dossier
VINCOLO PAESAGGISTICO ED ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
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per il dossier sino al 2015
cliccare qui |
per approfondimenti vedi anche:
Regione Lombardia:
Piano Territoriale Regionale (P.T.R.)
<---> Regione Lombardia:
Piano Paesaggistico Regionale (P.P.R.)
* * *
MINISTERO dei Beni e delle Attività Culturali <--->
DIREZIONE Generale
Archeologica, Belle
Arti e Paesaggio
SEGRETARIATO Regionale del Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali per la Lombardia
SOPRINTENDENZA
città metropolitana di Milano <--->
Soprintendenza di
Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio, Varese <--->
SOPRINTENDENZA di
Bergamo, Brescia
<--->
Soprintendenza di Cremona, Lodi, Mantova |
anno 2023 |
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novembre 2023 |
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EDILIZIA PRIVATA:
F. Donegani,
Difformità edilizie e vincolo paesaggistico sopravvenuto: quale disciplina?
(13.11.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Il perimetro applicativo della sanatoria paesaggistica ex art. 167 D.Lgs.
n. 42/2004
Le strette maglie della sanatoria paesaggistica.
Le opere realizzate in assenza o in difformità della dovuta autorizzazione
paesaggistica possono essere sanate sotto il profilo paesaggistico, ma la
possibilità di sanatoria si scontra con la rigidità dell’art. 167, co. 4,
del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che ammette all’accertamento
di compatibilità paesaggistica i soli interventi che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati. (...continua). |
maggio 2023 |
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EDILIZIA PRIVATA: Paesaggio,
mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar
Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul
tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra
nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio
lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto
di tutela.
Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la
sentenza
02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso
presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina
di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico
paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva
installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la
produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano
presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la
legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano
di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un
impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano
settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al
terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria
dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla
copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria
lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa
mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato
abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con
richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le
opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza
di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il
ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio
di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite
senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari
ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere
realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal
ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione,
caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve
entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la
zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di
edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che,
secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto
avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche
inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano
espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni
contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i
giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio
piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili
dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con
riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
26.09.2023).
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SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel
secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si
sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria
dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di
titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025
del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari
destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato
disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001,
estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento
di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite
senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art.
6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque
presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro
all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in
primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR
Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio
lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013
dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto
inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei
pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben
diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito
tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe
ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
- l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “attività libera
edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di
titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
- l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di
edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono
eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni
legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza
e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle
pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche
(tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in
armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno,
visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare
i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica
di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici
e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti
(finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di
dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture
stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico,
canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature
tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro
sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale
ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o
da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a
mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico
accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo
idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e
posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova
conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in
atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse
inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia
il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal
ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione
temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e
restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di
presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato
realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per
abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella
categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur
in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di
“Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto”
(allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non
soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella
tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è
inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a
servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da
non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in
quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i
pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano
evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con
conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa
vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata
esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito
del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli
“interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo
stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla
realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe
ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità
dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento
rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal
Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine
di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il
semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è
soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile
poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione
di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una
comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9
del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi
pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di
far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica
dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la
conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la
carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente
in ordine al rilievo minimale dell’opera. |
anno 2022 |
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dicembre 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Linee
guida per l'integrazione del fotovoltaico in contesti di pregio storico e
paesaggistico
- Indirizzi per la progettazione e l'installazione di sistemi fotovoltaici
integrati nei contesti tutelati dal Codice dei beni culturali e del
paesaggio (D.Lgs. 42/2004) in Lombardia (dicembre 2022).
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Le linee guida per l'integrazione del fotovoltaico in
contesti di pregio storico e paesaggistico definiscono i primi criteri per
accompagnare l’integrazione dei sistemi fotovoltaici nel patrimonio edilizio
storico-architettonico e paesaggistico presente in Lombardia, con un focus
sui sistemi tecnologici innovativi BIPV (Building Integrated Photovoltaic).
Sono uno strumento utile per indirizzare le scelte progettuali
verso un corretto bilanciamento tra la tutela dei beni architettonici e del
paesaggio e le esigenze di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Le linee guida si rivolgono a tutti coloro che si confrontano con
scelte di trasformazione del territorio legate alle nuove forme di
infrastrutturazione energetica: dai professionisti, installatori e
produttori di impianti fotovoltaici agli enti preposti alla valutazione dei
progetti (Soprintendenze, Enti locali, Commissioni per il paesaggio), policy
makers e utenti finali.
Il documento è stato sviluppato nel contesto del progetto europeo
Interreg Italia-Svizzera BIPV Meets History per la creazione di una catena
di valore per il fotovoltaico integrato in architettura nel risanamento
energetico del patrimonio costruito transfrontaliero, che ha visto coinvolti
Eurac Research (capofila italiano), SUPSI – Scuola Universitaria
Professionale della Svizzera Italiana (capofila svizzero) e Regione
Lombardia.
