con note del 29.07.2010 e del 02.02.2016).
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della quale la stessa DIA del 17.07.2009 non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la sanzione pecuniaria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. II, 02.12.2016, n. 1350; cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111).
Stante la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica relativamente alle opere realizzate, deve quindi ritenersi immune da censure il provvedimento di demolizione emesso dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.07.2018 n. 1094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2018

EDILIZIA PRIVATA: In assenza di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino.
Invero, l’art. 22, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una d.i.a., al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.
In presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A. poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.

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La censura è infondata.
La DIA presentata il 03.02.2007 pacificamente mancava dell’autorizzazione necessaria per tutti gli interventi da realizzarsi su immobili sottoposti a vincolo.
Infatti, in base alla espressa previsione dell’allora vigente art. 22, comma 6, del d.p.r. 380 del 2001, “la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative. Nell'ambito delle norme di tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”.
Per tutti gli interventi realizzabili mediante DIA in base all’art. 22 era quindi necessaria la previa autorizzazione paesaggistica.
Ne deriva che in assenza di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino (cfr. TAR Lombardia Milano Sez. II, 29.07.2014, n. 2148, per cui l’art. 22, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una d.i.a., al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative).
In presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A. poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (TAR Campania, Napoli, 02.03.2018, n. 1352).
L’art. 23 del d.p.r. 380 del 2001, inoltre, nel testo allora vigente, ai commi 3 e 4 conteneva le seguenti disposizioni: “Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti
”.
Nel caso di specie, è circostanza altrettanto pacifica che l’immobile di via ... 19 sia sottoposto a vincolo paesaggistico in base al D.M. del 26.04.1973; né può rilevare la circostanza dedotta dalla difesa ricorrente, per cui il vincolo richiedeva l’autorizzazione solo per “opere che possano modificare l’aspetto esteriore della località”, dovendo comunque essere applicata la disciplina dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, per cui “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli 138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”.
Nel caso di specie, la ampiezza degli interventi, risultanti dalla relazione tecnica allegata alla DIA presentata il 03.02.2007 (consistenti tra gli altri in mutamenti di destinazione d’uso, frazionamento dell’immobile in 12 unità immobiliari, nonché nuova intonacatura e nuovi infissi di tutto l’edificio) comportavano necessariamente l’autorizzazione paesaggistica. Infatti, pur prescindendo dalla qualificazione dell’intervento edilizio, l’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, richiede, comunque, l’autorizzazione paesaggistica anche nel caso di interventi minori (di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo) che alterino “lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore dell’edificio”.
La DIA presentata al Comune il 03.02.2007 non ha quindi mai avuto alcun effetto in relazione alle allora vigenti disposizioni degli articoli 22 e 23 del d.p.r. n. 380 del 2001 e dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004..
La mancanza della autorizzazione paesaggistica non può essere neppure stata sanata dalla successiva autorizzazione paesaggistica in sanatoria del 07.04.2011, che riguarda solo l’abbaino e i comignoli della copertura del tetto, che erano estranei alla DIA del 2007, essendo compresi nella DIA in variante presentata il 09.07.2008 (oggetto del provvedimento di demolizione del 12.09.2008).
Il titolo edilizio del 2007 non si è dunque mai formato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.06.2018 n. 6567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Interventi, opere e costruzioni in aree protette - Titoli abilitativi - Rilascio di tre distinti e autonomi provvedimenti - Artt. 149, 181 d.lgs. n. 42/2004 - Artt. 3, 10, 22, 37, 44, 81, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti, quali il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con la conseguenza che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando siano attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette) (Cass. Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.05.2018 n. 20739 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Falso ideologico al tecnico del Comune che rilascia un’autorizzazione paesaggistica illecita.
Integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. - "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici" (ma i termini del problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di cui all'art. 480 - "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative") il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della relativa domanda.
L'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni
.
Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella nota sentenza Sezz. U. 02.02.1995 n. 1827 che affermò il principio, mai più posto in discussione, secondo il quale
anche nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica.
I provvedimenti amministrativi emessi all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità, non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è implicitamente vincolato.

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2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
3.1 primi due motivi, comuni per l'oggetto, possono essere esaminati congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde «del reato di cui agli artt. 110, 479, cod. pen., per aver concorso, con la proprietaria committente (Ad.Li.Co.), nell'illecito rilascio dell'autorizzazione paesaggistica predisponendo e presentando, la proprietaria, la relazione paesaggistica nella quale, nonostante l'illecito asservimento prevedesse la realizzazione sul sito di volumetrie non consentite (in particolare la zona qualificata E3 - verde agricolo fascia costiera - con indice di fabbricabilità mc/mq 0,01 avrebbe potuto esprimere una volumetria di circa mc. 45,32, mentre veniva progettata una costruzione avente una volumetria di mc. 352,52, utilizzando illecitamente volumetrie di fondi distanti e con caratteristiche E2 ed indice di fabbricabilità mc/mq 0,03), si affermava falsamente la compatibilità ambientale dell'intervento e che lo stesso valorizzava l'assetto del sito, sul quale veniva prevista invece una densità di costruzione non consentita, con conseguente pregiudizio ambientale, costituendo così gli indispensabili falsi presupposti che consentivano al Re., come tecnico comunale, l'emissione dell'autorizzazione paesaggistica, presupposto necessario per il rilascio del permesso di costruire, fondata su tali qualificazioni nella consapevolezza della loro falsità».
Il fatto è contestato come commesso in Morciano di Leuca il 14/12/2009.
3.2. La Corte di appello ha diversamente rubricato il fatto qualificandolo ai sensi dell'art. 480, cod. pen.. Non rileva in questa sede la diversa qualificazione del fatto (della quale si giova l'imputato) derivante dalla ritenuta diversità dell'oggetto della condotta (un'autorizzazione piuttosto che un atto pubblico), perché ciò non muta i termini del problema.
3.3. Secondo la ricostruzione della vicenda, così come concordemente operata dai Giudici di merito senza contestazioni del ricorrente, risulta quanto segue:
   3.3.1. il 27/10/2009, la sig.ra Ad.Li.Co. aveva chiesto al Comune di Morciano il rilascio del permesso di costruire per realizzare una civile abitazione stagionale estesa 119 mq. (oltre porticato) che sviluppava una volumetria di 352,52 mc.;
   3.3.2. l'area di sedime era situata in zona classificata dal Programma di Fabbricazione vigente come "E3 - verde agricolo fascia costiera" (art. 18 delle relative NTA), che prevedeva un indice di fabbricabilità fondiaria pari a 0,01 mc/mq, in base al quale avrebbe potuto essere sviluppata una volumetria di soli 45,32 mc.;
   3.3.3. la realizzazione dell'ulteriore volumetria era stata progettualmente prevista mediante l'accorpamento di terreni situati altrove, in zona classificata dal PdF come "E2 - verde agricolo", che prevedeva un indice di fabbricabilità pari a 0,03, mc/mq (art. 17 delle relative NTA);
   3.3.4. secondo quanto previsto dal PdF e dalla legge regionale Puglia n. 56 del 1980, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità e amministrativa, l'accorpamento dei fondi era consentito solo all'imprenditore agricolo e solo ove fosse compatibile con la effettiva vocazione agricola dell'intervento;
   3.3.5. nel fascicolo relativo alla richiesta di permesso di costruire erano stati rinvenuti unicamente un certificato di iscrizione alla camera di commercio della Colella come imprenditore agricolo ed un certificato di attribuzione della partita IVA per lo svolgimento dell'attività di "coltivazione di frutti oleosi", ma nessun documento che correlasse l'intervento edilizio all'attività agricola;
   3.3.6. l'area oggetto di intervento era stata inserita dal P.U.T.T. della Regione Puglia, nell'ambito territoriale esteso "C", soggetto a particolare regime di tutela che richiedeva il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica;
   3.3.7. il 14/12/2009 era stata rilasciata l'autorizzazione paesaggistica nella quale si affermava che: «l'intervento previsto si ritiene conforme allo strumento urbanistico - PdF vigente, in quanto rispetta gli indici plano volumetrici prescritti nelle zone agricole (...) non incide in maniera sconvolgente sull'aspetto architettonico e paesaggistico dei luoghi (...) facendo salvi tipologia, volumi e standards urbanistici previsti dal vigente PdF (...) l'intervento risulta conforme al PUTT, così come riportato nella relazione paesaggistica allegata al progetto (...) accertata la conformità urbanistica dell'intervento allo strumento urbanistico vigente, nonché al PUTT ed alla normativa in materia».
3.4. Secondo i Giudici di merito, l'autorizzazione non avrebbe potuto essere rilasciata ostandovi i seguenti presupposti di fatto, ben noti all'imputato:
   a) il progetto prevedeva la realizzazione di una "casa di civile abitazione in campagna";
   b) l'intervento edilizio non era funzionale alla conduzione di un'impresa agricola inesistente;
   c) i lotti da accorpare non erano confinanti, né contigui;
   d) gli indici di utilizzazione fondiaria non erano omogenei, non essendo consentito utilizzare i maggiori indici di utilizzazione fondiaria di un fondo per incrementare quelli ben minori dell'area di sedime.
3.5. Di qui l'affermazione della falsità dell'autorizzazione paesaggistica nella parte in cui ha dato per esistenti i presupposti per il suo rilascio.
4. E' necessario premettere che, come anticipato, il ricorrente non contesta le basi fattuali del ragionamento dei Giudici di merito. Sin dall'appello, infatti, si era limitato a contestare la configurabilità giuridica del reato di falso ideologico e a dedurre la mancanza dell'elemento soggettivo.
4.1. La tesi difensiva della insussistenza del reato è totalmente infondata alla luce del costante insegnamento di questa Corte secondo il quale
integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. (ma i termini del problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di cui all'art. 480) il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della relativa domanda. L'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta, Rv. 268083).
4.2. Lo stesso principio, peraltro, è già stato affermato con sentenza Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953, che ha definito altro processo a carico dell'odierno imputato, reo di aver rilasciato un'autorizzazione paesaggistica falsa nei suoi presupposti.
4.3. Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella nota sentenza Sez. U, n. 1827 del 02/02/1995, Proietti, Rv. 200117, che affermò il principio, mai più posto in discussione, secondo il quale
anche nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica.
4.4.
I provvedimenti amministrativi emessi all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità, non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è implicitamente vincolato
(Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto, Rv. 216123; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305; Sez. F, n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, che ha ribadito la sussistenza del reato in caso di omessa indicazione, in provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto).
4.5. La tesi del cd. "falso indotto" è radicalmente priva di fondamento fattuale prima ancora che giuridico poiché mai è stata messa in discussione la conformità a vero dei fatti rappresentati negli elaborati progettuali a corredo della richiesta di autorizzazione, tant'è che il Tribunale ha potuto agevolmente ricostruire la vicenda esaminando proprio gli atti prodotti dalla proprietaria/ committente.
E dunque il ricorrente/pubblico ufficiale aveva ben presenti i presupposti fattuali della condotta amministrativa e tutte le informazioni necessarie a esprimere un giudizio tecnico consapevole e coerente con i fatti documenti, senza necessità di sopralluoghi.
Torna utile ricordare che, come detto, lo stesso ricorrente non ha mai messo in discussione la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito secondo i quali la violazione delle norme e degli strumenti urbanistici era talmente eclatante da non poter passare inosservata ad un pubblico ufficiale esperto come l'odierno ricorrente.
4.6. I primi due motivi sono dunque manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18890).

marzo 2018

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Conferenza di servizi preliminare e tutela paesaggistica.
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Processo amministrativo – Atto impugnabile - Conferenza di servizi preliminare – Determinazione conclusiva – E’ impugnabile.
  
Paesaggio – Tutela – Autorità statale preposta alla gestione del vincolo - Finalità esclusiva.
   L’atto conclusivo della conferenza di servizi preliminare è impugnabile (1).
  
La tutela dei valori paesaggistici costituisce, per l’autorità statale preposta alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di comparazione, da parte della medesima autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per il preminente valore costituzionale del paesaggio, sia perché la funzione di tutela del paesaggio si svolge attraverso valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa pura (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che gli effetti giuridici essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3, sesto periodo, l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui “Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e con le modalità di cui agli artt. 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”.
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze (di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento degli effetti della conferenza preliminare, nei termini sinteticamente descritti, implica la necessità, per i soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
   (2) Nel caso di specie, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio aveva rilasciato parere favorevole di compatibilità paesaggistica, per il progetto preliminare di un’opera pubblica di notevole impatto in quanto la soluzione proposta non sembra avere alternative. La Sezione ha ritenuto che in tal modo si pone illegittimamente in comparazione “l’inserimento paesaggistico delle opere”, che attiene alla tutela del paesaggio, con la mancanza di alternative alla soluzione proposta, che attiene a interessi diversi e non affidati alla Soprintendenza (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 08.03.2018 n. 185
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
13. - Con il secondo motivo, i ricorrenti –denunciando «Eccesso di potere. Difetto d'istruttoria. Illogicità manifesta. Erroneità dei presupposti. Travisamento dei fatti. Contraddittorietà. Perplessità. Difetto di motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della L. n. 241/1990»- fanno valere i vizi di legittimità che inficerebbero i pareri, rilasciati in sede di conferenza di servizi svoltasi il 29.06.2016, da parte delle autorità deputate alla tutela dei vincoli paesaggistici esistenti sull’area in cui dovranno essere eseguiti i lavori.
In primo luogo, nei confronti del parere favorevole all’intervento reso dal “Servizio tutela del paesaggio” per le provincie di Cagliari e Iglesias, ufficio della Regione Sardegna, si deduce il difetto di istruttoria e di motivazione sia perché mancherebbe una valutazione specifica dell’impatto paesaggistico di un intervento che si caratterizza per l’imponenza della struttura (in specie, del viadotto), sia perché le considerazioni svolte sarebbero, oltre che generiche, del tutto tautologiche.
Nei confronti del parere favorevole espresso dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio si rileva, in particolare, la contraddittorietà della motivazione. Il delegato in conferenza di servizi, infatti, osserva in primo luogo che la soluzione proposta «non appare soddisfacente in relazione all’inserimento paesaggistico delle opere», indicando anche le rilevanti modifiche che andrebbero apportate al progetto. Peraltro, osservano i ricorrenti, il parere si conclude apoditticamente con l’affermazione che la soluzione progettuale non sembra avere alternative e che non vengono ravvisati elementi ostativi alla realizzazione dell’opera.
Con il terzo motivo, i ricorrenti contestano la stessa possibilità di un corretto inserimento paesaggistico dell’intervento progettato, sulla scorta della considerazione che si intendono realizzare delle opere di dimensioni sproporzionate rispetto sia alla natura del tutto eccezionale degli eventi alluvionali paventati, sia al notevole pregiudizio che subirebbe il pregio paesaggistico della zona coinvolta in relazione alla finalità perseguita, ossia la regolarità del traffico veicolare in una località abitata da poco più di mille persone.
Con il quarto motivo i ricorrenti sollevano ulteriori profili di illegittimità del progetto approvato, per il difetto di istruttoria emerso in conferenza di servizi con riferimento alla considerazione che il viadotto progettato sarebbe stato reso necessario dalla situazione di irregolarità dei ponti esistenti; e con riferimento al rilievo secondo cui le opere progettate sarebbero funzionali alla realizzazione di un parco che metta in collegamento la zona sportiva con la biblioteca. Entrambi i rilievi sarebbero sganciati dalla realtà di fatto e dimostrerebbero che il progetto è stato redatto in assenza della necessaria conoscenza dei luoghi.
Infine, con il medesimo motivo, si deduce l’errore in cui sarebbe occorso il responsabile unico del procedimento nel ritenere che il Comune di Capoterra avrebbe espresso, in epoca precedente alla conferenza di servizi del 29.06.2016, parere favorevole al progetto.
Sostengono i ricorrenti che l’amministrazione comunale si è espressa esclusivamente in relazione alla versione definitiva dello Studio Hy. avente ad oggetto l'analisi idrologica del territorio, con specifico riferimento soltanto alla “soluzione 2” (si rinvia al doc. 4, pagg. 32-34, di parte ricorrente), riguardante il territorio c.d. “a valle”, verso la foce del Rio San Girolamo.
Nessun voto favorevole è mai stato espresso con riferimento all'intervento riguardante la realizzazione del nuovo attraversamento del lago di Poggio dei Pini, che rientrava tra quelli inerenti il territorio “a monte”.
13.1. - I motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la loro stretta connessione.
13.2. - Peraltro, prima di affrontare il merito delle censure, si pone una questione di rito che deriva dalla natura della conferenza di servizi tenutasi per l’esame e la valutazione del progetto.
Si è trattato, infatti, di una conferenza preliminare finalizzata (secondo la definizione di cui all’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del 1990) «a indicare al richiedente, prima della presentazione di una istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari pareri, intese, concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso, comunque denominati», in relazione alla quale si potrebbe prospettare il problema della impugnabilità della determinazione conclusiva, considerato che l’oggetto della conferenza preliminare non è ravvisabile nell’approvazione del progetto sottoposto al suo esame ma, piuttosto, quella di prefigurare le condizioni della (futura) approvazione del progetto definitivo o esecutivo.
La questione si traduce, quindi, nel verificare il reale contenuto lesivo della determinazione conclusiva della conferenza preliminare, sia quando essa si esprima nel senso di rilevare le criticità del progetto esaminato, che non consentirebbero una sua positiva valutazione, ipotesi rispetto alla quale si profila l’interesse del proponente a impugnare l’esito negativo della conferenza); sia quando (come nel caso di specie) l’esito della conferenza preliminare sia favorevole all’iniziativa progettuale (perché in tal caso l’impugnabilità della determinazione conclusiva si sorreggerebbe sull’interesse a ricorrere di terzi controinteressati che si ritengano lesi dalla conclusione della conferenza).
Ciò premesso in linea di principio,
gli effetti giuridici essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3, sesto periodo, della legge n. 241/1990, secondo cui «Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e con le modalità di cui agli articoli 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo».
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze (di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).

Ne deriva come conseguenza che
il possibile consolidamento degli effetti della conferenza preliminare, nei termini sinteticamente descritti, implica la necessità, per i soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
Nel caso in esame, trattandosi di esito favorevole che si inserisce nel procedimento di approvazione del progetto preliminare, correttamente i vizi della determinazione conclusiva della conferenza preliminare vengono fatti valere, in via derivata, quali vizi dell’ordinanza (più volte citata) con la quale è stato approvato il progetto preliminare (mentre la immediata impugnabilità della determinazione conclusiva della conferenza preliminare si rende necessaria, per il soggetto che propone l’intervento, solo in caso di esito negativo, assimilabile a una sorta di «arresto procedimentale»).
13.3. - Nel merito, sono fondate le censure con le quali si denuncia il difetto di motivazione del parere favorevole espresso dall’ufficio regionale sul paesaggio, nonché la illogicità e contraddittorietà del parere favorevole reso dalla Soprintendenza.
13.4. - L’area interessata dall’intervento è tutelata sotto il profilo paesaggistico per l’operare di diversi vincoli, per effetto –in primo luogo- del D.M. 15.06.1981, e, successivamente, dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004, dell’art. 142 del medesimo codice dei beni culturali (con riferimento alla fascia dei 150 metri del rio San Girolamo), delle previsioni contenute nel piano paesaggistico regionale del 2006 (in quanto la zona ricade all’interno della fascia costiera, art. 17 delle n.t.a. del PPR).
Ciò premesso, è opportuno riferire il contenuto dei pareri con i quali le autorità preposte alla tutela dei vincoli hanno positivamente valutato il progetto preliminare.
13.5. - Per quanto concerne il parere del servizio regionale di tutela del paesaggio (cfr. nota del 16.06.2016, doc. 13 di parte ricorrente), sul presupposto che «l’ipotesi progettuale prevede la formazione di una sede più ampia dell’attuale corso d’acqua, atta a rendere maggiormente funzionale e in sicurezza il sistema fluviale [e che] gli interventi sono improntati [alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica in armonia con il quadro paesaggistico di riferimento», conclude esprimendo «parere preliminare favorevole all’intervento proposto, riservandosi eventuali ulteriori approfondimenti in sede di progettazione definitiva, alla quale si rimanda, per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del D.Lgs. 42/2004».
Il parere della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio è stato reso in sede di conferenza di servizi preliminare del 29.06.2016, nei seguenti termini: «Il rappresentante della Soprintendenza fa presente che la soluzione proposta non sembra avere alternative; essa, peraltro, non appare soddisfacente in relazione all'inserimento paesaggistico delle opere. Pertanto, la condivisione del progetto preliminare deve intendersi limitata alle opere infrastrutturali e che il progetto definitivo, al fine di conseguire l’approvazione da parte della Soprintendenza, dovrà contemplare alcune modifiche per mitigare l’inserimento dell’opera nel contesto ambientale di Poggio dei Pini; in particolare si prescrive quanto segue:
   - dettagliato progetto degli interventi di mitigazione e compensazione comprensivo dell'indicazione della morfologia delle aree interessate e delle essenze da impiantare, contestuale alle altre opere;
   - se possibile eliminare la rotatoria;
   - definire e indicare le essenze arbustive e/o arboree da impiantare per mitigare gli impatti;
   - adozione di un sistema di illuminazione della nuova viabilità volto a limitarne l’inquinamento luminoso; l'indicazione di tutti gli elementi di arredo, delle armature stradali e dei corpi illuminanti (al riguardo, è indispensabile che vengano prodotte le relative schede tecniche […];
   - le mantellate di protezione spondale previste dal progetto sono caratterizzate da un notevole impatto visivo che deve essere mitigato mediante opere a verde, tenendo conto del conseguente incremento della rugosità e della scabrezza dell’alveo;
   - negli attraversamenti dei corsi d’acqua minori si chiede di eliminare il belvedere per limitare l’ingombro dei manufatti;
   - arretrare le spalle del ponte al fine di ottenere il mascheramento delle stesse e consentire la prosecuzione della sistemazione delle sponde dell’alveo anche in corrispondenza del ponte medesimo.[…] L’ing. Ga.To. conferma che la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias, Ogliastra non ha ravvisato la presenza di elementi ostativi alla realizzazione dell’opera
».
13.6. - La mancanza di una adeguata motivazione delle ragioni che consentirebbero di derogare al vincolo paesaggistico operante sull’area, emerge in maniera del tutto evidente dall’esame del parere dell’ufficio regionale per il paesaggio, atteso che si fa genericamente riferimento all’intervento proposto, senza tenere nel dovuto conto le dimensioni delle opere da realizzare (essendo palesemente insufficiente affermare che «gli interventi sono improntati [alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica»), né viene in alcun modo affrontata ed esaminata la fondamentale questione (in cui si traduce il potere di valutazione tecnica riservato all’autorità che gestisce, o co-gestisce, il vincolo) di come inserire l’intervento nel contesto paesaggistico di riferimento.
Alla luce del preminente valore costituzionale della tutela del paesaggio (art. 9 della Costituzione), ribadito costantemente dalla copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato (tra le più recenti, si veda Cons. St., sez. VI, 23.07.2015, n. 3652, ed ivi i richiami alle fondamentali sentenza della Corte Costituzionale e dello stesso giudice d’appello; in precedenza, si veda soprattutto Cons. St., sez. VI, 23.12.2013, n. 6223), il dovere di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica deve necessariamente articolarsi secondo «un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione: i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati; ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni; iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535)» (così la citata sez. VI, n. 6223/2013).
La motivazione, in particolare quando sono in gioco fondamentali valori costituzionali, deve dare conto in modo circostanziato sia delle premesse in fatto, sia del percorso logico e valutativo che l’amministrazione ha seguito per giungere alla decisione.
Nel parere favorevole reso dall’ufficio regionale sono sostanzialmente omessi tutti i passaggi sopra descritti.
13.7. - Quanto al parere della Soprintendenza, esso si caratterizza non solo per la insufficiente valutazione dei profili di compatibilità tra il progetto presentato e i valori paesaggistici implicati, ma anche per la intima contraddittorietà tra le considerazioni svolte in premessa, nelle quali sono comprese incisive richieste di modifica del progetto, e la conclusione formulata dal Soprintendente nel senso di non ravvisare «elementi ostativi alla realizzazione dell’opera».
Affermazione, quest’ultima, in patente contrasto anche con la premessa generale relativa all'inserimento paesaggistico delle opere, ritenuto non soddisfacente. Il che avrebbe dovuto indurre la Soprintendenza a esprimere parere contrario o a condizionare espressamente il rilascio del parere alle modifiche progettuali esplicitate in conferenza preliminare o a condizionare espressamente il parere favorevole alla adozione delle predette modifiche in sede di elaborazione e approvazione del progetto definitivo (ferma restando la necessità di motivare in ordine alla compatibilità dell’opera, pur modificata, con il vincolo paesaggistico).
Occorre far notare, infatti, come la tutela dei valori paesaggistici costituisca, per l’autorità (statale) preposta alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di comparazione, da parte della medesima autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per le ragioni costituzionali sopra menzionate, sia perché la funzione di tutela del paesaggio (come ha ricordato il Consiglio di Stato nella pronuncia della sez. VI, n. 3652/2015, sopra citata) si svolge attraverso valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa pura.
Pertanto, quando nel parere reso dalla Soprintendenza si sostiene, in premessa, che «la soluzione proposta […] non appare soddisfacente in relazione all'inserimento paesaggistico delle opere», in effetti si profila una ragione da sola sufficiente a motivare l’espressione di un parere contrario alla realizzazione dell’opera, essendo escluso che la Soprintendenza debba farsi carico di una comparazione dell’interesse paesaggistico (unico interesse attribuito alle sue cure) con altri interessi contestualmente presenti nella vicenda. Una deviazione da tali principi concretizzerebbe un vizio di eccesso di potere per sviamento, ovvero una classica ipotesi di esercizio del potere per una finalità diversa da quella prevista dalla norma.
Il che sembra ricorrere nel caso di specie, quando la Soprintendenza pone in comparazione «l’inserimento paesaggistico delle opere» (che attiene alla tutela del paesaggio) con la mancanza di alternative alla soluzione proposta (che attiene a interessi diversi e non affidati alla Soprintendenza).
14. - Dalle osservazioni che hanno portato all’accoglimento dei vizi sopra esaminati, deriva come conseguenza l’infondatezza del terzo motivo, poiché la valutazione della compatibilità paesaggistica dell’opera (in assenza di un vincolo di inedificabilità assoluta) è riservata alle autorità titolari della funzione di tutela, che si dovranno nuovamente pronunciare sul punto.
15. - Sono infondate, altresì, le censure di difetto di istruttoria di cui al quarto motivo, poiché si tratta di profili irrilevanti ai fini della decisione di realizzare le opere in questione.

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo edilizio adottato.
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4.3.− Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto che la mancanza di autorizzazione paesaggistica costituirebbe un requisito di efficacia e non di validità del permesso di costruire, con la conseguenza che non ne poteva essere disposto l’annullamento d’ufficio. Aggiunge, inoltre, che non sussisterebbe neanche il vincolo, perché non risulterebbe neanche dal certificato di destinazione urbanistica.
Il motivo è infondato.
Anche in questo caso la fondatezza della prima censura per mancanza del titolo edilizio rende priva di rilevanza l’analisi di tale motivo, in quanto le opere sono abusive.
In ogni caso, e parimenti ad abundantiam, si osserva che l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo edilizio adottato (Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V, 08.11.2012, n. 5691) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.03.2018 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2018

EDILIZIA PRIVATA: IL C.D. EQUILIBRIO URBANISTICO NON È SUFFICIENTE A GIUSTIFICARE L’ESISTENZA DEL PERICULUM PER IL REATO PAESAGGISTICO.
In tema di sequestro preventivo, al fine di ritenere sussistente il periculum in mora legittimante l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, in relazione al reato paesaggistico, è imprescindibile fare riferimento non tanto e non solo all’incidenza dell’uso degli immobili sul carico urbanistico (essendo ciò rilevante per il reato edilizio), ma è necessaria la valutazione circa il permanere della lesività della struttura abusiva già completata, sotto il profilo del pericolo concreto per il paesaggio, inteso in relazione all’assetto geomorfologico, all’assetto idraulico e all’assetto della costa.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame verte sulla possibilità di giustificare l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo disposto anche in presenza di un reato paesaggistico con il semplice richiamo all’esistenza stessa dell’opera abusiva.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari relativo ad un immobile (e più dettagliatamente della sopraelevazione costituente il terzo piano fuori terra di un immobile, nonché della scala in cemento armato realizzata in luogo dell’immobile di collegamento tra i due corpi di fabbrica insistenti in loco, il sottotetto costituente copertura dell’intero fabbricato, la veranda fronte mare sul suolo demaniale per mq 3,20) in relazione ai reati di cui all’art. 110 c.p. e d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c), art. 110 c.p. e artt. 54 e 1161 c. nav., art. 110 c.p. e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e artt. 110 e 323 c.p. In particolare, la decisione era stata assunta a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla stessa Cassazione di una precedente ordinanza che confermava il menzionato decreto di sequestro preventivo.
La sentenza della Cassazione aveva rilevato che il sequestro trovava fondamento essenzialmente nella contestazione di cui al capo B (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), incentrata sulla inosservanza delle previsioni del Piano stralcio di assetto idrogeologico della Regione Calabria, dalla quale era scaturita l’illegittimità dei titoli edilizi rilasciati ai proprietari dell’immobile. La pronuncia censoria aveva trovato ragione unicamente nel fatto che, in relazione al periculum in mora, il giudice del riesame aveva omesso di accertare in concreto se l’uso dell’immobile, abusivamente realizzato in zona vincolata, determinasse un aggravamento delle conseguenze del reato, istituendo una sorta di “automatismo” tra detto uso e l’alterazione dell’interesse tutelato dal vincolo.
Decidendo quindi in sede di rinvio il Tribunale del riesame si era diffuso sulle ragioni che a suo avviso rendevano sussistente il periculum in mora, legittimante l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, facendo riferimento all’incidenza dell’uso degli immobili sul carico urbanistico.
Contro l’ordinanza proponevano nuovo ricorso per cassazione gli indagati, in particolare lamentando che il Tribunale aveva omesso del tutto di pronunciarsi sul tema rimarcato dalla sentenza di annullamento, ovvero la relazione tra uso dell’immobile e aggravamento delle conseguenze del reato perché, pur non essendo stato contestato alcun profilo urbanistico, la valutazione del Tribunale aveva fatto perno esclusivamente sull’incidenza dell’uso dei beni sul carico urbanistico ed aveva, quindi, omesso ogni valutazione circa le conseguenze dell’utilizzo dell’immobile in relazione alla ratio delle disposizioni del vincolo PAI. Aggiungevano gli indagati che nel caso concreto non sussisteva pericolo per la sicurezza e l’incolumità pubblica, alla cui tutela correlano il vincolo Pai, e l’incongruenza di un sequestro che funzionale a fronteggiare siffatto pericolo aveva ad oggetto il bilocale sito all’ultimo piano dell’edificio e non questo nella sua interezza.
La tesi ha convinto gli Ermellini che, nel dichiarare fondato il ricorso, hanno osservato come effettivamente il Tribunale aveva posto la sua attenzione sull’incidenza dell’utilizzo del bene sul carico urbanistico, ovvero sull’equilibrio urbanistico, che però è cosa diversa dalla preservazione delle coste e dalla sicurezza idrogeologica.
Sul punto, i Supremi Giudici hanno ricordato che in una recente decisione (Cass. pen., Sez. III, 28.11.2016, n. 50336, G., CED, 268331) si è rammentato che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente la mera esistenza di una struttura abusiva ultimata “non integra i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del paesaggio” (Cass. pen., Sez. III, 13.10.2015 n. 48958, G., CED, 266011; Id., Sez. III, 27.10.2010, n. 40486, Pm in proc. P. e altro, CED, 248701 ha precisato che “l’esclusione dell’idoneità dell’uso della cosa a deteriorare ulteriormente l’ecosistema, protetto dal vincolo, deve formare oggetto di un esame particolarmente approfondito”; principio di recente ribadito da Cass. pen., Sez. III, 24.08.2016, n. 35456, F., inedita).
Da qui, dunque, la fondatezza del ricorso, con nuovo annullamento dell’ordinanza (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 28.02.2018 n. 9196 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL N.O. RILASCIATO DOPO L’ESECUZIONE DEI LAVORI IN MANCANZA DELLE CONDIZIONI NON EQUIVALE AD AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.
L’autorizzazione postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. n. 42/2004, la possibilità di una valutazione della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto, non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo.
La Corte di cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare la questione giuridica relativa all’individuazione dei possibili effetti che possono essere esplicati dal rilascio di nulla osta paesaggistico.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva integralmente confermato la pronuncia con cui il Tribunale di Oristano aveva ritenuto l’imputato responsabile dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 per aver, nella qualità di proprietario di un terreno soggetto a vincolo paesaggistico e committente, realizzato, in assenza del permesso di costruire e delle prescritte autorizzazioni, tre piste di varia lunghezza e dimensioni eliminando la vegetazione esistente formata da piante della macchia mediterranea e livellando il terreno.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nella specie per aver ritenuto l’irrilevanza del nulla osta tardivamente conseguito dall’imputato atteso che l’assenso della P.A. in relazione al vincolo paesaggistico, sia pure ottenuto ad opere già ultimate, dimostrava che le stesse non erano incompatibili con l’ambiente, attestandone al contrario la conformità ed agli strumenti urbanistici operativi al momento della loro realizzazione, ed avendo perciò in tal caso il nulla osta efficacia sanante.
La tesi è stata respinta dalla Corte di cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ribadito il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui l’autorizzazione paesaggistica costituisce, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 4, atto autonomo e presupposto rispetto agli altri titoli edilizi legittimanti l’intervento edilizio e, all’infuori dei casi tassativamente previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, commi 4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Pertanto l’autorizzazione postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi del citato art. 167, la possibilità di una valutazione della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto legislativo, non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo (Cass. pen., Sez. III, 07.05.2010, n. 17535, M., CED, 247166; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, C., CED, 237562; Corte Cost., ord. n. 158 del 1998).
È tuttavia prevista, in deroga alla regola generale, una speciale ipotesi di estinzione del reato in presenza di autorizzazione postuma allorquando questa venga rilasciata alle condizioni ed all’esito della speciale procedura di cui all’art. 181, comma 1-quater dello stesso decreto.
Trattasi invero di un procedimento applicabile ai soli interventi ivi tassativamente indicati, caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull’assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge, che postula, in ogni caso, l’osservanza di una rigida sequenza temporale che, come ritenuto dalla giurisprudenza, non può prescindere dal necessario parere della sovrintendenza che la norma espressamente prevede e qualifica come vincolante (Cass. pen., Sez. III, 13.06.2016, n. 24410, P. e altro, CED, 267191; Id., Sez. III, 07.03.2008, n. 12951, S., CED, 239355), né ammette equipollenti (Cass. pen., Sez. III, 29.11.2011, n. 889, F., CED, 251639).
All’infuori di tali puntuali condizioni il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, comportando la qualificata ricognizione dell’assenza di conseguenze dannose o pericolose per l’ambiente, inibisce solo la demolizione e/o la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che ha funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (Cass. pen., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318; Id., Sez. III, 26.11.2002, n. 40269, N., CED, 222703; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, cit.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2018 n. 8853 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 7 del 14.02.2018, "Primo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 09.02.2018 n. 1671).

anno 2017
dicembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria accoglie la tesi della cessazione degli effetti del vincolo preliminare di notevole interesse pubblico ante novella del 2006, d.lgs. n. 42 del 2004 e modula la portata temporale della propria pronuncia.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di dichiarazione di notevole interesse – Sopravvenienza della norma che introduce un termine di 180 giorni per la approvazione –  Mancata conclusione del procedimento – Decadenza delle misure di salvaguardia.
  
Giustizia amministrativa – Principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria – Irretroattività – Condizioni.
  
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e dell’art. 139, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni». (1)
  
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: 
      a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; 
  
   b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; 
  
   c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche». 
«Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza». (2)
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   (1) I. – Il caso.
La questione oggetto della pronuncia in rassegna concerne la tematica della perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate nel 2006-2008 al Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42 del 2004), non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di appello proposto da una società –interessata al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le disposizioni della presente Parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria di tutela si protraeva fino alla approvazione del vincolo, senza indicazione di termini di efficacia della misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs. n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co. 1”  (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari, possessori o detentori dei beni che “non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata dalla competente commissione prima della data di entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche in assenza della approvazione mediante l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   a) alla data di entrata in vigore del Codice ha continuato a trovare applicazione la medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae fino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
   b) l’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che “le disposizioni della presente parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”, non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo, termini perentori per il perfezionamento della procedura o forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs. 26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto una espressa decadenza per le proposte non approvate dal Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò consegue che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo formulate antecedentemente alla entrata in vigore del Codice;
   c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157, comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”, poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare la statuizione di primo grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs. n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co. 2, del medesimo Codice che, al contrario, la confermerebbe.
   II.- La rimessione.
Con 
ordinanza 12.06.2017, n. 2838 (oggetto della 
News US in data 13.06.2017) la quarta sezione del Consiglio di Stato, dopo aver disatteso alcune questioni preliminari, ha deferito la questione all’Adunanza plenaria, ricostruendo i due orientamenti esegetici che si fronteggiano sul tema e richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons. Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 21.03.2005 n. 1121 che si richiamano ai principi espressi da Corte cost., 23.07.1997 n. 262, Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010 n. 16476; TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
     