Nelle linee guida sono stati trasferiti i risultati della ricerca
svolta nel corso del progetto e i contributi pervenuti dalle diverse
briefing sessions organizzate con vari stakeholders: Soprintendenze
Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Lombardia, Ordini professionali,
Pubbliche Amministrazioni, aziende produttrici di sistemi BIPV.
Per saperne di più
cliccare qui.
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Nelle "Linee guida" di cui sopra si fa presente, tra l'altro, a pag. 7 "...
che è in corso la revisione generale del Piano Territoriale Regionale,
comprensivo della componente paesaggistica (approvata con
dgr 17.10.2022 n. 7170)" la cui deliberazione non è stata pubblicata sul
BURL. |
settembre 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza comporta l’effetto
sospensivo, e non interruttivo, del termine di 45 giorni entro
cui esprimere il proprio parere ex art. 146 dlgs 42/2004.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può,
del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in
data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni,
di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò,
perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale
termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà,
dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la
formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a
dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione
dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della
Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le
contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte
ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo
del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per
rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a
decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi
ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non
interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la
lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al
contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di
integrazione documentale; il riferimento va:
- all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda
chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma
1 è sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
- all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere
ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva
comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è sospeso
fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e
comunque per non più di trenta giorni";
- all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è sospeso
per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
- all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11,
comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta sospeso
...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma
"... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la
disciplina primaria".
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere
di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a
decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione”.
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... per l’annullamento:
a- del diniego di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.lgs.
n. 42/2004 prot. n. 28738 del 07.07.2022, notificato in pari data, del
Comune di Capaccio Paestum ad “Oggetto: Diniego di autorizzazione
paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.l. relativo all'istanza presentata dalla sig.ra Ga.Iv. nata a
... (SA) il ... in qualità di legale rappr. della
società "Ma.Gr. Srl' con sede in Capaccio Paestum (SA) al Viale
..., per la realizzazione di lavori di "Demolizione e
ricostruzione con aumento di volumetria di fabbricato esistente ai sensi
della Legge Regionale n. 19 del 28.12.2009 e ss.mm.li." in località Capaccio
Scalo, sull'area identificata in catasto al Foglio di Mappa n. 23,
particella n, 69” nella parte in cui rigetta la istanza di autorizzazione
paesaggistica;
b- del parere contrario della Soprintendenza Archeologia Belle Arti
e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, prot. n. 13896-P del
17.06.2022 -così come citato dal Comune di Capaccio Paestum- e assunto al
protocollo del Comune di Capaccio Paestum n. 26030 del 21.06.2022 (prot.
pratica n. 34.43.04/165.567 Soprintendenza), notificato in data 05.07.2022, ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo
- Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai
sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione
con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione
sito in località Capaccio Scalo" Piano Casa DITTA: GA.IV. legale
rappresentante di MA.GR. S.R.L. PARERE CONTRARIO” nella parte in
cui nega alla società ricorrente la autorizzazione paesaggistica richiesta;
c- ove occorra, della Comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990
della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di
Salerno e Avellino (prot. Soprintendenza –così come citato dal Comune di
Capaccio Paestum– n. 10493-P del 10.05.2022; prot. Comune di Capaccio
Paestum n. 20452 del 10.05.2022) ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM
(SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di
autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del
22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di
"Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un
fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” Piano Casa
DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L.
"Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza" (L.
07.08.1990, n. 241 - art. 10-bis)”;
...
La società ricorrente, con il ricorso in epigrafe, notificato in data 28.07.2022 e depositato in pari data, deduceva in fatto:
- di aver presentato in data 30.12.2020 al Comune di Capaccio
Paestum una richiesta di permesso di costruire, con contestuale istanza di
autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004,
per lavori di “Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del
35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo”
in applicazione del Piano Casa L.R. 19/2009 così come modificata dalla L.R.
1/2011, utilizzando tecniche costruttive conformi alle normative in zona
sismica, materiali eco compatibili e miglioramento delle prestazioni
energetiche;
- che, in esito all’istruttoria comunale veniva predisposta la
relazione tecnica illustrativa con proposta favorevole ai sensi dell’art.
146, comma 7, D.lgs. n. 42/2004, con relativo parere favorevole della
Commissione Locale per il Paesaggio;
- che, in data 04.11.2021 il Comune inoltrava, con nota pervenuta
il 12.11.2021 e acquisita al protocollo il 15.11.2021, la richiesta di
autorizzazione paesaggistica in oggetto per il parere preventivo della
Soprintendenza ai sensi dell’art. 146, comma 5, del D.lgs. n. 42/2004;
- che, in data 21.12.2021 la Soprintendenza formulava una richiesta
di integrazioni, riscontrata dal Comune in data 17.03.2022, con nota
pervenuta il 25.03.2022 e protocollata il 04.04.2022;
- che, in data 10.05.2022 la Soprintendenza trasmetteva al Comune
la comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della Legge
n. 241/1990;
- che l’Amministrazione provvedeva a notificare a mezzo Messo
comunale il preavviso di rigetto;
- di aver trasmesso, in data 07.06.2022, le osservazioni in merito
al suddetto preavviso di rigetto, rappresentandone l’illegittimità;
- che, in data 05.07.2022 il Comune notificava a mezzo Messo
comunale il parere contrario della Soprintendenza del 17.06.2022 e, in
data 07.07.2022, notificava il diniego di autorizzazione paesaggistica
adottato in considerazione del parere contrario della Soprintendenza.
A sostegno del gravame venivano articolati i seguenti motivi di diritto:
A. SULLA ILLEGITTIMITÀ DEL PARERE DELLA
SOPRINTENDENZA.
I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
Si deduceva l’illegittimità del parere negativo della Soprintendenza in
quanto fondato su motivazioni non esplicitate nel preavviso di rigetto, il
quale conteneva formule vuote, atecniche, che non consentivano alla società
di sviluppare un contraddittorio completo e proficuo.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5 E 8, D.LGS. N.
42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A.
DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO
DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968,
N. 1444.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
VIOLAZIONE
E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità delle ragioni poste a fondamento del parere
della Soprintendenza, in quanto manifestamente illogiche, fondate su dati
erronei e comunque carenti sotto il profilo istruttorio.
In particolare, la Società ricorrente rappresentava, tramite relazione
tecnica allegata, che “il parere contrario da parte della Soprintendenza
sia totalmente infondato ed errato in quanto il progetto in questione:
- E' conforme sia ai vigenti strumenti urbanistici e sia in
applicazione della L.R. N. 19 del 28.12.2009, modificata dalla L.R. n. 1 del
05.01.2011 e ss.mm.ii.;
- Prevede la riduzione del rischio sismico e del risparmio
energetico in conformità alle vigenti disposizioni di legge;
- E' fortemente contestualizzato rispetto al centro cittadino di
Capaccio Scalo, e non è certo distonico, così come definito dalla
Soprintendenza:
- Promuove una tipologia edilizia moderna, capace di rispondere
agli standard qualitativi necessari che con le dovute personalizzazioni è
già presente sul territorio, risultando già stata assentita”.
B. SULLA ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO DEL
COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM.
I. ILLEGITTIMITÀ IN VIA DERIVATA.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5, 8 E 9,
D.LGS. N. 42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A.
DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO
DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968,
N. 1444.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità derivata del provvedimento di diniego, in quanto
fondato esclusivamente sul parere contrario della Soprintendenza.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 8 E 9, D.LGS. N.
42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17-BIS L. N. 241/1990.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ECCESSO DI
POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva che, il parere della Soprintendenza doveva ritenersi non
vincolante in quanto tardivo e, conseguentemente, doveva essere
autonomamente e motivatamente valutato dal Comune nel provvedimento di
diniego; pertanto, il diniego di rilascio, fondato esclusivamente sul tale
parere, risultava illegittimo.
Altresì si seduceva la mancata motivazione del provvedimento di diniego
anche con riguardo al parere favorevole della Commissione per il Paesaggio.
...
Il gravame è in parte manifestamente inammissibile e in parte manifestamente
fondato e pertanto può essere deciso con sentenza in forma semplificata.
Innanzitutto, il ricorso va dichiarato inammissibile quanto all’impugnativa
del parere della Soprintendenza.
Come da consolidata giurisprudenza amministrativa “Il parere espresso
dalla Soprintendenza oltre il termine di quarantacinque giorni previsto
dalla legge perde la propria normale vincolatività degradando a parere non
vincolante. Quindi, l'Amministrazione procedente deve, a quel punto,
valutarlo criticamente e motivatamente” (ex multis, TAR Campania-Napoli Sez. III, sent. 14.01.2021, n. 275).
Nel caso di specie, non vi è possibilità di dubbio circa la (incontestata)
tardività del parere.
Invero, la richiesta di parere è pervenuta il 12.11.2021 (v. all. 2 del
fascicolo di parte resistente); la Soprintendenza ha richiesto integrazioni
in data 21.12.2021 e il Comune ha riscontrato la richiesta con nota
pervenuta il 25 marzo (v. all. 6 e 9 del fascicolo di parte resistente).
Successivamente, in data 10.05.2022 la Soprintendenza ha trasmesso al
Comune di Capaccio Paestum la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 e,
non ritenendo sufficienti le osservazioni presentate dall’odierna
ricorrente, ha adottato il parere negativo in data 17.06.2022, notificato a
mezzo Messo comunale in data 05.07.2022 (v. all. 8 e 11 del fascicolo di
parte resistente).
La tardività discende, in particolare, dall’effetto sospensivo e non
interruttivo della richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può,
del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in
data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni,
di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò,
perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale
termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà,
dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la
formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a
dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione
dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della
Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le
contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte
ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo
del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per
rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a
decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi
ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non
interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la
lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al
contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di
integrazione documentale; il riferimento va:
- all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda
chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma
1 è sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
- all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere
ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva
comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è
sospeso
fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e
comunque per non più di trenta giorni";
- all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è
sospeso
per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
- all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11,
comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta
sospeso ...") il
quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di
rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la
disciplina primaria" (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 1542 del
23.06.2021).
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere
di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a
decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione” (TAR
Campania, Salerno, sez. II, sent. 29.11.2021, n. 2589).