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella A, allegata al d.m. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1, del Codice.
Tale affermazione si fonda sul sistema di tutela introdotto dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata adozione del provvedimento di vincolo nel termine di conclusione del procedimento a tal fine previsto non comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che, applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della proposta, diviene definitivo con l’adozione della dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997 cit.);
      e) il legislatore del 2006-2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004;
      f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del “tempus regit actum”;
      g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
      h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di effetti le proposte di vincolo a seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr. 
sentenza n. 57 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza plenaria (cfr. 
sentenza n. 6 del 06.07.2015, in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che estende misure decadenziali a fatti storici anteriori dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie, come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria);
      i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il paesaggio come valore primario costituzionale (ma riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa, pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo della violazione del principio generale della proporzionalità (cfr. negli esatti termini Corte di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano Siragusa).
Secondo un diverso più recente orientamento, maturato in seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (
Cons. Stato, sez. VI, 16.11.2016 n. 4746
TAR Puglia–Bari, sez. III, 08.03.2012, n. 521 e TAR Venezia, sez. II, 08.04.2005, n. 1393), anche per le proposte di vincolo approvate prima della entrata in vigore della novella al d.lgs. n. 42 del 2004, varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento ministeriale conclusivo del relativo procedimento. 
Ciò in quanto:
      j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal punto di vista del tenore letterale, una tale differenziazione nel regime giuridico delle proposte di vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni, elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo per intervenuta decadenza;
      k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (a differenza di quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004;
      l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
   III.- La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la decisione in rassegna, l’Adunanza plenaria ha ritenuto di fare propria la tesi minoritaria, definita di “discontinuità”, ravvisando tuttavia l’esigenza di arricchirne (e in parte modificarne) le argomentazioni e di individuarne gli effetti, nei termini così sintetizzati:
      m) occorre distinguere tra efficacia delle proposte di vincolo ed efficacia del vincolo preliminare sul bene che ne costituisce oggetto; la conservazione della “efficacia a tutti gli effetti”, dal punto di vista della interpretazione letterale, è predicata dall’art. 157, comma 2, in relazione alle sole proposte non anche al vincolo preliminare sul bene che ne discende. Quest’ultimo è soggetto ad una propria disciplina avente finalità cautelare;
      n) il rinvio operato dall’art. 157, comma 2, alle disposizioni della Parte III del d.lgs. n. 42/2004 deve intendersi come comprensivo della regola della decadenza introdotta nell’art. 141 dal d.lgs. 157/2006 e riformulata dal d.lgs. 63/2008, non avendo alcun fondamento la tesi secondo cui esso sia limitato alle norme di tutela (dunque al solo art. 146) o che si tratta di rinvio fisso al testo originario dell’art. 141 che inizialmente non contemplava la cessazione del vincolo preliminare;
      o) il rinvio non ha natura recettizia, ma formale (quindi mobile), come si evince dalla formulazione letterale, che si riferisce alla fonte (“Le disposizioni della presente Parte”) e non al contenuto;
      p) posto, dunque, che l’art. 157, comma 2, rinvia tanto all’art. 141, comma 5, quanto all’art. 146, comma 1, per evitare l’assurdo logico che esso implichi allo stesso tempo che l’effetto preliminare delle proposte anteriori (art. 141, comma 5) persista (art. 146, comma 1), l’unica soluzione possibile è interpretarlo nel senso che esso intenda da un lato conservare l’efficacia delle proposte anteriori alla novella del 2006 al Codice, dall’altro assoggettarne l’effetto preliminare di vincolo alla disciplina vigente sulla decadenza allo spirare del termine di 180 giorni previsto per la conclusione del procedimento;
      q) non può prospettarsi una questione di violazione del principio di irretroattività della legge perché nel caso di specie v’è una norma transitoria, l’art. 157, comma 2, che prevede espressamente l’applicabilità alle situazioni pendenti della nuova disciplina sulla decadenza della misura di salvaguardia introdotta nel 2006 e confermata nel 2008. In tal modo, infine, viene fatta corretta applicazione alla fattispecie del principio tempus regit actum, dal momento che la nuova disciplina viene applicata alla fase del procedimento (valutazione della proposta ai fini dell’assunzione del provvedimento definitivo) ancora in corso;
      r) sussiste l’opportunità di uniformare il sistema, per esigenze di coerenza e di parità di trattamento, che viene in rilievo allorquando si debbano valutare fatti accaduti nel passato i cui effetti si producono nel presente;
      s) sul piano teleologico, la tesi della discontinuità si giustifica alla luce della considerazione, da parte del legislatore, di una pluralità di valori costituzionali, quali, oltre quello del paesaggio, la protezione della proprietà privata (art. 41 Cost., nonché art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU e quindi art. 117 Cost.), e il buon andamento della pubblica amministrazione;
      t) la tesi della continuità si pone in conflitto con il canone della ragionevolezza, poiché ammette che il vincolo preliminare possa essere efficace anche a distanza di numerosi anni dalla proposta, ancorché da tempo sia stata introdotta nel Codice una disposizione che ne sancisce la perdita di efficacia;
      u) la nuova disciplina, introdotta con il d.lgs. 157/2006 e con il d.lgs. 63/2008, non priva di efficacia le proposte, ivi comprese quelle di cui all’art. 157, c. 2, ma conforma diversamente il potere di imposizione del vincolo, comportando la decadenza delle sole misure di salvaguardia in caso di inerzia protrattasi oltre 180 giorni.
   IV.- Per completezza, sulla tematica della tutela del paesaggio, si segnala:
      v) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490) -secondo il quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9 Cost.- 
Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem 25.01.1990, n. 139; 
Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121Sez. V, 11.10.2005, n. 5484Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
      w) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla titolarità ed all’esercizio dei poteri di tutela, controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
      x) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del territorio, 
Corte cost., 24.07.2013, n. 23818.07.2013, n. 211 e 24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza;
      y) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it., 2013, I, 2733.
   (2) I.- Gli effetti della pronuncia dell’Adunanza Plenaria e il prospective overruling «sostanziale».
A fronte della obiezione della difesa erariale sulla compromissione della tutela paesaggistica che deriverebbe dalla tesi della «discontinuità», implicando la cessazione ex abrupto di un numero indefinito (ma verosimilmente elevato) di proposte di vincolo, che lascerebbe prive di protezione aree pregiate dal punto di vista naturalistico o culturale, l’Adunanza plenaria ha affermato i seguenti importanti principi:
      a) ha ribadito che a cessare è solo l’effetto preliminare di vincolo, non l’efficacia della proposta;
      b) la decadenza dell’effetto preliminare non è immediata, ma una volta decorso il termine di 180 giorni;
      c) circa la decorrenza del predetto termine, dopo aver rammentato che in base al combinato disposto dell’art. 140, comma 1, e dell’art. 139, comma 5, del Codice, tale termine decorre dalla pubblicazione della proposta (sicché, per le proposte anteriori al Codice, il vincolo preliminare sarebbe decaduto decorsi 180 giorni dall’entrata in vigore –ad opera del d.lgs. 63/2008– dell’attuale testo dell’art. 141, comma 5, che tale decadenza commina, ovvero, ancor prima, per effetto del d.lgs. 157/2006, che l’ha introdotta), precisa che in un quadro di incertezza normativa, ben può, in via del tutto eccezionale, la sola Adunanza plenaria modulare la portata temporale della propria sentenza, facendone decorrere gli effetti solo per il futuro; tanto alla stregua delle seguenti considerazioni:
         c1) la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha già da tempo affermato –nell’ambito della giurisdizione di annullamento sugli atti delle istituzioni– che il principio dell’efficacia ex tunc dell’annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata assoluta e che la Corte può dichiarare che l’annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia effetto ex nunc o che, addirittura, l’atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l’istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l’atto impugnato; ciò al fine di tener conto non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare rilevante. Tale giurisprudenza trova oggi un fondamento testuale nel secondo comma dell’art. 264 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea (FUE);
         c2) i principi europei sono trasferibili nell’ordinamento nazionale in virtù dell’art. 1 del Codice sul processo amministrativo, secondo cui “La giurisdizione amministrativa  assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”;
         c3) la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato può, sia pure in circostanze assolutamente eccezionali, trovare una deroga, con la limitazione parziale della retroattività degli effetti o con la loro decorrenza ex nunc: il Consiglio di Stato ha già fatto applicazione di codesti principi (il leading case è rappresentato da Cons. Stato, sez. VI, n. 2755 del 2011 cui adde in motivazione sez. VI, 09.03.2011, n. 1488);
         c4) lo stesso ordinamento nazionale riconosce la possibilità di graduare l’efficacia delle decisioni di annullamento di un atto amministrativo (cfr. l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e l’art. 34, comma 1, lettera a), c.p.a. nonché artt. 121 e 122 c.p.a.);
         c5) anche la Corte costituzionale, pur partendo dal principio della natura intrinsecamente retroattiva delle sentenze dichiarative dell’incostituzionalità di una legge (che altrimenti sarebbero inutili per la parte vittoriosa del giudizio a quo), ha ritenuto possibile la graduazione degli effetti nel tempo della sentenza di accoglimento qualora vi sia «l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali» (così Corte cost. 11.02.2015 n. 10, in Foro it., 2015, I, 1502, con nota di ROMBOLI; id.,  2015, I, 1922 (m), con nota di TESAURO; Riv. giur. trib., 2015, 384, con nota di BORIA; Corriere trib., 2015, 958, con nota di STEVANATO; Riv. dir. trib., 2014, II, 455, con nota di RUOTOLO, CAREDDA; Dir. e pratica trib., 2015, II, 436, con nota di CAMPODONICO; Giur. it., 2015, 1324 (m), con nota di COSTANZO, MARCHESELLI, PINARDI SCAGLIARINI; Dialoghi trib., 2015, 62, con nota di GALLIO, SOLAZZI BADIOLI, STEVANATO, LUPI; Giur. costit., 2015, 45, con nota di ANZON DEMMIG, GROSSO, PUGIOTTO, GENINATTI SATÈ; Riv. neldiritto, 2015, 1055, con nota di PIROZZI; Giur. costit., 2015, 585, con nota di NOCILLA; Riv. dir. trib., 2015, II, 3, con nota di FEDELE, CROCIANI; Dir. e pratica trib., 2015, II, 905 (m), con nota di MISTRANGELO, ZANOTTI; Riv. trim. dir. trib., 2015, 981, con nota di AMATUCCI);
         c6) secondo quanto desumibile dall’esegesi dell’art. 99 c.p.a., le pronunce dell’Adunanza plenaria hanno natura essenzialmente interpretativa -in particolare quando essa ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione rimettente– e, analogamente  alle sentenze di annullamento e a quelle di incostituzionalità, hanno efficacia retroattiva;
         c7) in tali ipotesi, la deroga alla retroattività trova fondamento, più che nel principio di effettività della tutela giurisdizionale, nel principio di certezza del diritto: si limita la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni;
         c8) la deroga alla retroattività trova giustificazione anche nel dato testuale dell’art. 113 Cost. secondo cui “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”, con la precisazione che l’interposizione del legislatore non occorre allorquando via sia un principio generale dell’ordinamento UE direttamente applicabile che permetta al giudice amministrativo di pronunciarsi sulla legittimità degli atti della pubblica amministrazione modulando gli effetti della propria sentenza, e ciò vale in particolare quando il giudizio di annullamento presenti uno spiccato carattere interpretativo;
         c9) dalla natura interpretativa delle pronunce dell’Adunanza plenaria discende altresì la praticabilità del prospective overruling, in forza del quale il principio di diritto, affermato in contrasto con l’orientamento prevalente in passato, non verrà applicato (con vari aggiustamenti) alle situazioni anteriori alla data della decisione. In questi casi il prospective overruling si esplicita, dunque, nella possibilità per il giudice di modificare un precedente, ritenuto inadeguato, per tutti i casi che si presenteranno in futuro, decidendo però il caso alla sua immediata cognizione in base alla regola superata;
         c10) le condizioni che devono ricorrere perché l’Adunanza plenaria possa limitare al futuro l’applicazione del principio di diritto sono: 
   - l’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; 
   - l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; 
   - la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche;
         c11) nella fattispecie in esame sussistono tutte le indicate condizioni, poiché:
   - il dato letterale è equivoco;
   - la tesi della continuità è prevalente;
   - è necessario, a tutela del paesaggio, evitare la cessazione istantanea di tutti i vincoli preliminari attualmente esistenti su aree di interesse naturalistico o culturale;
         c12) ne consegue che, fermo il potere del legislatore di intervenire per ridisciplinare la materia, la delimitazione al futuro del principio di diritto affermato implica che l’effetto preliminare di salvaguardia cessi decorsi 180 giorni dalla pubblicazione della sentenza.
   II.- Sulla possibilità di modulare gli effetti delle sentenze dell’Adunanza plenaria si segnala: 
      d) il leading case, citato in motivazione, rappresentato da Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2011, n. 2755 (in Urb. e app., 2011, 927, con nota di TRAVI; Riv. neldiritto, 2011, 1228, con nota di RONCA; Guida al dir., 2011, fasc. 26, 103 (m), con nota di LORIA; Giornale dir. amm., 2011, 1310 (m), con nota di MACCHIA; Giur. it., 2012, 438 (m), con nota di FOLLIERI; Riv. giur. ambiente, 2011, 818 (m), con nota di DE FEO, TANGARI; Dir. proc. amm., 2012, 260, con nota di GALLO, GIUSTI; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2012, 566, con nota di AMOROSO, ANNUNZIATA), in cui, rilevata l’illegittimità del piano faunistico venatorio regionale, piuttosto che annullarlo (così eliminando le –pur insufficienti– misure protettive per la fauna), il giudice amministrativo ne ha accertato la illegittimità statuendo al contempo l’obbligo di procedere entro dieci mesi all’approvazione di un nuovo piano faunistico, in conformità alla motivazione di accoglimento del ricorso.
In questo caso la pronuncia si è dichiaratamente ispirata al principio di effettività della tutela onde evitare che l’annullamento potesse paradossalmente pregiudicare la posizione della associazione ambientalista ricorrente, anche se vittoriosa, rammentando che «la funzione primaria ed essenziale del giudizio è quella di attribuire alla parte che risulti vittoriosa l'utilità che le compete in base all'ordinamento sostanziale»; la sentenza della sesta sezione ha suscitato un ampio dibattito dottrinale, nel quale sono emerse in genere posizioni critiche (cfr. MACCHIA, L’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giornale dir. amm., 2011, 1310; FOLLIERI, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, 438; GALLO, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, e GIUSTI, La «nuova» sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2012, 260; TRAVI, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e «non annullamento» dell’atto illegittimo, in Urb. e app., 2011, 927; BERTONAZZI, Sentenza che accoglie l’azione di annullamento amputata dell’effetto eliminatorio?, in Dir. proc. amm., 2012, 1128; CARBONE, Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, in Dir. proc. amm., 2013, 428; DIPACE, L'annullamento tra tradizione e innovazione; la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 1273); 
      e) il precedente della VI sezione (invero anticipato da Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2011, n. 1488, anch’esso citato in motivazione, sebbene nella diversa ottica del bilanciamento di interessi più che di effettività della tutela, in una fattispecie in cui, annullata una destituzione, è stato escluso, sul piano retributivo, l’effetto ripristinatorio) ha avuto un qualche seguito nella successiva giurisprudenza amministrativa di primo grado (cfr. Tar per l’Abruzzo, Pescara, 13.12.2011 nn. 693-700, in un caso di adozione di una variante alle NTA del PRG in assenza di preventiva V.A.S. e Tar per il Molise, 21.11.2014, n. 637, in caso di accertata illegittimità di una autorizzazione unica per la realizzazione di un impianto a biomasse in mancanza della VINCA, in un’ottica tuttavia di bilanciamento di valori costituzionali, nonché Tar per l’Abruzzo, Pescara, 03.07.2012, n. 336; Tar per il Lazio, Sez. III-bis, 09.04.2014, n. 3838) e incontrato il favore della più recente dottrina (DE NICTOLIS, L'autotutela provvedimentale di annullamento degli atti illegittimi tra principi costituzionali, regole e eccezioni, in www.giustizia-amministrativa.it; CHIEPPA e GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2011506);
      f) la possibilità di modulare nel tempo gli effetti della sentenza di annullamento è stata successivamente esclusa da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI nonché in Urb. e app., 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it., 2015, 1693 (m), con nota di COMPORTI; Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI); tale pronuncia (non menzionata dalla Plenaria in oggetto), chiamata a decidere una fattispecie in cui si è negato che il g.a. possa convertire, d’ufficio, la domanda di annullamento in tutela risarcitoria,  ha ritenuto espressamente (ai §§ 6 -8 ), di non poter recepire i principi elaborati dalla richiamata sentenza della VI sezione n. 2755 del 2011 (valore paradigmatico dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e degli artt. 34, comma 1, lettera a), nonché 121 e 122 c.p.a.; non trasponibilità, nell’ordinamento italiano, delle regole del processo dinanzi alla Corte di giustizia UE di cui all’art. 264 FUE); dopo aver rammentato che la giurisdizione amministrativa di legittimità è una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, ha anche precisato che non è “consentito al giudice, in presenza dell’acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda” (nello stesso senso, sia prima che dopo, v. Ad. plen.  25.02.2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429 con nota di SIGISMONDI; Ad. plen., 27.04.2015, n. 5, id., 2015, III, 265, con nota di TRAVI); 
      g) sull’effetto retroattivo della sentenza di annullamento –da cui discende, tra gli altri, l’effetto ripristinatorio- si veda per tutti, nella dottrina classica, CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento (voce), in Enc. dir., Milano, 1958, 496;
      h) nel caso esaminato dalla pronuncia in rassegna, la modulazione temporale degli effetti cassatori:
         h1) non è stata applicata ad una statuizione di annullamento –avendo la Plenaria rimesso la decisione alla sezione rimettente– bensì all’effetto naturalmente retroattivo della sentenza che, affermando il principio di diritto applicabile al caso di specie, ha natura dichiarativa e non costitutiva;
         h2) è stata applicata -al contrario di quanto sancito dal leading case della VI Sezione n. 2755 del 2011- a sfavore della parte ricorrente; per un primo commento sul punto si veda ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13) in Lexitalia 05.01.2018secondo il quale la limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (su cui di recente si veda Cass. civ., sez. un., 29.12.2017 n. 31226 secondo cui “alla tradizionale interpretazione “statica” –propria delle disposizioni codicistiche– del concetto di giurisdizione rilevante ai fini dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, si è andata affiancando una ulteriore interpretazione, “dinamica” o “funzionale”, sottesa agli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, Cost. e al primo comma dello stesso art. 111, come novellato dalla legge costituzionale 23.11.1999, n. 2. In base a tale interpretazione “dinamica”, attiene alla giurisdizione l’interpretazione della norma che l’attribuisce non solo in quanto ripartisce tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall’ordinamento risulti realizzata, dall’altro i presupposti del loro esercizio; sicché è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca”);
      i) sul valore del precedente, sulla funzione nomofilattica delle corti supreme, e sul difficile rapporto fra interpretazione della legge e creazione della norma, si vedano, da ultimo e nell’ambito di una sterminata letteratura, gli scritti di F. PATRONI GRIFFI, La funzione nomofilattica: profili interni e sovranazionali, in Federalismi.it, n. 19/2017 ; R. RORDORF, Il precedente nella giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 277; A. PROTO PISANI, Tre note sui <<precedenti>> nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, nella giurisprudenza di una Corte di cassazione necessariamente ristrutturata e nella interpretazione delle norme processuali, ibidem, 286; V. FERRARI, L’equivoco del giudice legislatore, ibidem, 295 (cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza anche in chiave comparata).
   III. – Il prospective overruling.
In tema di overruling -e cioè di mutamento della precedente interpretazione della norma processuale da parte dell’organo nomofilattico che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, di modo che l’atto compiuto dalla parte, od il comportamento da questa tenuto secondo l’orientamento precedente, risultino irrituali per effetto ed in conseguenza diretta del mutamento dei canoni interpretativi- si segnala quanto segue:
      j) a partire da Cass. civ., sez. un., 11.07.2011 n. 15144 (in Foro it., 2011, I, 3343, con nota di CAPONI, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, nonché in Corr. giur. 2011, 1392, con commenti di CONSOLO, CAVALLA e DE CRISTOFARO, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling) e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015, n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n. 12521, 13.02. 2014, n. 3308, in Foro it., 2014, I, 1114 con nota di P. CERBO, cui si rinvia per ogni approfondimento; e, da ultimo, Cass. civ., sez. un., 13.09.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per configurare il c.d. prospective overruling (istituto creato nel diritto nordamericano degli anni trenta proprio per mitigare gli effetti della naturale retroattività dei revirement delle corti supreme), e quindi per attribuire carattere innovativo, con decorrenza ex nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: 
         j1) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; 
         j2) l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un ragionevole affidamento; 
         j3) l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa; 
   k) tale impostazione è stata pedissequamente seguita anche dal giudice amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in considerazione dalla decisione in commento), Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9, in Foro it. 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI, (specie § 4, in cui si afferma esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.”); successivamente, 
Cons. Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138 (oggetto della 
News US in data 14.11.2017 cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento); la pronuncia in rassegna ha esteso il prospective overruling alla interpretazione innovativa di una norma di diritto sostanziale (anziché processuale), con il rischio di privare il ricorrente sia della tutela cassatoria che di quella risarcitoria, e senza che si fosse formato un diritto vivente sul punto controverso (tanto che era stato necessario rimettere la questione alla Plenaria proprio per la presenza di un contrasto di giurisprudenza maturato in seno al Consiglio di Stato); nel caso di specie la Plenaria ha ritenuto di estendere la portata del prospective overrulling ad una decadenza procedimentale dell’Amministrazione (decadenza delle misure cautelari di salvaguardia) ravvisando la medesima ratio della decadenza processuale, sul presupposto della inderogabile necessità di tutelare un valore costituzionale, qual è il paesaggio e quindi di dover consentire alle Soprintendenze di concludere nel termine di legge di 180 gg. (decorrente dalla pubblicazione della sentenza della Plenaria) i procedimenti di vincolo avviati prima dei correttivi al codice dei beni culturali e mai conclusi, con salvezza delle misure di salvaguardia che, diversamente, sarebbero risultate irrimediabilmente travolte dall’effetto retroattivo della pronuncia che ne ha accertato la cessazione;
   l)  sulla valenza inderogabilmente retroattiva della esegesi di norme di carattere sostanziale anche in presenza di un overruling, si veda Cass. civ., Sez. V, 18.11.2015, n. 23585: “La regola secondo cui, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile revirement giurisprudenziale non operano nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente sul precedente consolidato orientamento attiene unicamente al profilo deglieffetti del mutamento di una consolidata interpretazione del giudice della nomofilachia in ordine a norme processuali. Il sopravvenuto consolidamento di un nuovo indirizzo giurisprudenziale su norme di carattere sostanziale che in astratto consentirebbero la riforma di una precedente decisione non può quindi giustificare la rimessione in termini invocata dalla parte onde superare il giudicato formale formatosi per la mancata tempestiva impugnazione di una sentenza” (in termini, Sez. VI, 09.01.2015, n. 174, Riv. giur. trib., 2015, 315, con nota di MARCHESELLI; Nuova giur. civ., 2015, I, 501, con nota di MOLINARO) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 22.12.2017 n. 13 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere della Sovrintendenza, autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi della stessa più ampia sequenza procedimentale, autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei primi due fa comunque venir meno i presupposti che radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di costruire per l’effetto caducante che ne consegue.
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18. E’ comunque autonomamente fondata anche la seconda censura, alla quale la società oppone plurime, ma non fondate eccezioni di inammissibilità. Il parere della Soprintendenza è perplesso e contraddittorio perché quanto alle opere già eseguite richiama le disposizioni degli artt. 167 e 181 del codice e la sussistenza del vincolo paesaggistico, demandando al Comune la verifica di compatibilità, mentre si esprime chiaramente in senso favorevole solo sulle ulteriori opere ancora da eseguire.
18.1. Segue da ciò il vizio dell’autorizzazione comunale, che va oltre il segno nell’inciso della premessa, non conforme al vero, “visto il parere favorevole della Sovraintendenza”.
19. Parere della Sovrintendenza, autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi della stessa più ampia sequenza procedimentale, autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei primi due fa comunque venir meno i presupposti che radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di costruire per l’effetto caducante che ne consegue (cfr. per una parallela fattispecie procedimentale Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4193) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.12.2017 n. 5896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne determina l’inefficacia.
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1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig. Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
   - veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
   - piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x 5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto, altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato autorizzato.
...
4.3 Gli ultimi due motivi dedotti dal ricorrente si riferiscono ai locali adibiti a lavanderia e deposito.
Il ricorrente ha evidenziato che con provvedimento del 03.07.1989 il Comune di Joppolo ha autorizzato la costruzione di una tettoia per frescura in legno e una baracca in legno e lamiera per deposito attrezzi e WC. Lo stesso ricorrente ha, quindi, precisato che con permesso di costruire n. 8 del 2009 l’immobile del ricorrente, con le relative pertinenze, ha ottenuto il cambio di destinazione d’uso da civile abitazione a ristorante.
Le difese del ricorrente si incentrano sostanzialmente su tali argomenti, rilevando profili quali il lungo tempo trascorso, il consolidarsi di una situazione di affidamento, l’intervenuta autorizzazione alla modificazione della destinazione d’uso.
Osserva il Collegio che il provvedimento repressivo nel caso dei locali in questione non si basa sull’assenza di titolo edilizio, ma sulla mancanza del nulla osta ambientale, in relazione all’operato mutamento di destinazione d’uso.
È pacifico fra le parti che i manufatti in questione siano sottoposti a vincolo ambientale, ai sensi della legge 08.08.1985 n. 431.
Orbene, è innegabile che l’azione dell’amministrazione si sia svolta in modo non aderente ai canoni di buona amministrazione, se è vero che essa si è resa conto dell’esistenza del vincolo dopo circa vent’anni dal rilascio del primo titolo edilizio e dopo avere rilasciato nel 2009 un permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso.
Gli stessi atti di accertamento e il provvedimento impugnato non brillano per chiarezza e completezza espositiva. Anzi risultano, per certi versi, lacunosi e scarsamente comprensibili.
Ciò premesso, vi è un dato che risulta, tuttavia, insuperabile: manca l’autorizzazione paesaggistica.
Occorre tenere conto, in proposito, che la giurisprudenza ha chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne determina l’inefficacia (Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015 n. 5663).
Ne consegue che, pur in presenza del titolo edilizio, l’intervento assentito non è eseguibile fino a quando non intervenga detta autorizzazione.
L’intervento repressivo da parte dell’autorità comunale non rende, quindi, necessario l’esercizio di poteri di autotutela, con la conseguenza che non risultano applicabili i principi in materia di tutela di affidamento vigenti in relazione a tale potere.
I motivi dedotti risultano, pertanto, infondati.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla necessità di autorizzazione paesaggistica in ipotesi di insussistenza del bene tutelato per legge ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del d.lgs. 42/2004 – Comune di Tolfa (Regione Lazio, nota 30.11.2017 n. 610249 di prot.).

ottobre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004 a seguito dell'entrata in vigore del DPR n. 31 del 2017, "Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" - Comune di Genzano di Roma (Regione Lazio, nota 17.10.2017 n. 522062 di prot.).

settembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: A. Panzera, Interventi edilizi semplificati in zona di tutela paesaggistica (Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2017).
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A seguito di pubblicazione in Gazzetta ufficiale (G.U. Serie Generale n. 68 del 22.03.2017) è entrato in vigore il Regolamento contenente norme “per l’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica e di quelli sottoposti ad iter semplificato”, in attuazione dell’articolo 12, comma 2, del Decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla Legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25, comma 2, del Decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.11.2014, n. 164. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 15.09.2017, "Approvazione, ai sensi degli articoli 84 e 85 della l.r. 12/2005, della modulistica utile alla predisposizione degli atti e delle determinazioni che gli enti locali lombardi debbono assumere nei procedimenti paesaggistici di loro competenza" (decreto D.G. 12.09.2017 n. 10892).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'11.09.2017, "Sesto aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 04.09.2017 n. 10538).

EDILIZIA PRIVATA: G. Guzzo e E. Del Greco, LA TUTELA DEL PAESAGGIO NELL’ATTUALE CODIFICAZIONE LEGISLATIVA: DIRITTO FONDAMENTALE O DIRITTO CEDEVOLE? (10.09.2017 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: Premessa. 1. Edilizia e paesaggio: le rispettive discipline. 2. La legge n. 1497/1939 e la tutela delle bellezze naturali. 3. La legge n. 431/1985 e la previsione dei vincoli paesaggistici. 4. Il d.lgs. n. 490/1999: il testo unico delle disposizioni legislative in materia culturale e ambientale. 5. L’autorizzazione ambientale. 6. Il d.lgs. n. 42/2004 e s.m. e integrazioni. 7. I piani paesistici. 8. Il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. 8.1. I termini fissati dall’articolo 146 per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica come novellato dalla legge n. 164/2014 (art. 6, co. 4, e 25, co. 3). 8.2. I rimedi di giustizia azionabili nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica. 8.3. Il d.P.R. n. 139/2010 e il d.P.R. n. 31/2017. 9. L’articolo 167, commi 4, 5 e 6 del d.lgs. n. 42/2004: l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. 10. L’autorizzazione per le infrastrutture di comunicazione elettronica dopo la legge n. 36/2001 (art. 8) e il d.lgs. n. 259/2003 (art. 87) e s.m. ed int. 11. Considerazioni finali.
agosto 2017

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, il ricorso all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui alla appena citata norma ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Sicché, il Collegio ritiene che l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere realizzato sul territorio, richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata.
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5. – Dalla documentazione acquisita in giudizio emerge che la Sovrintendenza con nota 11770 del 16.04.2014 aveva espresso parere favorevole alla installazione dei due cartelloni “non essendosi rilevati elementi avversi la conformità e la compatibilità dei lavori di cui si tratta (…)” (così, testualmente, nell’atto sopra richiamato e depositato in giudizio).
Con la successiva nota qui impugnata del 04.01.2016, adottata in seguito alla riapertura del procedimento, provocato dalla nota che il Comune di Fiumicino, in data 07.09.2015, aveva trasmesso alla Soprintendenza chiedendo un ulteriore approfondimento istruttorio ed al preavviso di diniego di cui alla nota del 03.11.2015, la Soprintendenza ribaltava totalmente il precedente avviso favorevole specificando testualmente che:
   - il luogo oggetto dell’intervento di installazione di cartellonistica pubblicitaria su strada di cui alla richiesta di autorizzazione si colloca “in una zona sottoposta a tutela paesaggistica, in un punto di grande visibilità”;
   - “la proposta è risultata non compatibile, in quanto propone la messa in opera di due strutture per insegna pubblicitaria di ampia dimensione, collocate su suolo pubblico in un'area che, pur vulnerata dalla presenza diffusa di un'edificazione disomogenea e di scarsa qualità, presenta ancora visuali sufficientemente libere da interferenze visive”;
   - l'installazione in esame, ove realizzata, a causa delle sue dimensioni e della tipologia di forme e materiali scelti, causerebbe un disturbo percepibile dei valori paesaggistici tutelati, che si aggiungerebbe al disordine esistente, in contrasto con le finalità di miglioramento della qualità paesaggistica indicate dalla normativa di tutela vigente.
La Sovrintendenza poi, nel corpo del medesimo atto rilevava (sempre testualmente) come “nelle osservazioni prodotte, la richiedente cita l'autorizzazione ottenuta da questo Ufficio per altre due installazioni simili. Tale argomentazione, non può essere assunta come parametro ai fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di competenza di questo Ufficio ai sensi dell'art. 146, co. 8, del D.lgsl. 42/2004. Come già asserito nel preavviso di diniego espresso da questa Soprintendenza con la nota citata a margine, l'art. 153 del Codice riguarda esclusivamente le installazioni pubblicitarie, che per loro natura sono considerate dalla normativa paesaggistica, pertanto, in via di principio generale come elementi di forte disturbo dei valori paesaggistici ("il paesaggio è l'ambiente nel suo aspetto visivo", vv. sentenza C. Cost. n. 367/2007). Pertanto, per quanto attiene gli aspetti strettamente paesaggistici (vv. sentenza Cons. Stato n. 3652/2015), si ritiene che il permanere, e/o il proliferare di simili installazioni in zone che, essendo sottoposte a tutela paesaggistica ai sensi dell'art. 9 della Costituzione, necessitano di particolare attenzione, a causa dell'aspetto intrusivo di tali manufatti è da considerarsi non solo non accettabile ma censurabile”.
Concludeva la Sovrintendenza la motivazione della decisione sfavorevole segnalando al Comune di Fiumicino che, “si rimanda l'autorizzazione eventuale di strutture pubblicitarie, ove possibile, ad una fase successiva alla rivisitazione della normativa comunale di riferimento attualmente in vigore, normativa che è comunque sempre subordinata a quella paesaggistica”.
6. – Pare evidente, dalla semplice lettura della motivazione dell’atto qui impugnato con il ricorso introduttivo, che il revirement della Soprintendenza non è accompagnato da alcun espressa divulgazione delle ragioni tecnico-giuridiche che hanno imposto la rivalutazione della compatibilità paesaggistica dell’installazione della cartellonistica stradale né –e ciò è ancora meno comprensibile– delle ragioni che hanno indotto gli uffici in un primo tempo a rilasciare con nettezza e senza oscillazioni il nulla osta alla installazione per poi, ad una distanza temporale inferiore a due anni, mutare totalmente avviso con riferimento all’identico contesto paesaggistico ambientale rispetto al quale la installazione non avrebbe avuto, secondo il primo parere, nessun impatto pregiudizievole per i valori da proteggere nell’area interessata.
Peraltro tale contraddizione non risolta da una adeguata motivazione era stata già sottolineata dalla odierna ricorrente all’epoca dell’invio delle controdeduzioni al preavviso di diniego del 03.11.2015, ma la Soprintendenza non ha ritenuto, neppure nella parte del provvedimento di diniego nel quale mostra di esprimere una risposta alle controdeduzioni, di fornire riferimenti più puntuali in merito, limitandosi, per vero in modo piuttosto semplicistico, ad affermare come il riferimento segnalato nelle controdeduzioni all’autorizzazione ottenuta dalla società per altre due installazioni simili costituisce “argomentazione (che n.d.r.) non può essere assunta come parametro ai fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di competenza di questo Ufficio”.
7. – Sotto altro versante va poi rilevato che il provvedimento della Soprintendenza costituisce un diniego di autorizzazione paesaggistica frutto dell’esercizio del potere attribuito al ridetto ente dall’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il legislatore ha concepito l’intero procedimento ed il provvedimento conclusivo dello stesso come un autonomo procedimento amministrativo indipendente rispetto “al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” (così, testualmente, al comma 4).
Orbene risulta agli atti che la Soprintendenza aveva già esercitato tale potere, concludendo il relativo procedimento con l’autorizzazione di cui alla nota n. 11770 del 16.04.2014, esprimendo parere favorevole alla installazione dei due cartelloni. Ne deriva che il nuovo provvedimento adottato il 04.01.2016 costituisce una duplicazione dell’esercizio dello stesso potere (già esercitato) senza che mai, neppure nel provvedimento qui impugnato, la Soprintendenza abbia posto nel nulla il precedente atto secondo le coordinate della disciplina legislativa degli atti di ritiro, vale a dire nel rispetto degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241.
Posto che non appare francamente revocabile in dubbio che il provvedimento del 04.01.2016 contenga un implicito annullamento del precedente avviso favorevole del 18.04.2014, posto che lo supera nei fatti e sotto il profilo giuridico ponendolo nel nulla, nell’adottarlo la Soprintendenza avrebbe dovuto rispettare le prescrizioni dettate per l’adozione degli atti di ritiro dall’art. 21-nonies l. 241/1990.
Infatti, per giurisprudenza costante, il ricorso all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui alla appena citata norma ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale anche di questa Sezione, ritiene che l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere realizzato sul territorio, richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2123 e 20.09.2012 n. 4997 nonché TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13.08.2015 n. 1896 e TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.02.2015 n. 654).
8. – Ad avviso del Collegio, quindi, sono fondate le censure con le quali la Un. contesta la contraddittorietà del comportamento mantenuto dalla Soprintendenza rispetto al precedente parere espresso in senso favorevole alla installazione, del quale non ha tenuto in adeguato conto nella motivazione dell’atto di diniego qui impugnato con il ricorso introduttivo nonché i profili di doglianza che attengono ad una non corretta applicazione della disciplina regolatrice gli atti di ritiro. Il rilievo delle doglianze accolte, nel palinsesto di legittimità dell’atto impugnato, provoca la irrilevanza dello scrutinio degli ulteriori motivi di gravame dedotti.
La fondatezza dei suindicati motivi di censura provoca, inevitabilmente, l’accoglimento anche del ricorso recante motivi aggiunti con il quale veniva impugnato, anche per illegittimità derivata, il provvedimento comunale conseguente che, traendo forza giuridica dal parere sfavorevole della Soprintendenza alla installazione dei due cartelloni, negava il rilascio della relativa autorizzazione comunale (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato - Efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria - Esclusione - Artt. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
L'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria, deve escludersi per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato. Sul punto la giurisprudenza (Cass. Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998), Agnesse) (Corte Cost. sent. 149 del 30/04/1999). Tali esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in cemento armato (Cass. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A.; Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G. ed altre prec. conf.).
Intervento abusivo - Violazioni edilizie e paesaggistiche - Valutazione della particolare tenuità.
Ai fini della valutazione della particolare tenuità del fatto in tema di violazioni edilizie e paesaggistiche la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione, perché, per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico.
Inoltre, altro indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è rappresentato dalla contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali) (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi; Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38953 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: conferenza di servizi - partecipazione degli uffici ministeriali - competenze (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 07.08.2017 n. 24390 di prot.).
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Stante la rilevanza delle numerosi questioni esaminate dagli uffici ministeriali in sede di conferenza di servizi, si illustra brevemente la disciplina applicabile, al fine di facilitarne la corretta applicazione (in particolare, in ambito regionale), alla luce delle novità apportate dal d.lgs. n. 127 del 2016 alla disciplina della conferenza di servizi, contenuta negli artt. 14 e ss. della legge n. 241 del 1990, nonché delle modifiche organizzative introdotte dal d.m. 23.01.2016 al regolamento di organizzazione del Ministero, di cui al d.P.C.M. n. 171 del 2014.
In ambito sovraregionale, spetta al Direttore generale ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e sentenza della Corte cost. n. 56/2016 - Art. 349 cod. pen. - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di incostituzionalità di norme - Trattamento sanzionatorio - Rilevabilità d'ufficio - Rimodulazione del trattamento sanzionatorio - Inammissibilità del ricorso - Impugnazione tardiva - Preclusioni.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, dichiarato costituzionalmente illegittimo per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte cost. n. 56 del 11/01/2016, nella parte in cui lo stesso prevede: "«: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed», oggi è configurabile quale contravvenzione ex art. 181, comma 1, d.lgs. cit., e non più quale delitto.
Inoltre, l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti, come nella specie, il trattamento sanzionatorio, è rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di impugnazione, come nella specie, correttamente ritenuta tardiva; infatti in questo caso si è in presenza di un gravame sin dall'origine inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione dello stesso ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale, sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto.
Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della pena (Cass. Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, dep. 28/07/2015, Jazouli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.08.2017 n. 38687 - link a www.ambientediritto.it).

luglio 2017

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 27.07.2016 n. 170 "Regolamento dell’albo degli idonei all’esercizio dell’attività di direttore di ente parco nazionale, ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della legge 09.12.1998, n. 426" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.06.2016 n. 143).

EDILIZIA PRIVATA: Natura precaria dell'opera edilizia - Carattere stagionale dell'attività - Elementi della precarietà - Stabilimento balneare.
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera, la precarietà non va confusa con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente ricorrente della struttura, né con la possibilità di smontare il manufatto non infisso al suolo (si veda in proposito Cass. Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, secondo cui ...al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto per la sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Natura precaria dell'opera edilizia - Oggettiva temporaneità e contingenza - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - DIRITTO DEMANIALE - Fattispecie: occupazione arbitraria dello spazio demaniale marittimo - Alterazione di bellezze naturali - Art. 734 cod. pen. - Artt. 3, 6, 10 e 44, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 146-181, d.lgs. n. 42/2004.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione, tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l'opera è destinata a soddisfare in ordine alla dedotta precarietà dell'opera e che, (in specie) in ogni caso, trattandosi di opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, qualsiasi difformità dal titolo edilizio è comunque sanzionata ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 32, u.c., d.P.R. n. 380 del 2001), così come qualsiasi difformità dal progetto autorizzato integra il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004 (Fattispecie: installazione stagionale di uno stabilimento balneare costituito da una costruzione lignea pluripiano poggiante su pali in legno semplicemente infissi sull'arenile della spiaggia, in zona soggetta a speciale protezione ambientale e a vincolo ambientale) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Alterazione delle bellezze naturali - Stabilimento balneare - Art. 734 cod. pen. - Natura di reato istantaneo - Effetti della prescrizione e decorrenza del termine - Ultimazione dell'opera.
Il reato di cui all'art. 734 cod. pen., nell'ipotesi di alterazione delle bellezze naturali ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti e si consuma e si esaurisce con la costruzione lesiva delle bellezze naturali protette, sicché agli effetti della prescrizione il decorso del termine ha inizio dal momento in cui il reato si è realizzato con il compimento dell'opera ovvero la attuazione dei mezzi che hanno determinato il deturpamento (Sez. 3, n. 11226 del 04/07/1985, Bertani).
DIRITTO DEMANIALE - Ancoraggio del manufatto alla spiaggia - Natura di reato permanente - Demolizione del manufatto edificato entro la fascia demaniale o conseguimento dell'autorizzazione.
Il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 cod. nav. ha natura di reato permanente per il quale la permanenza cessa solo con la demolizione del manufatto edificato entro la fascia demaniale o con il conseguimento
dell'autorizzazione prescritta, dal momento che la norma è posta a tutela della sicurezza della navigazione marittima nelle zone prossime al demanio (Sez. 3, n. 3848 del 06/11/1997, Padua; cfr. altresì Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Circolare applicativa del d.P.R. n. 31 del 2017, "Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio, circolare 21.07.2017 n. 42).

EDILIZIA PRIVATAPer poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica.
I due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.

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Se può dubitarsi che con l’introduzione del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica sia divenuta condizione di validità del permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da considerare condizione di efficacia del titolo edilizio.
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Per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica. I due titoli (TAR Campania, sez. VIII n. 2652/2012), permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.
Nella fattispecie, come visto, l’autorizzazione paesaggistica non è stata mai richiesta né tanto meno acquisita, legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi senza dover ricorrere (come in effetti non ha fatto) al potere di autotutela (id est senza dover passare per l’annullamento della concessione edilizia n. 15/1982).
Se, infatti, può dubitarsi che con l’introduzione del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica sia divenuta condizione di validità del permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da considerare condizione di efficacia del titolo edilizio (cfr. in argomento C.d.S. n. 547/2006).
In conclusione sul punto, in difetto dell’autorizzazione paesaggistica i danti causa della ricorrente non avrebbero mai dovuto intraprendere i lavori sulla base di una concessione edilizia inefficace (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 11.07.2017 n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4).
Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).

Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio
(rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
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8. Quanto al secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono del travisamento probatorio cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di cui all'art. 181, comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza impugnata che l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non sarebbe stata preceduta dall'imprescindibile parere vincolante della competente Soprintendenza, aggiungendosi anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia dell'autorizzazione comunale, avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la stessa autorizzazione comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata subordinatamente al rispetto di alcune prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore bianco; nelle aree libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a dimora piante ad alto fusto tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe essere stato verificato.
In definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio postumo di un qualsiasi diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai fini della tutela paesaggistica, ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di condono edilizio), non produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che effettivamente vi è stato travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la Corte d'appello risulta aver considerato e valutato solo l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dall'organo competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente al rilascio dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto conto del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà espresso con nota prot. 11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio dell'autorizzazione comunale intervenuta in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva, esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4). Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio (rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione (v., per una ipotesi analoga in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep. 09/10/1997, Marcelletti, Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di fatto,
la sentenza dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello. Tuttavia, l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine di prescrizione massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi anche per tale reato la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il reato paesaggistico estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di rimessione in pristino stato (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30194).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione - Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale, sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la demolizione, presuppone che la valutazione effettuata dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il quale va precisamente individuato, dando atto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi escludere che possano assumere rilievo determinazioni di carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 - Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale - Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo, Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi. Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30170 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di bellezze paesaggistiche - Luogo soggetto a vincolo paesaggistico - Configurabilità del reato di cui all'articolo 734 cod. pen. - Elementi - Alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica - Artt. 181, co. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e 734 cod. pen..
Le bellezze paesaggistiche sono il risultato di componenti varie (la conformazione del terreno, la vegetazione naturale, la distribuzione, il tipo e l'ubicazione dei fabbricati esistenti, il paesaggio e la cornice complessiva), per cui anche il semplice spianamento del terreno e la distruzione della vegetazione integrano il reato di cui all'articolo 734 cod. pen. (Cass. Sez. 3, n. 1803 del 02/12/1981 - dep. 19/02/1982, Marcon).
Inoltre, per la realizzazione del reato previsto dall'art. 734 cod. pen., non è necessaria l'irreparabile distruzione o alterazione della bellezza naturale di un determinato luogo soggetto a vincolo paesaggistico, essendo sufficiente che, a causa delle nuove opere edilizie, siano in qualsiasi modo alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica offerte dalla natura (Cass. Sez. 6, n. 11929 del 21/03/1977 - dep. 29/09/1977, Oricchio) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30157 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola.
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Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione metallica su pali in ferro e per il “livellamento della depressione presente nel terreno agricolo"........... “al fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno” medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio, trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza, ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88 della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016, TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III 1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004 e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole interesse pubblico.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004  –  Efficacia – Mancata conclusione del procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria
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Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se, a mente del combinato disposto degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l’adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto. (1)
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(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di appello proposto da una società –interessata al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le disposizioni della presente Parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs. n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co. 1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari, possessori o detentori dei beni che “non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata dalla competente commissione prima della data di entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche in assenza della approvazione mediante l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
   b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che “le disposizioni della presente parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”, non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo, termini perentori per il perfezionamento della procedura o forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs. 26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto una espressa decadenza per le proposte non approvate dal Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò consegue che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo formulate antecedentemente alla entrata in vigore del Codice;
   c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157, comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”, poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs. n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co. 2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (
Cons. Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 e 21.03.2005 n. 1121 che si richiamano ai principi espressi da Corte cost., 23.07.1997 n. 262
; Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010 n. 16476; TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
   d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata adozione del provvedimento di vincolo nel termine di conclusione del procedimento a tal fine previsto non comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che, applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della proposta, diviene definitivo con l’adozione della dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997 cit.);
   e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004;
   f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del “tempus regit actum”;
   g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
   h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di effetti le proposte di vincolo a seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n. 57 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 6 del 2015, in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che estende misure decadenziali a fatti storici anteriori dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie, come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria);
   i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il paesaggio come valore primario costituzionale (ma riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa, pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo della violazione del principio generale della proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (
Cons. Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746; TAR Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521 e TAR Venezia, II, 08.04.2005, n. 1393
), anche per le proposte di vincolo approvate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
   j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal punto di vista del tenore letterale, una tale differenziazione nel regime giuridico delle proposte di vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni, elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo per intervenuta decadenza;
   k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (a differenza di quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004;
   l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
   m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9 Cost. - Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem 25.01.1990, n. 139; Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121; Sez. V, 11.10.2005, n. 5484; Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
   n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
   o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del territorio, Corte cost., 24.07.2013, n. 238; 18.07.2013, n. 211 e 24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza;
   p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it., 2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 12.06.2017 n. 2838 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2017

EDILIZIA PRIVATA: G. Spina, Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica e nuova procedura semplificata (Ambiente & Sviluppo n. 5/2017).
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Contesto normativo
Nella Gazzetta Ufficiale del 22.03.2017, n. 68 è stato pubblicato il D.P.R. 13.02.2017, n. 31, “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
Il nuovo Regolamento si inserisce all’interno di un tessuto normativo nel quale vanno quantomeno ricordate, in generale, le seguenti discipline. (...continua).

URBANISTICA: Questa Sezione ha già avuto modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042 continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del principio di “autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942. A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto che la legge urbanistica statale costituisce ancora normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
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... per l’annullamento della nota della Soprintendenza belle arti e paesaggio di Milano, prot. 4672 datata 03.08.2015, avente ad oggetto “Tremezzina loc. Mezzegra (Co) – piano attuativo di iniziativa privata ATR 1. Richiedente Ca.Al., De Ma. Ca., De Ma. Al., Ra.Gi., Bo.Ma0. Parere ai sensi dell’art. 16, commi 3 e 4, della L. 1150/1942 – osservazioni al piano per gli aspetti di impianto paesaggistico”;
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FATTO
I ricorrenti, premettendo di essere proprietari di immobili siti in territorio di Mezzegra, situati in un unico comparto, soggetto a vincolo paesaggistico e per il quale –ai fini di nuova edificazione– è obbligatorio un piano attuativo, piano attuativo richiesto il 03.02.2011 ed approvato con deliberazione consiliare del Consiglio del Comune di Mezzegra n. 19 del 05.08.2011, impugnano il parere in epigrafe.
Affidano il ricorso ai seguenti motivi:
   1. Violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990, del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, delle disposizioni comunitarie in materia di partecipazione e giusto procedimento amministrativo. Il parere definitivo sarebbe stato espresso senza essere preceduto dal preavviso di rigetto.
   2. Violazione degli artt. 14-ter e 14-quater della L. 241/1990, del principio di leale collaborazione tra Enti e del principio del giusto procedimento. La Soprintendenza, convocata alle conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe partecipato, ciò da cui deriverebbe, nella prospettazione di parte ricorrente, l’inammissibilità del parere.
   3. Violazione dell’art. 14 LR 12/2005, dell’art. 159 d.lgs. 42/2004, e del principio di legalità; incompetenza; violazione dell’art. 1 L. 241/1990, dell’art. 97 Cost. e del principio di buona amministrazione. Parte ricorrente, premettendo l’inapplicabilità dell’art. 16 della L. 1150/1942, in quanto “cedevole” rispetto all’art. 14 della LR 12/2005, che disciplina il procedimento di approvazione dei piani attuativi, afferma l’insussistenza di qualsivoglia obbligo di sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT.
   4. Violazione dell’art. 146, n. 8, d.lgs. 42/2004, degli artt. da 8 a 13 LR 12/2005; eccesso di potere; incompetenza; violazione degli artt. 117 e 118 Cost., dell’art. 42 Cost., dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Soprintendenza, anziché rimanere nell’ambito delle proprie attribuzioni a tutela del vincolo paesaggistico di inedificabilità relativa, ne avrebbe esorbitato, imponendo, di fatto, un vincolo di inedificabilità assoluta e sine die sul comparto, così trasformando il contenuto conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di nuova edificazione.
La Soprintendenza si è costituita, spiegando difese nel merito.
Con ordinanza 05.02.2016, n. 143, questa Sezione III ha rigettato la domanda cautelare.
All’udienza del 09.05.2017 la causa è stata trattata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso non è fondato.
L’impugnato parere della Soprintendenza risulta essere stato richiesto –a sanatoria– con nota del Comune di Tremezzina n. 4937 del 13.05.2015 (depositata dall’Avvocatura dello Stato in data 29.03.2017 sub 2) ai sensi dell’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942, sul presupposto che «…durante l’iter di adozione ed approvazione del piano attuativo, non è stato recepito il parere previsto dall’art. 16 della L. n. 1150/1942. Considerato che con nota 03.04.2015 n. 7899 di prot., l’Ufficio Legislativo del Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo ha indicato allo scrivente ufficio la possibilità di chiedere, a sanatoria del piano attuativo, il formale parere della competente Soprintendenza ai sensi dell’art. 16 della legge 1150 del 1942…».
Il parere si inserisce quindi nel procedimento di approvazione del piano attuativo quale atto istruttorio endoprocedimentale; non è quindi l’atto conclusivo del procedimento, in relazione al quale dovrebbe essere emanato il preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10-bis della legge 241/1990.
Il secondo motivo, con cui parte ricorrente deduce l’illegittimità del parere perché la Soprintendenza, pur convocata alle conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe partecipato, ed il terzo motivo, con cui viene dedotto che non vi sarebbe obbligo di sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT, possono essere trattati congiuntamente.
Entrambi presuppongono infatti la questione se sia applicabile ai piani attuativi regolati dalla LR 12/2005 la previsione dell’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942, secondo cui «I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente soprintendenza…».
Entrambi i motivi sono infondati.
Questa Sezione III, con motivazioni dalle quali questo Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, ha già avuto modo di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042 continui a trovare applicazione anche per i piani attuativi regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la normativa regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del principio di “autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942. A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto che la legge urbanistica statale costituisce ancora normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina generale ed esaustiva della materia di che trattasi…».
Tale applicabilità risulta poi confermata dalla sentenza di questa Sezione III del 12.02.2016, n. 288.
Ciò determina il rigetto sia del terzo motivo di ricorso, sia, attesa la diversità fra il procedimento VAS per il PGT ed il procedimento per il piano attuativo, del secondo motivo di ricorso.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Con l’impugnato parere non è stata imposta l’inedificabilità dei suoli, ma espresso parere contrario alla soluzione proposta invitando i richiedenti e l’Amministrazione comunale a rivedere il posizionamento e il peso edificatorio delle previsioni insediative.
Si legge infatti nel parere: «…La soluzione proposta riguarda la realizzazione di sei corpi di fabbrica (per complessivi 2.500 mc) oltre alle relative opere esterne e infrastrutturali d’accesso disposti lungo una fascia attualmente ad uso agricolo, segnata da ampi terrazzi a prato sostenuti da muretti a secco, in posizione centrale rispetto ad un sistema ancora inalterato, che ne snaturerebbe gravemente le valenze, compromettendo irrimediabilmente e in via definitiva la qualità dei luoghi, con perdita dei caratteri identitari del territorio e per gli effetti intrusivi e occlusivi determinati dai nuovi insediamenti. Le opere previste sembrano pertanto determinare, rispetto alle valenze sopra evidenziate, rilevanti criticità in merito ai seguenti rischi:
   - rischio di completa occlusione dello spazio inedificato con perdita dei residui elementi di equilibrio percettivo di questo brano del paesaggio agrario storico di elevata visibilità da lago, dalla sponda opposta nonché dai luoghi panoramici circumvicini;
   - rischio di perdita dell’attuale assetto del paesaggio sotto il profilo culturale e naturalistico a seguito di opere di infrastrutturazione che darebbero il via alla saturazione di questa straordinaria fascia di territorio mantenuta ancora nei sui assetti storici, come espressamente riconosciuti dal vincolo.
Tutto ciò richiamato e premesso, questa Soprintendenza esprime parere contrario alla soluzione proposta, e invita i richiedenti e l’Amministrazione comunale a rivedere sostanzialmente il posizionamento e il peso edificatorio delle previsioni insediative, anche mediante azioni perequative che portino ad individuare altri ambiti suscettibili di trasformazione, o ancor meglio privilegiando operazioni di recupero e di contenuto aumento volumetrico del patrimonio edilizio esistente…
».
Tali valutazioni, oltre a non imporre un vincolo di inedificabilità assoluta e sine die sul comparto, costituiscono espressione di potere tecnico–discrezionale della Soprintendenza, che può formare oggetto di sindacato del giudice amministrativo solo sotto i profili di illogicità, irragionevolezza od errore nei presupposti, profili che non appaiono sussistere.
Il ricorso deve quindi essere rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.05.2017 n. 1207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Galbiati, Autorizzazione paesaggistica semplificata (20.05.2017 - tratto da www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.

La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica posto che la circostanza di avere ottenuto detto provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
La questione va risolta in senso opposto rispetto a quanto auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di condividere l’orientamento seguito da recente giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta".
La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
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Non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”.
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
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... per l'annullamento della determinazione del responsabile del settore tecnico del Comune di Mercogliano n. 416 del 03/12/2015 avente ad oggetto "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", della comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente.
...
I. Il ricorso è infondato.
II. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta, in primis, la contraddittorietà del comportamento dell’Amministrazione, dopo aver certificato, in data 21.02.2005, la zona interessata dall’intervento non risulta assoggettata ad alcun vincolo, successivamente, nella comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015, afferma che l’area è parzialmente vincolata.
Il rilievo non è in grado di inficiare la legittimità dell’atto impugnato, già per il fatto che il vizio denunciato non si attaglia ad attività, come nel caso di specie, di natura vincolata, dovendosi inferire la necessità della previa autorizzazione paesaggistica dalla mera presenza del relativo vincolo, senza che residuino margini di apprezzamento discrezionale che possano consentire di obliterarne la rilevanza. Vi è da dire che tale circostanza non è contraddetta in ricorso e neppure può ritenersi superata da una erronea certificazione rilasciata in passato dall’Amministrazione comunale. Va da sé che l’atto certificativo ha natura ed effetti dichiarativi e pertanto non sottende alcun elemento volontaristico in grado di contraddire le successive determinazioni dell’Amministrazione.
Invero, il fulcro delle deduzioni di parte ricorrente investe la natura dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, la questione, avente rilievo centrale nell’economia del ricorso, va risolta in senso opposto rispetto a quanto auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di condividere l’orientamento seguito da recente giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative". La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti
>>.
Il motivo in esame è quindi infondato.
III. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si lamenta che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione repressiva del precedente titolo edilizio.
A tal riguardo parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio ex art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio a carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere congruamente giustificato attraverso una valutazione comparativa degli interessi in conflitto, della quale occorrerebbe dar conto nella quadro motivazionale del provvedimento.
Peraltro, si osserva in ricorso che la mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento della ricorrente e che, nel corso del tempo, si sono susseguiti diversi titoli edilizi, senza che mai sia stata evidenziata dai tecnici comunali la presenza del vincolo sull’area (permesso di costruire numero 17/2006; variante della 19.12.2006; Dia n. 17/07 riguardante sistemazione aree esterne; dia n. 98/07 riguardante modifiche interne cambio di destinazione d’uso; dia numero 1/08 riguardante zona EUROSPIN.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali” (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105; idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015, n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
IV. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e pertanto va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.05.2017 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Terni - Procedimento semplificato autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 09.05.2017 n. 14620 di prot.).
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Con nota dell'11.04.2017, il Comune di Terni ha rivolto a questo Ufficio alcuni quesiti concernenti la corretta applicazione del d.P.R. n. 31 del 2017, in particolare per quanto riguarda l'individuazione dei casi di esclusione dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per particolari categorie di interventi in relazione al rinvio, più volte operato nel regolamento, alle diverse tipologie di vincoli previsti dall'articolo 136 del codice di settore.
Si reputa utile, in questa primissima fase applicativa del nuovo regolamento, per agevolarne la corretta esecuzione e prevenire l'insorgere di indesiderate difficoltà pratiche che potrebbero impedirne la funzione semplificatrice, fornire direttamente risposta anche gli enti territoriali che dovessero proporre quesiti, e ciò anche in deroga a quanto disposto dall'art. 4 del d.P.C.M. n. 171 del 2014 (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti.