Ne deriva che il ricorso è inammissibile in parte qua, poiché censura
un parere non avente natura provvedimentale
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 05.09.2022 n. 2325 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica –
Istanza – Verifica preliminare in ordine alla necessità del
titolo – Fase successiva – Solo in caso di esito positivo.
L’amministrazione competente al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, una volta ricevuta
l’istanza, verifica preliminarmente la necessità del titolo,
accertando che non si versi in quelle tipologie di
interventi per i quali l’art. 149, comma 1, la esclude.
Il controllo, sotto il profilo formale, che la
documentazione allegata all’istanza sia conforme a quanto
prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e quindi dal d.P.C.M.
12.12.2005, attuativo della norma primaria), sopraggiunge in
una fase successiva e può comportare la richiesta
all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o
insufficienza di quanto prodotto, delle opportune
integrazioni utili al fine dell’effettuazione degli
«accertamenti del caso».
...
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica –
Intervento per il quale è richiesto il titolo – Preclusione
assoluta – Arresto del procedimento in fase preliminare al
vero e proprio giudizio di compatibilità.
Laddove l’intervento per il quale è
richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell’area di
riferimento, il procedimento deve arrestarsi ad una fase
preliminare rispetto al vero e proprio giudizio di
compatibilità paesaggistica.
Invero il senso fatto proprio dal tenore letterale delle
parole, che impone «gli accertamenti del caso» in funzione
del rispetto della regolamentazione vincolistica, implica
innanzi tutto uno screening preventivo destinato a sfociare
in un immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni
di merito si palesino del tutto superflue, per la radicale
inammissibilità tipologica dell’attività edilizia: ciò del
resto risponde a elementari ragioni di economia
procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la
Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità,
allorquando non sussista alcuna possibilità di realizzare
alcunché (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.07.2022 n. 6180 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
se richiesto, il giudizio di compatibilità paesaggistica non va effettuato,
se l’opera ne è esclusa.
---------------
●
Paesaggio – Autorizzazione paesaggistica – Intervento escluso -
Compatibilità paesaggistica – Giudizio – Esclusione.
●
Edilizia – Sanatoria – Accertamento di conformità - Ulteriori opere edilizie
– Rilascio condizionato – Inammissibilità.
●
L’amministrazione richiesta del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica,
ove verifichi preliminarmente che l’intervento ne è escluso ai sensi
dell’art. 149, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, non deve effettuare alcun
giudizio di compatibilità paesaggistica.
●
L’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380
del 2001 non può essere subordinato all’esecuzione di ulteriori opere
edilizie, anche se finalizzate a ricondurre il manufatto nell’alveo della
legalità, ponendosi ciò in contrasto con gli elementi strutturali
dell’istituto, che presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la
loro attuale conformità alla disciplina urbanistica (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.07.2022 n. 6180 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
8.1. La censura è infondata, seppure con le precisazioni che seguono.
8.2. Ha affermato il TAR che la legittimità del provvedimento impugnato
consegue alla radicale inammissibilità dell’intervento richiesto (cambio di
destinazione d’uso dell’immobile, previa demolizione del manufatto in
lamiera, ricostruendolo non in legno, come previsto dal titolo, ma in
muratura) sulla base del regime giuridico contenuto nel PUT, nel PRG e nella
l.r. Campania n. 19 del 2009.
8.3. Il terreno su cui insiste il manufatto ricade infatti in zona
territoriale “1b” del PUT dell’area sorrentino-amalfitana ed in zona
omogenea “E2/1” del PRG, con riferimento alla quale è in generale preclusa
qualsivoglia nuova edificazione. Uniche attività ammesse, pur sempre sul
patrimonio immobiliare preesistente, sono quelle di manutenzione ordinaria,
straordinaria e, entro certi limiti, di restauro conservativo (art. 17 del
PUT), ai cui paradigmi non può in alcun modo essere ricondotta un’attività
di demolizione totale e successiva ricostruzione in muratura con conseguente
cambio di destinazione d’uso da agricola a residenziale.
9. L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 disciplina il procedimento di
autorizzazione degli interventi di trasformazione del territorio aventi
l’attitudine ad incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui
rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica,
tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica”
delle opere.
Rispetto alla previgente disciplina, contenuta nell’art. 7 della legge n.
1497 del 1939, si riconosce che la norma persegue una protezione più ampia,
non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o
rilevanza estetica, approntando una strumentazione giuridica finalizzata
alla salvaguardia del complesso di interessi che sono considerati
manifestazione di valore identitario, di sedimentazione culturale,
attrattività turistica e riferimento di un territorio, derivanti da
interventi antropici e naturali, nonché dalla loro interazione.
Sotto tale profilo non può non condividersi la enfatizzata autonomia, da
parte dell’appellante, del titolo paesaggistico rispetto a quello edilizio,
anche nella parte in cui quest’ultimo esprime i valori di ordinato sviluppo
del territorio sottesi alle scelte urbanistiche attuate nei singoli
provvedimenti di pianificazione; il che del resto ha trovato pieno conforto
nella giurisprudenza, secondo cui l’autorizzazione paesaggistica non deve
indulgere alla valutazione della compresenza di qualsiasi altro interesse
pubblico, anche di analoga valenza, quale la tutela dell’ambiente (v. Cons.