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Atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
Si osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall'essere iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa”.

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... per l'annullamento della determinazione del Responsabile del V Settore – Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 – Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
...
II. Non coglie nel segno il secondo mezzo, col quale si lamenta la mancata prospettazione, in sede motivazionale, dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato e che sarebbe comunque, a parere del ricorrente, insussistente.
Devesi infatti rilevare che non solo il compendio motivazionale è esaustivo sul punto, ma sono le stesse ragioni a fondamento dell’atto impugnato a denotare la sussistenza del necessario profilo di interesse pubblico, alla luce della natura dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non può non sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Ritiene, infatti, il Collegio di condividere l’orientamento coltivato da recente giurisprudenza, che si esprime nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
 La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti
>>.
Nemmeno persuade quanto ulteriormente dedotto nel senso che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione repressiva dei precedenti titoli edilizi.
A tal riguardo parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, sulla base del rilievo costituzionale del paesaggio ex art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio ha carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere congruamente giustificato attraverso una valutazione comparativa degli interessi in conflitto, della quale occorrerebbe dar conto nel quadro motivazionale del provvedimento. Peraltro, si osserva in ricorso che la mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento della ricorrente e che l’edificio è da tempo utilizzato da due medie strutture di vendita cosicché l’annullamento dei titoli edilizi avrebbe effetti pregiudizievoli anche sul piano occupazionale.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’Amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali” (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105; idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015, n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
Atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
Nemmeno può condividersi quanto dedotto a proposito della pretesa compatibilità del manufatto con il vincolo paesaggistico insistente sull’area, trattandosi di un contesto edificato ed urbanizzato in relazione alle caratteristiche del Vallone Acqualeggia. I rilievi sollevati non sono favorevolmente apprezzabili, in quanto impingono in valutazioni discrezionali che pertengono alle Autorità preposte alla gestione del vincolo e che sono state, nel caso di specie, del tutto pretermesse.
Si osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall'essere iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa” (cfr. TAR Venezia, sez. II. 26.01.2017, n. 93).
Il motivo in esame è quindi infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2017

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Autorizzazione paesaggistica - Termine di efficacia (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 27.04.2017 n. 13204 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 81172 del 16.02.2016, con la quale si chiede, in relazione ad una fattispecie rappresentata dal Comune di Rocca Priora, se sia possibile rilasciare un titolo abilitativo edilizio in base ad un'autorizzazione paesaggistica rilasciata nel 2007 "in applicazione della previsione dell'ultimo periodo dell'art. 146 del D.lgs. n. 42 del 2004 ....che, nell'attuale formulazione, fa decorrere il termine di efficacia dell'autorizzazione paesaggistica dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento" .
Al riguardo, codesta amministrazione prospetta la tesi secondo cui "l'efficacia differita dovrebbe interessare le autorizzazioni rilasciate successivamente al 01.06.2014 (entrata in vigore delle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2014) in quanto i provvedimenti rilasciati anteriormente avevano già acquistato efficacia in virtù della normativa previgente".
La soluzione proposta appare senz'altro condivisibile.
La disposizione che prevede l'abbinamento del dies a quo di efficacia ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di Robbiate - Procedimento semplificato autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 26.04.2017 n. 13008 di prot.).
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Con nota prot. n. 3974 del 30.03.2017, il Comune di Robbiate ha rivolto a questo Ufficio un quesito relativo alle modalità di individuazione degli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, isolati o ricompresi nei centri storici sottoposti a vincolo provvedimentale ai sensi dell'articolo 136, comma 1, lettere c) del codice, al fine della esclusione dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per particolari categorie di interventi ricadenti su tale tipologia di immobili, atteso il rinvio a tale esclusione più volte operato dal d.P.R. n. 31 del 2017.
Il Comune richiedente, nella richiesta che qui si allega, rappresenta che il centro storico risulta sottoposto a un vincolo generalizzato, apposto nel 1969, riconducibile alle lettere c) e d) dell'articolo 136 del codice.
La prospettazione contenuta nella richiesta di parere sembra comprendere due distinte questioni: da un lato, se e come sia possibile distinguere, all'interno di un unico provvedimento di vincolo riconducibile in modo indifferenziato ad entrambe le categorie di "vincolo d'insieme" oggi suddistinte ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31, recante: Individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura semplificata (MIBACT, circolare 21.04.2017 n. 15).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interventi edilizi realizzati prima dell'apposizione del vincolo paesaggistico - Permesso di costruire in sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
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Con la nota n. prot. 81219 del 16.02.2016, codesta Amministrazione regionale ha posto un quesito riguardante la disciplina applicabile ai casi di sanatoria edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 relativi ad abusi edilizi commessi antecedentemente all'apposizione del vincolo paesaggistico (è stato rappresentato il caso di un abuso edilizio commesso nel comune di Sutri, antecedentemente alla data di pubblicazione del VIR adottato, in area posta all'interno della "fascia di rispetto di un bene lineare tipizzato di interesse archeologico, di cui all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998", e per il quale è stato richiesto il permesso di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire ... (...continua).

marzo 2017

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla verifica della legittimità delle preesistenze nell'ambito dei procedimenti di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004 (Regione Lazio, nota 28.03.2017 n. 159563 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate.
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L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.

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In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito.

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1.1.- In data 28.10.2015 la Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del 07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo, accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque, rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”, anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n. 3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
” (ex multis, da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons. Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti (sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali) (MIBACT, nota 08.03.2017 n. 7403 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m dai due bordi stradali compresi tra le progressive chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo) nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua).

febbraio 2017

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di accertamento di compatibilità paesaggistica quale presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima del vincolo paesaggistico (Regione Lazio, nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito al termine di efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche (Regione Lazio, nota 16.02.2017 n. 81172 di prot.).

gennaio 2017

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Titoli edilizi rilasciati dal comune in assenza di autorizzazione paesaggistica - applicabilità del divieto di sanatoria a immobili realizzati ex ante (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 16.01.2017 n. 1070 di prot.).

anno 2016
dicembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla possibilità di realizzare gli interventi di cui alla l.r. 21/2009 in aree vincolate paesaggisticamente ed ai provvedimenti da adottare relativamente agli interventi realizzati previa d.i.a. ma in assenza di nulla osta – Comune di Pico (Regione Lazio, parere 14.12.2016 n. 621493 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Immobili di proprietà della Fondazione IRCCS Cà Granda - Ospedale maggiore policlinico di Milano - conferimento del diritto di usufrutto - quesito (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 01.12.2016 n. 34182 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 8175 del 03.08.2016 con la quale codesta Direzione, nel trasmettere la richiesta di parere, di cui alla nota prot. 5399 del 15.07.2016, del Segretariato regionale per la Lombardia in merito al conferimento del diritto di usufrutto dei fabbricati di esecuzione ultrasettantennale di proprietà della Fondazione IRCCS Cà Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano a favore della Fondazione Sviluppo Cà Granda, concordando con l'avviso prospettato dal Segretariato regionale, ritiene che, sulla base di un'interpretazione non estensiva del codice di settore, considerato che il conferimento del diritto di usufrutto tra le due fondazioni lascerebbe immutata la proprietà degli immobili, il conferimento in argomento non sia soggetto al regime di autorizzazione previsto per le alienazioni.
Al riguardo, nel ritenere condivisibile l'orientamento di codesta Direzione, si rappresenta quanto segue.
L'art. 54, comma 2, lett. a), del codice di settore, prevede la temporanea inalienabilità dei beni immobili aventi più di settanta anni di cui all'art. 10, comma 1, ove appartenenti a persone giuridiche private senza fine di lucro e fino alla conclusione del procedimento di verifica dell'interesse culturale previsto dall'art. 12 del codice medesimo. Se tale procedimento si conclude con esito (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di Ferno (VA). Richiesta di parere in merito al procedimento di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica prima dell'apposizione del vincolo paesaggistico. Protocollo di riferimento regionale n. T1.2016.0051211 del 10/10/2016. COMUNICAZIONE (Regione Lombardia, nota 01.12.2016 n. 62321 di prot.).

novembre 2016

EDILIZIA PRIVATANel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
   i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
   ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
   iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
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Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé. La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto, dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza (
«(…) realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra edificio, aperture e balconi sul prospetto sud») non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono realizzare e il contesto stesso.
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1.– La Be.Ho. s.r.l. (d’ora innanzi anche solo società), al fine di realizzare un annesso con nuove camere al servizio del proprio albergo sul terreno sito lungo la s.s. 45-bis Gardesana e distinto al catasto al foglio 21 mappale 1096, ha realizzato senza titoli abilitativi un intervento di risanamento conservativo su un vecchio edificio in prossimità dell’albergo stesso, denominato “Villa Mughetto” ovvero “dei Mughetti”, già adibito a residenza estiva per membri del clero e poi abbandonato e lesionato da successivi eventi sismici.
In particolare, la società ha realizzato:
   i) all’interno del corpo di fabbrica una serie di alloggi bilocale, pensati per le famiglie in vacanza;
   ii) all’esterno, sul lato nord ha costruito un vano scale ed ascensore, finalizzati a consentire un accesso più agevole e a costituire una via di fuga in caso di emergenza.
Essendo l’area sottoposta a vincolo, ai sensi del decreto ministeriale 15.03.1985, n. 65, la società ha presentato domanda di sanatoria, anche paesaggistica.
La Soprintendenza, con atto 18.10.2011, ha espresso parere sfavorevole, così motivato: «(…) realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra edificio, aperture e balconi sul prospetto sud».
L’amministrazione comunale, con atto 07.07.2014, n. 144, ha, implicitamente, rigettato la domanda di sanatoria e ordinato la rimozione delle opere in esame, preavvertendo della possibilità, in caso di inottemperanza, di acquisire i beni oggetto dell’ordinanza e la relativa area al patrimonio pubblico.
2.– La società ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza 13.02.2015, n. 264, ha accolto il ricorso, rilevando l’illegittimità del parere della Soprintendenza sia perché adottato senza la comunicazione del preavviso di rigetto sia perché privo di adeguata motivazione.
In particolare, in relazione a quest’ultimo aspetto, si è affermato che in presenza di un vincolo paesaggistico e non monumentale sull’edificio «la compatibilità di un intervento va allora valutata dal punto di vista di chi osserva da lontano, e non è esclusa per il solo fatto che le innovazioni siano visibili su questa scala più ampia; viene infatti meno quando le stesse, oltre che visibili, siano oggettivamente percepibili come un’indebita intrusione, avuto riguardo alle forme, ai colori, alle dimensioni e alla funzione dei nuovi manufatti, da apprezzare comparando l’interesse pubblico alla conservazione con quello privato alla fruizione del territorio».
3.– L’amministrazione ha proposto appello rilevando che:
   i) l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del fatto che la Soprintendenza, con parere 06.05.2010, aveva già espresso parere negativo;
   ii) gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe invaso in modo indebito sfera di azione propria dell’amministrazione.
3.1.– Si è costituita in giudizio la società, ricorrente in primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello e riproponendo i motivi non esaminati dal Tribunale amministrativo.
3.2. La Sezione, con ordinanza 21.10.2015, n. 4792, ha sospeso l’efficacia della sentenza impugnata ad eccezione della parte in cui la stessa aveva privato di effetti l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
3.3.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 13.10.2016.
4.– L’appello non è fondato.
5.– Con un primo motivo, l’appellante deduce che l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del fatto che l’amministrazione, con parere 06.05.2010, aveva già espresso parere negativo.
Il motivo non è fondato.
L’art. 146, comma 8, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137) dispone che il Soprintendente, in caso di parere negativo, deve comunicare agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
Nella fattispecie in esame la Soprintendenza non ha rispettato quanto previsto dalla suddetta norma, non avendo comunicato il preavviso di rigetto. Tale omissione non può ritenersi, come sostiene l’appellante, giustificata dall’esistenza di un precedente parere negativo, in quanto si tratta di vicende amministrative non completamente sovrapponibili, con la conseguenza che l’amministrazione avrebbe dovuto assicurare, anche in relazione al procedimento in esame, una previa interlocuzione con il privato.
6.– Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto non congrua la motivazione del parere, in quanto gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe invaso in modo indebito la sfera di azione propria dell’amministrazione.
Il motivo non è fondato.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che, nel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé. La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto, dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza, sopra riportata, non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono realizzare e il contesto stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.11.2016 n. 4925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare, "Con riguardo all’individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la “permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981”.
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Ricorso straordinario proposto dalla Signora LA.Nu. avverso il decreto del dirigente servizio del Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, n. 2184 del 07.08.2014, di ingiunzione di pagamento indennità ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004. Istanza di sospensione.
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1. Con atto notificato all’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana –Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali di Messina– con raccomandata a.r. del 19.01.2015 e trasmesso all’Ufficio riferente con raccomandata a.r. del 30.01.2015, la Signora La.Nu. ha proposto ricorso straordinario per l’annullamento, previa sospensione:
   - del decreto n. 2184 del 07.08.2014, a firma del dirigente del Servizio tutela e acquisizioni del Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, delegata alla firma dal Dirigente generale, con il quale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, come sostituito dall’art. 27 del d.lgs. n. 157/2006, è stato ingiunto il pagamento della somma di euro 9.398,00, quale indennità per il danno causato al paesaggio con la realizzazione di opere abusive in area di notevole interesse paesaggistico senza il preventivo nullaosta della Soprintendenza, consistenti nella realizzazione di un corpo di fabbrica in località Tufo del Comune di Lipari, foglio di mappa n. 97, particella 214;
   - di ogni altro atto presupposto inerente e consequenziale al suddetto provvedimento.
In punto di fatto la ricorrente premette di avere presentato al Comune di Lipari, in data 01.04.1986, domanda di concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della l. n. 47/1985, per la costruzione di un corpo di fabbrica adibito a civile abitazione. La pratica è stata istruita, acquisendo anche il parere favorevole, con prescrizioni, della Soprintendenza di Messina n. 7284 del 27.10.1997 ed è stata quindi rilasciata concessione edilizia in sanatoria n. 180 del 17.06.2004.
In data 07.08.2014 veniva poi emesso il D.D.S. n. 2184/2014, oggi impugnato.
2. Il ricorso è affidato al seguente motivo: il decreto impugnato avente natura di atto amministrativo definitivo, risulta illegittimo stante la intervenuta perenzione della pretesa impositiva a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Giusta il disposto di cui all’art. 28 l. n. 689/1981, la sanzione della quale si discute deve ritenersi ormai prescritta essendo trascorso il periodo di cinque anni dalla data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria –17.06.2004– a quello della notifica del decreto impugnato –11.10.2014– che tale sanzione irroga.
3. Con nota n. 18376 del 16.04.2015 il Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana ha trasmesso un rapporto sul suddetto ricorso, corredato dai relativi atti, affermando la imprescrittibilità del potere sanzionatorio della P.A. in materia di sanzioni paesaggistiche.
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Quanto sopra premesso, il Collegio ritiene che si possa entrare nel merito del ricorso la cui motivazione è incentrata sulla intervenuta perenzione della pretesa impositiva, a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Sulla linea dell’orientamento espresso, con indirizzo ormai costante, sia dal Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 11.04.2007, n. 1585; Id. 12.03.2009, n. 1464; Id. 23.03.2010, n. 2160) che dalle Sezioni riunite di questo Consiglio (Cons. giust. sic., sezioni riunite, 08.11.2011, n. 188/2011; Id., 21.02.2012, n. 28/2012) e dal Consiglio di giustizia amministrativa in sede giurisdizionale (n. 123 del 13.03.2014), occorre in primis affermare che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici, costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare nella sentenza sopra citata del Consiglio di Stato n. 1464/2009, che ripercorre sul tema (richiamandoli) i punti fermi dell’elaborazione giurisprudenziale, è affermato “Con riguardo all’individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la “permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981”.
Nel caso di specie il rilascio della concessione edilizia in sanatoria è avvenuto il 17.06.2004, sicché la prescrizione dell’illecito è maturata il 17.06.2009, e quindi assai prima che fosse irrogata la sanzione impugnata con il presente ricorso.
Quest’ultima, dunque, è illegittima come rilevato con l’unico motivo di ricorso, giacché irrogata a credito sanzionatorio prescritto.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto con assorbimento dell’istanza di sospensione cautelare (CGARS, parere 21.11.2016 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio statico), l'edificio è stato realizzato con alcune difformità.
Secondo il verbale di accertamento redatto dai funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle travi della copertura, resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune secondo cui le difformità "sono sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle finestre e di portefinestre, modificazione all'area pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior) volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale" delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha affermato che “risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione [non anche ricostruzione] della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”, sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale, più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in discorso.
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... per l'ottemperanza della sentenza 27.11.2015 n. 1041 del TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA, SEZ. II, resa tra le parti, concernente esecuzione sentenza 20.10.2014 n. 975 Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II - rideterminazione sanzione pecuniaria relativa al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica e del permesso di costruire in sanatoria.
...
1. Giova riepilogare, per quanto più sinteticamente possibile, gli antefatti.
Gli architetti Gl. e Ro.Gr. sono stati progettisti e direttori di lavori, per conto dei loro clienti sig.ri Va. e Mo., effettuati sull'edificio sito in Bologna, via ..., n. 47, per il quale è stato rilasciato dal Comune il permesso di costruire (concessione edilizia) n. P.G. 82570/2000 del 16.05.2002.
Il progetto prevedeva la demolizione di un preesistente edificio di maggior altezza, volume e impianto costruttivo, e la costruzione in sua vece di un nuovo fabbricato destinato a residenza civile, in un'area soggetta al vincolo paesaggistico.
In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio statico), l'edificio è stato realizzato con alcune difformità.
Secondo il verbale di accertamento n. 52/2005 redatto dai funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Tutta la presente vertenza riguarda la consistenza fisico/morfologica e conseguentemente la rilevanza anche economica di queste difformità costruttive, che sono state sanzionate pecuniariamente sulla base del loro valore.
Vale perciò riepilogare l’identificazione delle opere difformi dal progetto.
1.1. Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle travi della copertura, resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune P.G. n. 152679/07, secondo cui le difformità "sono sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle finestre e di portefinestre, modificazione all'area pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior) volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale" delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le caratteristiche oggettive del progetto in relazione al rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Tale essendo la situazione di fatto, sia gli architetti che la proprietà hanno sùbito provveduto a regolarizzare quella che ritenevano una "abusività" marginale.
Per questo hanno presentato domanda di variante in corso d'opera (P.G. n. 533 del 21.03.2005) e, poi, domanda al Comune per ottenere sia il permesso di costruzione in sanatoria ex art. 17 l.reg. n. 23/2004 (P.G. n. 123725/2005) sia l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ai sensi dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (ex art. 13 l.reg. n. 31/2002).
Quest'ultima è stata denegata con provvedimento prot. 123725/2005 del 29.08.2005, per il solo motivo della "impossibilità, anche ai sensi dell'art. 159 del d.lgs. n. 42/2004, di rilasciare la suddetta autorizzazione a sanatoria, trattandosi di interventi già realizzati per i quali l'art. 146, c. 10, vieta espressamente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria".
Contro questo provvedimento è stato presentato un primo ricorso al Tar (n.r.g. 1184/2005).
Ma, in attesa della decisione, i progettisti hanno presentato il 28.07.2006 la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 e di riesame del diniego di permesso di costruire in sanatoria.
Il Comune di Bologna ha però respinto entrambe le domande:
a) quella di accertamento di compatibilità paesaggistica, per "carenza di legittimazione" dei richiedenti;
b) quella di permesso di costruire in sanatoria, perché:
   - l'accertamento di compatibilità paesaggistica non poteva essere rilasciato;
   - esulante "dai casi di cui ai commi 4 e 5 del predetto art. 167".
Tale provvedimento è stato impugnato dagli architetti con il ricorso n.r.g. 327/2007.
E' però accaduto che i proprietari committenti hanno invece ottenuto l'accertamento di compatibilità paesaggistica, che era stato negato agli architetti progettisti e direttori dei lavori.
Il titolo a sanatoria è stato rilasciato con contestuale applicazione di una sanzione pecuniaria di complessivi euro 295.845,47, dei quali euro 52.314,50 quale sanzione edilizia ex art. 34 DPR n. 380/2001 ed euro 243.532 quale c.d. "danno ambientale", in applicazione dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
1.2. Questo provvedimento è stato impugnato sia dagli architetti, con motivi aggiunti al ricorso n. 327/2007, sia con autonomo ricorso n.r.g. 927/2007 dai committenti.
Il Tar ha riunito i ricorsi con sentenza n. 951/2009 e li ha accolti, annullando il diniego di autorizzazione paesaggistica e di permesso di costruire in sanatoria (ricorsi nn. 1184/2005 e 1417/2005) e le sanzioni pecuniarie per illegittimità derivata dalla illegittimità del diniego di sanatoria (ricorsi nn. 327 e 927 del 2007).
Poi il procedimento amministrativo è stato riattivato.
Il Comune ha riesaminato il diniego, conformandosi a quanto affermato dal Tar in accoglimento dei ricorsi, ed ha emanato il provvedimento P.G. 189408 del 23.07.2009 con cui ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria subordinato al pagamento di due sanzioni pecuniarie. La prima, per l'abuso edilizio, di euro 12.695 (calcolata secondo le modalità di cui alla nota 1 della Tab. allegata alla L.n. 47/1985, trasformando l'incremento di volume in superficie virtuale utilizzando la formula superficie=incremento di volume x 3/5, in quanto l'abusivo innalzamento del fabbricato non ha comportato un aumento di superficie). La seconda, per l'abuso paesaggistico, applicata ai sensi dell'art. 167, co. 5, del d.lgs. n. 42/2004, è stata fissata seguendo i paramenti quantitativi previsti dalla delibera consiliare n. 40/2006, che prevedevano anche essi la conversione del maggior volume di 199 mc nella superficie di 119 mq.
E' stata irrogata quindi una sanzione dello stesso importo di euro 243.532,97 di quello del precedente provvedimento, già annullato dalla citata sentenza.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato al Tar dagli architetti con ricorso n. 1309/2009 e dai committenti con separato ricorso.
Nonostante l'istanza di sospensiva, i committenti hanno dovuto pagare l'intero importo ingiunto dal Comune (euro 256.228,13).
Per questo i committenti, sentendosi danneggiati, hanno proposto contro gli architetti numerose cause civili, che nelle more del giudizio avanti al Tar, durato cinque anni, hanno avuto vari esiti tutti economicamente pesanti per i convenuti.
1.3. Con sentenze nn. 975 e 973 del 20.10.2014, il Tar dell'Emilia Romagna ha infine accolto sia il ricorso degli architetti sia quello dei committenti e ha annullato i provvedimenti impugnati.
Nella motivazione il Tribunale, pronunciandosi sull'art. 167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004 e sulla possibilità di ricorrere per il calcolo delle sanzioni al meccanismo della trasformazione della cubatura in superficie utile, afferma questo principio di diritto: "Il richiamo alla l. n. 47/1985, nota 1 della Tabella allegata, non appare conforme alla previsione contenuta nel citato articolo 167, 5° c., in guanto la stima deve accertare in concreto il maggior importo tra danno arrecato e profitto conseguito".
Entrambe tali sentenze sono passate in giudicato.
1.4. Quella n. 975 è stata notificata il 21.11.2014 ma il Comune di Bologna non vi ha dato esecuzione, non ha cioè provveduto alla restituzione delle somme pagate dai committenti (euro 256.228,13) e per le quali essi hanno perseguito gli architetti.
Non l'ha fatto subito, come doveva, stante l'esecutività della sentenza, e non lo ha fatto neppure dopo il passaggio in giudicato, avvenuto sei mesi dopo la notifica.
Sono stati gli architetti, quindi, a contestare l'illegittimo ritardo nel provvedere e a sollecitare e diffidare il Comune a dare esecuzione alla sentenza.
Perdurando ancora l'inerzia del Comune, gli architetti hanno pertanto proposto il ricorso per ottemperanza in cui chiedevano al Tribunale:
   I. ai sensi dell'art. 114, c. 4, lett. a) e d), del c.p.a.: ordinare al Comune di restituire ai committenti la somma pagata quale sanzione ex art. 167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004, fissando il termine entro il quale doveva essere emesso il mandato;
   Il. ai sensi degli art. 112, c. 5, e 134 c.p.a., sussistendo giurisdizione di merito: dare gli opportuni chiarimenti in ordine alla esecuzione della sentenza;
   III. ai sensi dell'art. 114, c. 3, e dell'art. 114, c. 4, lett. e), c.p.a.:
a) di condannare il Comune, per l'ingiustificato ritardo nell'esecuzione in forma specifica della sentenza passata in giudicato, al risarcimento dei danni maturati a causa dell'illegittimo ritardo fino alla notifica del ricorso, danni forfettariamente indicati nell'importo di euro 5.000,00 o nella diversa misura ritenuta secondo equità;
b) di stabilire l'importo della somma di denaro dovuta dal Comune per ogni ulteriore ritardo rispetto alla data di notifica del ricorso o dell’emanando provvedimento che ordina l'esecuzione della sentenza (c.d. “astreinte”).
1.5. Alquanto dopo la notifica del ricorso per l'ottemperanza il Comune ha notificato un nuovo provvedimento, sostitutivo di quello annullato dalle sentenze nn. 975/2014 e 973/2014.
In esso viene fatto un nuovo calcolo della sanzione pecuniaria per la violazione paesaggistica, e cioè il calcolo del "maggior profitto" ritratto da una difformità edilizia di cui era stata previamente accertata la compatibilità paesaggistica.
Ma questo nuovo calcolo ha ripercorso e riprodotto sostanzialmente il meccanismo della sanzione già annullata, perché ha convertito ancora una volta il maggior volume (cieco) in una "superficie virtuale".
Con provvedimento P.G. 186953 del 19.06.2015 il Comune ha, infatti, ricalcolato l'importo di questo ipotetico maggior profitto riproponendo (con una leggera diminuzione) il meccanismo già dichiarato illegittimo.
La differenza è che questa volta si è ipotizzato che la superficie virtuale avrebbe riguardato vani alti m. 2,40, cioè superfici accessorie.
Contro questo nuovo provvedimento gli architetti hanno proposto motivi aggiunti al ricorso per l'ottemperanza, deducendo due censure e cioè:
   a) violazione del giudicato;
   b) violazione e falsa applicazione dell'art. 167, co. 5 e 6, del d.lgs. n. 42/2004. Illogicità manifesta, difetto di motivazione e falso presupposto di fatto. Violazione dell'art. 11, co. 5., del regolamento edilizio del Comune di Bologna e del punto 18 della delibera dell'Assemblea Regionale n. 279/2010.
1.6. Si perviene così all'impugnata sentenza n. 1041/2015, depositata il 27.11.2015, con la quale il Tar:
   a) ha dichiarato improcedibile il ricorso per l'esecuzione di giudicato, sul presupposto che il nuovo provvedimento non è di portata elusiva, condannando peraltro il Comune al pagamento di euro 2.000 per spese legali, stante il ritardo nel provvedere;
   b) ha respinto l'azione risarcitoria presentata contestualmente all'ottemperanza, compensando per tale profilo le spese di lite;
   c) ha accolto i motivi aggiunti, convertiti in ricorso ordinario di legittimità ex art. 32 c.p.a., e ha annullato il provvedimento impugnato, compensando, peraltro, anche qui, le spese di lite.
1.7. Questa sentenza è stata impugnata, quanto al capo c), dal Comune, che assume corretto il suo metodo di calcolo del maggior profitto.
Gli architetti hanno controdedotto ma, a loro volta, hanno proposto appello incidentale contro i capi a) e b) della sentenza, giacché a loro avviso il censurato provvedimento (nei fatti annullato dal Tar) era elusivo del giudicato e comunque doveva reputarsi illegittimo il ritardo nella sua adozione con danni patrimoniali per gli architetti causati dalle azioni civili nel frattempo portate avanti dai committenti, certamente quantificabili quanto meno in via equitativa.
1.8. E’ opportuno ricordare che da ultimo, nelle more di questo giudizio, il Comune ha adottato un ulteriore provvedimento determinativo della sanzione, questa volta allineato concettualmente alla decisione Tar (ossia costo della demolizione), anche se gli architetti (che lo hanno già impugnato al Tar Emilia, ivi rinunciando a chiedere misure cautelari in attesa dell’esito di questo giudizio) segnalano ancora l’eccessività del quantum della sanzione (circa 91.000 euro), dovuta al fatto che il Comune ha computato oltre ai costi di demolizione anche quelli di ricostruzione dei solai e tetto, per di più non applicando prezziari del 2005 sibbene molto più recenti ed onerosi.
2. Vale a questo punto osservare che il Collegio non ha motivo di prendere in considerazione il provvedimento sanzionatorio adottato dal Comune come ultimo in ordine di tempo e ciò perché lo stesso, per quanto riferito, è già stato autonomamente impugnato innanzi al Giudice di primo grado, che pertanto dovrà farsene carico in relazione alle censure in quella sede articolate nei suoi riguardi.
Può solo incidentalmente notarsi in questa sede –sulla scorta degli argomenti comunque già spesi in proposito dalle parti in causa– che non possono escludersi suoi profili di eccessività, quanto alla concreta, nuova determinazione della sanzione, in considerazione del fatto che il Comune avrebbe stimato costi non soltanto di demolizione ma anche di ricostruzione (quanto meno dei solai dell’edificio). E questo potrebbe non essere del tutto allineato con quanto stabilito dal Giudice di primo grado, in relazione al criterio parametrico da utilizzare per la stima del “profitto” altrimenti conseguito dalla parte proprietaria, secondo il quale, ragionevolmente, i costi da considerare sono esclusivamente quelli di demolizione (non anche, perciò, di ricostruzione).
Del resto, non va trascurato che, nella fattispecie, la demolizione resterà puramente teorica (valendo soltanto come parametro di riferimento per una liquidazione in via amministrativa di una sanzione) e che perciò la proprietà non avrà necessità di alcuna ricostruzione.
Sempre incidentalmente, poi, non si può nemmeno del tutto trascurare che, in epoca recente e successiva ai fatti di causa, come provato documentalmente in questo giudizio, il Comune si è infine indotto ad introdurre una disciplina regolatoria –valida per casi particolari, come quello in discorso– per effetto della quale il computo della sanzione deve avvenire secondo quantificazione forfettaria e, in ogni caso, con una valutazione a corpo, non a misura, dell’entità del profitto conseguito.
3. Venendo poi al merito stretto del presente giudizio, giova precisare che la materia del contendere ruota intorno alla questione se sia stato corretto o meno, da parte del Comune, in sede di ottemperanza, una riedizione del provvedimento sanzionatorio sopra detto suscettibile di pervenire ad una quantificazione monetaria non sensibilmente dissimile da quella che derivava dal primo provvedimento sanzionatorio, già censurato con successo in sede giurisdizionale.
Secondo il Comune sì, il suo comportamento è stato corretto e, pertanto, va riformata la sentenza impugnata lì dove essa, invece, ha annullato il provvedimento in argomento.
No, invece, ad avviso degli architetti resistenti ed appellanti incidentali, secondo i quali il provvedimento, proprio perché rinvenuto illegittimo, denuncia la sua portata elusiva del giudicato e, dunque, giustificherebbe la riforma in parte qua della sentenza impugnata.
3.1. Dirimente in proposito, ad avviso del Collegio, è una considerazione di natura innanzitutto logica, prima ancora che giuridica.
Il Comune, posto che nella fattispecie, per la determinazione della sanzione da irrogare, si doveva calcolare esclusivamente la componente “profitto” –esclusa essendo, incontestatamente fra le parti, la necessità di sottrarvi la componente “danno”, dato che, infine, gli interventi eseguiti sono risultati paesaggisticamente compatibili– si è convinto che, allora, tale “lucro” si dovesse misurare secondo una logica commerciale e di mercato.
L’aumento dimensionale dell’edificio è stato esclusivamente volumetrico ed “esterno” –ed anche questa è circostanza non controversa– giacché non s’è verificata né maggiore volumetria utile interna né maggiore superficie utile interna.
In parole povere, solo i limiti esterni dell’edificio si sono “ingrossati”. E questo si spiega bene sol che si consideri che, nel caso in esame, all’edificio sono stati aumentati i volumi delle strutture portanti e di solaio come conseguenza di un voluto adeguamento antisismico dell’immobile (adeguamento che può in effetti determinare ispessimenti).
Perseguendo l’intento, dunque, il Comune si è posto nella logica di dover tramutare comunque in superficie metrica la maggior volumetria riscontrata nell’edifico per poi ricavare il valore economico di tale maggiore superficie.
Tutto questo, però, in palese e dichiarata prospettiva meramente “virtuale”, posto che evidentemente all’interno dell’immobile non era stata ricavata maggiore superficie utile.
Per giungere a tale obiettivo, dopo un primo tentativo fallito (giacché il relativo provvedimento è stato annullato in sede giurisdizionale), il Comune è allora ricorso al seguente ragionamento: qualora la proprietà abbattesse l’edificio ristrutturato, ed ampliato all’esterno dal punto di vista volumetrico, e qualora la stessa subito dopo lo ricostruisse, questa volta però rinunciando a parte della maggiore volumetria per ricavarne, sostitutivamente, maggiore superficie utile interna, si paleserebbe a quel punto l’entità del “profitto” al momento non visibile, giacché tutto racchiuso –in potenza– all’interno di quei metri cubi di maggior volume esterno.
3.2. In questi termini, tuttavia, il ragionamento del Comune risulta del tutto non persuasivo.
E ciò non tanto e non solo in relazione al fatto che gli strumenti urbanistici del momento potrebbero non consentire una siffatta trasformazione (e chissà se mai nel futuro) ovvero che è del tutto opinabile che la proprietà abbia effettivamente in animo di imbarcarsi in una operazione di siffatta metamorfosi di un suo edificio appena riadattato, quanto piuttosto per il fatto che –ove mai vera l’ipotesi prefigurata dal Comune– essa risulterebbe nella sostanza in buona parte autolesionistica, perché fondata sul presupposto di una rinuncia alla maggior robustezza dell’edificio (frutto della recente ristrutturazione anche con valenza antisismica) a mero vantaggio di una piccola maggiore estensione interna della sua superficie utile.
Detto in altri termini, non risulta in primo luogo plausibile stimare come “profitto” ciò che, per il suo materiale conseguimento, implicherebbe “sacrificio” di una utilità ben maggiore, ossia, nel caso di specie, la maggiore robustezza dell’edificio dal punto di vista antisismico.
Implausibilità, quella appena descritta, tanto maggiore quanto più si consideri che la città di Bologna ha avuto tristemente modo, in tempi recenti, di dimostrare di non essere affatto estranea al rischio sismico, essendo stata più che lambita dai tragici eventi tellurici di appena quattro anni fa.
3.3. Senza dunque neppure dover prendere in considerazione il fatto che, persistendo nella sua teorizzazione, il Comune è riuscito, nel caso di specie, a mantenere (utilitaristicamente, dal punto di vista delle casse locali) l’entità della sanzione pecuniaria in misura prossima a quella della sua prima (ed illegittima) determinazione, esprimendo essa una somma di denaro idonea a giustificare un ragionevole valore di mercato della maggior superficie utile interna virtuale, è possibile constatare che, in tal modo, l’ente locale si è nuovamente sottratto, nella sostanza, ad un’appropriata e congrua esecuzione del giudicato cui esso era tenuto.
In quest’ottica, allora, non risulta persuasivo e fondato l’appello del Comune, volto ad una possibile riforma della sentenza impugnata lì dove essa, anche se con altro percorso argomentativo, giunge a ritenere non legittima anche la seconda determinazione della sanzione in contestazione.
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha affermato che “risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione [non anche ricostruzione] della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”, sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale, più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in discorso.
3.4. Le considerazioni che precedono, di contro, rendono persuasivo l’appello incidentale degli architetti volto a far rilevare che, quello del Comune, è stato un adempimento solo formalmente esaustivo del dovere di ottemperanza cui esso era tenuto ma non di certo sostanzialmente satisfattivo.
Per questa parte, dunque, la sentenza impugnata deve essere riformata e dichiarato coerentemente illegittimo, per elusione di giudicato, l’adempimento che il Comune indica come soddisfacentemente eseguito.
La non adeguatezza dell’adempimento, per elusione del giudicato, conduce altresì a ritenere persuasiva la domanda di risarcimento del danno formulata dagli architetti che, accolta, può condurre ad una liquidazione equitativa del danno in euro 5.000,00 per ciascuno dei ricorrenti incidentali, anche nella considerazione del tempo impiegato dall’ente locale nel giungere all’adozione di un atto pur sempre non coerente con quello da esso atteso.
Non persuasiva, di contro, la richiesta di astreinte formulata dagli appellanti incidentali, specie in considerazione del fatto che gli stessi non risultano aver addotto argomenti in ordine al requisito della non manifesta iniquità di cui all’art. 114, co. 4, lett e), del c.p.a..
4. In conclusione, va respinto l’appello principale e, in accoglimento parziale di quello incidentale, deve essere riformata in parte la sentenza appellata, in particolare con la condanna del Comune al risarcimento del danno in favore degli appellanti incidentali nella misura innanzi detta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.11.2016 n. 4824  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
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E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A. ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione.

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D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata col primo motivo di ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vedasi Tar Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vedansi, anche, Tar Lecce, III, 01.08.2016, n. 1313 e I, Sezione, 19.11.2015, n. 3351; Tar Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano (ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015 e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 e da ultimo n. 490/2016 e data 05/05/2016) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 11.11.2016 n. 2599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiede necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
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... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n. 75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione straordinaria e del permesso di costruire per opere di ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n. 4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta, con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione. Lamenta in particolare che il comune di Verona ha indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la zona di progetto e la zona in cui sono individuati i manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la loro omissione nell’atto notarile di compravendita di terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge 124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi pubblici" (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito ad un intervento di manutenzione ordinaria mura di cinta di età medioevale - Comune di Vico nel Lazio (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 537945 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Parere in merito all'applicazione dell'art. 27, comma 3, della l.r. 24/1998 concernente l'edificazione su lotti inedificati e parzialmente boscati ricadenti in un comparto di lottizzazione - Comune di Montebuono (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 537898 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Reato paesaggistico - Natura di reato di pericolo astratto - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (Cass. Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 ­ dep. 16/03/2015, Murgia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente. Invero, il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.
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L'applicabilità dell'art. 131-bis, c.p. non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della contemporanea violazione di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001).
Infatti, è stato affermato da questa Corte che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola.

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9. La Corte d'appello, poi, passa a esaminare la questione della configurabilità del reato paesaggistico, osservando come, per la realizzazione di tali interventi, sarebbe stata necessaria anche l'autorizzazione richiesta dall'art. 146 del decreto Urbani; precisano i giudici d'appello correttamente come i lavori di ristrutturazione edilizia non rientrano tra quelli per i quali l'articolo 149 esclude la necessità di tale autorizzazione; del resto, prosegue la Corte d'appello, nel caso in esame risultava accertato come le opere realizzate non fossero solo prettamente interne, essendo infatti consistite anche in una sopraelevazione ed in una apertura di luci, donde le stesse si presentavano astrattamente idonee ad alterare lo stato dei luoghi, incidendo sul loro aspetto esteriore in senso fisico ed estetico e modificando di conseguenza i valori paesaggistici.
A tal proposito correttamente la Corte d'appello evidenzia come
il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente. Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite (da ultimo: Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 - dep. 16/03/2015, Murgia, Rv. 263289).
...
12. Quanto, poi, alla dedotta violazione di legge per omessa applicazione dell'art. 131-bis c.p., oggetto del secondo motivo, osserva questa Corte come la Corte d'appello, con argomentazione del tutto corretta ed immune da vizi, escluda la particolare tenuità del fatto, osservando come in virtù della edificazione mediante l'insieme delle sopra descritte opere di un nuovo piano abitabile non potrebbe parlarsi di offesa di particolare tenuità; a tal proposito, confutando l'argomentazione difensiva secondo cui l'altezza del soppalco pari a 2,30 m. ne escluderebbe l'abitabilità essendo l'altezza minima pari a 2,70 m., i giudici di appello correttamente evidenziano come di fatto l'altezza realizzata fosse assolutamente sufficiente a garantire l'utilizzo a fini abitativi del soppalco -come comprovato anche dalla presenza dei due bagni-, sicché il mancato raggiungimento dell'altezza minima di legge ne avrebbe sì escluso l'agibilità, ma non escludeva che ci si trovasse di fronte ad un abuso edilizio che costituiva manifestazione del disinteresse di chi aveva abusivamente edificato a rispettare le prescrizioni di legge riguardo alle altezze.
A ciò, peraltro,
va aggiunto che l'applicabilità dell'art. 131-bis, c.p. non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, tenuto conto della contemporanea violazione di più disposizioni della legge penale (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001): ed infatti, è stato affermato da questa Corte che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (da ultimo: Sez. 5, n. 26813 del 28/06/2016, Grosoli, Rv. 267262) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Beni ambientali. Richiesta di autorizzazione paesaggistica e false attestazioni del richiedente circa la sussistenza delle condizioni per l'accoglimento.
Integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda.
(In motivazione, la S.C. ha precisato che l'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni)
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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5.5. Venendo al ricorso presentato da Re., con il primo motivo egli deduce, innanzitutto, profili di censura sostanzialmente già formulati dagli altri due imputati, sicché gli stessi debbono essere rigettati sulla scorta delle argomentazioni già svolte.
Ciò vale, in primo luogo, per l'evidente falsità della documentazione allegata alla D.I.A., attestante la preesistenza dell'immobile oggetto dell'intervento edilizio, rispetto alla quale i Giudici di secondo grado non avrebbero replicato alle osservazioni del consulente di parte, Arch. El., circa l'esistenza, in quella zona, di altri antichi manufatti simili a quello in contestazione, composti anche da conci squadrati, con la conseguenza che Re. non avrebbe avuto motivo di nutrire sospetti in merito alla autenticità dell'immobile oggetto della D.I.A.. Sul punto, appare dunque opportuno rinviare, per ragioni di economia espositiva, alle osservazioni già svolte al paragrafo 5.1.
Una volta affermata la correttezza della lettura processuale compiuta dai giudici di merito sia in relazione all'affermata falsità della rappresentazione documentale allegata alla D.I.A., sia in relazione alla percepiblità ictu oculi (ovvero sulla base dei meri rilievi fotografici) della stessa, in specie per un soggetto tecnicamente attrezzato ed esperto come Re. (tanto più ove si consideri che, come osservato da Ba. in sede di ricorso, la richiesta di intervento conservativo su una "muratura perimetrale" priva di copertura solare, sarebbe stata comunque destinata all'immediato "diniego"), deve poi rilevarsi come sia esente da censure, sul piano logico-giuridico, l'ulteriore passaggio motivazionale con cui le due sentenze di primo e secondo grado hanno ricondotto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen. il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 2/09 da parte di un soggetto che, per le ragioni già esposte, era consapevole della falsità di quanto attestato negli atti a corredo della D.I.A..
Sul punto, Re. ha dedotto di non aver compiuto, con l'autorizzazione paesaggistica, alcuna attestazione in ordine all'epoca dell'immobile né alla sua fattura, essendosi limitato a prendere atto del contenuto della relazione tecnica e della allegata documentazione prodotta dal richiedente ed asseverata da un professionista, così come previsto dalla legislazione in materia edilizia.
Tali atti, del resto, avrebbero pacificamente natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio; sicché, a fronte della relativa attestazione, il potere dell'amministrazione si sostanzierebbe nel verificare la corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione.
Le argomentazioni difensive testé riassunte sono, tuttavia, prive di pregio.
Come osservato, in passato, da questa Corte in una ipotesi del tutto identica contestata all'odierno imputato, l'autorizzazione paesaggistica, rilasciata da Gi.Re., aveva certamente la natura di atto pubblico, "comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire" (così, in motivazione, Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, non massimata); ciò che pertanto consente pacificamente di escludere l'applicabilità della meno grave ipotesi di cui all'art. 480 cod. pen..
In secondo luogo, i giudici di merito hanno puntualmente chiarito che, avendo attestato la sussistenza delle condizioni per il rilascio dell'autorizzazione, Re. implicitamente asseverò l'esistenza dei presupposti di fatto, della cui insussistenza, per le ragioni già chiarite, egli era, tuttavia, pienamente consapevole.
In altri termini,
il rilascio del titolo abilitativo rilevante sul piano paesaggistico presupponeva, in ogni caso, un preventivo vaglio della sussistenza delle relative condizioni, giuridiche e di fatto; sicché la dolosa affermazione della sussistenza di presupposti che Re. era perfettamente consapevole non esistessero integra, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, il delitto contestato.
Sotto altro profilo, del tutto inconferente è l'ulteriore deduzione secondo cui il ricorrente non avrebbe avuto alcun obbligo di effettuare preventive verifiche circa la conformità della rappresentazione dello stato di fatto alla reale situazione dei luoghi e in ordine alla preesistenza del fabbricato.
E', infatti, evidente, proprio alla luce delle menzionate caratteristiche dell'autorizzazione paesaggistica, che in capo all'organo competente incomba, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, un vero e proprio obbligo giuridico di accertare la sussistenza delle condizioni giuridico-fattuale per l'accoglimento della richiesta; obbligo che, ovviamente, può essere assolto in qualunque forma, e dunque non necessariamente con un sopralluogo, che in ogni caso Re. avrebbe potuto svolgere nell'esercizio dei poteri di ufficio. E dalla circostanza che egli non abbia ritenuto di svolgere alcuna verifica, i giudici hanno coerentemente tratto ulteriori conferme del fatto che egli fosse partecipe della complessiva operazione illecita.
Per quanto, infine, concerne le censure mosse con riferimento al dolo dell'abuso di ufficio, deve ribadirsi che i giudici di merito hanno esplicitato, con motivazione congrua e logicamente ineccepibile, e quindi incensurabile in sede di legittimità, le ragioni sulla base delle quali hanno ritenuto ravvisarlo.
Infatti,
una volta affermata l'avvenuta commissione del delitto di falso, le due sentenze hanno posto in luce come, pur in assenza di documentati contatti tra Re. e i due coimputati, potesse affermarsi l'esistenza, oltre che della consapevolezza delle condotte illegittime accertate -costituite, sia dalla falsità in atto pubblico, sia dalla violazione, non contestata ricorso per cassazione, dell'obbligo, sancito dall'art. 23 del d.p.r. n. 380 del 2001, di ordinare alla committenza di non effettuare il richiesto intervento edilizio- di un deliberato intento di far conseguire ad An.Vi.Qu. l'ingiusto profitto patrimoniale (per la tesi secondo cui il vantaggio patrimoniale di cui all'art. 323 cod. proc. pen., va riferito al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e quindi non solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali o altro, ma anche quando sia volto a creare un accrescimento della situazione giuridica soggettiva, cfr. Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri, Rv. 258894; Sez. 6, n. 12370 del 30/01/2013, P.C. e Baccherini, Rv. 256004; Sez. 6, n. 43302 del 27/10/2009, Rocca, Rv. 244945; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone e altri, Rv. 227204, relativo al caso del rilascio di una concessione edilizia; in questi ultimi termini v. anche Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri, Rv. 238028) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2016 n. 42064).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Marzano, Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato (05.10.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
Sezione prima. 1. Un ‘manifesto’ per la funzione consultiva del Consiglio di Stato nel processo di attuazione della legge n. 124 del 2015. – 2. Sul nuovo ruolo del Consiglio di Stato nella policy di riforma della pubblica Amministrazione. – 3. La ‘nuova amministrazione’ nella visione del Consiglio di Stato, dopo la riforma cd. Madia. Dequotazione del procedimento e riduzione degli interessi all’esito del processo di semplificazione.
Sezione seconda. 4. Il parere del Consiglio di Stato sull’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e la genesi di questa disposizione. – 4.1 L’ambito di applicazione soggettivo del silenzio-assenso tra Amministrazioni. – 4.2 L’ambito di applicazione oggettivo; rapporti con gli artt. 16 e 17 della legge sul procedimento amministrativo e tutela degli interessi sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e coordinamento tra Amministrazioni; l’esclusione dell’applicazione in caso di Sportello unico. – 4.4 Formazione del silenzio assenso, dissenso tardivo e autotutela.
Sezione terza. 5. La portata dell’art. 17-bis della legge sul procedimento amministrativo. Il rapporto ‘orizzontale’ tra (due sole) Amministrazioni co-decidenti; il coordinamento progressivo in ragione della complessità della decisione - 5.1 Il rapporto con la conferenza di servizi – 6. Silenzio-assenso e tutela degli interessi sensibili – 6.1 Art. 17-bis e cogestione dell’interesse paesaggistico – 7. Il dissenso tra Amministrazioni e gli obblighi di leale collaborazione.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: ABUSO D’UFFICIO E MANCATA RICHIESTA DEL PARERE DELLA SOPRINTENDENZA PRIMA DEL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE IN ZONA PAESAGGISTICA.
È configurabile il reato di abuso d’ufficio nella condotta consistente nell’omettere, prima di rilasciare un permesso di costruire, di considerare, sotto ogni profilo, il parere della Soprintendenza sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato in materia paesaggistica, in quanto, a prescindere dall’estensione del sindacato, ciò integra una violazione di legge, in quanto l’autorizzazione paesaggistica presupposto del permesso di costruire va adottata previo parere della Soprintendenza, del quale occorre tener conto in sede di esercizio della discrezionalità amministrativa.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello della configurabilità del reato di abuso d’ufficio nel caso in cui il permesso di costruire veniva rilasciato dal Comune senza preventivo rilascio del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, trattandosi di intervento edilizio in zona paesaggisticamente tutelata.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale, aveva assolto alcuni pubblici amministratori dai reati di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico, in relazione all’esecuzione di alcune opere in zona vincolata in assenza di permesso di costruire.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, in particolare deducendo l’erroneità del presupposto di diritto fondante la sentenza di assoluzione, che valutava come decisivo il contenuto del parere della Soprintendenza, ritenendo che, essendo espressione di un giudizio di merito, le indicazioni in esso contenute -oggetto della falsa attestazione di adeguamento- fossero da considerarsi tamquam non essent, in modo da escludere la sussistenza dei reati di falso e di abuso, e, quindi, la violazione edilizia.
Evidenziava, al riguardo, che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 159, nel testo vigente (dal 12.05.2006 al 23.04.2008) all’epoca dei fatti, pur non attribuendo alla Soprintendenza un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, “riconosce ad essa un controllo di mera legittimità che peraltro può riguardare tutti i possibili vizi tra cui anche l’eccesso di potere” (Corte Cost. n. 367 del 2007); in tal senso, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato avrebbe sottolineato che le valutazioni di competenza della Soprintendenza costituiscono espressione di un potere di amministrazione attiva, non di mero controllo, potendo valutare la congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento.
Il parere della Soprintendenza, nel caso di specie, aveva ad oggetto l’autorizzazione paesaggistica comunale che conteneva una mera motivazione di stile (“ritenuto possa concedersi il nulla osta richiesto in quanto l’intervento non contrasta con l’ambiente circostante”); pertanto, in carenza di motivazione del nulla-osta, era legittima la valutazione in concreto contenuta nel provvedimento della Soprintendenza, in particolare con riferimento alla tutela del vincolo della visuale panoramica del luogo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso, in particolare osservando come, pur prescindendo dai limiti del sindacato della Soprintendenza, la sentenza risultava erronea nel disconoscimento di qualsivoglia efficacia del parere dell’ente deputato alla tutela del vincolo.
Invero, puntualizzano i Supremi Giudici, pur escludendo, nel regime normativo vigente all’epoca dei fatti, un sindacato di merito della Soprintendenza, nondimeno deve ritenersi indubbio il riconoscimento di un sindacato di legittimità (sul punto, seppur con riferimento alla disciplina successiva alla L. 02.08.2008, n. 129, Cons. Stato, Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129: “...con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 159 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. Plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146). Non par dubbio, sostengono gli Ermellini, che tale mutato quadro normativo abbia giustificato sul piano normativo una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica”; Cons. Stato, Sez. VI, 19.05.2015, n. 2751) che, nel caso in esame, era stato esercitato mediante espressione di un parere con prescrizioni; laddove, se il potere di impartire le prescrizioni fosse stato esulante dal sindacato rimesso all’ente, in quanto ritenuto espressione di una valutazione di merito, l’alternativa, ai fini della tutela del vincolo (nella specie, della visuale panoramica), sarebbe stato un parere sfavorevole.
Pertanto, l’aver omesso, nel rilascio del permesso di costruire, di considerare, sotto ogni profilo, il parere della Soprintendenza, a prescindere dall’estensione del sindacato, integra una violazione di legge, in quanto l’autorizzazione paesaggistica presupposto del permesso di costruire va adottata (nel caso di specie, dal Comune, quale organo sub-delegato della Regione) previo parere della Soprintendenza, del quale occorre tener conto in sede di esercizio della discrezionalità amministrativa. E se le prescrizioni avessero oltrepassato i limiti del sindacato, l’ente comunale avrebbe dovuto o espressamente motivare al riguardo, o considerare il parere, in assenza di efficacia delle prescrizioni, sfavorevole.
In ogni caso, conclude la Cassazione, la violazione di legge può essere integrata anche dallo sviamento del potere, integrato dal rilascio del permesso di costruire, mediante obliterazione completa della tutela della visuale oggetto delle prescrizioni contenute nel parere della Soprintendenza (Cass., Sez. II, 05.05.2015, n. 23019, A., in CED 264279, secondo cui in tema di abuso d’ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 c.p. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione; Id., Sez. VI, 13.03.2014, n. 32237, N., in CED 260428) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2016 n. 41473 - Urbanistica e appalti 12/2016).

settembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Il CdS sconfessa il TAR-BS circa il corretto modus procedendi per la quantificazione della sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004.
Il calcolo della sanzione, computata sul valore di quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento (così come evidenziato nella relazione allegata al provvedimento impugnato in primo grado), non pare corrispondere al criterio legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
Detto altrimenti, nel caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004), il "profitto conseguito" non corrisponde all’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.

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... per la riforma dell'ordinanza cautelare 23.05.2016 n. 376 del TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, resa tra le parti, concernente pagamento di una sanzione pecuniaria a seguito di accertamento di compatibilità paesistica.
...
Considerato che il calcolo della sanzione, computata sul valore di quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento (così come evidenziato nella relazione allegata al provvedimento impugnato in primo grado), non pare corrispondere al criterio legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) accoglie l'appello (ricorso numero: 5818/2016) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza cautelare in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art. 55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 30.09.2016 n. 4285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
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E’ stata più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Pertanto, si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica) deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione.
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... per l'annullamento del D.D.S. n. 819 del 24.03.2015, emesso dalla Regione Siciliana, Dipartimento Beni Culturali e dell'Identità Siciliana Servizio Tutela, notificato il 29.05.2015 , a mezzo del servizio postale , per il pagamento della somma di € 7.247,58 a titolo di INDENNITA' Pecuniaria ex. art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, come sostituito dall'art. 27 del dlgs n. 157/2006, nonché di tutti gli atti a tale comunque preliminari, connessi, coordinati e conseguenti.
...
C. - Il ricorso merita accoglimento, essendo fondata l’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente ai sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
Nel caso di specie, poi, con nulla osta prot. prot. 7285 del 07/08/1997 (allegato n. 1 della produzione dell’Avvocatura erariale), la Soprintendenza di Messina aveva dichiarato che le opere realizzate arrecavano danno, se pur lieve, alle valenze paesaggistiche dell’area protetta.
D. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vd. TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche TAR Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; TAR Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
E. - Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (vd. Cons. St., VI, 12.03.2009, n. 1464).
Pertanto -pur dandosi atto del diverso orientamento assunto in precedenza dal C.G.A. secondo il quale “…la permanenza cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria” (vd. C.G.A., 13.09.2011, n. 554)- si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 2645/2015 e n. 1098/2013 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano (ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015 e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, cui si richiama in memoria la difesa dell’Amministrazione, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del 19.10.2015).
F. - Accolto e riaffermato il superiore principio interpretativo, non rimane che prendere atto che nella vicenda in esame la cessazione della permanenza dell’illecito si è verificata in data 12.01.2004, allorché è stata rilasciata al ricorrente la concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004, sicché la prescrizione dell’illecito era già maturata quando col decreto D.D.S. n. 819 del 24/03/2015, qui impugnato, è stata irrogata la sanzione ex art. 167 D.lgs. n. 42/2004.
Né può rilevare, in contrario, la clausola contenuta nel nullaosta del 1997, dato che nella fattispecie il Comune ha rilasciato formale concessione edilizia nel 2004, così determinando la data di cessazione dell'illecito e dunque la decorrenza del termine prescrizionale. Per altro, nel caso in esame è pure documentata in atti la nota del 14/12/2005 con cui è stata data comunicazione, tanto al Comune quanto alla soprintendenza di Messina, della ultimazione dei lavori di cui alla concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004 e N.O. della Soprintendenza n. 7285 del 07/08/1997.
G. - Il decreto è, dunque, illegittimo secondo quando dedotto con il secondo motivo del ricorso in trattazione.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso, assorbito quant’altro, va accolto con conseguente annullamento del D.D.S. n. 819 del 24/03/2015 adottato dal Dipartimento regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Servizio Tutela, fatte salve le prescrizioni di cui all’art. 2 dello stesso decreto (che richiama e rinvia alle prescrizioni impartite).
Il Collegio, avuto riguardo ai peculiari profili della controversia e alle sopra indicate oscillazioni giurisprudenziali, ancora presenti nel momento di adozione dell’atto impugnato, oltre che al vantaggio conseguito dalla parte ricorrente per l’acclarata prescrizione del credito vantato dalla P.A., ritiene doversi compensare tra le parti le spese di giudizio (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 28.09.2016 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’area di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi, impianti ed opere all’interno del parco debba essere sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco, verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art. 12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce che le funzioni amministrative per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio”.
Analogamente, anche questa Sezione ha statuito che “spetta in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice, “sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani, sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti autorità pianificatrici, debba essere propriamente considerato in termini di competenza e non di gerarchia. Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il regime di utilizzazione di una determinata porzione di suolo.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dall’azienda agricola Da Ro. Pa., in persona della medesima titolare e legale rappresentante pro tempore, contro Consorzio Parco Lombardo della Valle del Ticino, per l’annullamento del provvedimento di diniego di accertamento della compatibilità paesaggistica prot. n. 580/12 del 18.01.2012, per la realizzazione di un ampliamento di un edificio agricolo in difformità all’autorizzazione paesaggistica prot. n. 645 – 12839/96 del 20.12.2006, sull’area sita in Comune di Mezzanino (PV), Cascina Venesia; della comunicazione resa ai sensi dell’art. 10-bis della L. 241/1990 prot. n. 11663/11 – 149/4211/11/CP/ID/ER del 24.10.2011; del verbale della commissione per il paesaggio n. 25 del 18.10.2011; del rapporto di servizio del Settore Vigilanza del 19.09.2011; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale;
...
Considerato.
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce dell’infondatezza delle censure dedotte e constatata la piena legittimità e correttezza dell’operato dell’Amministrazione.
In primis, si rileva come la contestata mancanza di verifica in loco dei presupposti di legge per l’emissione del provvedimento impugnato sia irrilevante nel caso che ci occupa, ove l’accertamento è avvenuto sulla base del contenuto della documentazione (cfr. allegati alla relazione ministeriale), con la quale gli enti preposti hanno accertato quali fossero le opere realizzate in assenza di titolo abilitativo, nonché quelle poste in essere in totale difformità rispetto all’autorizzazione paesaggistica prot. n. 645 – 12839/06 del 20.12.2006 ed al permesso di costruire rilasciato il 15.02.2007.
Infatti, solo in conseguenza di tale accertamento e tenuto altresì conto dell’avvenuto cambio di destinazione d’uso di uno degli immobili individuati sul mappale n. 681, foglio 8, del Comune di Mezzanino – località Cascina Venesia, l’Ente Parco ha provveduto ad adottare gli atti di propria competenza nell’ambito del procedimento paesaggistico di cui al D.lgs. n. 42/2004, conclusosi con l’emissione di provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi prot. n. 5684/2012.
In particolare, all’esito dei numerosi sopralluoghi eseguiti dal competente personale tecnico e di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco del Ticino, è stato accertato il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da agricolo a ristorante–agriturismo.
Come ben evidenziato nel definitivo provvedimento sanzionatorio paesaggistico (ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) “[…] è di tutta evidenza, a seguito dei molteplici sopralluoghi eseguiti dagli organi tecnici e da quelli di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco del Ticino … che l’ampliamento del fabbricato, di cui all’Autorizzazione Paesaggistica n. 645 – 12839706 del 20/12/2006, originariamente richiesto “da utilizzare per il ricovero dei mezzi agricoli”- “chiuso su tre lati, mentre sul lato sud è prevista una grossa apertura per garantire un facile accesso ai macchinari agricoli” (testualmente dalla Relazione Tecnica, Allegato C, all’originaria richiesta di Autorizzazione Paesaggistica) successivamente AL CONTRARIO il fabbricato in ampliamento è stato sostanzialmente modificato, in grave e palese contrasto con l’autorizzazione paesaggistica ricevuta nel 2006, con interventi che non solo sono in contrasto con la originaria destinazione agricola ma, inoltre, hanno comportato aumento di volumetria e superficie utile […]”.
In relazione al parere favorevole espresso dalla Soprintendenza di settore, ed al presunto contrasto con il provvedimento di diniego emesso dall’Ente Parco, si osserva quanto segue.
In primo luogo, l’area di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi, impianti ed opere all’interno del parco debba essere sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco, verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art. 12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce che le funzioni amministrative per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio” (Cass. Pen., III, 12.05.2003, n. 20738, in senso conforme n. 12917/1998 e n. 9138/2000).
Analogamente, anche questa Sezione (parere Sez. II n. 4093/2010 reso il 24.11.2010), ha statuito che “spetta in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice, “sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani, sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti autorità pianificatrici, debba essere propriamente considerato in termini di competenza e non di gerarchia. Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il regime di utilizzazione di una determinata porzione di suolo.
Orbene, alla luce di quanto suddetto, emerge come il parere espresso dall’Ente Parco sia solo in apparente contrasto con quello della Soprintendenza.
Invero, pur irritualmente, la Soprintendenza ha inteso compiere direttamente una valutazione di merito, rimettendo all’Ente Parco la preventiva valutazione circa l’ammissibilità degli interventi alla procedura di accertamento di compatibilità ex post, ed anzi subordinando agli esiti di detto giudizio l’efficacia della propria favorevole valutazione.
Correttamente, del resto, nel parere di cui alla nota prot. n. 8432 del 06.09.2011, la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano si esprime favorevolmente ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.lgs. 42/2004 citato, “per quanto di competenza … fatta salva la verifica dell’ammissibilità dell’istanza da parte dell’autorità competente”.
Il ricorso, per tutto quanto sopra esposto, non può essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 14.09.2016 n. 1908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' notoria la ben differente natura giuridica dei due provvedimenti, ovvero autorizzazione paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco, in relazione ai quali non è consentita l’assimilazione.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela un sistema di valori più vasto e complesso, identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed ambientali, nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le valutazioni negative di ordine anche paesaggistico espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco, come accaduto nel caso di specie.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Sig. Gi.Na. contro l’Ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in persona del legale rappresentante p.t., per l’annullamento del provvedimento prot. n. 6949 del 14.05.2009, con il quale l’Ente Parco ha respinto l’istanza di autorizzazione presentata dal ricorrente per la realizzazione di un fabbricato rurale nel Comune di Castellabate, in località Valle, nonché di ogni altro atto o provvedimento presupposto, connesso e conseguente, se ed in quanto lesivo per gli interessi del ricorrente medesimo.
...
Sulla base, soprattutto, degli ultimi elementi acquisiti, emerge chiaramente, infatti, che è vero che la competente Soprintendenza abbia emesso un parere favorevole ex art. 159, comma 3, d.lgs. 42/2004, ma tale circostanza non può rilevare in maniera decisiva rispetto al caso di specie, attesa la ben differente natura giuridica dei due provvedimenti, ovvero autorizzazione paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco, in relazione ai quali non è dunque consentita l’assimilazione.
Come ricorda l’Amministrazione, l’autorizzazione paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela un sistema di valori più vasto e complesso, identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed ambientali, nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le valutazioni negative di ordine anche paesaggistico espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco, come accaduto nel caso di specie.
In ogni caso, va altresì evidenziato, in punto di fatto, che sebbene la Soprintendenza abbia espresso nella fattispecie, in punto di valutazione di stretta legittimità, parere favorevole (in realtà trattasi di formalizzato mancato esercizio del potere di annullamento dell’autorizzazione comunale), sull’intervento in argomento, al contempo essa ha evidenziato una serie di anomalie rispetto alla realizzazione del fabbricato rurale proposto, tanto da richiedere all’Ufficio tecnico comunale appositi pregnanti accertamenti e stringenti ed incisive verifiche, con riguardo in particolare al dimensionamento del fabbricato rurale in relazione alle effettive esigenze di coltivazione.
E va considerato anche che l’intervento previsto ricadeva in zona in cui l’approvando Piano del parco avrebbe consentito un siffatto intervento edilizio solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici e residenziali dell’imprenditore agricolo, e comunque nei limiti delle esigenze adeguatamente dimostrate. Tutti elementi carenti nel caso in questione.
La previsione di una tale forma di tutela per l’area oggetto dell’intervento va certamente a consolidare le valutazioni espresse dall’Ente parco circa la particolare valenza ambientale del sito.
Rammentato ciò, va ribadito anche, come da consolidato orientamento, che l’Ente parco ha la possibilità di denegare il proprio nulla-osta di pertinenza prescindendo dalla preventiva definitiva approvazione del Piano del parco.
Alla stregua di tutto quanto sopra riportato, non ravvisandosi altri vizi rilevanti ai fini del decidere, nemmeno per quanto attiene all’istruttoria ed ai profili motivazionali del provvedimento impugnato, difettando le censure dedotte dei necessari presupposti di consistenza, il ricorso può essere in definitiva respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 14.09.2016 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAPer tagliare i boschi basta l'autorizzazione forestale.
La preservazione nel tempo dei boschi e foreste nella loro complessiva integrità costituisce lo scopo sia della protezione forestale che di quella paesaggistica generale. In vista di questo obiettivo, la legge statale, sottoponendo a vincolo, tutti i boschi prevede che il taglio colturale e le altre operazioni ammesse possono essere compiute con autorizzazione forestale senza che sia necessaria l'autorizzazione paesaggistica.

Lo ha precisato l'Ufficio Legislativo del Ministero dei beni culturali con il nota 08.09.2016 n. 25553 di prot..
Per lo speciale valore tutelato paesaggisticamente di boschi e foreste, il legislatore prevede un regime derogatorio ridotto e rimesso al controllo dell'autorità forestale, ma solo ove il bosco o foresta sia tutelato come elemento morfologico del territorio, da salvaguardare nei suoi elementi identificativi.
Qualora il territorio boschivo sia tutelato anche con specifico provvedimento che ne riconosca il notevole interesse pubblico per ragioni di carattere paesaggistico-culturale, gli interventi forestali, già compatibili con la tutela dei caratteri morfologici tutelati per legge, richiedono la valutazione della loro compatibilità con lo specifico valore paesaggistico espressamente riconosciuto e tutelato nel provvedimento, mediante ricorso alla previa autorizzazione paesaggistica».
Nel caso specifico, la questione verte sulla necessità di autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice del paesaggio, interventi di taglio colturale in un complesso forestale vincolato non solo ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato un'ordinanza di sospensione lavori ritenendo invece che gli interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: SARDEGNA, bosco del Marganai — Ente Foreste della Sardegna — autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi sottoposti a tutela, oltre che ex lege, in forza di specifico provvedimento (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 08.09.2016 n. 25553 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 4703 del 19.02.2016 con la quale la Direzione generale Belle arti e paesaggio chiede conferma del proprio orientamento, espresso in adesione alla competente Soprintendenza, circa la necessità di autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice di settore, interventi di taglio colturale nel complesso forestale del Marganai, vincolato non solo ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice, ma anche con specifico provvedimento adottato in data 13.02.1978, che ne ha riconosciuto il notevole interesse pubblico, non ritenendo applicabile a tale fattispecie il regime derogatorio speciale previsto dall'art. 149, comma 1, lett. c), del codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato un'ordinanza di sospensione lavori in data 24.09.2015, contestata dall'Ente Foreste della Sardegna, che ritiene invece che gli interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore.
Al riguardo, nel condividere l'orientamento della Direzione, si precisa quanto segue. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non compatibilità paesaggistica circa l'abusiva realizzazione di: piscina; volumi, definiti come locali termici; sistemazioni esterne.
La questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici è irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in rilievo una piscina esterna ed i collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del pari servente alla medesima) non potendo, ad avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per il fondamentale rilievo che <<"la nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella clientela dell’hotel).

Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già ritenuto da questa Sezione “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma restando la vexata e ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente principio di portata generalizzante in materia: “…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.”.

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... per l'annullamento della nota prot. n. 14826 del 17.09.2015, notificata il 22.09.2015, recante il parere di non compatibilità paesaggistica relativo alla domanda di permesso a costruire in sanatoria assunto al protocollo comunale n. 49133 dell'08.10.2010, riguardante la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, presso la struttura ricettiva Hotel E. sita in C/mare di Stabia alla via ... n. 12 sull'area catastalmente identificata al foglio 15 - p.11a 64, di una piscina interrata, locali tecnici, sistemazione a verde dell'area esterna e diversa distribuzione degli spazi interni dell'ultimo livello del predetto Hotel; nonché di ogni altro provvedimento preordinato, connesso e consequenziale comunque lesivo degli interessi del ricorrente.
...
9. Il ricorso è infondato, nel senso di seguito precisato.
10. Parte ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato parere soprintendizio per violazione del combinato disposto degli artt. 147 e 167, comma 4, D.lgs. 42/2004, deducendo che i volumi tecnici e la piscina interrata di cui è causa sfuggirebbero al divieto di sanatoria paesaggistica postuma recato da tali norme, non rientrando nel concetto di volume e superficie utile posto come profilo ostativo dalle medesime.
10.1 A sostegno dei propri assunti richiama, oltre a una nutrita giurisprudenza, tra cui anche la sentenza di questa Sezione n. 2763/2013, che si era pronunciata in ordine alle medesime opere di cui è causa nel contenzioso con il Comune, avente ad oggetto il diniego di istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001, la Circolare del Mibac n. 33 del 2009 che esclude dal concetto di volume, rilevante in senso ostativo ai sensi del richiamato art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004, i volumi tecnici.
10.2. Va peraltro chiarito come la richiamata sentenza di questa Sezione n. 2763/2013, pur avendo ad oggetto le medesime opere di cui è causa, non possa avere rilevanza diretta nell’odierno contenzioso, in quanto riferita non alla sanatoria paesaggistica, ma a quella urbanistica di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001 e al relativo atto di diniego comunale, fondato sul distinto profilo del contrasto dei medesimi interventi con le previsioni urbanistiche, sulla base peraltro di un errata considerazione della loro collocazione in una determinata zona di PRG.
E’ pur vero che nella medesima sentenza si afferma la sanabilità di tali opere anche da un punto di vista paesaggistico postumo ex art. 167 Dlgs. 42/2004, ma trattasi di affermazione incidenter tantum in quanto relativa ad un profilo non oggetto di disamina ad opera dell’atto impugnato e dunque di annullamento ad opera dell’indicata sentenza, nonché di affermazione comunque intervenuta in un contenzioso in cui non è stata parte la Soprintendenza per i Beni ambientali e che pertanto non può assumere alcuna rilevanza diretta nell’odierna sede, come già evidenziato dalla Sezione in sede cautelare, posto che il giudicato si forma solo inter partes.
11. Giova preliminarmente precisare che il gravato parere soprintendizio, pur non recando alcuna specifica motivazione in ordine all’insanabilità delle sistemazioni esterne diverse dalla realizzazione dei volumi tecnici e della piscina interrata, sia riferito anche a tali sistemazioni esterne, stante il loro carattere di accessorietà rispetto alle citate opere considerate quale “nuova costruzione” essendo motivato sulla base di questi rilievi:
CONSTATATO che si chiede sanatoria ex art. 167 del D.Lvo 42/2004 per le seguenti opere:
cambio di destinazione d'uso dell'ultimo piano:
realizzazione di piscina;
realizzazione di volumi, definiti come locali termici;
sistemazioni esterne;
RICORDATO che l'art. 167 al comma 4 prevede l'accertamento di compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
PRECISATO che le opere di sistemazione interna per cambio di destinazione d'uso non rilevano ai fini paesaggistici;
SI ESPRIME parere di non compatibilità paesaggistica posto che sia la piscina, in quanto nuova costruzione, sia i volumi realizzati ex novo, non rientrano nei casi dai citato comma 4 dell'art. 167. Di conseguenza le opere di sistemazione esterna conseguenziali alle suddette nuove costruzioni non possono essere assentite
”.
Deve pertanto ritenersi che la sistemazione a verde dell’area esterna, pur non rientrante nel concetto di nuova costruzione, invocato dalla Soprintendenza quale profilo ostativo all’applicabilità della sanatoria paesaggistica postuma, e pur non essendo inclusa fra le opere di sistemazione interna per cambio di destinazione d’uso, considerate per contro irrilevanti da un punto di vista paesaggistico dalla Soprintendenza, sia del pari esclusa dalle opere suscettibili di sanatoria paesaggistica postuma, in quanto consequenziale (rectius accessoria) alle suddette nuove costruzioni.
12. In ordine a tale profilo motivazionale peraltro parte ricorrente non ha sollevato alcuna autonoma censura, con la conseguenza inattaccabilità in parte qua del gravato parere soprintendizio, avversato solo nella parte relativa all’insanabilità dei locali tecnici e della piscina interrata, con la conseguenza che la sorte del gravato parere in parte qua non potrà che essere relazionata a quella delle distinte tipologie di “nuove costruzioni” (locali tecnici da un lato e piscina interrata dall’altro) rispetto alle quali le aree a verde si presentano accessorie.
13. Giova peraltro precisare come da una attenta disamina dell’istanza di accertamento di conformità (avente ad oggetto le medesime opere di cui all’istanza di sanatoria paesaggistica oggetto del gravato parere soprintendizio) si evinca come i locali tecnici oggetto della medesima e siti nella corte della struttura alberghiera non siano serventi rispetto alla struttura alberghiera autonomamente considerata (essendo i relativi locali tecnici siti nel piano seminterrato), ma rispetto alla piscina interrata, del pari oggetto dell’istanza di accertamento di conformità e del gravato atto soprintendizio, trattandosi di locali tecnici per gruppo elettrogeno, serbatoio di accumulo acqua e pompa antincendio nonché di pannelli sandwich (locali tecnici adibiti a gruppo elettrogeno, riserva idrica, autoclave e aspiratore).
L’accessorietà di tali locali tecnici rispetto alla piscina si evince peraltro dallo stesso posizionamento dei medesimi nelle vicinanza della piscina, come desumibile dal quadro d’insieme prodotto in allegato all’istanza di accertamento di conformità.
14. Ciò posto, in riferimento alla problematica della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici il Collegio non ignora come già in passato presso i giudici di prime cure si siano fronteggiati due distinti orientamenti giurisprudenziali, ovvero un orientamento di segno negativo (fra le prime pronunce TAR Umbria sentenza n. 388 del 29.11.2011), fondato sulla irrilevanza a fini paesaggistici di concetti quali “volume tecnico” e “superficie utile” ed uno favorevole (ex multis TAR Campania-Salerno, 25.06.2013, n. 1429) pure in passato seguito dalla Sezione (ex multis sentenza n. 3381 del 12/07/2012 con richiamo ai precedenti della Sezione TAR Campania Napoli Sez. VII, Sent., 10.05.2012, n. 2173, TAR Campania Napoli Sez. VII, n. 27380/2010; 6827/2009; 1748/2009) fondato sul presupposto dell’esclusione dei volumi tecnici dal divieto di cui all’art. 167 Dlgs. 42/2004, sulla base del presupposto che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, siano inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale e, come tali, siano ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di edificabilità.
Ne conseguirebbe, in tale ultima prospettiva, che la stessa ratio che in materia urbanistica ha indotto ad escludere i volumi tecnici del calcolo della volumetria edificabile dovrebbe valere anche in materia paesistica per sottrarre tali volumi dal divieto di rilasciare l’autorizzazione paesistica in sanatoria (in senso conforme a tale orientamento tra le altre TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.09.2010, n. 17491, che peraltro ha escluso dagli interventi assentiti ex post quelli comportanti sostanziali modifiche della sagoma e traslazione dell’immobile, in quanto incidenti sul contesto vincolato e TAR Emilia Romagna, Parma, 15.09.2010, n. 435, secondo cui peraltro non si configura come volume tecnico l’aumento dell’altezza del sottotetto non giustificato da esigenze funzionali).
14.1. La Sezione peraltro successivamente, preso atto del contrario e prevalente orientamento alla tutela alla sanatoria paesaggistica postuma dei volumi tecnici e interrati, espresso in particolare dal giudice di “seconde cure”, cui si è fatto riferimento in sede cautelare, secondo il quale il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume ovvero tra volume in superficie e volume interrato (in termini cfr. Cons. Stato, sez. VI n. 4348 del 02.09.2013; Sez. VI, n. 4114 del 06/08/2013; sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV, 11.05.2005, n. 2388; Tar Puglia, Lecce, TAR Lecce Puglia sez. I n. 218 del 23.01.2014) ha mutato il proprio orientamento giurisprudenziale (ex multis tra le prime pronunce in tal senso sent. n. 5981 del 23.12.2013 fondata sul rilievo che “Per la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato infatti -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare".
Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici) si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico) ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti“ (cfr. in tal senso la sentenza citata del Consiglio di Stato sez. VI, n. 4503 del 2013)”.
14.2. Non ignora peraltro il Collegio come il Consiglio di Stato (cfr. sentt. Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016 riferita alla realizzazione di un abbaino nel sottotetto; Consiglio di Sato sez. III n. 1613/2016 riferita alla realizzazione di box prefabbricati; Consiglio di Stato sez. VI, n. 5932 del 2014 riferita alla realizzazione, in difformità dal permesso di costruire relativo alla apposizione di un ascensore condominiale, di un torrino, funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino all'ultimo piano) più di recente abbia sposato la tesi favorevole alla sanabilità paesaggistica dei volumi tecnici, già in passato seguita dalla Sezione, sulla base del rilievo che “nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi”.
In tale prospettiva il Supremo Consesso ha pertanto ritenuto che “Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi "non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatibilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato” (in tal senso Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016 cit.).
14.3. Non può peraltro sottacersi che il Consiglio di Stato anche di recente abbia aderito al diverso orientamento giurisprudenziale, da ultimo sposato dalla Sezione (Consiglio di Stato sez. VI n. 3289/2015 di riforma della Sentenza di questa Sezione n. n. 6827/2009 riferita alla realizzazione dell’innalzamento per circa 90 cm del torrino ascensore e del solaio di copertura, necessario per il rispetto di norme tecniche, secondo la quale “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse
”).
15. Peraltro il Collegio, pur prendendo atto dei contrari orientamenti giurisprudenziali, sussistenti anche all’interno della medesima Sezione del Consiglio di Stato, riferita alla questione della sanabilità paesaggistica ex post dei volumi tecnici a seconda del loro inserimento o meno nel raggio di azione ostativo della previsione di cui all’art. 167, comma 4, Dlgs. cit., riferito alla realizzazione di nuovi volumi, ritiene che la questione sia irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in questione, come innanzi precisato, la sanatoria paesaggistica ex post di una piscina esterna (sia pure con volume completamente interrato) e di vani tecnici posti a servizio della medesima piscina, come è dato evincere dall’istanza di autorizzazione in sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 prodotta in atti.
Parte ricorrente, cui peraltro incombeva il relativo onere di allegazione, prima ancora che probatorio, non ha inoltre dedotto, come era suo onere, che i vani tecnici di cui è causa fossero a servizio della struttura principale dell’albergo e non, come è dato evincere dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, della piscina di cui è causa.
15.1. Ritiene pertanto il Collegio che la questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici sia dunque irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in rilievo (giova ribadirlo) una piscina esterna ed i collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del pari servente alla medesima) non potendo ad avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per il fondamentale rilievo che come innanzi accennato (cfr., Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), <<"la nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella clientela dell’hotel).
In questa prospettiva risulta irrilevante anche il richiamo alla Circolare MIBAC n. 33/2009 invocata da parte ricorrente.
15.2. Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già ritenuto da questa Sezione con orientamento che qui si ribadisce (Tar Campania/Napoli - sez. VII - nr. 2088 del 21.04.2009; TAR Campania, Napoli, sez. VII n. 1 del 07/01/2014) “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma restando la vexata e ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente principio di portata generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503 dell’11.09.2013 cit): “…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.”.
16. Il ricorso va dunque rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.09.2016 n. 4172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: REATO PAESAGGISTICO ED INOFFENSIVITÀ PENALE DEL FATTO: NON MUTA NULLA DOPO CORTE COST. N. 56/2016.
Anche a seguito della sentenza della Corte cost. n. 56 del 2016 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis, comportando una parificazione delle condotte di cui al comma 1-bis del cit. art. 181 con la disciplina di cui al comma 1, purché non vengano superate le soglie volumetriche indicate dal comma 1-bis), in materia di reati paesaggistici, il principio di offensività continua ad operare in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e l’incidenza della condotta medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello della possibile rilevanza del principio di offensività sul c.d. reato paesaggistico a seguito della recente declaratoria di incostituzionalità operata dalla Corte cost. con la sent. n. 56 del 2016.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato quella del Tribunale che aveva condannato un’imputata, reputandola colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis. Alla stessa era contestato di aver realizzato una costruzione di mq. 19,50, in assenza dalla concessione edilizia, in territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e dichiarato di notevole interesse pubblico con D.M. 13.11.1971.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione la donna, in particolare assumendo l’inoffensività penale del fatto, trattandosi di intervento di scarsa consistenza ed importanza ambientale.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso solo per essere intervenuta medio tempore la prescrizione del reato, tuttavia osservando sulla questione principale che il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e l’incidenza della condotta medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito (Cass. pen., Sez. III, 16.03.2015, n. 11048 M., in CED 263289; Id., Sez. III, 15.01.2013, n. 6299, S., in CED 254493).
È stato altresì osservato che l’individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex plurimis: Cass. pen., Sez. III, 07.02.2003, n. 14461, C., in CED 224468; Id., Sez. III, 06.02.2003, n. 14457 D.M., in CED, 224465; Id., Sez. III, del 13.02.2003, n. 12863, A., in CED, 224896; Id., Sez. III, 30.01.2003, n. 10641, S., in CED, 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell’ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti, pertanto, ad affermare che il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consiste nell’esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l’azione dell’uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l’originario assetto (Cass. pen., Sez. III, 15.01.2013, n. 6299, S., in CED 254493) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.09.2016 n. 36112 - Urbanistica e appalti 11/2016).

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato esprime il parere sul decreto in materia di interventi paesaggistici.
Il Consiglio di Stato, Sez. consultiva, parere 01.09.2016 n. 1824, ha espresso avviso favorevole, con alcune osservazioni e proposte di correttivi, sullo schema di decreto proposto dal Ministero per i beni culturali riguardante l’individuazione degli interventi che sono esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sono sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata (Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante “individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’art. 12 del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’art. 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164).
Il decreto si pone l’obiettivo di snellire il peso burocratico sulle iniziative dei privati, cittadini e imprese, e di restituire efficienza ed efficacia all’azione amministrativa in un ambito, quale quello della tutela paesaggistica, particolarmente delicato per la rilevanza costituzionale degli interessi pubblici coinvolti.
Il Consiglio di Stato, tra le osservazioni formulate, ha precisato che qualora occorrano sia un’autorizzazione paesaggistica che un permesso di costruzione e c'è disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente competenti, è convocata una conferenza di servizi; e che in ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse storico, artistico o archeologico.
Infine il Consiglio di Stato ha osservato che anche per gli interventi “liberalizzati”, le disposizioni del decreto hanno immediata applicazione per le regioni a statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano hanno l’obbligo di darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i principi statutari (tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

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Al riguardo, si legga anche:
Intesa sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata, repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016);
Oggetto: Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, esame preliminare del 15.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Berti Suman, Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, legge n. 241/1990): dovere di istruttoria e potere di autotutela - Commento al parere n. 1620/2016 del Consiglio di Stato su alcuni problemi applicativi dell’articolo 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n. 124 (01.09.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis: “nuovo paradigma” nei rapporti tra pubbliche amministrazioni – 3. Il rapporto con gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990 – 4. Silenzio-assenso ed interessi sensibili: giurisprudenza costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso recente: l’Adunanza Plenaria sulla perdurante vigenza del meccanismo del silenzio-assenso nel procedimento relativo al nulla osta dell’Ente Parco – 5. Il difetto di istruttoria (e di motivazione) nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il potere di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive.

agosto 2016

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, ai sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi incremento volumetrico, indifferentemente dalla connotazione dello stesso in termini di volume tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”.
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente alla finalità di preservazione, posta alla base della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come precisato dall’art. 167 citato), che determina la compromissione del valore tutelato, attraverso la realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha considerato ammissibile la compatibilità paesaggistica per i volumi tecnici.
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare (alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo allorquando manchi una qualsivoglia autonomia funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad ospitare impianti occorrenti alla funzionalità dell’edificio:
   - “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”;
   - “Secondo una consolidata giurisprudenza, per l'identificazione della nozione di volume tecnico rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto di strumentalità necessaria tra il manufatto e l'utilizzo della costruzione a cui accede; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano in tale nozione solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa”.

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Il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica, configura l’esercizio di un potere autonomo cosicché non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla Commissione Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre condizioni.
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Il procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria (ex art. 167) è ad istanza di parte (essendo stato attivato dall’interessato con la presentazione della domanda di accertamento di conformità), cosicché è escluso l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo carattere vincolato, il diniego conseguente al parere negativo della Soprintendenza non è invalidato dall’omissione del preavviso ex art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca all’interno dello stesso procedimento ed è regolato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione.
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... per l'annullamento:
   - (quanto al ricorso) dell’atto prot. n. 26301 del 07/12/2010 con cui la Soprintendenza ha espresso parere contrario ai fini della compatibilità paesaggistica, per le opere oggetto di permesso di costruire in sanatoria; nonché di tutti gli atti preordinati, consequenziali o comunque connessi;
   - (quanto ai motivi aggiunti) della disposizione prot. n. 1617 del 17/02/2011 con cui il Caposettore Tecnico del Comune di Boscotrecase ha rigettato la richiesta di permesso di costruire in sanatoria; nonché di ogni altro atto preordinato, conseguente o comunque connesso, in quanto lesivo.
...
2.- Si può quindi passare all’esame del ricorso e dei motivi aggiunti.
2.1- Con le censure rivolte con il ricorso al parere negativo della Soprintendenza si sostiene che:
   - le opere riguardano esclusivamente la realizzazione di un box auto, per la maggior parte interrato ed insuscettibile di produrre nuove volumetrie (come si ricava dall’avviso favorevole della Commissione locale per il paesaggio);
   - va altresì considerata la disciplina dettata in tema di parcheggi pertinenziali, assoggettati alle disposizioni della legge n. 122/1989 e della L.R. n. 19/2001 (che escludono la costituzione di nuovi volumi, ammettendo la costruzione di parcheggi e box auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti);
   - la Soprintendenza ha omesso ogni considerazione sulle motivazioni che avevano indotto il Comune di Boscotrecase al rilascio dell’autorizzazione, senza valutare il percorso logico-giuridico condotto (essendo suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica le opere che non incidono sul vincolo, quali soppalchi, volumi interrati e volumi tecnici);
   - il parere negativo richiama contraddittoriamente un giudizio di incompatibilità espresso ben 28 anni prima.
2.2- Con i motivi aggiunti avverso il rigetto del permesso di costruire è denunciata l’illegittimità derivata del provvedimento, ribadendo e deducendo inoltre che:
   - le opere di cui è stata chiesta la sanatoria non hanno determinato creazione di superfici utili o volumi maggiori di quelli autorizzati (trattandosi per lo più di irrilevanti modifiche della sagoma del fabbricato e di lievissimi incrementi planovolumetrici, non computabili perché di carattere meramente accessorio, quali locali tecnici e box pertinenziale, peraltro realizzato in uno spazio in buona parte interrato, già assentito con il nulla osta relativo alla concessione edilizia n. 17/1972);
   - anche in ragione della modestissima entità delle difformità, si imponeva all’Amministrazione di valutare l’irrilevanza dei presunti incrementi planovolumetrici, sotto il profilo dei carichi urbanistici e, soprattutto, dal punto di vista paesaggistico;
   - la Soprintendenza aveva del tutto omesso di verificare se le opere rientrino nelle ipotesi di deroga previste dall’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, come da valutazione effettuata dalla Commissione Edilizia Integrata all’esito di approfondite indagini;
   - il parere deve riferirsi al contrasto con il vincolo alla data attuale e non può fondarsi sull’ipotizzato contrasto con la situazione dei luoghi di quaranta anni addietro, senza alcun riferimento ai grafici di progetto, alla documentazione inviata dal Comune, alla relazione illustrativa del competente organo e al parere espresso dalla C.E.I.;
   - manca nel provvedimento del Soprintendente qualsiasi verifica sulla possibilità di interventi che rendano l’abuso conforme al dettato normativo (come ravvisato dalla Commissione comunale nel parere favorevole del 27/04/2010);
   - non sono state assicurate le garanzie partecipative e non è stato formulato il preavviso di diniego.
3.- Tanto premesso, va osservato che, nel proprio parere, la Soprintendenza ha ritenuto che “la richiesta di sanatoria contrasta palesemente con quanto previsto dall'art. 167, comma 4, lett. a), [d.lgs. n. 42 del 2004], dove viene enunciato che l'autorità amministrativa competente può accertare la compatibilità paesaggistica solo allorquando "i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati"”.
L’opposta tesi dei ricorrenti fa leva sulla considerazione secondo cui nella specie non è configurabile la realizzazione di nuovi volumi, in quanto:
   - il box auto è in maggior parte interrato ed è stato ricavato in uno spazio esistente;
   - parimenti, le modifiche alla sagoma del fabbricato e gli incrementi planovolumetrici non sono computabili ai fini della compatibilità paesaggistica, poiché di carattere meramente accessorio.
La tesi non può essere condivisa.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha infatti chiarito che, ai sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi incremento volumetrico, indifferentemente dalla connotazione dello stesso in termini di volume tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno” (Cons. Stato, sez. VI, 02/07/2015 n. 3289).
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente alla finalità di preservazione, posta alla base della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come precisato dall’art. 167 citato), che determina la compromissione del valore tutelato, attraverso la realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha considerato ammissibile la compatibilità paesaggistica per i volumi tecnici (cfr. TAR Campania, sez. VII, 10/05/2012 n. 2173).
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare (alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo allorquando manchi una qualsivoglia autonomia funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad ospitare impianti occorrenti alla funzionalità dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31/03/2014 n. 1512: “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”; cfr., altresì, TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997: “Secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4258; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 25.03.2008, n. 582), per l'identificazione della nozione di volume tecnico rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto di strumentalità necessaria tra il manufatto e l'utilizzo della costruzione a cui accede; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano in tale nozione solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa”).
Nel caso in esame, è evidente che non ricorrono tali condizioni, in presenza di interventi concretatisi nella realizzazione di un box auto (dotato di autonoma utilizzabilità e la cui funzionalità è separata dall’immobile) e di incrementi volumetrici che hanno prodotto la modifica della sagoma del fabbricato (arrecando quindi un non trascurabile impatto visivo e che non sono destinati a ospitare impianti al servizio del fabbricato).
Anche le ulteriore censure sono prive di fondamento, in quanto:
   - non assume rilievo il richiamo alle leggi in tema di parcheggi pertinenziali, stante l’autonomia delle discipline regolanti gli aspetti urbanistici e paesaggistici, per cui la possibilità di costruire parcheggi e box auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti non esclude l’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento;
   - il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica, configura l’esercizio di un potere autonomo (nella specie, esercitato con compiuta cognizione dei fatti e degli elementi forniti, come emerge dal parere), cosicché non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla Commissione Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre condizioni (peraltro, inconciliabili con l’assoluta preclusione a realizzare nuovi volumi);
   - l’ampia premessa, contenuta nel parere negativo, mette in luce e rafforza l’elemento dell’incompatibilità paesaggistica (evidenziando che già nel 1972 era stata ritenuta in contrasto l’eccessiva volumetria, ciò nonostante realizzata), senza che possa dirsi che l’attuale parere si limiti a richiamare il precedente giudizio (essendo lo stesso reso in base a quanto disposto dal citato art. 167, quarto comma, e per di più con l’espressa menzione che l’intervento contrasta “tutt’ora con la tutela del paesaggio”).
Quanto alle censure di ordine formale, svolte nei motivi aggiunti, occorre considerare che il procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria è ad istanza di parte (essendo stato attivato dall’interessato con la presentazione della domanda di accertamento di conformità), cosicché è escluso l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo carattere vincolato, il diniego conseguente al parere negativo della Soprintendenza non è invalidato dall’omissione del preavviso ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 (cfr. in termini generali, su entrambi gli aspetti, da ultimo TAR Campania, sez. IV, 01/06/2016 n. 2783); per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca all’interno dello stesso procedimento ed è regolato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione (cfr. TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997, cit.).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso e i motivi aggiunti vanno respinti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.08.2016 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Soprintendenze, bandite nuove valutazioni sostitutive. Sentenza del tribunale amministrativo regionale per la Calabria.
La Soprintendenza non può svolgere una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta dall'ente competente nel merito, mentre l'oggetto del giudizio alla stessa spettante appare limitato al profilo della legittimità dell'atto.