Stato, Sez. IV, 29.03.2021, n. 2640).
9.1. Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la Regione,
ovvero l’ente dalla stessa delegato, vale a dire, nella maggior parte dei
casi, i Comuni. Essa deve previamente acquisire il parere vincolante del
Soprintendente, il quale si pronuncia entro un termine indicato, diverso per
estensione e significatività laddove si tratti di autorizzazioni c.d. “semplificate”,
ovvero riferibili agli interventi minori oggetto del d.P.R. 13.02.2017, n.
31 (cui l’appellante, come già ricordato, pretende di ricondurre anche
quello di cui è causa).
10. Esula dalla presente controversia ogni indagine sulla natura co-gestoria
del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (questione
che ha dato adito a significativi dibattiti, anche in ragione della recente
novella costituzionale, circa gli effetti del silenzio o del tardivo
esercizio del potere della Soprintendenza, nonché in ordine all’an e
al quomodo dell’applicazione degli istituti di cui agli artt. 17-bis
e 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990, quest’ultimo introdotto dalla
l. n. 120 del 2020), giacché le relative problematiche attengono al piano
del perfezionamento e sviluppo del procedimento, non a quello del momento
del suo avvio, che costituisce l’oggetto della fattispecie.
10.1. Ciò posto, si osserva che il procedimento diretto al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica comporta che l’amministrazione competente,
una volta ricevuta l’istanza, verifichi preliminarmente la necessità del
titolo, accertando che non si versi in quelle tipologie di interventi per i
quali l’art. 149, comma 1, la esclude.
Il controllo, sotto il profilo formale, che la documentazione allegata
all’istanza sia conforme a quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 146 (e
quindi dal d.P.C.M. 12.12.2005, attuativo della norma primaria),
sopraggiunge in una fase successiva e può comportare la richiesta
all’interessato, in caso di rilevata carenza e/o insufficienza di quanto
prodotto, delle opportune integrazioni utili al fine dell’effettuazione
degli «accertamenti del caso». In concreto quindi l’amministrazione è
chiamata a verificare «la conformità dell’intervento proposto con le
prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse
pubblico e nei piani paesaggistici».
Non può ragionevolmente negarsi che laddove l’intervento per il quale è
richiesto il titolo sia precluso in assoluto nell’area di riferimento, il
procedimento debba arrestarsi ad una fase preliminare rispetto al vero e
proprio giudizio di compatibilità paesaggistica. Invero il senso fatto
proprio dal tenore letterale delle parole, che impone «gli accertamenti
del caso» in funzione del rispetto della regolamentazione vincolistica,
implica innanzi tutto uno screening preventivo destinato a sfociare in un
immediato rigetto laddove più approfondite valutazioni di merito si palesino
del tutto superflue, per la radicale inammissibilità tipologica
dell’attività edilizia: ciò del resto risponde a elementari ragioni di
economia procedimentale che impongono di non onerare inutilmente la
Soprintendenza di un’attività priva di qualsiasi utilità, allorquando non
sussista alcuna possibilità di realizzare alcunché.
10.2. Il che è quanto si è verificato nel caso di specie e di cui era ben
consapevole anche l’appellante, stante che le osservazioni inoltrate dal
progettista in riscontro al preavviso di diniego non lambiscono in alcun
modo l’ambito paesaggistico, ma si dilungano piuttosto sulla assentibilità
urbanistica dell’opera, in ragione della rivendicata consistenza di “edificio”
preesistente della baracca oggetto del condono.
11. Il cambio di destinazione d’uso “strutturale” o con opere è stato
peraltro richiesto non avanzando istanza di permesso di costruire, nella
evidente consapevolezza che non ne era possibile il rilascio, bensì in
variante al “progetto” migliorativo costituente il presupposto di
assenso della sanatoria e dunque in variante rispetto alla stessa.
11.1. E’ appena il caso di sottolineare al riguardo che in linea generale
l’apposizione di condizioni al rilascio di un titolo edilizio è ammissibile
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione
dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che
strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di
legge o di regolamento. Non è invece possibile laddove si intenda con le
stesse perseguire finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato
–legato allo svolgimento dell’attività edificatoria– così da
funzionalizzarlo ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal
legislatore.
11.2. A ben diverse conclusioni si deve invece giungere con riferimento alla
apponibilità di “prescrizioni” al titolo edilizio rilasciato in sanatoria.
Va al riguardo ricordato che col termine “sanatoria” vengono
tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e
finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi
si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua
realizzazione. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria”,
consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera
è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo
stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento
della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia
conformità”).
La genesi dell’istituto risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (art. 13), che
ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta
nella l. 28.01.1977, n. 10, ed è oggi trasfusa nell’articolo 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda,
sostituito in alcune Regioni dalla presentazione di una s.c.i.a. La parola
“condono” invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non
figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica
ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di
situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una
sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie
penale identificabile nella relativa costruzione.