È quanto sottolineato dai giudici della I Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con la sentenza 29.08.2016 n. 1674.
I giudici calabresi hanno poi citato anche un altro orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'annullamento del nulla osta paesaggistico comunale (Consiglio di stato n. 2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto l'esercizio della funzione di controllo della legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella valutazione formulata in concreto dall'ente territoriale (in senso conforme Consiglio di stato n. 1764 del 2016)».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi catanzaresi vedeva Tizio che con l'atto introduttivo del giudizio chiedeva: l'annullamento del decreto del Soprintendente con cui era annullato il provvedimento del dirigente del settore tutela ambientale della Provincia contenente nulla osta paesaggistico.
Tizio stesso riferiva di essere proprietario di un terreno oggetto di ricorso e che aveva stipulato una convenzione edilizia con il comune e che, volendo edificare, aveva richiesto nulla osta paesaggistico. Dopo istruttoria, veniva rilasciato il nulla osta in suo favore, ma successivamente, la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in precedenza dalla Provincia.
Pertanto Tizio impugnava il provvedimento.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale l'unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione.
Nel caso di specie, la Soprintendenza aveva annullato il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che dalla documentazione trasmessa si evinceva che l'ipotesi progettuale del fabbricato non poteva considerarsi idonea per le caratteristiche dell'ambito, rendendo ancor di più condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella porzione oggetto di intervento. Nel provvedimento si precisava che l'opera necessiterebbe di una riduzione dell'ingombro planimetrico e volumetrico per ridurre l'ampiezza visiva.
Pertanto secondo i giudici l'accertamento svolto andava oltre il profilo della mera legittimità, incidendo sul merito e comportando la sostituzione della propria valutazione a quella operata dall'ente competente (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
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MASSIMA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio, la parte ricorrente chiedeva: l’annullamento del decreto del Soprintendente del 01.08.2007 con cui era annullato il provvedimento del dirigente del settore tutela ambientale della Provincia di Vibo Valentia contenente nulla osta paesaggistico.
Riferiva: di essere proprietario del terreno descritto in ricorso; che aveva stipulato una convenzione edilizia con il comune di Ricadi; che, volendo edificare, aveva richiesto nulla osta paesaggistico; che, dopo istruttoria, veniva rilasciato il nulla osta in suo favore; che, tuttavia, successivamente, la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in precedenza dalla Provincia.
Impugnava il provvedimento per: violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, dell’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, dell’art. 97 cost. e del principio di imparzialità; difetto di istruttoria; violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990; violazione degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42 del 2004; violazione dell’art. 146, sesto comma, del d.lgs. n. 42 del 2004; difetto di motivazione, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e contraddittorietà, come precisato in ricorso.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
2. Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.
Nel corso del giudizio, veniva accolta, con ordinanza del Tar, confermata dal Consiglio di Stato, l’istanza cautelare proposta da parte ricorrente.
In particolare, merita accoglimento, come già sottolineato nel provvedimento di conferma dell’ordinanza cautelare da parte del Consiglio di Stato, il terzo motivo di ricorso formulato da parte ricorrente, in base al quale
la Soprintendenza, sostanzialmente, non può svolgere una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta dall’ente competente nel merito, mentre l’oggetto del giudizio alla stessa spettante appare limitato al profilo della legittimità dell’atto.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha annullato il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che dalla documentazione trasmessa si evince che l’ipotesi progettuale del fabbricato non può considerarsi idonea per le caratteristiche dell’ambito, rendendo ancor di più condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella porzione oggetto di intervento.
Nel provvedimento si precisa ancora che l’opera necessiterebbe di una riduzione dell’ingombro planimetrico e volumetrico per ridurre l’ampiezza visiva. L’accertamento svolto trascende il profilo della mera legittimità, incidendo sul merito e comportando la sostituzione della propria valutazione a quella operata dall’ente competente.
In senso conforme, si esprime, d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa prevalente, con orientamento che si ritiene pienamente condivisibile.
In particolare (Tar Campania Salerno, n. 1104 del 2016) si evidenzia in giurisprudenza che
l’unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione. L’annullamento del nulla osta paesaggistico comunale (Cons. St. n. 2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto l'esercizio della funzione di controllo della legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella valutazione formulata in concreto dall'ente territoriale (in senso conforme Cons. St. n. 1764 del 2016).
Il provvedimento adottato deve pertanto essere annullato.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Il delitto ex art. 480 cp si articola sotto il profilo oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.
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Dagli atti si ricava che con l'illegittima autorizzazione paesaggistica l'imputato pose in essere le condizioni affinché il proprietario realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo, pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del coimputato derivanti dall'illecita costruzione del manufatto.
Tali caratteristiche consentono di inquadrare il provvedimento incriminato nella categoria degli atti pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa Corte, per cui
il possibile contenuto dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite; sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica.
Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici, comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire, che nel caso in esame non era rilasciabile, a causa della destinazione agricola del terreno.

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Il ricorso è infondato.
1. Occorre premettere che, secondo le sentenze di merito, Re., in qualità di dirigente l'ufficio tecnico comunale, aveva attestato falsamente che l'intervento edilizio illustrato negli atti tecnici presentati dai coimputati, Le. e Ba.  il primo proprietario del terreno ed il secondo suo tecnico di fiducia- riguardava il recupero di un volume già esistente, allo scopo di consentirne la realizzazione in zona sottoposta a vincolo, mediante presentazione di sola DIA e non del necessario permesso di costruire, mentre il manufatto era in sostanza inesistente.
2. Quanto ai motivi di ricorso, va osservato che il primo ha proposto un nuovo apprezzamento del merito del ragionamento decisorio, non confrontandosi con la congrua motivazione, che ha logicamente desunto l'elemento psicologico del reato dall'evidenza delle falsificazioni propinate a Re. dai coimputati e, pertanto, da questi agevolmente rilevabili dagli atti prodotti; dalle foto allegate alla pratica, che l'imputato aveva necessariamente visionato, emergeva in modo evidente l'epoca recente della costruzione, anche per i modi dì costruzione dei muri, che era stata creata ad arte al solo scopo di eludere la necessità della richiesta di permesso a costruire; tale conclusione è stata adeguatamente giustificata anche attraverso il richiamo alle deposizioni conformi del CT della difesa e del tenente dei Vigili urbani, che avvalendosi di aerofotogrammetrie, ha testimoniato dell'inesistenza del manufatto appena due anni prima dell'istruzione della pratica;la situazione falsamente rappresentata nella relazione tecnica e nella relazione paesaggistica ed attestata dal ricorrente nell'autorizzazione paesaggistica a sua firma faceva, invece, riferimento ad un antico rudere crollato, addirittura costruito secondo tecniche tradizionali dell'architettura rurale salentina.
3. La critica sulla qualificazione giuridica del provvedimento di autorizzazione paesaggistica, secondo il ricorrente qualificabile ai sensi dell'art. 480 cp, non è fondata.
3.1 In linea generale deve ricordarsi che
il delitto ex art. 480 cp si articola sotto il profilo oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità (Sez. 6, 21.01.2004 n. 22396 RV 229394).
3.2 Nella fattispecie concreta, la funzione del provvedimento non fu quella di provare la verità dei fatti attestati.
Invero, dagli atti a disposizione della Corte, si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica l'imputato pose in essere le condizioni affinché il proprietario Le. realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo, pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del coimputato derivanti dall'illecita costruzione del manufatto.
3.3 Tali caratteristiche consentono di inquadrare il provvedimento incriminato nella categoria degli atti pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa Corte, per cui
il possibile contenuto dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite; sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica (Cass. SU n 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984; Cass. 17.06.1987, Iorio).
3.4 Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici, comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire, che nel caso in esame non era rilasciabile, a causa della destinazione agricola del terreno (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 26.08.2016 n. 35556).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici) - Circolare in diramazione (MIBACT, Segretariato Generale, circolare 10.08.2016 n. 38).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza.
Sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza, con l’effetto che il Comune non può negare l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio, diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante, non ha che da fare richiamo, tra gli altri condivisibili precedenti della Sezione, alla recentissima decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con la quale è stato ribadito in particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…".

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... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA - SEZ. I, 10.11.2015 n. 1470, resa tra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso proposto da Co.Im. s.r.l. avverso
- a) il parere negativo di compatibilita' paesaggistica per progetto edificatorio reso dalla Soprintendenza in data 20.06.2014 e
- b) i provvedimenti del Comune in data 08.07.2014 e 07.11.2014, concernenti diniego di autorizzazione paesaggistica;
...
2. Ciò posto è fondato e va accolto il motivo di appello basato sull’asserzione per la quale deve considerarsi illegittimo il diniego di rilascio di un'autorizzazione paesaggistica, con il quale l'Amministrazione comunale si uniformi in modo pedissequo al parere negativo dato dalla Soprintendenza oltre il termine di 45 giorni previsto dall'art. 146, comma 8, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'art. 25, comma 3, d. l. 12.09.2014 n. 133 (conv. dalla l. 11.11.2014 n. 164), siccome erroneamente ritenuto vincolante, posto che, qualora sia trascorso inutilmente il termine sopra indicato l'organo statale non è privato del potere di esprimere comunque un parere, ma il parere in tal modo dato perde il proprio carattere di vincolatività sicché lo stesso deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall'amministrazione procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso concreto.
3. Preliminarmente, in relazione all’accoglimento del primo motivo di appello e, per l’effetto e in riforma della sentenza impugnata, ai fini dell’accoglimento del ricorso di primo grado con conseguente caducazione (esclusivamente) degli atti comunali in epigrafe, concernenti diniego di autorizzazione paesaggistica, non appare ostativa l’eccezione di inammissibilità del ricorso al Tar sollevata dall’Amministrazione statale con la memoria difensiva del 14.07.2016, e ciò sia perché la sentenza impugnata ha respinto espressamente le eccezioni d’inammissibilità mosse in primo grado dal Mibact sicché, ove l’appellata avesse voluto contestare le statuizioni preliminari suindicate, avrebbe dovuto proporre ricorso in via incidentale, il che non è stato fatto; e sia perché, in ogni caso, i profili di inammissibilità dedotti dal Ministero nella recente memoria si riferiscono ad aspetti diversi ed estranei rispetto al motivo d’appello concernente “motivazione insufficiente” e “violazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004”, basato, come detto, “sul superamento del termine dei 45 giorni” da parte della Soprintendenza.
4. Nel merito, sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza –e che, nella fattispecie, il parere sia tardivo non è circostanza contestata-, con l’effetto che il Comune non può negare l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio, diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante (cfr. la seconda opzione interpretativa enunciata in sentenza), non ha che da fare richiamo, tra gli altri, condivisibili precedenti della Sezione (v. sentenze Cons. Stato, sez. VI, nn. 4927 e 2136 del 2015), alla recentissima decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con la quale, in relazione a una controversia analoga, sotto svariati profili, a quella odierna, è stato ribadito in particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
   - (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
   - (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…
" (così, testualmente, Cons. Stato, VI, n. 3179 del 2016 cit.).
Ritornando alla controversia odierna, poiché il Comune, con gli atti conclusivi dell’8 luglio e del 07.11.2014, risulta essersi limitato a richiamare in modo “pedissequo” il parere negativo –e tardivo- della Soprintendenza, senza alcuna motivazione specifica e autonoma, il diniego finale, alla luce dei precedenti giurisprudenziali rammentati sopra, va per ciò solo annullato, non potendo il Comune ricusare la chiesta autorizzazione paesaggistica mediante il mero richiamo al parere negativo della Soprintendenza.
5. In relazione al secondo profilo del primo motivo di appello va soggiunto che le considerazioni svolte sopra accrescono il rilievo da riconoscere alla dedotta contraddittorietà tra il diniego finale del Comune e il precedente parere favorevole di compatibilità paesaggistica dato dal Comune stesso il 01.04.2014, posto che la soluzione favorevole alla società faceva seguito a un’istruttoria approfondita, all’esito della quale organi dell’Amministrazione comunale avevano espresso considerazioni opposte a quelle ministeriali, sicché in modo condivisibile si osserva con l’appello che il Comune avrebbe quantomeno dovuto motivare in modo adeguato il proprio mutamento di opinione.
6. Poiché l’appellante sembra avere graduato la domanda giudiziale assegnando priorità all’esame, “in via assorbente”, del primo motivo di appello (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5 del 2015), il gravame va per ciò solo accolto e, per l’effetto, assorbita ogni altra censura non esplicitamente esaminata, in riforma della decisione impugnata e in accoglimento del ricorso di primo grado, per le ragioni ed entro i termini sopra specificati, va annullato il provvedimento comunale di diniego di autorizzazione paesaggistica, salvi gli atti ulteriori della P.A..
7. Pare il caso di aggiungere, tuttavia, in modo conforme a quanto puntualizzato dall’appellante, e in vista del riesercizio del potere amministrativo, che devono considerarsi coperte dal giudicato le statuizioni della sentenza, non impugnate dal Ministero, con le quali il Tar, con riferimento al giudizio di (in)compatibilità paesaggistica, ha considerato “alcune affermazioni contenute nell’impugnato diniego … in effetti generiche e strumentali:
a) l’affermazione che il progetto “non risulta finalizzato ad un miglioramento della qualità paesaggistica complessiva dei luoghi”, appare del tutto inconferente, dal momento che appare effettivamente molto difficile che un progetto di edificazione possa avere la funzione di migliorare l’aspetto paesaggistico dell’ambiente. Si tratta, semmai, di inserirvi un’edificazione senza incidere sullo stesso in modo non conforme alla legge;
b) secondo la Soprintendenza l’edificazione delle ville “si configura come sostanziale modifica dei caratteri strutturali del terreno agricolo”: tale effetto appare, invero, ineliminabile rispetto a qualsiasi intervento di edificazione in un’area precedentemente agricola e poi trasformata in edificabile.
Anche il passaggio del ricorso in cui si sottolinea, con riferimento al modus operandi della Soprintendenza che: “Dopo aver bocciato il progetto sul piano e sul crinale, viene bocciato quello sul “versante”. Dopo aver bocciato il progetto in area erbosa, viene bocciato quello in area alberata. Bocciato il progetto con gli interrati, viene bocciato anche i progetto senza interrati.” (così il ricorso, al primo capoverso di pag. 16) non può non attirare l’attenzione di questo Tribunale.
Inoltre, è incontestabile che nella parte iniziale e nella parte finale, il provvedimento impugnato indulge in considerazioni generali sulle caratteristiche dell’area che sarebbero pertinenti se si stesse discutendo dell’edificabilità dell’area. Non a caso, infatti, la Soprintendenza dedica l’intera pagina 1 del proprio provvedimento a richiami alla DGR 9/2727 del 22.12.2011, contenente indicazioni che dovrebbero essere considerate e valutate, nonché rispettate, proprio in sede di pianificazione e cioè sono destinate ad orientare le scelte sull’utilizzazione del territorio compiute dal pianificatore.
A parere del Collegio, infatti, il richiamo, contenuto nel parere impugnato, alle regole che escludono e/o limitano l’edificazione sui versanti e a quelle che garantiscono il rispetto dei terrazzamenti (terrazze e ciglioni) che caratterizzano il paesaggio agrario lombardo collinare, integrano più un’inammissibile censura della scelta urbanistica, che una critica alle soluzioni progettuali sottoposte all’attenzione della Soprintendenza.
Nel caso di specie, invece, lo strumento urbanistico ha operato una precisa scelta in ordine all’edificabilità dell’area, che non può, come già più volte affermato dalla giurisprudenza, essere vanificata dal rigetto di ogni possibile soluzione costruttiva da parte dell’ente competente ad esprimere l’obbligatorio parere di compatibilità paesistica. Se il parere si limitasse a ciò, dunque, risulterebbe superato il limite della potestà attribuita all’autorità preposta a verificare il rispetto dei vincoli di tutela del paesaggio (che deve tendere, data l’edificabilità dell’area, all’individuazione della soluzione progettuale di minor impatto con l’ambiente, prendendo le mosse dal punto fisso che non può esistere l’opzione zero, dal momento che l’edificazione modificherà sempre il paesaggio, in specie in una zona particolarmente delicata come quella in questione), così come sostenuto da parte ricorrente…
” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.08.2016 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la formazione di un silenzio-assenso.
Tanto più considerando il fatto che l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L. n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed esaustiva.

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La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si determina né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza non si è espressa, poiché la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum, dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
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In materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al vincolo.
In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali della vicenda dal punto di vista paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato perché in grado di compromettere gli interessi che il vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare, esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il suddetto vincolo.
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Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, il mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la formazione di un silenzio-assenso. Tanto più considerando il fatto che l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L. n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed esaustiva.
Ciò posto, è necessario evidenziare che le censure dedotte dalla ricorrente in relazione alla violazione dell’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 per mancato rispetto del termine ivi previsto ai fini dell’emissione del parere di competenza della Soprintendenza, non appaiono pertinenti.
Ed invero, il suddetto parere è stato reso nell’ambito della procedura di cui all’art. 146 dello stesso D.Lgs. n. 42/2004, innestata sulla pratica di sanatoria di cui alla L. n. 724/1994. Erroneamente si è ritenuto applicabile l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 che, a ben vedere, opera solo con riferimento alle tipologie di intervento previste dal comma 4 del medesimo articolo, tra le quali non rientrano gli interventi di creazione di superfici utili o volumi e aumento di quelli già legittimamente realizzati.
Ciò posto, pur volendo superare, per esigenze di giustizia sostanziale, il dato letterale e ritenere la censura relativa alla tardività del parere, mossa dalla ricorrente, riferibile ai termini di cui all’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, questa non potrebbe ritenersi fondata per le ragioni che di seguito si espongono.
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si determina né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza non si è espressa, poiché la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum, dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
Parimenti infondata è la censura relativa al difetto di motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui si esprime in senso sfavorevole alla sanatoria della tettoia.
Sul punto, è necessario, in primo luogo, considerare che, in materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al vincolo. In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali della vicenda dal punto di vista paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato perché in grado di compromettere gli interessi che il vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare, esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il suddetto vincolo (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 09.08.2016 n. 1794  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2016

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto legislativo 30.06.2016, n. 127, recante "Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124", pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 162 del 13.07.2016 - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 27.07.2016 n. 22539 di prot.).
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Sommario: I. Introduzione; 2. I decreti legislativi che intervengono sui moduli procedimentali e organizzativi dell'agire della pubblica amministrazione: in particolare, il riordino della disciplina della conferenza dei servizi; 3. Modalità di svolgimento delle conferenze di servizi; 4. Rappresentante unico di governo; 5. Decisione della conferenza di servizi - effetti procedurali ed efficacia sostanziale; 6. Procedimento di opposizione ('dissenso qualificato'); 7. Disposizioni di coordinamento fra la disciplina generale e le varie discipline settoriali che regolano lo svolgimento de/la conferenza dei servizi.

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria afferma che la disciplina sul silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell’ente Parco non è stata implicitamente abrogata dalla l. n. 80 del 2005 (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 27.07.2016 n. 17).
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Ambiente – Parchi e aree protette – Nulla osta ex art. 13, l. n. 394 del 1991 - Silenzio-assenso – Abrogazione implicita a seguito dell’entrata in vigore della l. 80 del 2005 – Esclusione.
Il silenzio-assenso previsto dall’art. 13, commi 1 e 4, l. 06.12.1991 n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 80 del 2005, che, nell'innovare l'art. 20, l. n. 241 del 1990, ha escluso che l'istituto generale del silenzio-assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica.
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1. La pronuncia in esame, sollecitata dall’ordinanza di rimessione della III Sez. del Consiglio di Stato n. 642 del 17.02.2016, fa seguito alla decisione dell’Adunanza plenaria 24.05.2016, n. 9 (di cui alla news dell’U.S. del 26.05.2016 su analogo tema).
La questione rimessa consiste nello stabilire se l’art. 20, l. n. 241 del 1990 –novellato nel 2005- abbia comportato l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. n. 394 del 1991, attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art. 20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo e della tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo procedimentale in settori “sensibili” quali sono quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della salute, e dei beni culturali.
Questi in sintesi i passaggi motivazionali della decisione.
In relazione ai presupposti, in generale, per la configurabilità di abrogazione inespressa di una legge, la Plenaria ha ricordato che:
   A) a norma dell'art. 15 delle Disposizioni preliminari al Codice civile, essa si rinviene quando vi è incompatibilità fra nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita), ovvero quando la nuova legge regola l’«l’intera materia» già regolata dalla anteriore (abrogazione implicita): per cui detta incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione delle due leggi in comparazione, sì che dall'applicazione ed osservanza della nuova derivi necessariamente la disapplicazione o l'inosservanza dell'altra (ex multis, Cass., I, 21.02.2001, n. 2502).
   B) il principio lex posterior generalis non derogat priori speciali deve cedere alla regola dell'applicazione della legge successiva allorquando dalla lettera e dal contenuto di detta legge si evince la volontà di abrogare la legge speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella generale successiva (cfr. Cass., sez. lav., 20.04.1995, n. 4420. V. inoltre Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3823).
Venendo alla specifica questione in esame, e applicando i suindicati principi, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che tale incompatibilità che giustifica l’abrogazione tacita o implicita non sussistesse nel caso in esame e che l’art. 13, l. n. 394 del 1991 abbia disposto unicamente una particolare strutturazione del procedimento, comunque in grado di garantire la piena tutela dell’interesse protetto.
Le ragioni per giungere a tale conclusione sono le seguenti:
   C) non si rinviene una indicazione della giurisprudenza costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di semplificazione procedimentale rappresentato dal silenzio-assenso anche in materia ambientale, laddove si tratti di valutazioni con tasso di discrezionalità non elevatissimo (cfr. Corte cost. 19.10.1992, n. 393; 27.04.1993, n. 194; 02.02.1996, n. 26; 17.12.1997, n. 404; 16.07.2014, n. 209).
   D) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni preclusive in tal senso: la Corte di Giustizia europea ha ritenuto non compatibile la definizione tacita del procedimento, solo quando, però, per garantire effettività agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse necessaria una espressa valutazione amministrativa quale un accertamento tecnico o una verifica (sentenza 28.02.1991, causa C-360/87); essa inoltre ha censurato unicamente l’omessa effettuazione della Valutazione di Impatto Ambientale in quanto prescritta dalla direttiva n. 85/337/Cee (sentenza 10.06.2004, causa C-87/02).
All’interno di tale cornice, la Plenaria ha evidenziato che:
   E) il dato testuale dell’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 (come modificato dalla l. 81 del 2005) depone nel senso della non configurabilità di un effetto abrogativo implicito. Ed infatti, esso esordisce riferendosi alle sole «disposizioni del presente articolo». Dunque almeno in principio la sua previsione pare riguardare i casi generali e non estendersi a precedenti specifiche disposizioni, come quella del detto art. 13. (cfr. Cons. Stato, VI, 29.12.2008, n. 6591 e 17.06.2014, n. 3047).
   F) dal punto di vista sistematico:
     1. l’art. 13, l. n. 394 del 1991 fu posto quando l’originario art. 20, l. n. 241 del 1990 escludeva in via generale il silenzio-assenso, salvo casi specifici previsti da appositi regolamenti governativi di delegificazione. Viceversa, solo con la riforma del 2005 il modulo del silenzio assenso è stato generalizzato. Non è pertanto logico ritenere che una disposizione volta a generalizzare il regime procedimentale del silenzio-assenso faccia venir mento proprio quelle ipotesi di silenzio-assenso già previste dall’ordinamento nel più restrittivo sistema dell’art. 20 vigente prima della riforma del 2005 (cfr. in termini Cons. St., sez. VI, 17.06.2014, n. 3047; id. 29.12.2008, n. 6591);
     2. la previsione del silenzio assenso per il rilascio del nulla osta dell’Ente Parco si inseriva in una normativa organica del settore sui parchi e le aree protette (la l. n. 394 del 1991), cosicché deve ritenersi che essa fosse il frutto di un bilanciamento complessivo degli interessi ivi coinvolti e costituisse effetto di una valutazione legislativa ponderata e giustificata dalla specificità della materia;
     3. il nulla osta dell’art. 13, l. n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con le disposizioni del piano e del regolamento del parco. Si tratta pertanto di effettuare valutazioni a basso margine di discrezionalità compatibili con il modulo procedimentale del silenzio-assenso.
Si segnalano in senso contrario, per l’applicazione del criterio cronologico ed il conseguente il riconoscimento della abrogazione tacita Cons. St., sez. III, 15.01.2014, n. 119; id., sez. IV, 28.10.2013, n. 5188 (tratto da a e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689.
Tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs n. 42/2004.
...
4) Il ricorso è parzialmente fondato.
5) Con riguardo all’ingiunzione di pagamento dell’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, il ricorrente ha ottenuto la determinazione paesaggistica n. 208 del 06.12.2001 favorevole alla sanatoria del frazionamento.
Sul punto, la Sezione ha già avuto occasione di precisare che la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689; tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume (TAR Lazio Latina 19.01.2012 n. 30).
6) Pertanto, essendo stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica in data 06.12.2001, il diritto a pretendere l’indennità risarcitoria in argomento si è prescritto il 06.12.2006 (TAR Lazio-Latina, sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”.
Sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale.
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2.2 Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.04.2000, n. 2544; Tar Liguria 26.11.2012) e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”; sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale (Tar Lazio Roma 02.10.2008, n. 8716) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016 reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT, nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
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A seguito del recente parere 13.07.2016 n. 1640 reso dal Consiglio di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, in tema di silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario fornire alcune precisazioni in merito alla nota circolare 10.11.2015 n. 27158 di prot. (diffusa agli uffici ministeriali da codesto Segretariato con circolare 20.11.2015 n. 40) con la quale questo Ufficio ha reso noti i primi orientamenti applicativi dell'istituto, introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui di seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine espositivo adottato nella circolare del 2015. (...continua).

EDILIZIA PRIVATANon vincolante il parere fuori termine. Consiglio di Stato. La Soprintendenza può autorizzare interventi in aree vincolate pure dopo i 90 giorni.
Nell’ambito dell’autorizzazione per interventi edilizi su immobili e aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge, la Soprintendenza può rilasciare il parere di compatibilità in sanatoria anche dopo i 90 giorni stabiliti dal Codice dei beni culturali (comma 5, articolo 167, Dlgs 42/2004). Però in questo caso la Pa che deve dare il via libera non può più essere obbligata a rispettarlo, ma solo a motivare adeguatamente la decisione, sia se ne discosta sia se lo condivide.
Con questa novità interpretativa, il Consiglio di Stato -sentenza 18.07.2016 n. 3179, VI Sez.- ha bocciato il ricorso del ministero per i Beni e le attività culturali (Mibac) per cui anche nelle procedure non ordinarie il parere della Soprintendenza è sempre vincolante, anche se emesso dopo il termine perentorio di legge.
Ciò poiché lo stesso Consiglio di Stato in altri casi (sentenze 4656 e 4914/2013) ha ritenuto che la perentorietà non riguarda la sussistenza del potere dell'ente ministeriale o la legittimità dell'atto, ma solo l'obbligo di chiudere la procedura amministrativa (“sì” finale entro 180 giorni). In più, perché le stesse norme (comma 9, articolo 146), in caso di inerzia dell'organo nazionale, consentono all’ente locale di “richiamarlo” con una conferenza di servizi.
In questo caso era contestata la tesi opposta con cui il Tar aveva annullato lo stop di un Comune alla realizzazione di ripari temporanei di un bar su suolo pubblico (ordini di rimozione inclusi) poiché si richiamava semplicemente a un parere negativo della Soprintendenza, non più obbligatorio e vincolante poiché adottato dopo oltre cinque mesi, e senza alcuna valutazione dell’ente anche conforme.
I giudici, in linea col primo grado, hanno ritenuto applicabile anche per le pratiche di compatibilità ex-post il più recente orientamento giurisprudenziale della stessa Sezione valido per quelle ordinarie –da ultimo la sentenza 4927/2015- che ha chiarito come il legislatore, per bilanciare la tutela del paesaggio e la certezza dei rapporti giuridici, ha imposto che i poteri degli enti interessati «debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile».
Trascorsi quindi i 90 giorni, anche nelle “sanatorie” il parere della Soprintendenza è «privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante», anche se poi nulla vieta l’organo statale a rilasciarlo comunque, ma in tal caso l’atto va «autonomamente valutato» dalla pubblica amministrazione procedente. Nell’attuale quadro di «cogestione del vincolo», il Comune era dunque “libero” dall’obbligo di bloccare l’intervento proposto, ma doveva motivare la decisione in modo adeguato anche se condivideva il no del Mibac.
Questo principio resta «il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici», in realtà nella tempistica per l’autorizzazione paesaggistica –commi 8, 9, e 10, articolo 146– vi è «un ordito normativo volto a configurare…una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016).

EDILIZIA PRIVATATutti i termini del procedimento sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel caso di specie.
Segnatamente, il fatto che il termine di cui all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo, che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Invero, si è affermato che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
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In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.

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Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.

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...per la riforma della sentenza breve del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZ. I - 18.09.2014 n. 2375, resa tra le parti, concernente parere negativo di compatibilità paesaggistica in sanatoria per la realizzazione di opere edilizie.
...
Con unico ed articolato motivo di appello il Ministero censura la sentenza del Tribunale Amministrativo nella parte in cui ha ritenuto che il parere della Soprintendenza sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, in quanto tardivo, avesse perso la sua natura vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione avrebbe dovuto rendere motivazione in ordine alla eventuale condivisione del medesimo.
Rileva in primo luogo che tutti i termini del procedimento sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel caso di specie.
Evidenzia ancora che il fatto che il termine di cui all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo, che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Richiama in proposito le sentenze di questo Consiglio (sez. VI, n. 4914/2013 e n. 4656/2013) nelle quali si è affermato che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
Il Ministero appellante deduce ancora, a sostegno della tesi della persistente natura vincolante del parere, la circostanza che il comma 9 dello stesso articolo 146, prevede che, in caso di inerzia dell’organo statale, l’amministrazione territoriale può procedere all’indizione di una conferenza di servizi. Di conseguenza, anche nell’ipotesi in cui il parere dovesse intervenire prima della pronuncia del Comune, anche dopo la scadenza del termine, esso continuerebbe a mantenere la sua natura vincolante, non potendo il mancato rispetto di esso incidere sui caratteri del provvedimento tardivamente adottato, rendendoli diversi rispetto a quelli previsti dalla norma attributiva del potere.
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n. 1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile
”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del 04.04.2014 così recita: “Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata.
L’avvenuta reiezione dell’appello principale determina l’assorbimento dell’esame dell’appello incidentale presentato dalla società St., in quanto, per espressa e palesata volontà di questa, il gravame viene condizionato all’accoglimento di quello principale del Ministero.
Nell’atto di appello incidentale si legge, infatti, che questo è “condizionato” ed è proposto “per la denegata ipotesi in cui l’appello del MiBAC fosse ritenuto fondato”.
Ritiene, infine, la Sezione di precisare che alcuna valenza assumono, ai fini della definizione del presente giudizio, le circostanze rappresentate dall’amministrazione e relative alla presentazione, da parte della società appellata, di un nuovo progetto di sistemazione degli spazi esterni del locale dalla stessa gestito, trattandosi di opere diverse rispetto a quelle oggetto di causa e di differente e nuovo procedimento amministrativo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
La novità dell’orientamento giurisprudenziale assunto dalla sezione sulla questione costituisce motivo per l’integrale compensazione tra le parti costituite delle spese del grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul parere della Soprintendenza ex artt. 146 e 167 dlgs 42/2004.
L'evoluzione normativa, che ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
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Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria.
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Ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Pertanto, deve essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.

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L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n. 1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile
”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria
”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del 04.04.2014 così recita: “Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISilenzio-assenso a 360°. Ma l'istituto non può essere un alibi per la p.a.. Parere del Consiglio di stato sulla riforma Madia. Limiti all'autotutela.
Il silenzio-assenso si applica a 360 gradi. Sia nei confronti di regioni ed enti locali, sia quando su un provvedimento debbano pronunciarsi autorità indipendenti o gestori di servizi pubblici o ancora organi politici. Dopo 30 giorni di inerzia , il silenzio sarà equiparato al concerto, assenso o nulla osta da acquisire. E la p.a. non avrà più potere di dissentire, impedendo l'adozione dell'atto attraverso lo strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso diventerebbe «un atto di natura meramente provvisoria, suscettibile di essere neutralizzato da un ripensamento unilaterale fino all'adozione del provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non può essere la regola. Né nei rapporti tra p.a. e cittadino, né in quelli tra amministrazioni chiamate a esprimere il proprio nulla osta su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra amministrazioni concertanti, il silenzio-assenso è un rimedio «patologico» ma necessario perché «nessuna p.a. può avere più il potere di bloccare un procedimento» non esprimendo la propria posizione su un atto specifico.

Nell'articolato parere 13.07.2016 n. 1640 il Consiglio di Stato si è espresso sulla portata applicativa della novità contenuta nella delega Madia (legge n.124f2015) che ha introdotto nella legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241/1990) l'art. 17-bis sul silenzio-assenso anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo Spada è stato l'Ufficio legislativo della Funzione pubblica che sollevato diversi dubbi interpretativi in relazione all'ambito di applicazione dell'istituto, ai rapporti tra silenzio-assenso e conferenza dei servizi e all'esercizio del potere di autotutela.
La commissione speciale, costituita ad hoc dal Consiglio di stato per l'esame dei quesiti, ha riconosciuto che la regola del silenzio-assenso trova fondamento nel diritto europeo, nella Costituzione e nel principio di trasparenza.
Perché non è ammissibile paralizzare l'attività della p.a semplicemente non esprimendo la propria opinione su un atto specifico. Tuttavia, ha ammonito palazzo Spada, «una pronuncia espressa resta sempre preferibile: permane una valenza fortemente negativa del silenzio-assenso (sia tra amministrazione e cittadino, sia tra amministrazioni co-decidenti), ma esso resta comunque una soluzione migliore dell'inerzia totale».
Nel rispondere ai quesiti del dicastero di Marianna Madia, il Consiglio di stato ha esteso l'applicabilità dell'istituto a una molteplicità di fattispecie applicative, tutte accumunate dal fatto di riguardare atti di natura co-decisoria. La stessa cosa, tuttavia, non può dirsi per gli atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, quali per esempio la bollinatura della Ragioneria generale dello stato. Il bollino della Rgs, ha chiarito il Consiglio di stato, «è infatti un atto con funzione di controllo che si colloca dopo l 'esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l'integrazione dell'efficacia dei provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso nemmeno le amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili (beni culturali, salute dei cittadini), a cui si applicano i termini previsti dalla normativa di settore o , in mancanza, il termine di 90 giorni (articolo ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato sul silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, l. n. 241 del 1990) (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 13.07.2016 n. 1640).
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L’importanza del ricorso ai quesiti nella fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei quesiti riguardanti l’attuazione della riforma di cui alla legge n. 124 del 2015, sottolinea l’efficacia del metodo seguito dal Governo di procedere tramite la proposizione di quesiti sul funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in concreto’ della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio di Stato concepita come sostegno in progress a un progetto istituzionale, piuttosto che a singoli provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come l’art. 17-bis, introducendo il nuovo istituto del silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’, ponga una seconda regola generale –dopo quella prevista dall’art. 21-nonies nei rapporti tra cittadino e PA– che stavolta riguarda i rapporti ‘interni’ tra amministrazioni, quale che sia l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del procedimento pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che non esterni alcuna volontà, è equiparato ope legis ad un atto di assenso e non preclude all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e rimedio all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo strumento di semplificazione confermi la natura “patologica” del silenzio amministrativo, sia nel rapporto verticale (tra amministrazione e cittadino), sia nel rapporto orizzontale (tra amministrazioni co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica, tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della tacita autorizzazione” (ovvero la regola del silenzio-assenso) introdotto dalla cd. direttiva Bolkestein (considerando 43; art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso nell’ottica di assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona, dell’impresa e dell’operatore economico;
- sistematico, con riferimento al principio di trasparenza (anch’esso desumibile dall’art. 97 Cost.) che ormai, specie dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, informa l’intera attività amministrativa come principio generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il Consiglio di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile anche a:
   1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di coordinamento istituzionale volta a garantire un’applicazione omogenea delle nuove regole di semplificazione nel rispetto della loro autonomia organizzativa.
   2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando essi adottano atti amministrativi o normativi che quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta comunque denominati nell’ambito di procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza di altre Amministrazioni. In tal caso, è la natura dell’atto da adottare (amministrativo o normativo) che rileva, e non la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare della competenza “interna” nell’ambito della pubblica Amministrazione coinvolta.
   3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di incompatibilità con la particolare autonomia di cui godono, anche in considerazione della natura amministrativa ormai ad esse pacificamente riconosciuta.
   4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e servizi anche quando siano titolari del procedimento (e debbano acquisire l’assenso di altre amministrazioni) e non solo quando siano chiamati a dare l’assenso nell’ambito di procedimento di altre Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la nozione (di matrice comunitaria ed ormai accolta dalla prevalente giurisprudenza) “oggettiva” e “funzionale” di pubblica Amministrazione, in virtù della quale si considera pubblica Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad osservare, nello svolgimento di determinate attività o funzioni, i principi del procedimento amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni interpretative concernenti anche l’ambito di applicazione oggettivo del nuovo istituto.
   1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi in virtù di un espresso dato testuale: il primo periodo del comma 1 contiene un esplicito riferimento ai procedimenti per l’adozione degli atti normativi
   2) Applicabilità a procedimenti relativi a interessi pubblici primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili).
   3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n. 241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris) nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione speciale ritiene che la disposizione sia applicabile anche ai pareri vincolanti e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del 1990.
   4) Il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che hanno natura codecisoria esclude, che il silenzio-assenso possa sostituire atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, riguardando la fase costitutiva dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d. ‘bollino’ della Ragioneria Generale dello Stato, previsto dall’art. 17, comma 10, della legge 31.12.2009, n. 196, un atto con funzione di controllo, che si colloca dopo l’esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l’integrazione dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
   5) Non applicabilità ai procedimenti ad iniziativa di parte tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in cui l’atto di assenso sia chiesto da un’altra pubblica amministrazione non nel proprio interesse, ma nell’interesse del privato (destinatario finale dell’atto) che abbia presentato la relativa domanda tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il privato la presenti direttamente o per il tramite di un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità di autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa è quello secondo cui l’art. 17-bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa, al fine di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17-bis, la soluzione secondo cui il silenzio-assenso di cui all’art. 17-bis operi sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e prevenga la necessità di convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate, e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata.
La disciplina del superamento del disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la disciplina del superamento del disaccordo prevista dall’art. 17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva alcune perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes materiae: la norma disciplina un meccanismo sostitutivo che presuppone il dissenso espresso, che, dunque, non si applica per definizione nelle ipotesi di silenzio-assenso che costituiscono l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche da apportare allo schema del provvedimento” non tiene conto dell’eventualità che il Presidente del Consiglio possa risolvere il conflitto senza modificare lo schema del provvedimento, ma recependolo integralmente la posizione dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e firma del provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte dell’Amministrazione procedente l’invio formale del testo non ancora sottoscritto, in vista della successiva eventuale sottoscrizione di un testo condiviso (nell’ipotesi in cu l’Amministrazione interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata rimanga silente, il provvedimento potrà essere sottoscritto soltanto dall’Amministrazione procedente, dando atto nelle premesse o in calce al provvedimento dell’invio dello schema di provvedimento e del decorso del termine per il silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento finale (adottato sulla base del silenzio-assenso dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela soggiace alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia stato ancora adottato, il parere esclude che, formatosi il silenzio-assenso, l’Amministrazione inerte possa superarlo esercitando il potere di autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta giorni (o il diverso termine per le Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili) ha natura perentoria e, dunque, la sua scadenza fa venire meno il potere postumo di dissentire (anche in autotutela) (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna struttura costituita esclusivamente da uno scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli solari, e che non sviluppa una superficie utile, è passibile di compatibilità paesaggista ex art. 167 dlgs 42/2004.
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Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento impugnato non consente di ripercorrere l’iter logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella redazione del provvedimento impugnato e non consente, soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere contrario.
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Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse», l’amministrazione non rende adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la motivazione stessa precedere e non seguire ogni provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
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Quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per questo, non rientrante nella casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti:
- che il progetto riguarda “un progetto di installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria metallica”,
- che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio” e
- che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della superficie già esistente (e già destinata a parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa 1,68 mt.
I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt. così come riportato negli elaborati grafici al fine di conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del manufatto e non comporta creazione di superfici utili o volumi ovvero modifiche di quelli esistenti.

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Con istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. chiedeva il rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria relativamente ad una struttura metallica reggente un impianto fotovoltaico (della potenza di 19,92 Kw) realizzata, insieme al medesimo impianto, nel piazzale interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio artigianale per la manutenzione di macchine ed attrezzatura per l'edilizia del quale la stessa "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è proprietaria, in area sottoposta a vincolo ex L. 29.06.1939, n. 1497 e ricadente in un A.T.E. di tipo C del P.U.T.T./p. della Regione Puglia.
La Commissione locale per il paesaggio del Comune di Lecce esprimeva parere favorevole al rilascio in data 01.12.2011.
Sennonché, giusta provvedimento prot. n. 5391 del 26.03.2012 il Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici della Provincia di Lecce ed il Responsabile del procedimento comunicavano che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse».
Detto parere veniva notificato alla "Nu.Ed.Pe." S.a.s. giusta nota prot. n. 44629/12 del 05.04.2012 a firma del Dirigente dell'Ufficio tecnico - Settore urbanistico del Comune di Lecce.
Avverso detti provvedimenti insorge l’odierna ricorrente chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Dicastero intimato resistendo al ricorso e chiedendone la reiezione.
All’udienza dell’08.06.2016 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Con un articolato motivo di ricorso, l’"Nu.Ed.Pe." lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso di potere per erronea presupposizione in fatto, illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà e perplessità dell'azione amministrativa; illegittimità in via derivata.
In particolare, il parere soprintendentizio impugnato, nel ritenere «le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici"» incompatibili "per tipologia di intervento e dimensioni", si paleserebbe frutto di attività istruttoria carente, nonché di erronea presupposizione in fatto.
Nello specifico, nella relazione paesaggistica e nella relazione P.U.T.T./p. allegate alla istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 si precisava che la struttura metallica reggente l'impianto fotovoltaico, nonché l'impianto stesso, sono localizzati nel piazzale interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio artigianale del quale la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è proprietaria e, quindi, in un contesto a vocazione produttiva rispetto al quale non è dato comprendere quale sia il significato dell’affermazione inerente l'incompatibilità per "tipologia di intervento".
Allo stesso modo, non si comprende quale sia il parametro al quale rapportare la presunta incompatibilità per "dimensioni".
Con nota depositata in udienza, la Soprintendenza ha affermato che “tale intervento "per tipologia" non rientra nella casistica delle opere ammissibili dall'art. 167 Dlvo 42/2004 in quanto la tettoia prevista per una altezza libera di 4.00 mt. ... al fine di conservare la funzione di parcheggio dell'area sottostante- ha sviluppato una superficie utile all'appoggio dei pannelli fotovoltaici (cfr Relazione tecnica All. 1);
- non rientra altresì per "tipologia" ammissibile alla casistica del succitato articolo in quanto come specificato dalla circolare Mibact n. 33/2009, esplicativa in merito alla definizione dei termini "lavori", "superfici utili" e "volumi", per superfici utili si intende "qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono ammesse le logge e i balconi nonché i ponici. collegati al fabbricato, aperti su Ire lati contenuti entro il 25% dell'area di sedime del fabbricato stesso”.
La censura è fondata e deve essere accolta.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento impugnato non consente di ripercorrere l’iter logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella redazione del provvedimento impugnato e non consente, soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere contrario.
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse», l’amministrazione non rende adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la motivazione stessa precedere e non seguire ogni provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
In ogni caso, anche la motivazione fornita nella nota depositata in giudizio appare frutto di un errore sui presupposti di fatto.
Infatti, quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per questo, non rientrante nella casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti, che il progetto riguarda “un progetto di installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria metallica”, che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio di proprietà della Im.Pe. s.a.s.” e che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della superficie già esistente (e già destinata a parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa 1,68 mt. I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt così come riportato negli elaborati grafici al fine di conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante. L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del manufatto e non comporta creazione di superfici utili o volumi ovvero modifiche di quelli esistenti”.
La stessa documentazione fotografica depositata in atti dimostra che la struttura è costituita esclusivamente da uno scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli solari e che non sviluppa una superficie utile.
Per i predetti motivi il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 07.07.2016 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul rimborso spese ai membri della Commissione Comunale per il Paesaggio.
La Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese” sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa voce di bilancio.
A tale fine
l’Ente potrà riallocare le risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le minori spese derivanti dall’espletamento della funzione medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che
nell’ambito dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs 42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore” che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto” in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto
si ritiene, altresì, che i professionisti componenti le commissioni in parola debbano essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata ma “interni” al comparto pubblico, inteso come soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma 3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale” delle funzioni svolte e del divieto tombale di remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il conferimento di incarichi a titolo onorifico a professionisti privati, e ciò alla luce del generale principio di “autosufficienza” e “valorizzazione” delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le commissioni in esame, in termini di potenziale (ed arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art. 183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con riferimento a professionisti interni al comparto pubblico, in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in seno alle commissioni de quibus– è già remunerato nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico che lega il professionista alla pubblica amministrazione, complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi all’attività in questione ed averne individuate le misure volte a prevenirlo.
In tale ottica,
il carattere onorifico della prestazione -in assenza di cause giustificatrici ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si presenta –almeno in via astratta– come misura volta a prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita” venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero risultare recessivi.
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Il Comune di Moliterno (PZ), premettendo:
- che una rilevante porzione del territorio comunale (oltre il 90% del territorio) è compresa nel Parco Nazionale Appenino Lucano-Val d’agri-Lagonegrese;
- che tale circostanza ha comportato la necessità di acquisire “pareri obbligatori in merito alle domande paesaggistiche”;
- che il decreto legislativo n. 42/2004 e successive modifiche ed integrazioni “all’art. 146, attribuisce alla Regione l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, consentendo alla stessa tuttavia di delegarne l’esercizio ad una pluralità di enti tra cui i Comuni purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela del paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”;
- che il comma 3 dell’art. 183 del medesimo decreto legislativo “dispone testualmente che <<la partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso e comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica>>”;
- di non avere “al proprio interno personale idoneo per l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione (...)” ;
- e che pertanto, al fine di istituire la commissione prevista dalla legge, “si è reso necessario ricorrere a professionisti esterni”, e ciò anche alla luce della delibera n. 2002 del 29.12.2008, con cui la Regione Basilicata ha previsto l’obbligo di “operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni all’amministrazione”;
chiede di sapere se sia possibile “riconoscere ai componenti esterni la commissione un rimborso delle spese documentate (spese di viaggio) ancorandolo comunque ad un limite massimo.
A tale riguardo, l’Ente dichiara di essere consapevole che un “eventuale rimborso andrebbe a gravare le finanze comunali”, e ciò in quanto “se è vero che da un lato il rimborso spese non integra gli estremi di un compenso, è altrettanto vero che il dato normativo statuisce che non debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Il Comune rappresenta, altresì, che “la delega dell’esercizio del potere da parte della Regione al Comune, accelera l’istruttoria delle pratiche snellendo, di gran lunga l’iter procedimentale e, quindi, riduce notevolmente le lungaggini temporali”.
...
6. Inquadramento del quesito
   6.1 L’istanza di parere in esame verte in tema di esercizio -per delega regionale- della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio e, in particolare, di oneri finanziari connessi alla composizione ed al funzionamento delle “commissioni locali per il paesaggio” istituite nell’ambito dei relativi procedimenti autorizzatori.
La normativa di riferimento è contenuta nel Dlgs 42/2004 (“Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” ovvero per brevità “Codice”) così come successivamente modificato ed integrato e, per quanto qui di specifico interesse, negli artt. 146, comma 6 (che disciplina i presupposti della delega in materia di autorizzazione paesaggistica), 148 (che disciplina l’istituto delle commissioni locali per il paesaggio) e 183, comma 3 (che dispone i vincoli di natura finanziaria sottesi all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni in parola).
Nello specifico, il Comune istante chiede di conoscere la portata e la latitudine applicativa della clausola di invarianza finanziaria contenuta nel comma 3, dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, ai sensi del quale “la partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
In particolare, viene chiesto di sapere se, alla luce del disposto in questione, il rimborso delle spese documentate a favore dei componenti la commissione per il paesaggio (spese di viaggio) –seppure non vietato esplicitamente- risulti comunque inibito alla luce della clausola di invarianza finanziaria ivi codificata, comportando comunque un aggravio per le finanze comunali.
Nella formulazione del quesito, il Comune, dichiarando di essere consapevole che l’attività dei componenti la commissione “rientrando all’interno dei compiti istituzionali, debba essere gratuita”, precisa di aver fatto ricorso a professionisti esterni per mancanza al proprio interno di “personale idoneo per l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione”, e ciò anche in considerazione delle direttive contenute nella delibera di Giunta regionale della Basilicata n. 2202 del 29.12.2008 ai sensi della quale “la commissione ha l’obbligo di operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni all’amministrazione”.
Alla luce di quanto sopra ed al fine di rispondere al quesito in esame, occorre analizzarne–seppure per linee generali– il contesto normativo di riferimento.
7. Autorizzazione in materia di paesaggio: presupposti per conferire la delega di funzione
   7.1 Ai sensi dell’art. 146, comma 1, del Dlgs 42/2004 i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.
A tale fine, i suddetti soggetti hanno l'obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione.
Il comma 6, nell’attuale formulazione introdotta dal Dlgs 63/2008, prevede espressamente che sia la regione il soggetto titolare dell’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio e che la debba espletare avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e di idonee risorse strumentali .
Le regioni, però, hanno (conservato) la facoltà di delegarne, a loro volta, l’esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero a comuni, al sussistere dei due presupposti essenziali, e cioè “purché gli enti destinatari della delega dispongano di di strutture in grado assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia” (cfr. comma 6, seconda parte art. 146).
Alla luce del rinnovato assetto normativo, pertanto, l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio potrà essere intestato (rectius conservato) in capo agli enti locali, solo in via eventuale e, comunque, condizionata alla sussistenza dei suddetti presupposti di “adeguatezza” della struttura in termini di competenze professionali e di effettiva capacità/possibilità di differenziare le attività di tutela del paesaggio dalle funzioni (antagoniste) in materia urbanistico-edilizia.
Si precisa, peraltro, che suddetti requisiti devono sussistere in via continuativa per tutta la durata della delega.
Ai sensi dell’art. 159, la verifica della loro sussistenza e permanenza, in concreto ed in via continuativa, è rimessa alla cura e alla responsabilità delle regioni, con la conseguenza che, in caso di mancata verifica ovvero di esito negativo della stessa, la funzione tornerà (ovvero resterà) ad essere esercitata in via diretta dalla regione medesima .
Da ciò ne consegue che, una volta verificata la sussistenza di tali condizioni, gli enti delegati dovranno essere in grado di esercitare in concreto tale funzione.
In tale ottica, le regioni assumono un ruolo fondamentale.
Ci si riferisce in particolare all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio previste dall’art. 148 del Codice.
Ai sensi del suddetto articolato normativo “Le regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146, comma 6.”
Dal combinato disposto del comma 6 dell’art. 146 e del comma 1 dell’art. 148, infatti, discende che gli enti delegati, pur dotati “a monte” di una struttura “interna” adeguata, ai fini dell’esercizio in concreto della funzione devono essere “supportati” dalle commissioni locali di paesaggio.
L’istituzione delle suddette commissioni è affidata, in termini di “promozione”, alle regioni.
In quest’ottica, anche in considerazione della natura “delegata” della funzione autorizzatoria nel cui ambito si innestano tali commissioni, il termine “promozione” si pone come sinonimo di “rendere fattibile”, riducendosi –in caso contrario– ad una mera enunciazione di principio svuotata di effettiva portata applicativa.
E ciò in quanto costituisce “principio fondamentale della finanza pubblica quello secondo il quale, nella ipotesi in cui l’esercizio di funzioni e servizi resi dalla pubblica amministrazione all’utenza, o comunque diretti al perseguimento di pubblici interessi collettivi, venga trasferito o delegato da una ad altra amministrazione, l’autorità che dispone il trasferimento o la delega è, pur nell’ambito della sua discrezionalità, tenuta a disciplinare gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e passivi (…)” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 364/2010).
Ed è alla luce di tali coordinate che, a parere della Sezione, occorre analizzare il quesito in esame, con riferimento ai vincoli finanziari connessi all’istituzione ed al funzionamento delle suddette commissioni.
8. Commissioni locali per il paesaggio: statuto giuridico ed economico
   Lo statuto giuridico ed economico delle suddette commissioni è codificato –a livello di coordinate di principio- dal combinato disposto degli artt. 148 e 183, comma 3, del dlgs 42/2004, mentre la disciplina di dettaglio è affidata al potere normativo e regolamentare delle regioni.
L’art. 148 del Dlgs 42/2004 codifica i requisiti di professionalità e di esperienza dei componenti le commissioni, disponendo che debbano essere “soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio”, e ne determina la funzione svolta, e cioè il rilascio di pareri propedeutici al rilascio dell’autorizzazione in materia di paesaggio.
A seguito della novella di cui al dlgs 63/2008, nell’attuale formulazione dell’art. 148, comma 3, è venuta meno la natura “vincolante” dei pareri resi dalle commissioni.
   8.1 Il comma 3 dell’art. 183 oltre a disegnarne i vincoli finanziari, ne connota la natura, facendo rientrare la partecipazione alle commissioni de quibus nell’ambito dei “compiti istituzionali” dell’amministrazione interessata.
Tale articolato normativo è collocato nell’ambito delle “Disposizioni finali” del Dlgs 42/2004 ed ha subito nel tempo alcune modifiche ed integrazioni.
Nella sua originaria formulazione (vigente sino all’11.05.2006), l’articolato in questione disponeva, oltre al generico vincolo di invarianza finanziaria, uno specifico vincolo di gratuità della partecipazione alle commissioni previste nel Codice (i.e. “la partecipazione alle commissioni previste nel presente codice si intende a titolo gratuito e comunque da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).
Con il decreto legislativo n.157/2006 è stato modificato, tra gli altri, anche il disposto di cui al comma 3, dell’art. 183.
In particolare, nella proposta di modifica presentata dal Governo, l’art. 30 dello schema di decreto legislativo 157/2006 non riportava più alcun riferimento al sopra citato vincolo di gratuità, limitandosi a codificare (rectius confermare) il divieto di “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” discendente dall’attuazione del complessivo articolato (i.e. “Dall’attuazione del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).
Sul punto la V Commissione Bilancio, tesoro e programmazione (cfr. Atto 595 - Rilievi alla VIII Commissione), evidenziando l’anomalia della circostanza e ricordando che “in casi analoghi, in base alla prassi consolidata, si è previsto che la partecipazione a Comitati non deve dare luogo ad alcun compenso o rimborso spese”, aveva richiesto di riformulare il disposto in questione, proponendone un precetto più stringente ai sensi del quale “la partecipazioni alle commissioni previste dal presente codice non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso o rimborso spese e comunque da essa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Rispetto a tale proposta di modifica, nella versione definitivamente approvata ed oggi vigente dell’articolato in questione, è stato espunto il riferimento al divieto di rimborso spese ed è stato integrato il contenuto precettivo, specificando la valenza “istituzionale” della partecipazione alle commissioni codificate dal Codice (i.e. “3. La partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell'ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non da' luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.).
9. Vincoli finanziari contenuti nel comma 3, dell’art. 183 del Codice
   Alla luce dell’attuale formulazione del disposto in esame, quindi, occorre domandarsi se gli oneri derivanti dal “rimborso delle spese”, seppure non esplicitamente vietati dal dettato in questione (ed anzi, espressamente espunti dal precetto), rientrino comunque nel perimetro di applicazione della norma, in quanto compresi nel cono d’ombra del divieto di corresponsione di “alcun compenso” ovvero, comunque, nel perimetro applicativo del divieto di generare “nuovi o maggiori oneri”, oppure non rientrino in alcuni dei suddetti limiti e pertanto possono essere sostenuti nei limiti delle prescrizioni della normativa vigente.
A tale fine occorre precisare quanto segue.
Il comma 3, dell’art. 183 contiene due tipologie di vincolo: uno di natura specifica, relativo al divieto di “compensare” ossia remunerare, sotto qualsiasi forma, l’attività di partecipazione alle commissioni de quibus; l’altro di natura generica e residuale, inerente al divieto di “alterare” il complessivo equilibrio economico-finanziario della finanza pubblica allargata.
   9.1 Con riferimento alla portata del vincolo di natura specifica, si ritiene che con l’attuale formulazione della norma (“non si dà luogo alla corresponsione di alcun compenso”) s’intenda precludere ogni tipologia di onere finalizzato, anche in via indiretta, alla remunerazione –sotto qualsiasi forma ed “etichetta”- dell’attività svolta dal componente la commissione.
In tale ottica, esulerebbero dal perimetro applicativo del divieto esclusivamente gli oneri aventi natura e funzione meramente “restitutorie”, come il rimborso delle spese documentate.
Tale opzione peraltro sarebbe confermata dalla specifica espunzione del divieto del “rimborso delle spese” dal testo finale del disposto in esame e dalla circostanza che in altre fattispecie assimilabili il legislatore abbia espressamente incluso nel divieto tale voce di spesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, si ritiene che esulino dall’ambito di applicazione del vincolo di gratuità di cui al comma 3, dell’art. 183 esclusivamente gli oneri di natura “restitutoria”, come quelli relativi al “rimborso delle spese”, purché la natura “non remunerativa” né “indennitaria” di tali oneri sussista, in concreto, al di là della sua etichetta formale.
   9.2 Fermo quanto sopra, occorre verificare se il rimborso delle spese –per quanto non precluso dal divieto di compensi sopra citato- sia consentito alla luce del vincolo di invarianza della spesa codificato dal medesimo articolato in esame.
Il vincolo di invarianza della spesa costituisce “l’alter ego” dell’obbligo di copertura finanziaria codificato dall’art. 81, comma 4, della Costituzione, in termini di identità di obiettivo perseguito, e cioè la tutela degli equilibri di finanza pubblica.
L’obbligo di copertura finanziaria (nella versione dell’art. 81, comma 3, Cost. post intervento riformatore del 2012 “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”) impone che la legge provveda, in maniera adeguata ed effettiva, ai mezzi di sostegno dei nuovi e/o maggiori oneri derivanti –in via esplicita ovvero implicita- dall’attuazione della norma.
Il vincolo di invarianza finanziaria presuppone o comunque codifica (e impone) la “neutralità” dell’impatto degli oneri derivanti dall’attuazione della norma, in termini di equilibrio economico-finanziario complessivo.
L’obiettivo perseguito è identico: la tutela degli equilibri della finanza pubblica; ciò che differisce è lo strumento utilizzato per raggiungerlo. Nel prima caso si agisce sulla necessità di “dare copertura finanziaria” agli oneri (nuovi o maggiori, anche in termini di minori entrate) sopravvenuti per effetto della norma; nel secondo caso si agisce sulla necessità che gli oneri, qualora sussistenti, non abbiamo alcun impatto sugli equilibri di bilancio.
Il criterio di invarianza degli oneri finanziari è fissato, infatti, con riguardo agli effetti complessivi della norma e non comporta “in sé” la preclusione di un eventuale aggravio di spesa purché tale aggravio sia “neutralizzato” nei termini sopra precisati, “dal momento che ben potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori entrate” (cfr. ex pluribus Corte Costituzionale sentenza n. 132/2014).
Ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge di contabilità e finanza pubblica n. 196/2009, tale “neutralità finanziaria” deve essere comprovata nell’ambito di una relazione tecnica che riporta i dati e gli elementi idonei a suffragare l'ipotesi di invarianza degli effetti sui saldi di finanza pubblica, anche attraverso l'indicazione dell'entità delle risorse già esistenti e delle somme già stanziate in bilancio, utilizzabili per le finalità indicate dalle disposizioni medesime.
In tale senso, il comma 3, dell’art. 183 del D.lgs. 42/2004 nel prevedere che dalla partecipazione alle commissioni previste nel Codice non devono “comunque derivare nuovi o maggiori oneri” non comporta un divieto assoluto di sostenere nuovi o maggiori oneri, ma esclusivamente l’obbligo di compensare tali oneri con entrate ovvero con risparmi di spesa derivanti e/o connesse all’attuazione della normativa in questione (cioè le disposizioni che nell’ambito del Codice istituiscono le varie commissioni, tra cui l’art. 148 in tema di commissioni locali per il paesaggio).
   10. Alla luce di quanto sopra e per rispondere all’oggetto del quesito in esame, la Sezione ritiene che il comma 3, dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, per come formulato, non precluda “in linea astratta” il rimborso delle spese di viaggio sostenute dai componenti per la partecipazione alle commissioni di riferimento, e ciò in quanto l’articolato in questione non prevede uno specifico divieto in tale senso, e, comunque, tale divieto non può ritenersi compreso –per via implicita- nel divieto di “corrispondere alcun compenso” sancito dal comma in questione, in quanto non ne condivide i medesimi presupposti “remunerativi o compensativi”.
Fermo quanto sopra, alla luce del vincolo di neutralità finanziaria sancito dall’articolato in esame, gli oneri derivanti dal “rimborso delle spese” potranno essere legittimamente previsti e sostenuti dall’amministrazione interessata solo ed esclusivamente all’esito della verifica “a monte”, sin dalla fase di programmazione, della possibilità di neutralizzare, in concreto, tali spese con le nuove entrate (ovvero con i risparmi di spesa) derivanti dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte integrante e sostanziale la commissione locale per il paesaggio in esame.
In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti, pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria come sopra codificato a norma del comma 3, dell’art. 183 in esame.
Si ricorda, inoltre, che tale rimborso spese dovrà essere effettuato in conformità ai vincoli della normativa vigente, e ciò in termini di presupposti, tipologia e limiti quantitativi ivi fissati, regolamentandone a monte la fattispecie, pur sempre nella propria discrezionalità gestoria.
Nel caso in esame, peraltro, trattandosi di istituzione e funzionamento di un organo collegiale connesso all’esercizio di una funzione “istituzionale” dell’amministrazione interessata, tale vincolo di invarianza della spesa comporterà –ai fini del suo rispetto- una diversa allocazione delle ordinarie risorse (umane, strumentali ed economiche) disponibili a legislazione vigente, ovvero l’utilizzo delle eventuali maggiori entrate derivanti dalla o per l’effetto dell’istituzione delle suddette commissioni, il tutto avendo riguardo al fatto che si tratta di una funzione “delegata” che le regioni hanno l’onere di “promuovere” ai fini del suo esercizio, in concreto.
A tale fine occorrerà, pertanto, avere riguardo alla normativa regionale emanata al fine di “promuovere” e “disciplinare” il funzionamento delle suddette commissioni.
   10.1 I parametri di riferimento sono, da un lato, la legge regionale n. 50/1993 e successive modifiche ed integrazioni, tra cui la legge regionale n. 7/1999 emanata in attuazione del dlgs 112/1998 per il “conferimento di funzioni e compiti amministrativi al sistema delle autonomie locali” e, dall’altro, la delibera di giunta regionale n. 2202/2008 che, alla luce delle innovazioni introdotte dal Dlgs 63/2008, ha provveduto a disciplinare, nel dettaglio, i presupposti per l’esercizio della delega in questione da parte degli enti delegati.
L’art. 7 della legge 50/1993, andando a modificare ed integrare la legge regionale n. 20/1987 in materia di paesaggio, dispone che sono subdelegate ai comuni le funzioni amministrative esercitate dagli organi e uffici regionali, concernenti il rilascio di nullaosta o divieti relativi e connessi, tra l’altro, alla tutela del paesaggio. A tale fine il competente ufficio comunale rilascia il nullaosta, ovvero respinge l'istanza, sentita la commissione comunale per la tutela del paesaggio.
Ai sensi dell’articolato in questione, cosi come modificato dalla sopra citata legge n. 7/1999, la commissione in esame è un “(...) organo collegiale imperfetto, istituita con deliberazione del Consiglio comunale, è composta dal responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo naturalista e un agronomo".
Nell’ambito delle direttive contenute nella sopra citata delibera di Giunta regionale 2202/2008 vengono, invece, esplicitati i presupposti per la delega dell’esercizio della funzione autorizzatoria in parola.
A tale fine, la regione Basilicata assegna un ruolo “essenziale” all’istituzione delle suddette commissioni locali paesaggio (definita nel provvedimento regionale come “Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio”), ponendosi come strumento per il soddisfacimento di entrambi i presupposti fissati dal comma 6, dell’art. 146, e precisamente:
   a) come strumento necessario per “assicurare la richiesta adeguatezza delle istruttorie tecnico-amministrative relative alle istanze di autorizzazione in materia paesaggistica”, prescrivendo che “ogni Comune dovrà garantire che il procedimento venga affidato a strutture che siano in grado di esprimere la necessaria competenza dal punto di vista tecnico scientifico. In particolare la struttura comunale deve necessariamente avvalersi della competenza tecnico-scientifica delle Commissioni per la qualità architettonica e per il paesaggio, istituite in attuazione dell'art. 7 della l.r. n. 50/1993, che dovrà essere rinominata nella composizione prevista dalla l.r. n. 7/1999.” (cfr. punto 1, lett. a) Allegato A); nonché
   b) come strumento per garantire la “differenziazione tra i procedimenti paesaggistico e urbanistico-edilizio (...), in quanto la Commissione comunale per la qualità architettonica e per il paesaggio, è “composta da figure professionali di elevata competenza e specializzazione, esterni alle strutture amministrative comunali.” (cfr. punto 1, lett. b) Allegato A).
Con riferimento ai requisiti “soggettivi” dei componenti, oltre alla specifica tipologia di professionisti richiesta ai sensi dell’art. 7 della legge 7/2009 sopra richiamata (i.e. “(..) responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo naturalista e un agronomo”), viene ribadito che la Commissione dovrà operare la scelta dei propri componenti tra tecnici “esterni” all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per edilizia e che i componenti dovranno dimostrare di aver svolto attività attinenti a materie quali l'uso, la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio, la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni architettonici e culturali e dovranno aver maturato una qualificata esperienza, almeno quinquennale.
In tale contesto, il ruolo di “promotore” della regione si sostanzierebbe unicamente nel consentire ai comuni di costituire Commissioni intercomunali nell'ambito delle forme associative previste dalle leggi regionali e nazionali, con particolare riguardo alle Unioni di Comuni, privilegiando Commissione tra Comuni contermini ovvero, qualora abbiano già istituito una Commissione, ai sensi dell'art. 7 della L.R. n. 50/1993, di non provvedere ad una nuova istituzione qualora quella esistente risulti adeguata e conforme ai criteri come sopra fissati.
Al fine di dare un contenuto “concreto” all’onere di promozione codificato dall’art. 148, comma 1, si ritiene, quindi, che debba aversi riguardo ai principi generali fissati dal sistema in tema di delega di funzione, ed ai sensi dei quali l’ente delegante deve intervenire al fine di rendere in concreto possibile l’esercizio della funzione delegata.
Nel caso di specie, pertanto, tale onere potrà sostanziarsi nel coadiuvare gli enti delegati nella istituzione/composizione delle commissioni de quibus.
   11. A tale specifico riguardo, anche alla luce del peculiare requisito di “terzietà” richiesto nelle direttive in parola con riferimento ai componenti le commissioni in esame, si ritiene necessario verificare se tali professionisti debbano essere “esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al comparto pubblico complessivamente inteso ovvero possano essere anche professioni privati, cioè “esterni” a tale apparato pubblico.
Come noto, per i professionisti legati da un rapporto di servizio con la pubblica amministrazione vige il tendenziale principio di onnicomprensività della retribuzione alla luce del quale gli importi percepiti per le funzioni svolte in via principale s’intendono sufficienti e proporzionati a remunerare tutti gli eventuali altri incarichi ricoperti nell’ambito ed in ragione del rapporto di impiego alle pubbliche dipendenze (cfr. parere Consiglio di Stato n. 173/2004) nonché il principio, oggi immanente al sistema ai fini di tutela della finanza pubblica allargata, di divieto di “cumulo” degli emolumenti percepiti (tra gli altri, si vedano gli artt. 82 e 83 del TUEL).
In tale ottica, la gratuità delle prestazioni svolte in seno ad organi collegiali, non si presenta come mancanza di sinallagmaticità (e quindi di causa) e quindi eccezione al principio di necessaria onerosità delle prestazioni lavorative, in quanto il professionista s’intende remunerato nell’ambito e per effetto della retribuzione ovvero degli emolumenti già percepiti in virtù del rapporto di servizio ovvero del munus pubblico rivestito nell’ambito della pubblica amministrazione.
   11.1 Nel caso in cui invece i professionisti fossero esterni al complessivo apparato pubblico occorrerà verificare se il tale vincolo di gratuità tombale sia compatibile con il suddetto principio di onerosità delle prestazioni ai sensi del quale “Ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa (...)” (ex pluribus Cass. sentenza 26.01.2009 n. 1833) e, comunque, non vada ad inficiare –almeno in linea potenziale e astratta– sull’indipendenza e sull’imparzialità dei componenti le commissioni, alla luce proprio dell’assenza di qualsiasi remunerazione per l’attività svolta.
In tale caso, infatti, si suole parlare di “funzionario onorifico”, e cioè di professionista esterno che presta la propria attività nell’ambito del comparto pubblico pur non condividendone, neppure in parte, i connotati essenziali, tra cui “la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che, si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico-discrezionale), l'inserimento strutturale del dipendente nell'apparato organizzativo della p.a. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso), il carattere retributivo -perché inserito in un rapporto sinallagmatico- del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al carattere indennitario rivestito dal compenso percepito dal funzionario onorario), la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte della normale temporaneità dell'incarico onorario)” (cfr. ex pluribus Corte di Cassazione, sentenza n. 5398/2007).
Nel caso di specie, si ritiene che il legislatore abbia effettuato un’opzione, seppure implicita, a favore di componenti “interni” all’apparato pubblico, in quanto legati da un rapporto di dipendenza (nelle sue varie forme) con la pubblica amministrazione, e ciò per le seguenti ragioni:
   a) in primo luogo alla luce del fatto che la partecipazione alle suddette commissioni rientra –per espressa previsione di legge– nei compiti “istituzionali” dell’amministrazione interessata (cfr. comma 3, art. 186 del Codice), con tutti i corollari a questo connessi, anche in termini di sempre più incisiva valorizzazione delle risorse professionali interne da adibire a tali scopi.
Sul punto, peraltro, si segnala che ai sensi dell’ art. 6, comma 7, del DL 78/2010, a decorrere dall’esercizio 2011 il legislatore, al fine di conseguire risparmi nei costi di apparato “valorizzando” al contempo le figure professionali “interne”, vincola la spesa per incarichi di studio e consulenza ad una percentuale del 20% della spesa sostenuta per tale voce nel 2009, pena illecito disciplinare e responsabilità erariale del dirigente responsabile;
   b) per la rilevanza delle funzioni espletate dalle commissioni in esame in termini di “zona a rischio corruzione”, considerato il peculiare settore in cui i componenti si trovano ad operare–quello delle autorizzazione paesaggistiche- in cui si contrappongono interessi pubblici ed interessi privati, con conseguente potenziale ampliamento dei diritti dei privati in danno di quello pubblico di tutela del paesaggio;
   c) per la necessità, quindi, di garantire che le attività dei componenti de quibus siano improntate ai principi di indipendenza ed imparzialità, alla cui base non può non assumere rilievo essenziale una retribuzione sufficiente e proporzionata;
   d) per il carattere tombale del divieto di corrispondere compensi del comma 3, dell’art. 183 che, alla luce di quanto sopra, mal si concilia –almeno in linea di principio- con la necessità di remunerare i professionisti “altamente specializzati” (privati) incaricati in via “onorifica” ;
   e) per gli specifici vincoli imposti dai codici deontologici degli ordini professionali di appartenenza dei professionisti indicati nella normativa regionale (cfr. art. 7 legge regionale Basilicata n. 7/1999), ai sensi dei quali la regola generale vieta la gratuità della prestazione salvo specifiche ipotesi motivate da ragioni di “solidarietà” ovvero di “apprendistato”; ragioni che, nel caso di specie, non è dato intravedere;
   f) per la possibilità di rinvenire le suddette professionalità nell’ambito del comparto organizzativo regionale che –quale titolare della funzione– ha (o comunque dovrebbe avere) al proprio interno le specifiche figure professionali richieste ai fini della composizione delle commissioni in parola.
   11.2 Ed è in quest’ottica che, a parere della Sezione, si ritiene di dover interpretare il punto 2 dell’allegato A (“Requisiti dei componenti della Commissione per la qualità architettonica”) della delibera di giunta della regione Basilicata (n. 2202/2008) ai sensi della quale le commissioni in esame devono essere composte da “tecnici esterni all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per edilizia”.
La ratio sottesa a tale disposizione –cioè la necessità di garantire le competenze tecnico-scientifiche e la differenziazione tra i due procedimenti, quello paesaggistico e quello urbanistico-edilizio- si appalesa comunque soddisfatta con l’utilizzo di professionisti “esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al comparto pubblico.
In questo caso, peraltro, il vincolo di gratuità tombale previsto dal comma 3, dell’art. 183 si presenterebbe non come deroga al principio immanente al sistema di onerosità della prestazione, ma come diretta attuazione del principio di onnicomprensività della retribuzione come sopra enucleato.
A tale fine, peraltro, potrà essere la stessa regione –in qualità di titolare della funzione autorizzatoria- a dotare l’amministrazione interessata dei professionisti in possesso dei necessari requisiti di competenza ed esperienza cui affidare l’incarico di comporre le commissioni in parola, e ciò in attuazione dell’obbligo di “promozione” delle commissioni di cui al comma 1 dell’art. 148.
   12. Per concludere, anche al fine di riepilogare gli esiti del percorso motivazionale seguito,
la Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese” sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa voce di bilancio.
A tale fine
l’Ente potrà riallocare le risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le minori spese derivanti dall’espletamento della funzione medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che
nell’ambito dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs 42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore” che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto” in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto
si ritiene, altresì, che i professionisti componenti le commissioni in parola debbano essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata ma “interni” al comparto pubblico, inteso come soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma 3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale” delle funzioni svolte e del divieto tombale di remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il conferimento di incarichi a titolo onorifico a professionisti privati, e ciò alla luce del generale principio di “autosufficienza” e “valorizzazione” delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le commissioni in esame, in termini di potenziale (ed arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art. 183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con riferimento a professionisti interni al comparto pubblico, in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in seno alle commissioni de quibus– è già remunerato nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico che lega il professionista alla pubblica amministrazione, complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi all’attività in questione ed averne individuate le misure volte a prevenirlo.
In tale ottica,
il carattere onorifico della prestazione -in assenza di cause giustificatrici ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si presenta –almeno in via astratta– come misura volta a prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita” venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero risultare recessivi (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 07.07.2016 n. 29).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Bombardelli, Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio di eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali (Urbanistica e appalti n. 7/2016).
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L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241 introduce l’istituto del silenzio-assenso per l’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta di altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici e questi non vengano rilasciati entro un termine prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione procedimentale molto problematico, anche perché è prevista la sua applicazione nei casi in cui l’atto di assenso debba essere rilasciato da amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le principali criticità di questo istituto.

giugno 2016

EDILIZIA PRIVATAL’art. 149 del dlgs 42/2004 prevede che “...non é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Gli interventi  consistenti nell’istallazione:
- “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata sull’inferriata situata nella parte superiore del varco d’accesso”,
non possono rientrare nella fattispecie di cui all'art. 149, lett. a), del dlgs 42/2004, e ciò in quanto tali opere, complessivamente considerate, comportato un’alterazione dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004- sono soggetti al regime autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente proceduto a intimarne la demolizione.
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Non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti, la Sezione deve rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ... postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo”.
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata legittimità del provvedimento impugnato.

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Osserva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 146, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 42 del 2004 dispone che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli 138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha affidato la relativa competenza i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione”.
L’art. 149 del medesimo decreto legislativo prevede, inoltre, per quanto d’interesse in questa sede, che “...non é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Orbene, per quanto concerne il caso di specie, la Sezione deve in primo luogo rilevare che gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza -così come individuati dalla nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del 27.08.2012, non contestata in atti- sono stati realizzati su un immobile vincolato ope legis ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, i suddetti interventi -consistiti, come esplicitato al precedente n. 4, nell’istallazione “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata sull’inferriata situata nella parte superiore del varco d’accesso”- non possono rientrare nella fattispecie di cui al richiamato art. 149, lett. a) del succitato decreto legislativo, e ciò in quanto tali opere, complessivamente considerate, hanno comportato un’alterazione dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a) del d.lgs. n. 42 del 2004- erano soggetti al regime autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente proceduto a intimarne la demolizione.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti -anche volendo prescindere dalla circostanza che la società ricorrente si è limitata ad asserire l’amovibilità di tali opere senza fornire adeguati elementi probatori al riguardo, eccezion fatta per il solo intervento relativo ai “grillages”, cui si fa riferimento nella relazione tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012- la Sezione deve rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ... postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo” (Cons. di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n. 4116).
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata legittimità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rapporto intercorrente tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire.
L’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e quelle urbanistiche.
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori paesaggistici di un’area
(massima tratta da https://lexambiente.it).
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9.- Al riguardo, si deve preliminarmente chiarire che non possono avere decisiva rilevanza in questo giudizio amministrativo, concernente la legittimità di un ordine di demolizione determinato dalla realizzazione di opere edilizie in assenza del (necessario) titolo abilitativo edilizio, le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate per le stesse opere dalla Regione Lazio.
9.1.- Sebbene infatti per realizzare un’opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l’assenso a fini edilizi e sia l’assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un’opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente, come nella fattispecie, la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’assenso a fini paesaggistici.
9.2.- In proposito, si è anche di recente ricordato che, per principio consolidato, l’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e quelle urbanistiche (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 521 del 09.02.2016).
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori paesaggistici di un’area
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.06.2016 n. 2658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARiguardo agli abusi paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito.
E' stato altresì osservato che
l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sicché,
il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto.
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo.
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La ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza.
La severità del relativo trattamento sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all'integrità ambientale
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I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge hanno introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco,
il bene paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella norma è sufficientemente determinata.
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In proposito, occorre preliminarmente osservare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 56, depositata il 23.03.2016 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale "dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede «:a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»", determinando così una parificazione delle condotte di cui al comma 1°-bis dello stesso art. 181 con la disciplina di cui al comma 1, purché non vengano superate le soglie volumetriche indicate dal comma 1-bis.
La predetta pronunzia, relativa al solo trattamento sanzionatorio della norma in esame, non ha però rilievo ai fini della declaratoria di estinzione per intervenuta rimessione in pristino.
In ogni caso, a prescindere dal fatto che l'eccezione di estinzione del reato ex art. 181, comma 1-quinquies citato non risulta richiesta con i motivi di appello, la Corte territoriale non se ne è occupata, ritenendo, correttamente, che l'autorizzazione della Provincia di Varese non rilevasse ai fini dell'applicazione dell'art. 129 c.p.p., anche perché, come sostenuto dal Tribunale e ripreso dalla stessa Corte, il predetto provvedimento amministrativo si riferiva all'attività di cava autorizzata.
4.4. Da parte di questa Suprema Corte è stato ripetutamente affermato il principio secondo il quale,
riguardo agli abusi paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito. Si tratta, ad avviso del Collegio, di considerazioni che vanno ribadite anche in questa occasione, non essendovi ragione alcuna per discostarsi da un orientamento che può dirsi ormai consolidato [Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493].
E' stato altresì osservato che
l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex plurimis Sez. 3, n. 14461 del 07/02/2003, Carparelli, Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv. 224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/2/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641 del 30/01/2003, Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti, pertanto, ad affermare che
il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493, cit.).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/1/2005, Di Cesare, Rv. 231247).
Ciò posto, deve rilevarsi come, avuto riguardo alla consistenza delle opere come descritta nell'imputazione, la decisione della Corte territoriale appaia perfettamente in linea con i principi richiamati. Appare inoltre dirimente il fatto che -pur ribadendo la natura di reato di pericolo della fattispecie contestata- già il Tribunale avesse individuato un danno effettivo arrecato all'ambiente (pag. 4 secondo periodo).
Come ha condivisibilmente sostenuto la sentenza impugnata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 181 D.Lvo n. 42/2004 -per la parte invocata dal ricorrente- è manifestamente infondata.
Il giudice delle leggi ha infatti già avuto modo di affermare che «
la ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza (sentenze n. 247 del 1997, n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» e che la severità del relativo trattamento sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all'integrità ambientale (sentenze n. 269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del 1998)» (ordinanza n. 158 del 1998).
I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge hanno introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale (v., da ultimo, ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» (ordinanza n. 158 del 1998).
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco,
il bene paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella norma è sufficientemente determinata (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2016 n. 25041 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo 120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19 e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale (cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali.

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Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale e la realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U. 12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili concernenti la semplificazione delle procedure, la valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello), la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione, la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida conservano validità ed efficacia anche a seguito dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e specifici indirizzi operativi agli uffici periferici, assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Non è ammissibile la compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2004) per: ampliamento fabbricati, realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, realizzazione di una strada asfaltata.
Con riferimento alla realizzazione abusiva del cancello di ingresso e di due barbecue, sotto l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo assentibili con SCIA ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere demolite ma devono essere assoggettate al pagamento della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta norma. Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti interventi edilizi non possono essere demoliti.
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Sotto l'aspetto paesaggistico,
tutte le altre opere edilizie realizzate abusivamente (ampliamento di entrambi i fabbricati, la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, realizzazione di una strada asfaltata -con diramazioni- verso l’abitazione ed il garage) non possono sfuggire alla rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”, quando le opere realizzate hanno “determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato che la nozione di superficie e/o volume utile va interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha un significato differente nella normativa in materia di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, sono esentati dall’autorizzazione paesaggistica soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di restauro conservativo “che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra la materia dell’edilizia e quella della tutela del paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 risulta sufficiente il presupposto della cd. doppia conformità, cioè la conformità degli abusi alla disciplina vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, mentre l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi del suddetto combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere rilasciata soltanto per le opere che non hanno determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i barbecue non hanno determinato la creazione di alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc. del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35 mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di superficie utile anche la piscina, avente la superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di superfici e/o volume utili la costruzione abusiva del locale pompe a servizio della piscina, avente la superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17 m. alla linea di colmo.

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... per l'annullamento:
quanto al ricorso n. 51 del 2015:
   - del provvedimento prot. n. 17120 del 14.11.2014 (notificato il 21.11.2014), con il quale il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Maratea ha respinto l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 del 29.08.2013;
   - della nota prot. n. 16051 del 27.10.2014, con la quale il Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio del Comune di Maratea ha trasmesso alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Basilicata ed al sig. -OMISSIS- l’atto di pari data, di accertamento dell’incompatibilità paesaggistica delle opere edilizie, indicate nella predetta domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria del 29.08.2013, in quanto avevano determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, con la precisazione che tale nota costituiva comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n. 42/2004;
   - della nota prot. n. 17727 del 25.11.2014, con la quale il medesimo Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio specificava che il procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n. 42/2004 si sarebbe concluso dopo aver acquisito il parere vincolante della Soprintendenza;
   - nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti impugnati e dall’illecito comportamento dell’Amministrazione resistente, con riserva di dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
quanto al ricorso n. 284 del 2015:
   - dell’Ordinanza n. 120 del 22.12.2014 (notificata il 09.01.2015), con il quale il Responsabile del Settore comunale Urbanistica, ai sensi dell’art. 31 DPR n. 380/2001, ha ingiunto al sig. -OMISSIS- la demolizione delle opere edilizie, per le quali il comproprietario sig. -OMISSIS- con istanza del 29.08.2013 aveva chiesto la sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001;
   - nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti impugnati e dall’illecito comportamento dell’Amministrazione resistente, con riserva di dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
...
I sigg. -OMISSIS- e -OMISSIS- sono comproprietari di due fabbricati, di cui uno destinato ad abitazione (identificato con la particela n. 699) ed un altro destinato a garage (identificato con la particela n. 700), e del relativo terreno circostante, siti nella Località Ogliastro del Comune di Maratea.
Con istanza del 29.08.2013 il sig. -OMISSIS- chiedeva il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed anche dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con riferimento alle seguenti opere edilizie non autorizzate:
   1) l’ampliamento di entrambi i fabbricati, in relazione al quale veniva specificato che non era stata superata la volumetria massima consentita, in quanto dalla superficie del terreno circostante residuava una volumetria non utilizzata di 213,93 mc. ed inoltre era stata asservita anche la superficie di un altro terreno, sito nella stessa zona, in corso di acquisizione;
   2) la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, del cancello di ingresso, di due barbecue e di una strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
...
In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno disporre la riunione dei due giudizi indicati in epigrafe, sia perché hanno per oggetto gli stessi immobili, di cui sono comproprietari il sig. -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 51/2015, e la sig.ra -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 284/2015, sia perché l’Ordinanza di demolizione n. 120 del 22.12.2014 è stata impugnata con entrambi i predetti Ricorsi.
Nel merito, i Ricorsi n. 51/2015 e n. 284/2015 vanno accolti soltanto con riferimento alla realizzazione del cancello di ingresso e dei barbecue.
Per quanto riguarda l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo assentibili con SCIA, ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere demolite, ma devono essere assoggettate al pagamento della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta norma.
Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti interventi edilizi non possono essere demoliti, mentre tutte le altre opere edilizie realizzate abusivamente non possono sfuggire alla rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”, quando le opere realizzate hanno “determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato (sul punto cfr. da ultimo TAR Basilicata Sent. n. 906 del 27.12.2014) che la nozione di superficie e/o volume utile va interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha un significato differente nella normativa in materia di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, sono esentati dall’autorizzazione paesaggistica soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di restauro conservativo “che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra la materia dell’edilizia e quella della tutela del paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 risulta sufficiente il presupposto della cd. doppia conformità, cioè la conformità degli abusi alla disciplina vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, mentre l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi del suddetto combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere rilasciata soltanto per le opere che non hanno determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i barbecue non hanno determinato la creazione di alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc. del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35 mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di superficie utile anche la piscina, avente la superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di superfici e/o volume utili la costruzione abusiva del locale pompe a servizio della piscina, avente la superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17 m. alla linea di colmo.
Conseguentemente, vanno disattese le censure con le quali è stato dedotto il vizio dell’eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza di istruttoria, in quanto risulta incontrovertibile l’abusiva realizzazione di superfici e/o volume utili.
Pertanto, come ammesso dagli stessi ricorrenti, poiché ai sensi dell’art. 146, comma 4, primo periodo, D.Lg.vo n. 42/2004 “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” e poiché per le suindicate opere edilizie, diverse dal cancello di ingresso e dai barbecue, non può essere rilasciata l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il Tribunale adito non può annullare i provvedimenti e/o gli atti impugnati con il Ric. n. 51/2015 (e l’atto di motivi aggiunti a tale ricorso) ed il Ric. n. 284/2015, nella parte in cui si riferiscono agli altri interventi edilizi diversi dal cancello di ingresso e dai barbecue, prescindendo dall’esame della censura relativa alla violazione dell’art. 36 del vigente Regolamento Edilizio ex art. 16 L.R. n. 23/1999.
Ciò in quanto, anche se i sopra descritti abusi edilizi dovessero rientrare nell’ambito oggettivo della ristrutturazione edilizia, la disciplina in materia di tutela del paesaggio non prevede una norma analoga all’art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001, per cui i predetti abusi non possono non essere assoggettati alla sanzione della loro demolizione, anche se il relativo provvedimento è stato adottato il 22.12.2014, due giorni prima della formale ricezione del vincolante parere sfavorevole Soprintendente di Potenza prot. n. 12614 di pari data 22.12.2014 (TAR Basilicata, sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2016

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004), il "profitto conseguito" è l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere calcolato  non solo come differenza tra il valore attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione (2.000 €/mq) ed il valore del porticato originario (460 €/mq) ma anche detraendo il costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo metrico).
A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo. Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di autorizzazione paesistica in sanatoria.
Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse paesistico.
Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a garantire l’economicità della violazione paesistica attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso, né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio del 05.01.2016, con il quale è stato dichiarato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, ed è stato imposto il pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20;
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Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha realizzato, a partire dal 2009, un intervento di ristrutturazione di un edificio situato nel Comune di Lovere, in via Marconi. L’immobile è sottoposto a vincolo paesistico ex art. 136, comma 1-c, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
2. In difformità dall’autorizzazione paesistica, la ricorrente ha annesso al fabbricato principale un porticato avente superficie pari a 18,18 mq, attribuendo a questa struttura accessoria la medesima destinazione commerciale del resto dell’immobile.
3. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio del 05.01.2016, ha dichiarato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, e ha imposto il pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20 a titolo di profitto conseguito mediante la trasgressione.
Il calcolo è stato effettuato sulla base del valore attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione (2.000 €/mq), detraendo il valore del porticato originario (460 €/mq). Non è stato preso in considerazione il parametro del danno ambientale (alternativo al parametro del profitto), in quanto la chiusura del porticato ha in realtà un effetto migliorativo sul paesaggio (v. perizia di stima del 05.10.2015).
4. Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere calcolato detraendo anche il costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo metrico). A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
5. La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo. Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di autorizzazione paesistica in sanatoria. Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse paesistico.
6. Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a garantire l’economicità della violazione paesistica attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso, né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
7. Non sussistono pertanto i presupposti per concedere una misura cautelare sospensiva o propulsiva (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 23.05.2016 n. 376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A..
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Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
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L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria.
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Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.

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Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015, notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc. Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino (senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A. ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno, pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130, delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area, con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli altri confini della proprietà consente soltanto la messa in opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il 21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di “manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa comunicazione (riparazione della corte nel giardino; sostituzione del mattonato appoggiato senza malta cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che “copre” la costruzione della recinzione in cordolo e muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302), l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo cui i due procedimenti in questione sono e devono restare distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale, nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il Comune dovrà accertare, nella propria competenza, l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura, nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione (e di quello altrettanto favorevole emesso dalla Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio, senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria (evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece del tutto coerente con la normativa di settore, poiché l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit. precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sanatoria paesaggistica -o meno- di un modesto abbaino (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a dare luce al vano sottotetto.
Il Collegio è del parere che nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi.

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La Soprintendenza non può sottrarsi all’esame della concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167– l’abbaino di cui si controverte sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica.
Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati.
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Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni, dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaino di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
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... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZ. VII n. 4805/2012, resa tra le parti, concernente parere di non compatibilità paesaggistica.
...
2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- La questione centrale da dirimere attiene alla legittimità del provvedimento soprintendentizio gravato in primo grado, col quale l’autorità preposta alla tutela vincolo paesaggistico si è negativamente determinata, nel procedimento di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, riguardo alla sanatoria paesaggistica di un piccolo intervento edilizio realizzato dal ricorrente nel vano sottotetto.
In particolare, le ragioni del diniego si sono appuntate sulla impossibilità di accordare il provvedimento favorevole a fronte di nuove volumetrie e superfici realizzate dall’odierno appellante nella costruzione di un modesto abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a dare luce al vano sottotetto.
4.- Il Collegio è del parere che nei casi, come quello in esame, in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi (cfr., in termini, Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
In linea preliminare, occorre muovere dalla rilevazione del contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
La Soprintendenza non può tuttavia sottrarsi all’esame della concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167– l’abbaino di cui si controverte sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica. Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati (cfr. in tali sensi Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
5.- Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaino di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
Né da ultimo appare condivisibile quanto osservato dal Tar a proposito della mancata allegazione, da parte dell’interessato, di elementi probatori da cui desumere la compatibilità paesaggistica dell’intervento, trattandosi di valutazione riservata all’autorità preposta alla tutela del vincolo, senza possibilità alcuna di inversione dell’onere dimostrativo (in definitiva, è l’Autorità che deve dimostrare l’eventuale incompatibilità dell’intervento edilizio con i valori paesaggistici dei luoghi e non il privato a comprovare in positivo la compatibilità).
6.- Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto e, in riforma della impugnata sentenza ed in accoglimento del ricorso di primo grado, va disposto l’annullamento dell’atto gravato in prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di autorizzazione paesaggistica dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
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L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione».
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera.
In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati.

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8.– Con un primo motivo, si deduce l’erroneità della sentenza e l’illegittimità dell’atto impugnato nella parte in cui non hanno rilevato come l’autorizzazione del Comune fosse congruamente motivata anche mediante rinvio al parere della commissione edilizia, con conseguente sovrapposizione della valutazione effettuata dalla Soprintendenza a quella dell’autorità preposta alla gestione del vincolo.
L’appello rileva, inoltre, come la Soprintendenza motivi la propria determinazione facendo riferimento alla mancanza di un progetto di riqualificazione della cava, nel cui abito sono collocate le opere, che esulerebbe dalle finalità cui è preposto il parere della Soprintendenza stessa.
Il motivo è fondato.
L’atto di autorizzazione dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione» (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2012, n. 4562).
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI, 18.01.2012, n. 173; Id., 28.12.2011, n. 6885; Id., 21.09.2011, n. 5292).
Nella fattispecie in esame, la vicenda sottoposta all’esame del Collegio presenta profili di particolarità.
Il Comune di Maiori, richiamando il parere della commissione edilizia integrata, ha rilasciato la prescritta autorizzazione con le seguenti prescrizioni:
- obbligo di utilizzare «per il trattamento delle superficie esterne intonaci tradizionali di colorazione compatibili con il contesto paesaggistico circostante quale quello della cava dismessa di Erchie»;
- «vengano comunque utilizzati materiali compatibili con l’art. 26 della legge regionale n. 35 del 1987».
La Soprintendenza ha ritenuto che tale provvedimento comunale fosse privo di adeguata motivazione.
In particolare, si è rilevato che gli immobili in questione, essendo «ben visibili da numerosi punti di vista e di belvedere perché di dimensioni consistenti, di tipologie edilizia e rifinitura di modesto valore architettonico» sono «dissonanti con il contesto paesaggistico e le peculiarietà scandite» dal provvedimento di tutela e che «la proposta di sanatoria è finalizzata al mantenimento dei manufatti così come realizzati e funzionali all’attività svolta, per i quali, tra l’altro, vengono proposti opinabili e non meglio finalizzati interventi di manutenzione».
Svolta questa premessa, la Soprintendenza rileva che la proposta «non è corredata da alcun progetto di riqualificazione paesaggistica dell’area sulla quale insistono, pure previsto ed incentivato dalla vigente normativa regionale (l.r. n. 17/1995) e che l’area rimane ancora testimone delle dismesse attività; né è possibile condividere, al momento, la volontà (espressa dal solo tecnico incaricato estensore della pratica di condono) di avvio ad una ipotetica successiva fase progettuale la riqualificazione generale dell’area». Si conclude affermando che «quanto dichiarato in atti circa l’ipotesi di riqualificazione non consente a questo ufficio di potere valutare compiutamente l’ipotesi di condonabilità dei predetti manufatti».
Da quanto sin qui esposto, risulta chiaramente come la Soprintendenza fondi, essenzialmente, il diniego di autorizzazione sulla mancanza di un progetto di riqualificazione delle cave dismesse. Ma tale prescrizione non rappresenta una condizione per l’ottenimento del condono. L’amministrazione statale richiama genericamente la legge della Regione Campania 13.04.1995, n. 17 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13.12.1985, n. 54, concernente la disciplina della coltivazione delle cave e delle torbiere nella Regione Campania), la quale ha modificato la legge della Regione Campania, 13.12.1985, n. 54 (Coltivazione di cave e torbiere).
Non indica, però, alcuna specifica disposizione che condiziona il rilascio dell’autorizzazione a fini del condono edilizio alla previa presentazione di un progetto di riqualificazione dell’area. In mancanza di un chiaro vincolo normativo, che la Soprintendenza avrebbe dovuto individuare, la sua valutazione si sarebbe dovuta limitare a valutare la compatibilità degli interventi con l’attuale stato dei luoghi.
Ed in relazione a tale ultimo profilo, come emerge da quanto riportato, le valutazioni tecniche effettuate dalla Soprintendenza sono generiche e comunque compatibili, come del resto fatto dal Comune, con l’adozione di un provvedimento favorevole con precise prescrizioni da osservare.
In definitiva, dunque, a fronte di un atto comunale che, sia pur in modo sintetico, ha valutato le opere con il contesto paesaggistico effettivamente esistente subordinando il rilascio del provvedimento al rispetto di puntuali condizioni, la Soprintendenza ha annullato tale atto, rilevando un difetto di motivazione, a cui però è seguita una motivazione del provvedimento di annullamento fondata principalmente su ragioni non ancorate ad un preciso parametro legale di validità (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a quella consentita (165 mq. rispetto a 83 mq.) esclude ex se che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla nota Mibact 13.09.2010 prot. n. 1672, circolare invocata, ossia della non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore.
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E' legittimo che, in presenza di un abuso ictu oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria (ex art. 167 dlgs 42/2004) senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni culturali.