11.3. Con riferimento all’accertamento di conformità o sanatoria ordinaria,
per come oggi definita dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la tesi
ostativa alla apposizione di condizioni muove dall’assunto che il
presupposto espressamente richiesto dalla norma è che l’intervento da sanare
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione
della domanda.
Il divieto di contenere prescrizioni è diretto corollario di tale cornice
giuridica, poiché altrimenti si finirebbe per postulare non già la “doppia
conformità” delle opere abusive richiesta dalla norma, ma una sorta di
conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e quindi
non esistente né al momento della realizzazione delle opere, né al tempo
della presentazione della domanda di sanatoria, bensì –eventualmente– solo
alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato alle
stesse (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4176, secondo cui «alla
luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di una
concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie,
anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto
nell’alveo della legalità», atteso che «contrasterebbe
ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità,
i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro
integrale conformità alla disciplina urbanistica»).
12. Il Comune di Massa Lubrense, che ha evaso solo nel 2017 l’istanza del
1986 ai sensi della l. n. 47 del 1985, ha finito per richiamare nelle
premesse della sanatoria del 2017 tutte le normative relative (anche) ai
successivi condoni del 1994 e del 2003: ma sempre di condono e non di
accertamento di conformità si tratta.
Pur non potendo estendere al caso di specie le considerazioni ostative
connesse al requisito della doppia conformità, in quanto non operante,
l’approccio alla facoltà di apporre condizioni ad una sanatoria non può non
essere egualmente cauto, in quanto esse comunque accedono ad un titolo che
presuppone l’avvenuta ultimazione dell’opera.
Il condono, cioè, al pari di qualsivoglia sanatoria e proprio in quanto
tale, non può essere utilizzato per legittimare attività edilizia nuova ed
ulteriore rispetto a quella oggetto della richiesta, da porre in essere in
epoca successiva al limite temporale che la legge prende di volta in volta
in considerazione quale precondizione perché possa farsi in concreto
applicazione dell’istituto clemenziale.
Esso va a sanare sul piano giuridico (nel concorso delle condizioni
previste) una situazione di fatto costituita dalla presenza di opere
edilizie già realizzate sine titulo ovvero con variazioni essenziali
rispetto allo stesso, che altrimenti non potrebbero essere utilizzate, e
costituisce la soluzione alternativa rispetto alla demolizione in funzione
del ripristino dell’ordine urbanistico-edilizio violato.
Tuttavia, proprio in ragione di tale finalità, che implica l’“accettazione”
di un’opera, la cui compatibilità col contesto non è stata previamente
vagliata, non si è mai radicalmente escluso che il provvedimento di
sanatoria possa congiuntamente abilitare l’interessato alla realizzazione di
interventi di mero completamento del fabbricato abusivo, inteso esso in
accezione rigorosamente restrittiva, ovvero senza incrementi volumetrici o
di superfici, al solo fine di rendere possibile l’ordinaria utilizzazione,
conformemente alla sua destinazione d’uso, ovvero per mitigarne l’impatto
paesaggistico, rendendolo maggiormente coerente con il contesto ambientale.
Tale genere di interventi (normalmente di natura edilizia, ma non solo, ove
si pensi, ad esempio, alla semplice piantumazione di nuove essenze arboree)
non potrebbero essere scissi, già sul piano logico-funzionale, dal titolo in
sanatoria, che anzi viene rilasciato solo a condizione che essi siano
realizzati, conformemente al progetto presentato.
La nozione di completamento funzionale implica tuttavia uno stato di
avanzamento nella realizzazione dell’immobile tale da consentirne
potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini
l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile
nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è
richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura,
copertura e muri di tamponatura), ma anche una sua riconoscibile e
inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la
destinazione d’uso (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.02.2019, n. 1190).
13. A tali evenienze sono state così ricondotte le condizioni miranti a
migliorare -recte, più semplicemente a rendere “accettabile”–
l’impatto visivo di manufatti che per la loro risalenza nel tempo, la
tipologia di materiali utilizzati, la totale incuria manutentiva, avrebbero
finito per cristallizzare, ove mantenuti nel loro status quo ante,
situazioni di vero e proprio degrado urbano.
Da qui le “condizioni” di “ricostruire” l’immobile sanato
utilizzando materiali più consoni, o diverse rifiniture o semplicemente
tinteggiature, indebitamente assorbendo, in verità, nel titolo la parte ad
esso intrinsecamente consona di “congelamento” dello stato di fatto
preesistente, con un’attività di sostanziale riedificazione, la cui
legittimazione ex ante è tutt’affatto scontata non foss’altro che per
la possibile sopravvenienza di vincoli.
Il tutto, evidentemente, purché il volume da condonare non sia riferibile ad
una struttura la cui fatiscenza o livello di ammaloramento o finanche
consistenza originaria è tale da non consentirne neppure la qualificazione
come “immobile”, e dunque, più in generale, quale “edificio” o
“manufatto” che dir si voglia, valorizzandone la sostanziale
precarietà ai fini di un ipotetico diniego del titolo.