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10. Parimenti infondato è il ricorso della sig.ra Sc..
11. La presentazione di un’istanza di sanatoria, respinta dal Comune di Assisi, con ordinanza n. 312, prot. 30027, del 05.08.2010, avverso la quale l’interessata propose, in primo gado, motivi aggiunti, dimostra la piena consapevolezza dell’abusività (sia pure parziale) dell’opera.
12. Il ricorso in appello può ricondursi a un’unica censura: l’aver il comune adottato il diniego di sanatoria senza sottoporla al preventivo parere della competente soprintendenza.
Anche nel giudizio d’appello la parte invoca la nota del Ministero del beni culturali 13.09.2010, prot. n. 16721 che, a suo giudizio, dichiara paesaggisticamente irrilevanti gli interventi non percepibili e visibili.
Orbene in tale nota si afferma che “la non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto elide in radice la sussistenza stessa dell’illecito contestato”.
Ove addirittura l’incremento di volume o di superficie (che dovrà per forza di cose essere di minima entità) non risulti neppure visibile, allora dovrà evidentemente ritenersi insussistente in radice l’illecito e, dunque, la domanda di sanatoria dovrà (a rigore) essere dichiarata inammissibile, e ciò non già perché osti al suo eventuale accoglimento la carenza del sopra detto presupposto negativo per la sanatoria, bensì perché trattasi in realtà di illecito insussistente, per non essere dovuta <a monte> la stessa autorizzazione paesaggistica, in presenza di un intervento obiettivamente incapace di introdurre <modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione>, in quanto oggettivamente non percepibile”.
Le opere oggetto del procedimento sono quelle indicate al § 1.
Parte appellante sostiene l’erroneità delle dimensioni dell’abuso indicate nell’originario provvedimento impugnato in quanto:
- la parte autorizzata del piano fuori terra non è di mq. 48 come affermato nell’ordinanza, ma di mq. 83, come da progetto approvato in quanto va aggiunta anche la tettoia di mq. 35,
- la parte interrata autorizzata non è di mq. 112, ma aggiunte le intercapedini di mq. 66, l’autorizzato risulta di mq. 178 come dall’ultimo progetto in variante presentato;
- non vi è stato mutamento della destinazione d’uso dell’annesso agricolo in abitativo, in quanto il manufatto è rurale, non avendo le caratteristiche e le condizioni per essere definito abitabile.
Orbene, nell’originario provvedimento impugnato il piano fuori terra veniva indicato con una dimensione di mq 165, rispetto ad una superficie autorizzata di mq 48: quindi il triplo del consentito.
Anche ad ammettere quanto sostenuto dall’appellante (ossia che la costruzione autorizzata era di 83 mq), si ha pur sempre un abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a quella consentita (165 rispetto a 83).
Tale circostanza esclude ex se che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla circolare invocata, ossia della non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore.
Né può contestarsi che, in presenza di un abuso ictu oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni culturali.
13. In conclusione entrambi gli appelli vanno rigettati con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul rispetto, o meno, dei termini di 45 gg., 90 gg. e 180 gg. ex art. 146 e art. 167 dlgs. 42/2004.
Qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale».
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze)».
Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo».
La giurisprudenza più recente di questa Sezione, nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

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... per la riforma della sentenza n. 2848 del 15.12.2010 del TAR per la Puglia, Sezione Staccata di Lecce, Sez. I, resa tra le parti, concernente il diniego di autorizzazione paesaggistica per la sanatoria di opere edilizie.
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6.- Passando al merito dell’appello, si deve ricordare che l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dopo aver ricordato che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, stabilisce che al di fuori dei limitati casi «di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
6.1.- L’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede quindi il possibile accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al successivo comma 5, solo nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
6.2.- Se le opere rientrano in una delle tipologie indicate, il comma 5 dell’art. 167 prevede che «il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi … presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».
7.- Con riferimento alla questione, oggetto della sentenza di primo grado, riguardante il rispetto del termine assegnato alle suindicate amministrazioni per l’esercizio della funzioni loro assegnate ai fini della valutazione della possibile compatibilità paesaggistica delle opere per le quali è stata chiesta la sanatoria, questa Sezione ha affermato che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013).
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze)». Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013 cit.).
7.1.- La giurisprudenza più recente di questa Sezione, nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2136 del 27.04.2015).
7.2.- In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
8.- Facendo applicazione di tali principi l’appellata sentenza del TAR di Lecce deve essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1935 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedimenti di rinnovo delle dichiarazioni di interesse culturale pregresse, emanate ai sensi delle leggi nn. 36 del 1909 e 1089 del 1939, del decreto legislativo n. 490 del 1999 e del d.P.R. n. 283 del 2000 per autorizzazioni all'alienazione - parere (MIBACT, nota 06.05.2016 n. 13589 di prot.).
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Si riscontra la nota di codesto Segretariato prot. 4896 del 16.07.2015, con la quale si chiedono chiarimenti circa la necessità di procedere al rinnovo della dichiarazione di interesse culturale, mediante la procedura di verifica prevista dall'art. 12 del codice di settore, per gli immobili di proprietà dei soggetti di cui al comma 1 dell'art. 10 del codice, per i quali sussiste già un provvedimento adottato ai sensi delle previgenti leggi in materia, al fine del rilascio dell'autorizzazione all'alienazione.
Al riguardo, codesto Ufficio evidenzia che, se da un lato il comma 2, lettera a), dell'art. 54 del codice richiede la conclusione del procedimento di verifica per poter autorizzare l'alienazione, dall'altro l'interpretazione analogica dell'art. 128, riferito ai beni privati, potrebbe far ritenere non necessaria la preventiva verifica in caso di provvedimento dichiarativo adottato con decreto ai sensi della legge n. 1089 del 1939, e leggi successive, regolarmente trascritto presso la competente Agenzia del territorio.
Al riguardo, si rappresenta quanto segue. (...continua).

aprile 2016

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Di talché, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5.

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4. - Con il primo motivo di appello il signor Casella ha censurato il capo di sentenza che ha respinto la censura di illegittimità del parere in quanto rilasciato oltre il termine perentorio di novanta giorni.
4.1 - Il primo giudice ha respinto il motivo rilevando che: “Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma 5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi alcuna decadenza del potere della Soprintendenza. S’è convincentemente affermato che la perentorietà del termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì l’obbligo di concludere la fase del procedimento. A corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è che il provvedimento conclusivo del procedimento deve comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs. cit. (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 18.09.2013 n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013 n. 1681)”.
4.2 - Con il primo motivo di appello, l’appellante rileva che il parere impugnato è stato emesso tardivamente (dopo 108 giorni): pertanto, esso sarebbe nullo avendo perso l’Amministrazione il potere di rilasciarlo, e comunque detto atto –ove pure fosse ritenuto valido– non sarebbe più stato vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione Comunale avrebbe dovuto motivare autonomamente la propria determinazione non potendo limitarsi a richiamare il parere della Soprintendenza.
4.3 - Il Comune di Portovenere ha replicato che –ove detto parere dovesse ritenersi non vincolante– il ricorso sarebbe inammissibile trattandosi di atto endoprocedimentale.
4.4. - La difesa della società Rai Way, invece, ha sottolineato l’infondatezza della censura richiamando il costante orientamento della giurisprudenza.
4.5 - La doglianza non può essere accolta.
Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
Ne consegue l’infondatezza della censura (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma.

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6. - Con il quarto motivo di appello l’appellante ha reiterato le censure assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004, sottolineando come l’accertamento di compatibilità paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, rilevando che nel caso di specie, invece, vi sarebbe stata la realizzazione di volumi consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n. 1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Realizzazione di un guado temporaneo sul Fiume ... in Comune di .... Risposta a richiesta parere (Regione Emilia Romagna, nota 14.04.2016 n. 267817 di prot.).
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In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita agli atti di questo Ufficio, con la quale si chiede parere alla Regione, in quanto ente delegante dell’esercizio della funzione autorizzatoria, in merito all’assoggettamento alla autorizzazione paesaggistica di un manufatto consistente in un guado temporaneo sul fiume ..., la cui funzione è finalizzata esclusivamente a permettere il trasposto di materiali per la realizzazione di un impianto di energia rinnovabile idroelettrica in Comune di ..., e solo per il periodo necessario al compimento di tale opera, si rileva quanto segue. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Rapporti tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire.
L'autorizzazione paesistica, essendo finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece volti ad assicurare la corretta gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e complessiva, con la conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le volte in cui manchi la relativa autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche, come necessario, anche ai fini paesaggistici.
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3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, essendo risultato incontroverso che il ricorrente realizzò il fabbricato senza aver ottenuto alcun titolo abilitativo.
In particolare, per quanto concerne il reato paesaggistico, la costruzione fu realizzata senza che fosse stata mai rilasciata la necessaria autorizzazione da parte del competente ufficio della Regione sarda, cosicché è stato correttamente ritenuto del tutto irrilevante il fatto che l'imputato avesse confidato nella definizione delle procedure concernenti l'approvazione del piano di lottizzazione, cui era subordinato il rilascio del permesso a costruire e dunque la legittima edificazione dei singoli edifici, posto che le disposizioni in materia urbanistica e paesaggistica prevedono tassativamente che le opere edilizie possano essere realizzate soltanto dopo il rilascio dei preventivi provvedimenti abilitativi da parte delle amministrazioni competenti, laddove invece il ricorrente ha comunque dato corso alle opere in assenza della prescritta autorizzazione paesistica.
Sono pertanto del tutto irrilevanti le obiezioni formulate dal ricorrente, anche sotto il profilo del difetto di motivazione, avendo la Corte d'appello fatto buon governo del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale l'autorizzazione paesistica, essendo finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece volti ad assicurare la corretta gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e complessiva, con la conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le volte in cui manchi, come nella specie, la relativa autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche, come necessario, anche ai fini paesaggistici (Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229437).
Deriva da ciò anche la legittimità dei provvedimenti sanzionatori di tipo amministrativo di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disposti dal giudice penale per la violazione della normativa paesaggistica (tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, sez. III penale, sentenza 14.04.2016 n. 15466).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: F. Aperio Bella, Il silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (il nuovo art. 17-bis della l. n. 241 del 1990) (08-09.04.2016 - tratto da www.diritto-amministrativo.org).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie regionali – 5. Considerazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATALa visione aerea satellitare non vieta il nuovo sottotetto. Non si possono «cristallizzare» i luoghi in virtù della tecnologia.
Tar di Brescia. Sì alla modifica: il paesaggio va tutelato in base alla normale percepibilità.

La modifica di un sottotetto non può trovare ostacolo nella visione aerea da Google, quando si discute di tutela dei beni ambientali: lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia (Sez. I, ordinanza 04.04.2016 n. 270), chiarendo i rapporti tra privati e Soprintendenza al paesaggio.
Il proprietario di un sottotetto in zona paesistica vincolata, avrebbe potuto rendere abitabili i luoghi realizzando un terrazzo “a tasca” (detto anche “ad asola”), con aperture di 5 e di 2 metri: in tal modo infatti sarebbe stato raggiunto l’indice minimo aeroilluminante per i locali sottostanti.
La Soprintendenza, competente per l’autorizzazione (articolo 146 del Dlgs 42/2004), si è, tuttavia, opposta osservando che l’innovazione sarebbe stata visibile da percorsi pedonali e carrabili di una collina sovrastante. Inoltre, era anche possibile la visione satellitare del terrazzo. Appunto su quest’ultimo argomento il Tar si è pronunciato in modo innovativo, osservando che la visione satellitare si affermerà in futuro, probabilmente, come la principale forma di fruizione delle bellezze paesistiche, consentendo ad un numero indeterminato di persone di accedere ad immagini attraverso Internet.
Tuttavia oggi, da tale cambiamento del pubblico che fruisce del paesaggio, non deriva un vincolo di immodificabilità rafforzato, sui luoghi osservabili. Anche questo nuovo tipo di visione, secondo i giudici, va collocato in una scala di valori che riguardano il pregio paesistico, pregio che deve essere sempre riferito ad un insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo piano. Il giudice ha quindi imposto alla Sovrintendenza di pronunciarsi nuovamente, semmai imponendo eventuali misure di mitigazione dell’intervento edilizio.
In altri termini, secondo il Tar, il paesaggio va tutelato in coerenza a una normale percepibilità; la dimensione del bene da tutelare deve continuare a essere quella del passante, del turista, dell’amante dell’arte o del paesaggio; occorre immedesimarsi nel progettista che a suo tempo ha ideato i luoghi generando armonia e qualità, e da tutto ciò può derivare una corretta tutela paesistica.
Tutela che può esprimersi anche attraverso un divieto assoluto di modifica (impedendo un’alterata percezione dei luoghi), ma senza giungere ad un’assoluta cristallizzazione dei luoghi causata dell’evolversi di tecnologie (visioni aeree, uso di droni, elevata risoluzione delle immagini) focalizzando dettagli non usualmente percepibili.
Nella tutela del paesaggio, fino ad oggi, problemi del genere sono emersi quando si è inteso modificare l’interno di costruzioni in zone vincolate quali cantine, ambienti e suddivisioni interne, solai o murature interne prive di pregio specifico: per interventi su tali elementi edilizi, ad esempio, il vincolo derivante da distanza dal mare (300 metri) è stato ritenuto irrilevante (Tar Lecce 321/2014, Firenze 671/2014).
Anche il modesto innalzamento di un solaio di copertura può risultare irrilevante sotto l’aspetto paesaggistico (se di 40 centimetri: Tar Brescia 39/2015, Consiglio di Stato 3676/2013), mentre se il vincolo è storico-artistico, genera immodificabilità assoluta. A seconda quindi del tipo di vincolo e della percezione che si vuole garantire, i giudici ritengono necessaria una scala graduata, che non può essere alterata dalla tecnologia e dai dettagli delle visioni aeree, nel senso che il paesaggio è un valore complessivo che non si accresce per la sola migliore osservabilità consentita dalla tecnologia
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del 24.12.2015, con il quale è stata negata l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero del sottotetto di un edificio situato in viale Venezia;
- del parere negativo vincolante della Soprintendenza del 22.12.2015, con il quale è stata dichiarata l’assenza di compatibilità paesistica ex art. 146, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
...
Considerato a un sommario esame:
1. I ricorrenti hanno chiesto al Comune di Brescia in data 11.05.2015 l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero del sottotetto in un edificio situato in viale Venezia. Il progetto prevede anche la realizzazione di due tasche nella copertura (rispettivamente di metri 5,00x1,70 e 2,40x1,10) allo scopo di assicurare il raggiungimento dei rapporti aeroilluminanti nei locali del sottotetto.
2. Sull’area grava il vincolo paesistico posto dal DM 07.05.1952.
3. La Commissione comunale per il paesaggio ha espresso parere favorevole in data 10.09.2015, dopo aver preso atto di alcune modifiche progettuali che hanno ridimensionato l’impatto dell’intervento. È stato prescritto il mantenimento dell’orditura e dei caratteri architettonici della gronda.
4. La Soprintendenza, in data 22.12.2015, ha invece espresso parere vincolante negativo ai sensi dell’art. 146, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42. Secondo la Soprintendenza vi sarebbero le seguenti criticità:
   (i) le tasche nella copertura non sono elementi architettonici tradizionali, e provocherebbero la perdita della leggibilità dell’insediamento storico-paesistico;
   (ii) l’innovazione sarebbe visibile dai percorsi pedonali e carrabili, e in particolare dalla collina sovrastante. Nella relazione depositata il 23.03.2016 la Soprintendenza sottolinea che non sarebbe comunque possibile escludere la visione mediante satelliti, accessibile da ogni parte del pianeta.
5. Il Comune si è adeguato, e con provvedimento del responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del 24.12.2015 ha negato l’autorizzazione paesistica.
6. Il ricorso richiama le valutazioni dell’arch. Au.Lo., esposte nella relazione del 12.02.2016. In particolare, la relazione mette in evidenza i seguenti aspetti:
   (i) i percorsi pedonali e carrabili della collina non consentono di osservare agevolmente la zona in questione;
   (ii) l’impatto visivo delle tasche nella copertura è completamente diluito nella visione d’insieme dai punti panoramici e dall’alto;
   (iii) ben 6 dei 14 edifici che compongono l’isolato sono dotati di aperture a tasca nella copertura.
7. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le seguenti osservazioni:
   (a)
la leggibilità del paesaggio urbano tradizionale presuppone la conservazione di una pluralità di elementi (forma e orditura della gronda, materiali, colori), ma non di tutte le caratteristiche storicamente attestate in un gruppo di edifici. Il giudizio di leggibilità è dato infatti dall’insieme degli elementi caratterizzanti. La modifica di uno di questi può essere bilanciata e riassorbita nell’immagine complessiva grazie alla persistenza degli altri;
   (b) occorre poi sottolineare che
le innovazioni necessarie per garantire gli attuali standard igienico-sanitari delle abitazioni sono maggiormente accettabili, in un giudizio estetico aggiornato, rispetto a innovazioni voluttuarie e frivole;
   (c)
la presenza di tasche nelle coperture di quasi la metà degli edifici che compongono l’isolato permette tuttora di apprezzare il pregio architettonico della zona. Non sembra quindi ragionevole ritenere che le due nuove aperture a tasca progettate dai ricorrenti possano alterare l’equilibrio generale;
   (d) al contrario,
appare evidente che in una visione d’insieme, e quindi da lontano, come è necessario nel giudizio paesistico, le aperture a tasca di modeste dimensioni sono diluite nel paesaggio e non sono percepibili come elementi di interruzione o disturbo;
  
(e) infine, è verosimile che la visione satellitare possa affermarsi in un prossimo futuro come la principale forma di fruizione delle bellezze paesistiche, in considerazione del numero di persone in grado di accedere alle immagini da ogni parte del mondo via Internet. Da tale cambiamento nella composizione del pubblico non deriva però un vincolo di immodificabilità rafforzato a carico dei luoghi osservabili. Anche in questo nuovo tipo di visione, infatti, è necessario individuare una scala alla quale collegare il giudizio paesistico, che è sempre riferito a un insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo piano.
8. Sussistono quindi i presupposti per concedere una misura cautelare sospensiva e propulsiva. Sospesi i provvedimenti impugnati, vi è l’obbligo per la Soprintendenza di riesaminare la domanda di autorizzazione paesistica, nel rispetto delle indicazioni sopra esposte, e garantendo il contraddittorio con i ricorrenti. Il riesame è diretto in particolare a definire eventuali misure di mitigazione dell’intervento edilizio. Il termine ragionevole per tale adempimento è fissato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza.

marzo 2016

EDILIZIA PRIVATALa valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.
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Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
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Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.

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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot. n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente, relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione, irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione paesaggistica perché costituente un intervento edilizio minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014, n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n. 5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Solare free sui tetti.
«Libera» l'installazione di pannelli solari negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente, con la sottrazione al controllo autorizzativo paesaggistico. Ma questo nel solo caso in cui il posizionamento degli impianti sul tetto o sul lastrico solare sia tale da non poter essere visibile dall'esterno.

Questo è quanto si legge nella nota 15.03.2016 n. 7716 di prot. del Ministero dei beni culturali in merito all'installazione di impianti solari fotovoltaici con il modello unico negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Ricordiamo che il decreto del ministro dello sviluppo economico 19.05.2015 ha introdotto l'iter semplificato (cosiddetto modello Unico) per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di nuovi impianti fotovoltaici per i quali sia richiesto contestualmente l'accesso al regime dello scambio sul posto.
I produttori interessati dovranno pertanto interfacciarsi esclusivamente con i gestori di rete per inoltrare il modello Unico (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti — Decreto ministeriale 19.05.2015, recante: "Approvazione del modello unico per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 15.03.2016 n. 7716 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 581 del 15 febbraio con la quale codesta Direzione, riprendendo i contenuti della precedente richiesta del 21.12.2015, prot. n. 31357, chiede l'avviso di questo Ufficio relativamente alla corretta interpretazione da darsi, nel caso di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per l'installazione di impianti solari fotovoltaici, alle normative di settore per lo sviluppo dell'efficientamento degli usi finali dell'energia negli immobili ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Le richieste di parere derivano dalle sollecitazioni provenienti, nel primo caso, dalla Regione Lombardia relativamente all'applicazione del Decreto ministeriale, adottato dal Ministro dello Sviluppo economico il 19.05.2015 a seguito di quanto disposto dall'articolo 7-bis del decreto legislativo n. 28 del 2011, recante: "Approvazione del modello unico per la realizzazione, la connessione e l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici", e, nel secondo caso, dalla Soprintendenza Belle arti e paesaggio di Alessandria che, nello specifico, fa riferimento alla sentenza n. 1946/2014, con la quale il TAR Piemonte perviene alla conclusione di considerare esclusi dalla necessità di acquisire l'autorizzazione paesaggistica gli impianti in argomento, se non già ricadenti in aree dichiarate ai sensi dell'articolo 136 del Codice, lett. b) e c). (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Marostica (Vicenza), dichiarazione di notevole interesse pubblico del centro storico — decreto dirigenziale generale 22.02.2012 — art. 146, comma 5, decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 11.03.2016 n. 7457 di prot.).
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La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto, con nota prot. 10576 del 27.06.2014, integrata con nota prot. 12648 del 30.07.2014, ha formulato specifico quesito in ordine agli effetti giuridici in materia di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica che deriverebbero dall'adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle prescrizioni d'uso contenute nella dichiarazione d'interesse pubblico in oggetto, all'esito della positiva verifica da parte del Ministero.
A tal fine la suddetta Direzione ha precisato che la componente prescrittiva di cui alla dichiarazione di interesse pubblico de qua presenta un grado di dettaglio equivalente a quello attribuito alle specifiche prescrizioni d'uso di cui all'art. 143, comma 1, lett. b), del codice di settore.
Il quesito riveste portata generale a fronte della mutata natura (obbligatoria non vincolante, così detta "dequotazione") che assume il parere del Soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'art. 146, comma 5, del codice, in correlazione all'approvazione delle prescrizioni d'uso dei beni paesaggisticamente tutelati e alla positiva verifica da parte del Ministero dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Torino - immobili demaniali di proprietà della città metropolitana denominati "Palazzo della Prefettura" e "Caserma Chiaffredo Bergia" — dichiarazione dell'interesse culturale particolarmente importante di cui all'art. 10, comma 3, lett. d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 - conferimento a Invimit Sgr S.p.A. (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 04.03.2016 n. 6747 di prot.).
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Si riscontra il quesito di cui alla nota prot. 14325 del 09.12.2015 della Soprintendenza Belle arti e paesaggio per il comune e la provincia di Torino, trasmessa a questo Ufficio a cura del Segretariato generale con nota prot. 467 del 15.01.2016, in ordine alla legittimità del conferimento a Invimit Sgr S.p.A. degli immobili demaniali di proprietà della Provincia, ora città metropolitana, di Torino denominati "Caserma Chiaffredo Bergia" e "Palazzo della Prefettura", dichiarati di interesse culturale particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. a) e d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con decreti del Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Piemonte adottati, rispettivamente, in data 09.08.2013 e 10.10.2013.
La società di gestione del risparmio Invimit Sgr S.p.A. è stata costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze secondo le previsioni dell'art. 33 del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, per l'istituzione di uno o più fondi d'investimento al fine di partecipare in fondi d'investimento immobiliare chiusi, promossi o partecipati da regioni, province, comuni, ed altri enti pubblici, o da società interamente partecipate dai medesimi, al fine di valorizzare e dismettere il proprio patrimonio immobiliare disponibile.
Lo scrivente Ufficio ha già chiarito con precedente parere (nota prot. 6328 del 19.03.2015) l'assoggettamento delle alienazioni di beni immobili pubblici in favore della società Invimit al regime autorizzatorio previsto dalla Sezione I del Capo IV della Parte II del codice di settore.
L'art. 54 del codice, come è noto, prevede l'inalienabilità dei beni del demanio culturale dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. d) del codice; i beni inalienabili possono essere oggetto di trasferimento esclusivamente tra gli enti pubblici territoriali ed essere utilizzati solo secondo le previsioni del Titolo II (dedicato alla fruizione e valorizzazione) della Parte II del codice. Ne consegue la conclusione della inalienabilità, allo stato, in favore di Invimit SGR S.p.A. degli immobili de quibus, gravati da vincolo storico-identitario. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: "Castellamare di Stabia (Napoli), località Collina di Varano. Istanze del Comune e di privati finalizzate a rideterminare i provvedimenti di tutela diretti" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 02.03.2016 n. 6433 di prot.).
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Con nota prot. 17789 del 07.11.2014 la Soprintendenza di Pompei formulava un quesito in ordine alla corretta procedura da adottare in seguito alle istanze di privati e enti finalizzate a rideterminare, in presenza di manufatti abusivi, i vincoli diretti, adottati con decreti ministeriali ai sensi della legge n. 1089 del 1939, gravanti sulla collina di Varano.
Tali vincoli risulterebbero particolarmente estesi e non corredati da planimetrie dei resti archeologici, secondo la prassi dell'epoca. La collina di Varano sarebbe interessata nella sua totalità non solo dalla presenza di tre ville monumentali parzialmente riportate alla luce, ma anche da assi viari antichi e numerosi altri rinvenimenti che nel loro insieme testimoniano l'esistenza dell'antica città di Stabiae.
Il Comune di Castellamare, a fronte di numerose istanze di condono, avrebbe manifestato l'intenzione di sottoscrivere un protocollo d'intesa con la Soprintendenza finalizzato a eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti, anche ricorrendo all'utilizzo di indagini geoarcheologiche atte a determinare l'esistenza o meno di resti antichi, legittimanti la permanenza dei provvedimenti. Pendono inoltre avanti il Giudice amministrativo una decina di ricorsi per l'annullamento di alcuni dei vincoli, in ordine ai quali la Soprintendenza, con la rappresentanza dell'Avvocatura dello Stato, avrebbe predisposto idonee argomentazioni difensive.
La Soprintendenza chiede a questo Ufficio di esprimersi sulla legittimità della sottoscrizione del protocollo d'intesa, nelle more della definizione dei giudizi amministrativi, nonché sulle iniziative da avviare nell'ipotesi in cui i saggi geoarcheologici diano esito negativo. (...continua).

febbraio 2016

EDILIZIA PRIVATAQuanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire quanto già affermato e cioè che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè, esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.

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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla SOCIETÀ “PA. DE LA SU.” s.r.l. e dalla SOCIETÀ RE. LA SU. s.r.l., in persona dei legali rapp.ti p.t., rispettivamente En.Ma.De. e Gi.Gu.Ri.Pa.Be., per l’annullamento, previa adozione di idonee misure cautelari, della determinazione del Responsabile del Servizio Tecnico del Comune di Casole d’Elsa dell’08.01.2013 n. 42, avente ad oggetto il diniego definitivo della richiesta di permesso di costruire in sanatoria; della comunicazione del diniego del Responsabile del Servizio Urbanistica ed Edilizia Privata prot. n. 173 dell'08.01.2013; della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Siena e Grosseto n. 16933 del 10.11.2011 e di ogni altro atto connesso, conseguente o presupposto.
...
Il ricorso è, in parte, infondato, in parte, inammissibile.
Come dichiarato dalle stesse ricorrenti, l'area interessata dagli interventi edilizi descritti ricade all’interno della perimetrazione S.I.R. n. 89 “Montagnola Senese”, in zona sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico ai sensi della parte III, Titolo I, del D.Lgs. 42/2004.
L'autorizzazione in ordine alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria era, pertanto, subordinata al rilascio del prescritto parere da parte dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Tale parere, avente natura giuridica di condizione ostativa e di presupposto indefettibile per la concessione edilizia in sanatoria, comporta una verifica da parte della Regione o dei comuni delegati e, in sede di controllo dal Ministero per i beni e le attività culturali, della compatibilità dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali dell’area sottoposta a tutela (Consiglio di Stato, Sez. II, 09.03.2011, n. 104/2011).
Nel caso di specie, la competente Soprintendenza ha ritenuto la richiesta delle società interessate improcedibile, rilevando, sulla base della documentazione esaminata, che sono stati realizzati interventi, che, contrariamente a quanto affermato dalle ricorrenti, hanno comportato degli incrementi di superficie utile e di volume. In quanto tali, i suddetti interventi non rientrano tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004, è possibile accertare la compatibilità paesaggistica in luogo della demolizione.
In altri termini, le citate circostanze precludevano, la possibilità per la Soprintendenza di esprimere un parere favorevole sulla compatibilità paesaggistica di detta opera, atteso che l’art. 167, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 ammette la possibilità di sanare le opere realizzate su un'area vincolata paesaggisticamente, in assenza di titolo abilitativo, solamente qualora le stesse "non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire quanto già affermato nella sentenza della Sezione VI, 24.09.2012, n. 5066/2012 (vds. anche Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè, esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 523 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il dato di fatto che l'area di trasformazione sia inclusa nell’area di notevole interesse culturale determina l’applicazione, alla fattispecie in esame, del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza.
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Deve rilevarsi che l’esistenza di insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di trasformazione del territorio.
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Se è vero che il piano attuativo non deve essere sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già stato vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere della Soprintendenza (ex art.
16, comma 3, della L. n. 1150/1942) in casi di area dichiarata di notevole interesse pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
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FATTO
Con deliberazione del consiglio comunale n. 3 del 17.02.2010, il Comune di Vizzolo Predabissi ha approvato il Piano di Governo del Territorio, che ha individuato, tra le altre, l'area di trasformazione denominata AT6.
Il comparto, che ha una superficie territoriale di circa mq 20.000, si sviluppa ad occidente della Strada Provinciale n. 39 (detta anche Strada Provinciale della Cerca) e si estende sino al confine ovest del Comune di Vizzolo Predabissi. A settentrione, l'ambito confina con il distributore di benzina posto in fregio alla SP39 e con l'area di proprietà Ku.It., attiva nell'ambito della produzione e commercializzazione di macchine agricole.
Il Documento di Piano stabilisce che "l'area di trasformazione AT 6 ha vocazione terziaria. Sono ammissibili attività ricettive e commerciali nella misura non superiore al 40% della potenzialità edificatoria di mq 6.000 di Slp consentita alla iniziativa privata. Il 50% dell'area o un area che consenta un insediamento pari a quello della iniziativa privata con un It < 0,6 mq/mq di Slp deve essere ceduto al Comune per la realizzazione della sede ASL ed ARPA o altro servizio di interesse pubblico. Lo strumento esecutivo è il Programma Integrato di Intervento. Le aree per servizi devono essere pari al 100% della Slp di cui almeno il 50% destinati a parcheggi e realizzato anche nel sottosuolo".
La scheda di approfondimento n. 6 della VAS indica che l’area AT6 si inserisce in un contesto di pregio paesaggistico, vincolato ai sensi del D.lgs. 42/2004 come “bellezze d’insieme”, pur precisando, quanto alla sensibilità paesistica del comparto, che "secondo la classificazione comunale, l'area AT6 è in classe MOLTO BASSA".
Invero l’area è inclusa, in forza del decreto del Presidente della Regione Lombardia n. 1351 del 28.03.1984 nell’elenco delle località da sottoporre a tutela paesistica, in quanto avente notevole interesse pubblico, ai sensi della L. 1497/1939.
Con istanza del 23.04.2013, l'Impresa Za. s.r.l. ha richiesto all'Amministrazione comunale un parere preventivo circa l'assentibilità del Piano Integrato di Intervento relativo all'area di trasformazione AT6, precisando che "si andranno ad edificare tre corpi di fabbrica a destinazione prettamente commerciale. Le superfici edificatorie previste dal vigente piano non vengono saturate nella globalità e di conseguenza anche le cessioni delle aree e degli standard saranno in rapporto all'edificato".
Il Progetto prevede infatti la realizzazione di tre corpi di fabbrica collocati parallelamente alla strada provinciale SP39. Il primo lotto, posto più a Nord, a confine con il distributore di carburanti esistente e con il capannone Ku., è destinato ad essere ceduto all'Amministrazione affinché vi insedi i servizi previsti dalla scheda d'ambito. Gli altri due lotti sono destinati ad ospitare attività commerciali.
Il prospettato insediamento potrà sviluppare una volumetria sino a mc 25.000 ed un'altezza massima di 4 piani fuori terra.
Ad occidente del comparto di riferimento (tra il fiume Lambro ed il comparto stesso) si trova il Cimitero di Melegnano, che è circondato da un muro in cemento armato alto otto metri, che si frappone tra il fiume Lambro e le strutture progettate dall’impresa.
Con nota del 19.07.2013, il Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale ha comunicato che "la soluzione progettuale risulta in linea di massima ammissibile in relazione al vigente PGT, in quanto la destinazione commerciale è compatibile con la vocazione terziaria che connota l'AT6".
Avendo ottenuto preliminare parere favorevole al progetto, la ricorrente si è attivata per acquistare il terreno oggetto di trasformazione e ha stipulato il relativo contratto di compravendita in data 13.09.2013.
Inoltre ha stipulato un contratto preliminare di compravendita relativamente al lotto 2 di intervento e un contratto preliminare di locazione ad uso commerciale, registrato in data 16.05.2014, per il lotto 3.
L'impianto progettuale ha imposto la realizzazione di una rotatoria sulla SP39 e contempla altresì una pista ciclopedonale lungo la strada provinciale che in parte interessano l'area di competenza del Parco Agricolo Sud Milano.
Per tale ragione in data 31.07.2014 l’impresa ricorrente ha richiesto l'autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma 9, d.lgs. 42/2004, alla Regione Lombardia, che l'ha accordata con decreto n. 8469 del 16.09.2014, ai sensi dell’art. 4, comma 6, del DPR n. 139/2010, non avendo la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici rilasciato il parere di competenza entro i termini previsti.
Anche l'Ente Parco, con deliberazione n. 34 del 21.10.2014, ha espresso parere di conformità del progetto viabilistico.
A parziale scomputo degli oneri di urbanizzazione, l'operatore si è reso disponibile ad effettuare le opere di pavimentazione del sagrato della Abbazia di Santa Maria in Calvenzano, edificio religioso sottoposto a tutela.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano, in data 01.12.2014, ha espresso parere favorevole sul progetto di pavimentazione, precisando che "essendo l'area interessata dal Piano Attuativo AT6 interna alla citata area dichiarata di interesse culturale con DPGR 28/03/1984 - il suddetto piano attuativo deve essere sottoposto a questa soprintendenza ai sensi dell'art. 16 della L. 1150/1942".
Il Comune di Vizzolo Predabissi ha chiesto chiarimenti su tale posizione, evidenziando che "il piano di lottizzazione, quale piano attuativo del PGT approvato, è [...] conforme al vigente PGT, quindi si tratta di un piano che attua quanto riportato nel PGT - non si tratta quindi di variante al PGT" (cfr. mail del 09.12.2014).
La Soprintendenza, con mail dell’11.12.2014, ha ribadito di ritenere applicabile l'art. 16 della L. n. 1150/1942, per quanto attiene all’impostazione planivolumetrica, trattandosi di piano attuativo interessante un’area con vincolo paesaggistico, oltre all’ulteriore parere ai sensi dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004 per quanto riguarda gli aspetti più strettamente architettonici.
Avendo ottenuto i necessari atti di assenso in ordine alle opere collocate all'interno del Parco, con istanza protocollata in data 04.12.2014, la ricorrente ha chiesto l'approvazione definitiva da parte del Consiglio Comunale di Vizzolo Predabissi del Piano Attuativo di Lottizzazione AT6.
In data 12.12.2014 l'Amministrazione Comunale ha trasmesso tutta la documentazione progettuale alla Soprintendenza.
Successivamente, in data 15.12.2014 l'Amministrazione comunale ha comunicato che “la Commissione per il paesaggio nella seduta del giorno 15.12.2014 ha espresso parere FAVOREVOLE” con riguardo al prospettato intervento edilizio.
Diversamente la Soprintendenza ha emesso il parere prot. n. 247 del 06.03.2015 con il quale, dopo aver premesso che l’ambito interessato “risulta ricompreso nel territorio del Parco Agricolo Sud Milano nonché nell’area dichiarata di notevole interesse culturale con DPGR 29/03/1984 riguardante il contesto dell’antica Abbazia di Santa Maria in Calvenzano” e che “l’area in oggetto risulta di particolare importanza per mantenere il residuale rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”, ha espresso parere favorevole –limitatamente all’impostazione complessiva planivolumetrica– condizionato al rispetto delle seguenti prescrizioni “volte ad assicurare il mantenimento a verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”:
   - “sia conservata libera da costruzioni almeno la metà dell’ambito –letto nella direzione parallela alla strada– con la conseguente concentrazione dell’edificato nella sola porzione settentrionale posta in adiacenza all’area industriale-commerciale già esistente (“proprietà Khum” e distributore) individuata negli elaborati grafici come lotto 1;
   - il volume da edificarsi sia di altezza massima pari a 6 metri (come quello rappresentato nella tav. n. 15);
   - in corrispondenza del volume da edificarsi sia realizzata una fascia di mitigazione verde con alberi ad alto fusto a Est (lato strada) e a Sud
”.
Tale atto è stato trasmesso dall'Amministrazione Comunale all’impresa ricorrente in data 16.03.2015.
Con nota del 14.04.2015 la ricorrente ha svolto osservazioni in relazione al parere. Con nota di pari data il Comune ha trasmesso tali osservazioni alla Soprintendenza, precisando che l’Amministrazione ha investito il massimo impegno nel salvaguardare l’area su cui sorge la Basilica di S. Maria in Calvenzano e osservando, però, che il fiume Lambro è situato circa 7 metri sotto all’ubicazione della basilica e che il cono ottico è in gran parte già occluso dalla presenza del muro di cinta del cimitero del comune di Melegnano.
Avverso il parere della Soprintendenza la società ha proposto il ricorso indicato in epigrafe, chiedendone l’annullamento, previa tutela cautelare, e formulando altresì domanda risarcitoria.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, con memoria di mera forma.
Si sono altresì costituiti in giudizio il Comune di Vizzolo Predabissi e la Regione Lombardia, resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto, spiegando difese nel merito.
Alla camera di consiglio del 25.06.2015 la ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare.
In vista della trattazione nel merito del ricorso le parti hanno scambiato memorie e repliche insistendo nelle rispettive conclusioni.
Indi all’udienza pubblica del 17.12.2015 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
I) Con l’atto introduttivo del giudizio l’impresa ricorrente ha impugnato il parere reso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Lombardia, ai sensi dell’art. 16 della L. 1150/1942, richiesto dal Comune nell’ambito del procedimento per l’approvazione del Piano Attuativo di Lottizzazione AT6 presentato dalla ricorrente.
II) Il ricorso è affidato ai motivi di gravame di seguito sintetizzati:
   1) violazione e falsa applicazione dell'art. 16, della L. 1150/1942; travisamento dei presupposti di fatto; erroneità; difetto di competenza: l’applicazione dell'art. 16 della L. n. 1150/1942, laddove si richiede il parere preventivo della Soprintendenza, sarebbe limitata ai piani rientranti in aree tutelate paesaggisticamente. Poiché l'Area di Trasformazione AT6 non sarebbe ricompresa all'interno del Parco Agricolo Sud Milano (il cui confine occidentale è costituito proprio dalla Strada Provinciale della Cerca -SP39, oltre la quale è collocato l'ambito in esame), il parere della Soprintendenza sarebbe illegittimo, muovendo dall’errato presupposto dell’inclusione dell’ambito AT6, oggetto del PII, nel Parco predetto;
   2) violazione e falsa applicazione della Parte I, Titolo II, Capo II della L.r. n. 12/2005; violazione e falsa applicazione degli artt. 14-ter, 14-quater e 21-nonies, L. 241/1990; violazione e falsa applicazione dell'art. 16, comma 12, l. 1150/1942; contraddittorietà del parere della Soprintendenza con le previsioni del PGT del Comune di Vizzolo Predabissi e della relativa VAS; difetto di competenza della Soprintendenza; violazione dell'affidamento ingenerato nell'operatore dalle previsioni del PGT approvato; violazione e falsa applicazione dell'art. 97 Cost.; ingiustizia manifesta:
      a) Il progetto di Piano Integrato di Intervento presentato dalla ricorrente è conforme al PGT e rispetta le prescrizioni della scheda di approfondimento n. 6 della VAS, come rilevato dal Comune in sede procedimentale (si veda il parere favorevole della Commissione per il paesaggio). La Soprintendenza di Milano, pur invitata alla conferenza di servizi prodromica all'approvazione dei documenti facenti parte della valutazione ambientale strategica, ivi compresa la scheda di approfondimento relativa all'ambito AT6, non vi ha partecipato, né ha rilasciato pareri in ordine al PGT sottoposto a valutazione, di fatto prestando acquiescenza alla favorevole conclusione del procedimento.
A distanza di cinque anni dall'approvazione del PGT, la Soprintendenza ha assunto un parere che contrasterebbe palesemente con le prescrizioni della VAS, di fatto integrando e modificando le previsioni della valutazione ambientale strategica. L’istituto della conferenza di servizi imporrebbe infatti la partecipazione necessaria delle Amministrazioni per l’espressione del parere, al fine di rendere effettivo tale modulo procedimentale. Il parere gravato, che di fatto si contrappone alla VAS legittimamente approvata a seguito della conferenza di servizi, dovrebbe essere considerato tamquam non esset o comunque illegittimo.
      b) L'art. 16, comma 12, della L. n. 1150/1942, prevede che "lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale strategica non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste".
Nel caso di specie, il PGT del Comune disciplina dettagliatamente l'Area di Trasformazione AT6 sia sul piano locatizzativo, sia su quello dell'edificabilità, degli usi ammessi, delle volumetrie e delle dotazioni territoriali. Sotto tale profilo, ulteriori verifiche ambientali in ordine al progetto conforme ai parametri della Scheda AT6 non sarebbero dovuti.
Difetterebbe, pertanto, la competenza della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano in ordine al progetto in esame, posto che un nuovo parere al riguardo equivarrebbe a rimettere in discussione le risultanze istruttorie emerse in fase di VAS e confluite nel provvedimento che l'ha definitivamente approvata.
   3) violazione e falsa applicazione del D.lgs. 42/2004; palese travisamento dei presupposti di fatto; eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza, contraddittorietà e ingiustizia manifesta: la Soprintendenza muove dal presupposto di fatto che l'area di trasformazione AT6 sia imprescindibile al fine di mantenere il "rapporto tra l'Abbazia ed il fiume Lambro" e che debba essere finalizzata ad "assicurare il mantenimento del verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro".
A detta della ricorrente tali presupposti sarebbero errati, posto che dall'Abbazia di Santa Maria in Calvenzano sarebbe impossibile anche solo percepire il fiume Lambro, che si trova ad una quota di ben sette metri al di sotto di quella dell'Abbazia ed a più di un chilometro di distanza dall'edificio (circa 1,2 Km).
Inoltre, il cono ottico orientato verso il fiume Lambro che origina dal fabbricato in esame si scontrerebbe con l'edificato esistente (cimitero di Melegnano, distributore di carburante, capannoni industriali di proprietà Ku., capannone industriale in uso a concessionario di auto usate), che non consentirebbe di avere percezione dell'area fluviale.
Il nuovo intervento infatti si frapporrebbe non tra l'Abbazia e le sponde fluviali, ma tra l'Abbazia ed il muro perimetrale del Cimitero di Melegnano. Inoltre il parere della Soprintendenza sarebbe carente su un piano istruttorio, omettendo di considerare nel suo complesso l’area interessata dall’intervento, posto che il PGT di Melegnao ha conferito vocazione residenziale all’area, oggi libera, immediatamente attigua all’ambito di trasformazione AT6.
Ancora, il parere sarebbe contraddittorio rispetto ad altri provvedimenti del Comune di Vizzolo Predabissi che hanno inciso sulla zona di tutela dell'Abbazia di Santa Maria in Calvenzano (in particolare sarebbe stata autorizzata sin dalla fine degli anni ottanta la costruzione di un intero nuovo quartiere residenziale, ossia del quartiere Saramazzano).
Infine, in via subordinata, a detta della ricorrente l’irragionevolezza del parere della Soprintendenza si rifletterebbe anche sul DPGR n. 1351 del 28.03.1984 che ha dichiarato di notevole interesse pubblico la zona dell’Abbazia, posto che già all’epoca del provvedimento regionale l’area sarebbe stata interessata da insediamenti di tipo terziario.
III) Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Invero il parere della Soprintendenza muove da un duplice presupposto di fatto, ovvero l’inclusione dell’ambito in questione sia nel territorio del Parco Agricolo Sud Milano, sia nell’area dichiarata di notevole interesse culturale con DPGR del 28.03.1984. Se il primo presupposto di fatto risulta errato, non altrettanto può dirsi quanto all’inclusione dell’AT6 nell’area di notevole interesse culturale ai sensi del decreto regionale del 1984.
Tale indiscutibile dato di fatto –noto anche alla ricorrente che, seppur in via subordinata, ha impugnato il decreto– determina l’applicazione, alla fattispecie in esame del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del quale i piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza.
III.1) A tale proposito, per logica espositiva, il Collegio ritiene di scrutinare anche la censura formulata, seppure in via subordinata (si veda pag. 17 del ricorso), con il terzo motivo di gravame e diretta verso il predetto DPGR n. 1351/1984.
A prescindere dalla genericità della censura, e dai profili di inammissibilità della stessa sollevati dalla difesa della Regione, deve rilevarsi che l’esistenza di insediamenti produttivi in una data area non è incompatibile con la dichiarazione di notevole interesse pubblico della stessa, posto che la tutela paesaggistica non impedisce in modo assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di trasformazione del territorio.
Sotto tale profilo deve rilevarsi il difetto di interesse a gravare tale provvedimento, posto che, appunto, dallo stesso non deriva un vincolo assoluto all’utilizzo dell’area.
IV) Considerato che, per quanto precede, deve ritenersi corretta l’applicazione del disposto di cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, anche il secondo mezzo di gravame non è meritevole di accoglimento.
Il parere della Soprintendenza infatti si colloca nell’ambito della disposizione sopra richiamata, quale effetto della dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area in questione. Ne consegue che la prospettazione della ricorrente secondo cui la Soprintendenza non avrebbe competenza ad intervenire, trattandosi di progetto conforme al PGT e alle relative prescrizioni della VAS non pare cogliere il punto centrale della questione. Invero si tratta di ambiti di disciplina differenti.
La dichiarazione di area di notevole interesse pubblico impone, ai sensi del comma 3 dell’art. 16 sopra richiamato, l’espressione del parere da parte della Soprintendenza. La disposizione di cui al comma 12 dell’art. 16, richiamato dalla parte ricorrente a sostegno del proprio assunto, esclude la sottoposizione a VAS di piani attuativi di strumenti urbanistici già sottoposti a VAS (qualora non comportino variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste).
La presenza di due disposizioni (comma 3 e comma 12) aventi ambiti oggettivi di disciplina differenti, porta a ritenere che se è vero che il piano attuativo non deve essere sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico sia già stato vagliato sotto il profilo della valutazione ambientale strategica, non altrettanto può concludersi quanto al parere della Soprintendenza in casi di area dichiarata di notevole interesse pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
Tale ricostruzione interpretativa priva di rilevanza gli ulteriori profili di censura dedotti con il secondo mezzo di gravame, che, come detto, non è meritevole di accoglimento.
V) Risulta invece fondato il terzo motivo di ricorso, con il quale, in sintesi, la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione del parere impugnato.
La Soprintendenza, nell’indicare le prescrizioni da rispettare in sede di sviluppo del progetto, dichiara come obiettivo “il mantenimento a verde, come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”, nell’ambito di quello che, nello stesso parere, è definito come il “rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”.
Ora, la sussistenza di un cannocchiale percettivo e paesaggistico dall’Abbazia al fiume Lambro è contestata sia dalla ricorrente sia dal Comune, tanto in sede difensiva quanto in sede procedimentale.
La ricorrente ha prodotto (sub doc. 18) la vista del predetto cannocchiale prospettico dall’Abbazia alle sponde fluviali secondo due diverse angolature, la prima della quali vede frapporsi interamente il muro del cimitero di Melegnano, la seconda le già esistenti costruzioni insistenti sull’area.
Il Comune, per parte sua, già in sede procedimentale (cfr. nota del 14 aprile indirizzata alla Soprintendenza) ha sostenuto che “il cono ottico è in gran parte già occluso dalla presenza del muro di cinta del cimitero del comune di Melegnano” e ha sottolineato che il fiume Lambro è situato circa sette metri sotto all’ubicazione della basilica.
La Soprintendenza, costituitasi in giudizio per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha spiegato difese di mera forma, quindi non prendendo posizione sulla sopra riferita circostanza, che risulta contestata in fatto. Il Collegio ritiene di valutare tale elemento ai sensi dell’art. 64 c.p.a..
Alla luce dei profili evidenziati sia dalla ricorrente sia dal Comune, la circostanza di fatto da cui la Soprintendenza muove per dettare le prescrizioni nella realizzazione del progetto non risulta supportata da un’indiscutibile evidenza. Ciò si riverbera sul contenuto prescrittivo del parere stesso, che risulta perciò privo di idonea motivazione.
Va inoltre rilevato che il parere considera l’area in questione come ricompresa nel Parco Agricolo Sud Milano, circostanza che risulta essere errata, come si ricava chiaramente dalla scheda di approfondimento n. 6 allegata alla VAS (e come già anticipato al precedente punto III). Ora, se tale circostanza non fa venir meno l’applicabilità al caso di specie dell’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942, in forza del DPGR del 28.03.1984, costituisce comunque un evidente indizio di un’istruttoria condotta in modo approssimativo e non puntuale, neppure nei suoi elementi essenziali ed oggettivi.
Per le ragioni esposte, in accoglimento del motivo esaminato e assorbiti gli ulteriori profili dedotti, va disposto l’annullamento del parere della Soprintendenza che è tenuta a ripronunciarsi tenendo conto della concreta conformazione dei luoghi e dell’esistenza di fabbricati che si frappongono tra il fiume e l’edificio religioso, all’interno del cono ottico, anche tenuto conto dei vigenti strumenti urbanistici del Comune di Vizzolo Predabissi e del Comune di Melegnano (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.02.2016 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sottoscala abusivo in zona vincolata blocca la sanatoria. Tar Liguria.
Perfino un sottoscala abusivo può bloccare la concessione del permesso di costruire in sanatoria se l'immobile si trova in zona vincolata. Anche le aree interrate, infatti, possono influire negativamente sui valori paesaggistici tutelati dalla Soprintendenza.
Ma i locali che costituiscono mere pertinenze dei vani abitabili non hanno un vero impatto sul territorio e dunque se il comune nega il titolo abilitativo al proprietario dell'immobile deve motivare in modo adeguato la sua decisione, altrimenti il provvedimento è annullato.

Così la sentenza 11.02.2016 n. 140 del TAR Liguria, Sez. I.
Nel mirino degli uffici finiscono due vani interrati: c'è anche un locale deposito accanto al sottoscala. Non c'è dubbio che anche i volumi sotto il piano di campagna possano risultare in contrasto con le norme dettate a tutela del paesaggio, che puntano a impedire l'alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture edilizie.
Il punto è invece stabilire se i locali costituiscono o meno semplici volumi tecnici: bisogna dunque accertare se i vani «incriminati» sono dotati di un certo grado di autonomia o invece sono del tutto accessori alle zone abitabili dell'immobile. E ciò perché nel secondo caso la rilevanza paesaggistica deve escludersi: le opere abusive realizzate dal proprietario, nelle specie, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di impatto visivo (articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).
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MASSIMA
4) Le censure dedotte con il secondo motivo di ricorso sono intese a rimarcare sia i caratteri sostanziali delle opere abusive (tali da renderle, ad avviso della ricorrente, suscettibili di regolarizzazione sotto il profilo paesaggistico ed edilizio) sia, sotto profili diversi da quelli esaminati in precedenza, le pretese carenze motivazionali del provvedimento impugnato.
Sostiene la ricorrente, infatti, che le opere realizzate nel compendio di proprietà, non compromettendo alcun valore paesaggistico, sarebbero qualificabili alla stregua di “abusi minori” che, in quanto tali, possono essere regolarizzati ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004.
Essa lamenta che, in ogni caso, l’amministrazione ha omesso di valutare l’effettiva incidenza di tali opere sui valori paesaggistici tutelati.
4.1) Per quanto riguarda i locali interrati costruiti al di sotto del fabbricato principale, occorre preliminarmente rammentare che,
secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, anche i volumi sotterranei sono considerati rilevanti dal punto di vista paesaggistico e, pertanto, possono essere in contrasto con le previsioni intese ad impedire l’alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 02.09.2013, n. 4348).
Altra giurisprudenza ha precisato, però, che la rilevanza paesaggistica di un volume interrato non sussiste qualora esso, per le sue caratteristiche, possa essere qualificato come mero volume tecnico (cfr., fra le ultime, TAR Umbria, sez. I, 26.04.2014, n. 356).
Proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, infatti, tali volumi sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Ciò premesso, gli elementi in atti non consentono di stabilire con certezza se i locali interrati in questione possiedano effettivamente le caratteristiche proprie dei “volumi tecnici”, intesi quali opere prive di autonomia e aventi funzione meramente accessoria-pertinenziale rispetto ai volumi abitabili.
La questione, peraltro, non è stata approfondita dall’amministrazione che, stante l’incompletezza degli elementi riferiti nell’istanza di sanatoria, avrebbe dovuto svolgere più approfonditi accertamenti in ordine alla funzione e alla natura dei locali in questione.
Tanto più che le volumetrie sotterranee abusivamente realizzate dalla ricorrente, pur esistenti nella realtà fisica, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di impatto visivo nonché della capacità di incidere significativamente sull’assetto del territorio.
Anche sotto questo profilo, pertanto, la motivazione dell’atto non è idonea ad esplicitare adeguatamente le ragioni del diniego.
4.2)
Rimane da vagliare la legittimità del diniego di sanatoria nella parte relativa al forno, avente dimensioni di metri 2,00 x 2,40 e altezza di metri 1,80.
Si tratta di un’opera di ridotto ingombro, non idonea a determinare nuove superfici utili o nuovi volumi, nonché priva di autonoma rilevanza urbanistica, poiché è funzionale all'abitazione principale cui accede ed insiste su una superficie già integralmente pavimentata.
Deve ritenersi, in conseguenza, che la stessa non risulti pregiudizievole per il territorio né idonea ad introdurre un impatto paesaggistico eccedente la costruzione principale
(cfr., in analoga fattispecie, TAR Puglia, Bari, sez. I, 25.09.2014, n. 1124).
Il manufatto in questione, pertanto, appare riconducibile alla categoria degli “abusi minori” che, pur essendo stati realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, sono suscettibili di regolarizzazione.
5) In conclusione, il provvedimento impugnato è inficiato sotto il profilo del difetto di motivazione nelle parti in cui respinge l’istanza di sanatoria avente per oggetto l’intervento sul box, la costruzione dei due locali interrati e le opere di sistemazione delle aree esterne; il diniego di sanatoria del forno, invece, è illegittimo per violazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.

EDILIZIA PRIVATA: Siti UNESCO – Tutela – Disciplina – Previsione di una più stringente tutela – Questione di legittimità costituzionale – Inammissibilità.
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134, comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.
In presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio), una più stringente tutela paesaggistica (ad esempio, attraverso la previsione dei siti UNESCO tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege) non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
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Considerato in diritto.
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con ordinanza del 30.01.2014, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2014, ha sollevato, in riferimento all’art. 9 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), «laddove, nel prevedere la deroga al regime di autorizzazione paesaggistica per tutte le zone A e B del territorio comunale, tali classificate negli strumenti urbanistici vigenti alla data del 06.09.1985, non esclude da tale ambito operativo di deroga le aree urbane riconosciute e tutelate come patrimonio UNESCO».
2.− Con tre successive ordinanze del 13.03.2014, iscritte ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al n. 86 del registro ordinanze 2015, il TAR per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora in avanti «codice dei beni culturali e del paesaggio» o «codice»), con riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (d’ora in avanti «Convenzione UNESCO» o «Convenzione»), firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972).
Con queste ordinanze il rimettente ha anche sollevato, con riferimento ai medesimi parametri, questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui non prevede tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege i siti tutelati dalla Convenzione (d’ora in avanti «siti UNESCO»), ovvero degli artt. 134, 136, 139, 140 e 141 del codice, nella parte in cui non prevedono per i medesimi siti un obbligo in capo all’amministrazione di apposizione in via provvedimentale del vincolo paesaggistico.
3.– Va disposta la riunione dei giudizi, attesa la parziale coincidenza dei parametri e dell’oggetto degli atti di rimessione.
4.– Le questioni sollevate con le ordinanze iscritte ai nn. 176 e 239 del 2014 e al n. 86 del 2015 sono inammissibili in ragione della loro alternatività irrisolta o “ancipite” (sentenze n. 248 e n. 198 del 2014, n. 87 del 2013, n. 328 del 2011, n. 230 e n. 98 del 2009; ordinanze n. 41 del 2015, n. 176 del 2013 e n. 265 del 2011).
Le ordinanze, infatti, prospettano le questioni in via alternativa e non subordinata, ed è noto che l’opzione per l’una o le altre non può essere rimessa a questa Corte (sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013).
5.– Anche la questione sollevata con l’ordinanza iscritta al n. 102 del 2014 è inammissibile, in quanto rivolta ad ottenere una pronuncia additiva e manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013; ordinanze n. 176 e n. 156 del 2013).
5.1.– Il rimettente ritiene che il sistema attuale non garantisca una protezione adeguata ai siti UNESCO, come sarebbe reso evidente dal caso del centro storico di Napoli (inserito nella lista del patrimonio mondiale nel 1995), per il quale il procedimento amministrativo volto alla dichiarazione dell’interesse paesaggistico non risulta ancora portato a compimento; censura, pertanto, l’art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del codice, nella parte in cui non dispone che la deroga ai vincoli legali del comma 1 –deroga prevista per il cosiddetto territorio urbano– non operi per tali siti.
Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 9 Cost., atteso che, in presenza del riconoscimento del valore eccezionale del bene paesaggistico con la sua inclusione nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, la deroga lederebbe il bene paesaggio, che è un valore primario della Repubblica, assoluto e non disponibile.
5.2.– Al solo fine di argomentare la necessità di una più stringente tutela paesaggistica per i beni in oggetto, il rimettente, pur non indicando l’art. 117, primo comma, Cost. quale parametro a sostegno della questione sollevata, fa riferimento agli artt. 4 e 5 della Convenzione UNESCO.
6.− Gli artt. 1 e 2 della Convenzione forniscono la definizione dei due grandi pilastri concettuali su cui essa poggia: rispettivamente, «il patrimonio culturale», che ricomprende monumenti, agglomerati e siti, e il «patrimonio naturale», che ricomprende monumenti naturali, formazioni geologiche e fisiografiche, zone costituenti habitat di specie animali e vegetali minacciate, siti naturali o zone naturali. Queste diverse tipologie di beni (“siti” in senso lato) sono accomunate dalla circostanza di presentare un valore (storico, artistico, estetico, estetico-naturale, scientifico, conservativo, etnologico o antropologico) «universale eccezionale».
Dal canto loro, gli artt. 4 e 5 della Convenzione pongono, sì, degli obblighi in capo agli Stati firmatari, tra cui spicca, per quanto qui rileva, quello di garantire «l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale» situato sul loro territorio, ma lasciano anche liberi gli Stati medesimi di individuare «i provvedimenti giuridici, scientifici, tecnici, amministrativi e finanziari adeguati per l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e rianimazione di questo patrimonio».
6.1.–
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema vigente, che si prefigge dichiaratamente l’osservanza dei trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi rientrino nelle categorie individuate dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134, comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di fonte legale di cui all’art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui siano riconducibili alle relative categorie tipologiche.

6.2.– In presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio), la soluzione invocata dal rimettente non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell’opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione.
Non è un caso, del resto, che con le altre ordinanze di rimessione il TAR Campania abbia individuato diverse sedi per gli interventi invocati –impregiudicata la valutazione di congruenza di ciascuno di essi con il sistema delineato dal codice– e, in definitiva, diversi meccanismi volti a realizzare l’obiettivo di apprestare una tutela rafforzata ai siti UNESCO.
La questione va dunque dichiarata inammissibile, poiché l’invocata addizione si risolverebbe in una modificazione di sistema non costituzionalmente obbligata che, in quanto tale, è preclusa a questa Corte (sentenze n. 10 del 2013 e n. 252 del 2012; ordinanze n. 255, n. 240 e n. 208 del 2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 134, 136, 139, 140, 141 e 142, commi 1 e 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), sollevate, in riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972), dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con le ordinanze iscritte ai nn. 176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al n. 86 del registro ordinanze 2015;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004, sollevata, in riferimento all’art. 9 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con l’ordinanza iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2014 (Corte Costituzionale, sentenza 11.02.2016 n. 22).

EDILIZIA PRIVATASilenzio-assenso per il nulla osta richiesto ad un Ente parco, il Consiglio di Stato rinvia all'Adunanza plenaria.
Il Consiglio di Stato, esaminando la disciplina in materia di nulla osta dell'Ente parco, preso atto che:
l’art 13, comma 1, della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco, da rendersi entro il termine di sessanta giorni dalla richiesta, decorso il quale il nulla osta si intende rilasciato;
l’art. 20, comma 1, della legge n. 241 del 1990 prevede che nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, della stessa legge n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego ovvero non procede con la convocazione della conferenza di servizi ai sensi del comma 2 dello stesso art. 20;
l'art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990 stabilisce tuttavia che la disciplina di cui allo stesso articolo non si applica agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l'ambiente;
fra le suddette disposizioni (art. 13 legge n. 394 del 1991 e art. 20 legge n. 241 del 1990) intercorre un’antinomia, per sciogliere la quale le Sezioni del Consiglio di Stato hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a soluzioni opposte;
ha disposto il deferimento della questione all'Adunanza Plenaria
(commento tratto da http://camerainsubria.blogspot.it).
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1. La società To.Im. ha acquistato nel Comune di Montecompatri dei terreni, confinanti con altri destinati dal piano particolareggiato c.d. “Molare” ad area direttamente edificabile con destinazione residenziale, con possibile rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di un complesso commerciale-residenziale.
In relazione alle superfici acquistate (in parte destinate a verde pubblico, in parte edificabili, ma con diritti edificatori ceduti ai terreni confinanti), in data 05.04.2012 i proprietari dell’epoca, in seguito danti causa della società, hanno presentato un programma integrato di intervento -in variante sia del P.R.G. che del P.P.- per la variazione della destinazione da verde pubblico a residenziale e la realizzazione di un ulteriore complesso commerciale-residenziale.
L’Ente parco regionale dei Castelli romani, nel perimetro del quale ricadono alcuni dei terreni interessati dall’intervento, previo preavviso di rigetto ha negato il proprio nulla-osta con atto n. 6081 del 10.12.2013.
La società ha impugnato il provvedimento, sostenendo che questo sarebbe stato adottato decorso il termine di sessanta giorni dalla ricezione della relativa richiesta, previsto dal combinato disposto dell’art. 28, comma 1, della legge della Regione Lazio 06.10.1997, n. 29, e dall’art. 13, comma 1, della legge 06.12.1991, n. 394. Si sarebbe dunque formato il silenzio-assenso, rispetto al quale l’atto adottato dall’Ente non avrebbe i requisiti formali e sostanziali dell’atto di autotutela. Il provvedimento sarebbe inoltre viziato per vizio di motivazione, difetto di istruttoria e di motivazione.
Con sentenza 06.08.2014, n. 8744, il TAR per il Lazio, sez. II-quater, ha respinto il ricorso. Il Tribunale regionale ha ritenuto che, a fronte delle oscillazioni giurisprudenziali, fosse decisiva nel senso della necessità del provvedimento espresso, trattandosi di immobile sottoposto a vincolo ambientale e paesistico, la recente modifica apportata all’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. testo unico dell’edilizia) dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98). Nella specie, inoltre, mancherebbe tutta la documentazione necessaria, sicché anche per questa ragione il silenzio-assenso non potrebbe darsi per formato. Sarebbero inoltre infondate le ulteriori censure.
La società ha interposto appello contro la sentenza e ha anche formulato una domanda cautelare, che la Sezione ha respinto con ordinanza 19.11.2014, n. 5334.
L’appellante ricostruisce anzitutto la complessa vicenda amministrativa, che ha coinvolto una pluralità di soggetti pubblici, e ritiene non corretta la lettura che il primo Giudice avrebbe fatto di parte della documentazione versata in atti.
L’appellante deduce i seguenti motivi di ricorso:
   I) errata ricostruzione del quadro normativo vigente. Secondo la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394 del 1991 sarebbe tuttora in vigore in quanto, in virtù del principio di specialità, non superata dalla successiva novella al comma 4 dell’art. 20 della legge 07.08.1990, n. 241;
   II) in concreto, il silenzio-assenso si sarebbe formato, perché l’Ente parco avrebbe richiesto la documentazione integrativa a termini scaduti e questa non sarebbe stata comunque idonea a congelare alcun termine, perché il nulla-osta paesaggistico richiesto dall’Ente non sarebbe stato un presupposto del parere vertendosi non in tema di rilascio di un permesso di costruire, ma di approvazione di una variante urbanistica;
   III) formatosi il silenzio-assenso, l’Ente avrebbe potuto semmai avviare un procedimento di autotutela in vista di un annullamento d’ufficio a norma dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, mentre l’atto impugnato sarebbe privo dei relativi requisiti, sostanziali e formali;
   IV) violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990. L’Ente non avrebbe preso in considerazione le controdeduzioni svolte dalla società una volta ricevuto il preavviso di diniego. Sul punto il TAR avrebbe omesso qualunque decisione;
   V) difetto di motivazione dell’atto. Il TAR si sarebbe espresso in termini non corretti sulla dedotta genericità e non pertinenza della motivazione; il diniego sarebbe motivato del tutto genericamente e denoterebbe travisamento della natura dell’intervento.
L’Ente parco si è costituito in giudizio per resistere al ricorso, senza svolgere difese.
All’udienza pubblica del 17.11.2015, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.
2. In via preliminare, il Collegio rileva che la ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non è stata contestata dalle parti costituite. Di conseguenza, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono considerarsi assodati i fatti oggetto di giudizio.
3.
Il primo motivo dell’appello, nel quale si compendia il nucleo essenziale della controversia, consiste nel discusso avvenuto rilascio, per silenzio-assenso, del nulla-osta richiesto all’Ente parco.
Come detto, i termini della questione non sono controversi in punto di fatto. Si discute tuttavia quale sia norma applicabile alla vicenda.
La tesi dell’appellante è debba valere la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (espressamente richiamata dall’art. 28, comma 1, della legge della Regione Lazio n. 29/1997), il quale stabilisce che “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l'intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato…”.
Il Tribunale territoriale ha ritenuto invece di dover far ricorso alla disposizione generale dell’art. 20 della legge n. 241/1990.
Questa recita: “1. Fatta salva l'applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all' articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2.

4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge
”.
4. Fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, a sciogliere la quale le Sezioni di questo Consiglio di Stato hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a soluzioni opposte.
Un primo criterio di soluzione è stato individuato nel criterio di specialità (sez. VI, 29.12.2008, n. 6591; adesivamente, sez. VI, 17.06.2014, n. 3407).
La tesi sostiene che la speciale forma di silenzio-assenso, prevista a livello statale dall'art. 13 della legge n. 394/1991, non sia stata implicitamente abrogata a seguito dell'entrata in vigore della riforma della legge n. 241 del 90 (disposta con la legge n. 80/2005).
Infatti, il novellato art. 20 della legge n. 241/1990 avrebbe in primo luogo inteso generalizzare l'istituto del silenzio assenso, rendendolo applicabile a tutti i procedimenti a istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi, fatta salva l'applicazione delle ipotesi di denuncia di inizio attività, regolate dal precedente art. 19.
Rispetto a tale generalizzazione, il comma 4 dell'art. 20 avrebbe introdotto alcune eccezioni in determinate materie, tra cui quelle inerenti al patrimonio culturale e paesaggistico e l'ambiente, che riguardano non l'impossibilità in assoluto di prevedere speciali ipotesi di silenzio-assenso, ma l'inapplicabilità della regola generale dell'art. 20, comma 1.
In sostanza, la generalizzazione dell'istituto del silenzio assenso non potrebbe applicarsi in modo automatico alle materie indicate dall'art. 20, comma 4, ma ciò non impedirebbe al legislatore di introdurre in tali materie norme specifiche, aventi a oggetto il silenzio-assenso, a meno che non sussistano espressi divieti, derivanti dall'ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi costituzionali.
Il dato testuale del comma 4 dell'art. 20 sarebbe chiaro: "Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente ..."; l'eccezione riguarderebbe solo "le disposizioni del presente articolo" e non potrebbe essere estesa a disposizioni precedenti, aventi a oggetto il silenzio assenso, rispetto alle quali i commi 1, 2 e 3 dell'art. 20 della legge n. 241/1990 nulla avrebbero innovato.
Tali disposizioni resterebbero, quindi, in vigore e, del resto, se, come appena detto, l'art. 20, comma 4, non impedisce l'introduzione di norme speciali, dirette a prevedere il silenzio-assenso anche nelle materie menzionate dal comma 4, non potrebbe che ritenersi che eventuali norme speciali preesistenti, quali l'art. 13 della legge n. 394/1991, restino in vigore.
Tale tesi, oltre ad essere conforme al dato testuale della disposizione, si porrebbe in linea con la stessa ratio della riforma della legge n. 241/1990, che sarebbe stata quella di generalizzare l'istituto del silenzio-assenso. Sarebbe irragionevole ritenere che tale generalizzazione abbia comportato un effetto abrogante su norme, che tale istituto già prevedevano.
L'unico limite che le disposizioni speciali, quale quella di cui al citato art. 13, dovrebbero rispettare è quello derivante dai principi comunitari e costituzionali.
Tuttavia, sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, non si porrebbe in contrasto con principi costituzionali o con specifiche disposizioni comunitarie la previsione del silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell'Ente parco, caratterizzato da un tasso di discrezionalità non elevato e destinato a inserirsi, in un procedimento, in cui ulteriori specifici interessi ambientali vengono valutati in modo espresso, come in concreto avvenuto nel caso di specie (autorizzazioni paesaggistiche, idrogeologiche, archeologiche).
5. Un diverso criterio di soluzione privilegia invece il canone cronologico della successione delle leggi nel tempo (sez. IV, 28.10.2013, n. 5188; implicitamente, sez. III, 15.01.2014, n. 119; sez. IV, ord. 19.11.2014, n. 5531).
Secondo questa prospettazione, entrambe le norme avrebbero la medesima natura procedimentale e verrebbero a disciplinare lo stesso istituto operante in materia di edilizia e ambienta; resterebbe, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto.
In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo istituto procedimentale del silenzio-assenso, dovrebbe quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile (art. 15 disp. prel. cod. civ.).
Non si potrebbe dunque far ricorso al principio di specialità, che postula l'equivalenza tra le norme stesse, ma dovrebbe necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su quella precedente. Con la conseguenza che l'intervento dell'art. 20 della legge n. 241/1990, come successivamente modificato, determinerebbe che il regime del silenzio-assenso non trovi applicazione in materia di tutela ambientale: il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge precedente, risulterebbe pienamente legittimo in quanto emesso in forza di un potere non consumatosi -in quanto esplicato nella vigenza della nuova legge- ed il cui esercizio, dunque, non presupporrebbe l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa inesistente.
6.
Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, il Collegio ritiene opportuno sottoporre il ricorso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a norma dell’art. 99, comma 1, c.p.a..
Nel fare ciò,
il Collegio non può non segnalare di reputare più fondata la seconda delle alternative prospettate, quella cioè per cui, a risolvere l’antinomia fra le disposizioni richiamate, debba farsi applicazione del criterio cronologico. E ciò, non solo per coerenza con l’orientamento della Sezione, ma anche alla luce delle considerazioni che seguono.
6.1. A sostegno della propria, analoga tesi, il Tribunale regionale ha richiamato anche l’art. 30 del c.d. “decreto del fare” (decreto-legge n. 69/2013, convertito con modificazioni nella legge n. 98/2013) che, modificando la disciplina per il rilascio del permesso di costruire (art. 20, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia) con l’introdurre il silenzio-assenso sulla domanda relativa, ha fatto salvi “i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9”. Il quale comma 9 a sua volta prevede che “qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, il termine di cui al comma 6 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso, il procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento espresso …”.
A questa osservazione l’appellante replica osservando che la nuova norma opera solo in tema di rilascio di permesso di costruire e non con riferimento ad ambiti di diversa natura.
Tale replica è corretta, ma trascura il rilievo che il Collegio reputa debba darsi a un’innovazione normativa che, pur essendo complessivamente rivolta ad ampliare e non a restringere le ipotesi di silenzio-assenso in materia edilizia (come rileva ancora l’appellante), ha significativamente escluso dal proprio ambito gli interventi su beni assistiti da vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Se dunque la norma non è direttamente applicabile alla vicenda controversa, essa appare tuttavia indice non trascurabile di una linea di tendenza del sistema normativo, dalla quale non sembra lecito prescindere in sede di interpretazione e ricostruzione delle disposizioni vigenti.
6.2. Ad arricchire il quadro d’assieme, va anche rammentata la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo -per violazione dell'art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.- l'art. 1, comma 250, della legge della Regione Campania 15.03.2011, n. 4, nella parte in cui prevede che “l'autorità competente provvede entro sessanta giorni dalla ricezione della domanda. Se detta autorità risulta inadempiente nei termini sopra indicati, l'autorizzazione si intende temporaneamente concessa per i successivi giorni, salvo revoca” (sentenza 18.07.2014, n. 209).
La Corte ha ritenuto che la disposizione impugnata violasse la competenza esclusiva statale in materia di ambiente (alla quale va ascritta la disciplina degli scarichi in fognatura) in quanto determinerebbe livelli di tutela ambientale inferiori rispetto a quelli previsti dalla legge statale, segnatamente dall'art. 124, comma 7, del decreto legislativo n. 152/2006 -che fissa, invece, il termine perentorio di novanta giorni per la concessione dell'autorizzazione- e dall'art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, che esclude l'applicabilità del silenzio-assenso  alla materia ambientale.
Se ne potrebbe dedurre che la Corte legga l’art. 20, comma 4, citato, come portatore di una regola generale di governo della materia ambientale, ostativa all’applicabilità delle disposizioni sul silenzio-assenso, salve forse specifiche e motivate eccezioni, che dovrebbero però apparire chiaramente come tali e non essere affidate a un’operazione esegetica controvertibile e controversa.
6.3. Per completezza, sarà infine opportuno ricordare quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui
la formazione di un silenzio-assenso in materia di paesaggio o ambiente si pone in contrasto con i principi comunitari che impongono l'esplicitazione delle ragioni di compatibilità ambientale, con l'adozione di eventuali prescrizioni correttive, sulla base di un'analisi sintetico-comparativa per definizione incompatibile con un modulo tacito di formazione della volontà amministrativa (cfr. sez. V, 25.08.2008, n. 4058).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 09.02.2016 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale persegue la finalità di pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale…”.

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O.1 - Inoltre l’art. 58 delle NTA definisce le aree di rispetto cimiteriale ma si pone in contrasto con l’art. 338 del TU leggi sanitarie in quanto la misura della fascia di rispetto è pari a 200 metri e può essere ridotta, salvo specifica autorizzazione ASL, solo per la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti e per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico.
L’art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27.07.1934 n. 1265) stabilisce che: “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.

Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
”.
Il rilievo della Regione è fondato e merita accoglimento sia in ordine alla previsione di una ridotta fascia di rispetto (100 m.) sia con riferimento alla mancata indicazione dei casi tassativi in cui può essere derogata la previsione normativa.
Il vincolo cimiteriale, infatti, persegue la finalità di pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale…” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4403 del 2011).
Di qui l’annullamento dell’art. 58 delle NTA del PUC per quanto in contrasto con l’art. 338 del T.U. leggi sanitarie (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2016

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Silenzio-assenso ex art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e procedimenti di autorizzazione paesaggistica di cui agli artt. 146 e 167 del decreto legislativo n. 42 del 2004 (MIBACT, nota 19.01.2016 n. 1293 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 310749 del 14.12.2015 con la quale codesta Città metropolitana pone alcune questioni concernenti l'applicabilità dell'istituto del silenzio-assenso, introdotto dall'art. 3 della legge n. 124 del 2015, ai procedimenti paesaggistici disciplinati dal codice di settore. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di "merito amministrativo", espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3 L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che l'espressione del parere demandato alla Soprintendenza deve contenere una compiuta esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative all'inserimento della nuova opera nel contesto paesaggistico tutelato.
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L'onere motivazionale deve essere ancor più rafforzato laddove lo stato dei luoghi risulti già trasformato da un preesistente edificio che la parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza ha già chiarito che, nell'ipotesi di recupero di un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se e come, all'esito dell'intervento di recupero, il fabbricato possa risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale circostante, e tanto anche in comparazione ... alla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio".
Ed infatti, in applicazione degli approdi giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell'opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale" potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio".
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Tanto premesso può addivenirsi allo scrutinio della questione di merito.
Gioverà ricordare che la giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di "merito amministrativo", espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3 L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che l'espressione del parere demandato alla Soprintendenza deve contenere una compiuta esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative all'inserimento della nuova opera nel contesto paesaggistico tutelato (TAR Salerno, Sez. I, n. 313 del 2015).
Onere motivazionale ancor più rafforzato laddove, come nel caso di specie, lo stato dei luoghi risulti già trasformato da un preesistente edificio che la parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza ha già chiarito -e da tale percorso il Collegio non intende decampare- che, nell'ipotesi di recupero di un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se e come, all'esito dell'intervento di recupero, il fabbricato possa risultare adeguatamente inserito nella cornice ambientale circostante, e tanto anche in comparazione ... alla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio" (Cons. St. n. 1418 del 2014).
Trasponendo le menzionate acquisizioni giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi che il parere, oltre a rimarcare la carenza di documentazione nonché la carenza di elementi utili ad evidenziare la conformità dell'intervento alla normativa del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, risulta, altresì carente in ordine alle ragioni per le quali il progettato intervento finirebbe per alterare la fruibilità estetica dei luoghi, indulgendo in notazioni del tutto generiche e stereotipate.
Trattasi all'evidenza di una motivazione sostanzialmente apparente, poiché non individua, da una parte, quali siano le effettive caratteristiche del paesaggio tutelato che si intende salvaguardare e, dall'altra, quali siano le effettive caratteristiche del progetto le cui ricadute si porrebbero in stridente contrasto con le prime, tanto più che trattasi di intervento di riparazione della copertura con rifacimento dell’intonaco esterno la cui capacità innovativa dello status quo nemmeno risulta immediatamente percepibile. Ma ciò che più rileva è la palese pretermissione di ogni tipo di indicazione utile a far conseguire all'interessato il bene della vita.
Ed infatti, in applicazione degli approdi giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell'opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale" potrebbe far conseguire all'interessata l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio" (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
Nemmeno il profilo motivazionale afferente alla indimostrata liceità dell’edificio è in grado di suffragare adeguatamente l’impugnato parere, in quanto, pur dovendosi rilevare che l’assentibilità paesaggistica di un intervento edilizio postula la sua liceità urbanistica (invero sarebbe inutiliter datum un nulla osta paesaggistico rispetto ad un manufatto abusivo), accede ad una disamina della documentazione acquisita dall’esito incerto e perplesso, tanto da prendere atto, conclusivamente, della impossibilità di effettuare “una valutazione compiuta della pratica”. Tanto avrebbe senz’altro giustificato un ulteriore approfondimento istruttorio, anche in considerazione della duplice attestazione, proveniente dagli uffici comunali, circa la conformità del manufatto ai titoli rilasciati.
Per tutte le suesposte ragioni, il parere deve essere annullato al fine di consentire quella fase collaborativa che, nella specie, appare deficitaria.
Pertanto, ed in esecuzione della presente sentenza, la competente Soprintendenza provvederà a riattivare, in collaborazione con il Comune di Controne e con spirito di leale interlocuzione con la parte privata, il procedimento funzionale alla formulazione del prescritto parere, facendo in modo di ben evidenziare l’iter logico della sua definitiva espressione di volontà in ordine all'intervento, nei limiti delle sue attribuzioni e con l'esplicita e dettagliata indicazione delle condizioni alla cui ricorrenza il parere di compatibilità paesaggistica potrà essere rilasciato.
In conformità alle considerazioni che precedono, il ricorso si presta, quindi, a essere accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui dispone che "sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d. 11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri", va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di iscrizione negli elenchi.
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Per quanto riguarda il valore delle carte dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro riporta graficamente il corso d’acqua in questione pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento del Supremo Consesso di G.A..
Invero, osserva l’autorevole Collegio che l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di efficacia l'articolazione territoriale interna dello Stato.

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Il ricorso è infondato.
1. Assumono preliminare rilievo, sul piano logico-argomentativo, i mezzi di gravame articolati ai punti sub 2) e 3), per il loro tenore suscettibili di trattazione congiunta, con i quali il Comune istante lamenta l’insussistenza del vincolo paesaggistico alla luce delle caratteristiche del corso d’acqua denominato “Cancito”, lungo le cui sponde, al momento del ricorso, è in corso di esecuzione l’intervento su descritto.
A tal riguardo, si osserva in ricorso, mediante deduzioni corroborate dalla produzione di documentata relazione tecnica, che il “Cancito” non sarebbe né un torrente, né un corso d’acqua iscritto negli elenchi previsto dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775. La fascia di 150 metri dalle sue sponde, quindi, non sarebbe assoggettata a vincolo di tutela, come invece si afferma dalla Soprintendenza elevando tale circostanza a presupposto della contestata determinazione.
Giunge a tali conclusioni il ricorrente evidenziando che il provvedimento impugnato richiama il parere del Genio Civile di Salerno (prot. n. 2014.0604087 del 12.09.2014), che, a sua volta incorrendo in illegittimità, si fonderebbe sulle sole risultanze catastali, le cui mappe riportano il Cancito come torrente, così trascurando la mancata indicazione dello stesso nella cartografia ufficiale IGM, dalla pretesa valenza dirimente.
Dalla disamina del provvedimento impugnato, nelle sue testuali articolazioni motivazionali, invero risulta che l’Autorità Soprintendentizia ha posto a fondamento della sua determinazione il contributo consultivo del Genio Civile di Salerno versato nella nota su distinta, nella quale si rileva, dopo aver evidenziato il carattere decisivo delle indicazioni riportate sui fogli di mappa catastali di impianto, che <<sul foglio di mappa catastale n. 32 del Comune di Castelcivita, la cui redazione risale agli anni tra il 1897 e il 1904, il corso d’acqua denominato Cancito è riportato come “Torrente”. Stessa denominazione è riportata anche sul foglio 31>>.
E’ inoltre versata in atti copia, non in scala, del citato foglio n. 32, che appunto riporta il tracciato del Cancito con la esatta denominazione di “Torrente”. La circostanza, del tutto pacifica tra le parti, della mancata indicazione di tale corso d’acqua negli elenchi delle acque pubbliche non è ex se decisiva.
Questo Tribunale (TAR Salerno, sez. II, 18.07.2008, n. 2172) ha infatti già avuto modo di osservare che “l’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui dispone che "sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d. 11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri", va interpretato nel senso che solo per le acque fluenti di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti, si impone, ai fini della loro rilevanza paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche. Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di iscrizione negli elenchi”.
La soluzione della questione agitata in ricorso impone innanzitutto di assegnare il giusto rilievo alla cartografia IGM. Ebbene, il Collegio non condivide quanto prospettato dal ricorrente a proposito del carattere decisivo della mancata iscrizione del Cancito nella cartografia IGM (Istituto Geografico Militare), non essendo tale assunto suffragato da alcun preciso riferimento normativo.
Per quanto riguarda il valore delle carte dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro riporta graficamente il corso d’acqua in questione pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento del Supremo Consesso di G.A., espresso già con il parere del 07.03.1980. Invero, osserva l’autorevole Collegio che l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di efficacia l'articolazione territoriale interna dello Stato (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.10.1998, n. 1361).
Assume invece rilievo, a contrario, la denominazione di torrente riportata nella planimetria catastale, cioè relativa al primo deposito presso l'archivio del Catasto e risalente, nel caso di specie, “agli anni tra il 1897 e il 1904” (v. parere Genio Civile di Salerno prot. 2014.0604087 del 12/09/2014) a sua volta qualificabile come atto ufficiale, come evidenziato dal Genio Civile di Salerno nel suo contributo istruttorio.
Va sul punto sottolineato che l’Amministrazione del Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali (divenuta Agenzia del Territorio) è qualificato, dalla legge 02.02.1960, n. 68 (“Norme sulla cartografia ufficiale dello Stato…”), uno degli organi cartografici dello Stato (v. art. 1); ne consegue –ritenendo il Collegio di rimeditare il diverso orientamento espresso dalla Sezione con la sentenza n. 2594/2013 del 20.12.2013, valorizzata da parte ricorrente– che i rilievi catastali non possono non assurgere al rango di documento ufficiale attestante la qualità di un corso d’acqua non compreso nei relativi elenchi.
Non va ad ogni modo trascurato che lo stesso Ente locale ha riconosciuto la rilevanza paesaggistica delle aree spondali del Cancito, come nel caso dell’intervento di sistemazione idraulica ed idrogeologica, finanziato da risorse comunitarie del FEOGA e dallo SPOF con la Misura 3.1., in cui espressamente si qualifica il corso d’acqua in questione come “Torrente”.
Medesima qualificazione si rinviene sia nel PRG sia nella documentazione preliminare del PUC del Comune di Castelcivita. Tanto è sufficiente al fine di ritenere l’area, ai sensi dell’art. 142, lett. c), del D.Lgs. n. 42/2004, è sottoposta a vincolo paesaggistico, non potendosi accedere alla verifica dell’esatto stato dei luoghi, come auspicato in ricorso, al fine di stabilire se si tratti di un semplice scolo, in presenza di una denominazione come torrente avente, come detto, il crisma dell’ufficialità. I motivi in esame sono quindi infondati.
2. Nemmeno coglie nel segno il primo motivo, col quale parte ricorrente lamenta che l’intervento sarebbe irrilevante sul piano paesaggistico per essere di natura meramente manutentiva, in quanto, come emerge dalla relazione descrittiva dei lavori in progetto, esso prevede il completamento dell’impianto di depurazione, da tempo inutilizzato, con la realizzazione ex novo di di n. 2 vasche, di cui una sola completamente interrata, e di un locale tecnologico di mq. 21,60.
Tali opere, per la loro complessiva consistenza anche volumetrica e per la loro stessa finalità, appaiono in grado di alterare lo stato dei luoghi e pertanto sono meritevoli di essere portati all’attenzione dell’autorità competente in subiecta materia. Né la misura appare sproporzionata o comunque incurante della destinazione delle opere a beneficio della collettività, trattandosi di un impianto di depurazione, perché esattamente contemplata, come di seguito si dirà, dal sistema ordinamentale a tutela del valore, di pregio costituzionale, del paesaggio.
Anche il motivo in esame è quindi da respingere (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe circolari costituiscono criteri di riferimento interpretativo a carattere interno finalizzate a garantire un’uniforme applicazione delle norme di legge, risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare che la circolare interpretativa non possa legittimare l’inosservanza di principi direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi conseguentemente disattendere le circolari sulla base del principio di prevalenza del dettato legislativo.
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E' di tutta evidenza come la circolare MIBAC n. 33 del 26.06.2009 non possa integrare, in maniera vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite quantitativo, impeditivo, in linea generale, della favorevole conclusione del procedimento di autorizzazione paesaggistica postuma, laddove l’esito del procedimento de quo non può che essere frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite percentuale massimo, risultare compatibile con la generale sanabilità di pensiline e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nel casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento”.
In sostanza, la circolare di cui sopra, per rispettare il dettato legislativo, va interpretata nel senso che l’indicazione del predetto limite del 25% vale unicamente come individuazione di un valore percentuale di massima, il cui eventuale superamento non impedisce, automaticamente e necessariamente, la sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la decisione, circa l’esito del relativo procedimento, dipendere da una valutazione, che si cali nel caso specifico, valutando il concreto impatto, sul paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di natura pertinenziale, quanto alla casistica delle tettoie –o pensiline– aperte su tre lati).

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Il ricorso è fondato.
Secondo la giurisprudenza: “Le circolari costituiscono criteri di riferimento interpretativo a carattere interno finalizzate a garantire un’uniforme applicazione delle norme di legge, risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare che la circolare interpretativa non possa legittimare l’inosservanza di principi direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi conseguentemente disattendere le circolari sulla base del principio di prevalenza del dettato legislativo” (TAR Bari, (Puglia), Sez. II, 14/09/2012, n. 1660).
Nella specie, il gravato diniego s’è fondato unicamente sul superamento, da parte della pensilina realizzata dalla ricorrente, del limite massimo del 25%, fissato dalla circolare del Segretario Generale del Mi.B.A.C., n. 33 del 26.06.2009 (punto 2: “per “superfici utili”, si intende “qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono ammesse le logge e i balconi nonché i portici, collegati al fabbricato, aperti su tre lati contenuti entro il 25% dell’area di sedime del fabbricato stesso”).
Orbene, è di tutta evidenza come la circolare di cui sopra non possa integrare, in maniera vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite quantitativo, impeditivo, in linea generale, della favorevole conclusione del procedimento di autorizzazione paesaggistica postuma, laddove l’esito del procedimento de quo non può che essere frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite percentuale massimo, risultare compatibile con la generale sanabilità di pensiline e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nel casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell’intervento” (Cassazione penale, Sez. Fer., 07/09/2011, n. 33267).
In sostanza, la circolare di cui sopra, per rispettare il dettato legislativo, va interpretata nel senso che l’indicazione del predetto limite del 25% vale unicamente come individuazione di un valore percentuale di massima, il cui eventuale superamento non impedisce, automaticamente e necessariamente, la sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la decisione, circa l’esito del relativo procedimento, dipendere da una valutazione, che si cali nel caso specifico, valutando il concreto impatto, sul paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di natura pertinenziale, quanto alla casistica delle tettoie –o pensiline– aperte su tre lati) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella tutela paesaggistica no a divieti eccessivi. Tar Brescia.
Va bene la tutela del panorama in campagna, ma non si può bloccare l'impianto fotovoltaico che ben si fonde col tetto dell'edificio rurale se un filare d'alberi basterebbe a schermare i pannelli e a evitare ingombri alla vista per il panorama. E ciò anche se sull'area grava un vincolo paesistico, perché si trova vicino al fiume.

È quanto emerge dalla sentenza 12.01.2016 n. 27, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Brescia.
Intangibilità irragionevole - Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile dopo il niet della Soprintendenza: eccessivo il diniego integrale di sanatoria, annullato il provvedimento adottato dallo sportello unico delle attività produttive del comune. Una barriera di piante, per esempio, ben potrebbe scongiurare i riflessi del sole dai pannelli alla strada.
In effetti la Soprintendenza non considera che vicino all'immobile «incriminato» esistono altri impianti fotovoltaici, peraltro di grandi dimensioni. E lo riconosce anche il comune. È vero: si tratta di installazioni che risultano al di fuori della zona sottoposta al vincolo paesistico, mentre il fabbricato dell'interessato viene considerato un punto di riferimento nella zona, che costituisce un continuum agricolo.
Ma non sarebbe ragionevole imporre l'immodificabilità di una piccola porzione del territorio solo perché si trova più vicina a un corso d'acqua, quando strutture di grande impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine, che pure appartengono allo stesso contesto agricolo.
Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 09.02.2016).
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MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività e l’ammissibilità del ricorso, si ritiene che l’impugnazione degli atti presupposti possa avvenire contestualmente alla presentazione del ricorso contro l’ultimo atto della serie (nello specifico, il diniego di sanatoria paesistica emesso dal Comune);
(b) dopo la notifica dell’ordinanza di rimozione, infatti, il ricorrente aveva l’alternativa tra l’immediata impugnazione in sede giudiziale e la ricerca di una soluzione in via amministrativa, attraverso la procedura di accertamento di conformità paesistica. Avendo scelto la seconda strada, il ricorrente poteva legittimamente attendere la pronuncia finale del Comune.
La circostanza che il parere della Soprintendenza sia, contemporaneamente, un atto endoprocedimentale e una decisione vincolante può consentire un’impugnazione immediata, quando vi sia un interesse ad anticipare i tempi del giudizio, ma non crea un onere in questo senso.
La certezza del diritto sulla posizione dell’amministrazione è in ogni caso collegata all’atto che formalmente chiude la procedura, la quale prima di tale momento potrebbe avere sviluppi ulteriori e diversi, qualora il Comune o il privato sottoponessero alla Soprintendenza elementi nuovi non considerati nel parere negativo;

(c) passando al merito, occorre sottolineare che
l’installazione di pannelli fotovoltaici è attualmente incentivata, e resa obbligatoria per i nuovi edifici, in coerenza con l’obiettivo di interesse nazionale del passaggio alla produzione di energia da fonti rinnovabili (v. art. 11 del Dlgs. 03.03.2011 n. 28);
(d) pertanto,
non è più possibile applicare ai pannelli fotovoltaici categorie estetiche tradizionali, le quali porterebbero inevitabilmente alla qualificazione di questi elementi come intrusioni (v. TAR Brescia Sez. I 04.10.2010 n. 3726). Occorre invece focalizzare l’attenzione sulle modalità con cui i pannelli fotovoltaici sono inseriti negli edifici che li ospitano e nel paesaggio circostante;
(e)
valutazioni più conservative, ma non necessariamente ostative, sono ammissibili in relazione ai beni immobili dichiarati o qualificati ex lege di interesse culturale (v. parte seconda del Dlgs. 42/2004) e in relazione agli edifici, o insiemi di edifici, per i quali sia riconosciuto uno specifico valore paesistico (v. art. 136, comma 1-b-c, del Dlgs. 42/2004), nonché a proposito degli edifici che negli strumenti urbanistici risultino espressamente sottoposti a particolari forme di tutela;
(f)
quando il vincolo sia essenzialmente di natura ambientale, come nel caso in esame, l’osservazione si sposta invece dal singolo edificio allo scenario nel quale l’edificio è inserito. Le valutazioni circa la compatibilità paesistica dei pannelli fotovoltaici non possono quindi basarsi sulle caratteristiche costruttive, per tutelare una presunta conformità a modelli edificatori tradizionali, ma devono limitarsi a stabilire se le innovazioni, percepite nel contesto, siano fuori scala o dissonanti;
(g)
diventa quindi decisiva non tanto la superficie dei pannelli fotovoltaici ma la qualità dei lavori di inserimento nella falda. Sotto questo profilo, la relazione tecnico-paesistica dell’ing. Co. evidenzia una significativa cura dei dettagli (colore scuro dei pannelli, assenza di cornice e di rialzi in falda, rispetto della morfologia del tetto);
(h) per quanto riguarda gli aspetti propriamente paesistici, e in particolare il rischio di alterazione del contesto agricolo, la Soprintendenza ha omesso di valutare l’indicazione fornita dal Comune, oltre che dal ricorrente, circa la prossimità di impianti fotovoltaici di grandi dimensioni.
È vero che si tratta di installazioni esterne alla zona vincolata, ma se l’edificio del ricorrente è visto come parte di un continuum agricolo, le caratteristiche assunte nel tempo dall’ambiente circostante dovrebbero comunque costituire un punto di riferimento. Non sarebbe infatti ragionevole imporre l’immodificabilità di una piccola porzione del territorio solo perché si trova più vicina a un corso d’acqua, quando strutture di grande impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine, appartenenti al medesimo contesto agricolo;
(i)
la Soprintendenza non ha poi applicato in alcun modo la regola della proporzionalità. Occorre infatti sottolineare che i pannelli fotovoltaici del ricorrente si fondono nell’edificio senza creare ingombro visivo sull’orizzonte, e possono essere schermati facilmente dai percorsi viari e dai punti di osservazione pubblici attraverso una cortina vegetale.
Per tutelare il paesaggio sarebbero state quindi sufficienti prescrizioni più dettagliate sulle misure di mitigazione, mentre appare eccessivo il diniego integrale di sanatoria.

10. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. La Soprintendenza conserva il potere, da esercitare entro 60 giorni dal deposito della presente sentenza, di formulare prescrizioni di dettaglio sulle misure di mitigazione.
11. La complessità delle valutazioni paesistiche e la presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti giustificano l’integrale compensazione delle spese di giudizio.