13.1. E’ evidente pertanto che nell’utilizzare tali condizioni
l’amministrazione deve ricercare con attenzione il giusto punto di
equilibrio tra comprensibili esigenze di funzionalità e miglioramento
estetico-qualitativo riconducibili al dato di fatto della conseguente
legittimazione del mantenimento del manufatto in sito, e portata sanante del
titolo, che proprio in quanto tale deve essere rivolta esclusivamente al
passato, pena la compromissione dei più elementari principi di certezza del
diritto, che non consentono “fluttuazioni” dello stato di fatto ad
esso sotteso.
13.2. Ben diversa è la disciplina del “completamento funzionale” di
un intervento abusivo espressamente previsto del legislatore, che all’art.
43, comma 5, della l. n. 47 del 1985, consente appunto la sanatoria di
un’opera che non si è potuto completare «per effetto di provvedimenti
amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e
ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità».
Non avendo la norma utilizzato il consueto riferimento alla “ultimazione”
delle opere, ne è evidente l’applicabilità anche a manufatti non completi al
rustico ovvero mancanti delle sole finiture, purché più genericamente “realizzati”.
«Il che può dirsi anche se difettano le tamponature esterne, nei termini
in cui questo risultato consenta comunque di percepire la concreta
fisionomia del manufatto e la sua destinazione, cioè di identificare nei
tratti essenziali l’opera da sanare e completare» (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 16.05.2022, n. 3806; id., 09.01.2014, n. 39).
Va peraltro ricordato come essa trovi applicazione anche nel caso in cui
esistano provvedimenti sanzionatori, non ancora eseguiti, adottati a seguito
di giudizio di ottemperanza (art. 12-bis del d.l. 12.01.1988, n. 2,
convertito, con modificazioni dalla l. 13.03.1988, n. 68).
14. La concessione in sanatoria della baracca di cui è causa è stata dunque
“condizionata” sia alla (peraltro richiesta) sostituzione degli
originari pannelli in lamiera metallica con tavolato ed assiti di legno e
successiva copertura di tegole del tipo a coppi napoletane su struttura
lignea e/o di ferro, sia imponendo una riduzione volumetrica. Il tutto sulla
scorta anche dei pareri rilasciati dalla Soprintendenza per i beni
ambientali di Napoli, il cui contenuto, richiamato per relationem,
costituisce parte integrante della descrizione dell’intervento.
Il Comune tuttavia ha inteso interpretare tali “condizioni” non come
sostanzialmente contestuali al condono medesimo, in quanto diretto effetto
dello stesso, bensì come indicazioni progettuali, richiamando perfino la
tempistica di avvio e di successiva ultimazione dei lavori così da
introdurre un’indebita promiscuità di regime giuridico rispetto ad un vero e
proprio permesso ordinario. Da qui l’equivoco –recte, la
strumentalizzazione– della prospettiva “aperta” del titolo da parte
dell’appellante, che ne ha addirittura tentato la variante in corso d’opera.
15. L’avvenuto utilizzo di “condizioni” in un condono, peraltro,
impone all’interprete la non facile ricerca delle possibili conseguenze
della loro inosservanza, in assoluto (si pensi alla configurabilità o meno
dell’ipotesi di illecito di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), del T.u.e.,
riferito all’inosservanza, tra l’altro, anche delle prescrizioni contenute
in un permesso di costruire, in verità ordinario), ma soprattutto in
relazione alla originaria validità e efficacia del titolo cui esse accedono.
La natura sostanzialmente dovuta del condono a condizioni date, porterebbe a
ritenere la condizione tamquam non esset, con conseguente efficacia
della sanatoria nella sua funzione originaria di legittimazione postuma di
quel che c’è, ove possibile per consistenza, e non di quello che sarebbe
stato meglio realizzare. A diverse conclusioni deve tuttavia giungersi
laddove il proprietario abbia spontaneamente deciso di dare avvio ai lavori
di adeguamento alla condizione imposta, con ciò trasformando l’abuso in un “cantiere”
e i lavori in “non ultimati”, sì da far venire meno, a maggior
ragione laddove la situazione si protragga nel tempo, i presupposti
dell’operatività del condono.
16. Nel caso in esame infatti, come già chiarito sopra, il Comune ha preteso
dalla proprietà una modifica dei materiali (agevolmente comprensibile nella
logica migliorativa poc’anzi esposta), nonché una (assai meno spiegabile)
riduzione volumetrica del manufatto, ma ha inteso anche imporre una
tempistica precisa di realizzazione dell’intervento, mutuata da quella del
permesso di costruire ordinario, ovvero 12 mesi per avviare i lavori e tre
anni per ultimarli.
Per quanto anomala tuttavia si presenti la sanatoria condizionata rilasciata
all’appellante dal Comune di Massa Lubrense, la sua immutata natura di
titolo di legittimazione postumo si palesa ontologicamente incompatibile con
l’ipotizzata variazione di una (inesistente) progettualità già assentita.
16.1. Ai fini della riconducibilità delle modifiche ad un progetto assentito
a semplice s.c.i.a. in variante, la normativa (art. 22, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001) richiede espressamente che esse non abbiano inciso sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificato la destinazione
d’uso e la categoria edilizia, alterato la sagoma dell’edificio, nonché che
non siano state violate le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Requisiti tutti insussistenti nella fattispecie in esame,
dichiaratamente volta ad una modifica di destinazione d’uso tra categorie di
sicuro impatto urbanistico diversificato, per giunta “camuffando”
quale “modifica” (variante, appunto) la sostanziale inosservanza
delle prescrizioni costruttive imposte.
L’intera operazione configurerebbe piuttosto, ove accessiva ad un permesso
di costruire ordinario, una variazione essenziale dallo stesso, come tale
necessitante di autonomo titolo edilizio, ovviamente non conseguibile nelle
zone di cui è causa. Mentre le varianti in senso proprio, infatti,
comportano modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante
consistenza rispetto ad un progetto approvato, e sono per tale ragione
soggette al rilascio di un titolo complementare e accessorio, anche sotto il
profilo temporale della normativa operante, rispetto a quello originario; le
varianti essenziali si caratterizzano per l’incompatibilità
quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai
parametri indicati dall’art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, e pertanto per
esse, soggette comunque al rilascio di permesso di costruire nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario, valgono le disposizioni vigenti al
momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III,
27.02.2014, n. 34099).
In base alla norma infatti, si è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione per conformazione, strutturazione, ubicazione, nonché, per
quanto di specifico interesse, destinazione. Il che è quanto si configura
nel caso di specie, ove in luogo della baracca ad uso agricolo che si va a
demolire si vorrebbe realizzare non un manufatto eguale per destinazione, ma
migliorato per materiali (legname, anziché lamiere), ma addirittura una casa
di abitazione, come tale necessariamente in muratura.
17. Tali considerazioni sono ben sintetizzate nel corpo del provvedimento
impugnato, laddove si afferma che le opere che si vorrebbero realizzare, «sebbene
richieste come variante alla concessione edilizia (condono) n. 58/17, di
fatto, sono relative alla trasformazione di una baracca costituita da
pannelli in lamierato metallico (lamiere zincate), sorrette da una struttura
lignea in pali di castagno, di cui si prevede la totale demolizione con
successiva ricostruzione di un manufatto in muratura, con cambio di
destinazione d’uso in abitazione», senza che peraltro si sia neppure
ipotizzato l’utilizzo di materiali lignei, dato che la variante, presentata
a pochi giorni di distanza dalla comunicazione di inizio lavori, pare
conseguire ad un disegno originario, piuttosto che porre rimedio a
difficoltà esecutive o mutamenti di fatto sopravvenuti.
18. Quanto alla “modifica di destinazione d’uso” deve poi osservarsi
come essa non costituisca una tipologia di intervento edilizio ex se,
bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non
figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite
negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma
1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente
rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico
urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso
originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità
immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione
contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla
successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle
destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali
e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono
comunque rispettare).
L’art. 10 del medesimo Testo unico a sua volta nel declinare gli interventi
subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito
di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso
di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò
conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente
funzionale, o senza opere, quanto meno laddove si risolva comunque in un
impatto sul carico urbanistico della zona.
18.1. Le categorie di destinazione urbanistica sono state introdotte a
livello nazionale col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l.
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.11.2014, n.
164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per
l’edilizia, al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del
territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente
contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di
oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti.
La disposizione, che riduce a cinque le categorie previste (residenziale;
turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale)
individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati
da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante”
il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non
accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”).
All’interno di tali distinzioni generali l’identificazione delle categorie
avviene ad opera della legislazione regionale e ancor più in dettaglio negli
strumenti urbanistici comunali.
18.2. Il cambio di destinazione d’uso che consegue ad una demolizione
integrale con successiva ricostruzione, configurando o una nuova costruzione
o una ristrutturazione, necessita di titolo edilizio autonomo e non può in
alcun modo essere assentito in variante, men che meno a concessione in
sanatoria. Anche sotto tale profilo pertanto l’intervento di cui trattasi
non era assentibile.
19. Resta da dire della pretesa riconducibilità dell’intervento al già
richiamato regime di favore contenuto nel c.d. “Piano casa”, ovvero
la l.r. n. 19 del 2009, che consente il recupero del preesistente patrimonio
immobiliare rurale a prescindere dal sopravvenuto regime di inedificabilità
dei suoli.
Al riguardo deve richiamarsi, in linea con la giurisprudenza che ha marcato
una netta distinzione fra pianificazione urbanistica e paesaggistica, la
derogabilità soltanto della prima da parte della legislazione regionale in
materia di c.d. “Piano casa” (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. III,
10.01.2020, n. 14242, ove, nel richiamare la giurisprudenza amministrativa,
si afferma che, in ragione della gerarchia esistente fra pianificazione
paesaggistica e pianificazione urbanistica, l’intervento del piano-casa può
in generale limitatamente incidere sul solo profilo urbanistico e non anche
su quello paesaggistico).
Secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost.,
sentenze n. 51 del 2006 e n. 308 del 2013), nell’esercizio delle proprie
competenze in tema di edilizia ed urbanistica le Regioni, finanche a statuto
speciale, non possono travalicare i vincoli posti dal legislatore nazionale
attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme
economico-sociali”, anche sulla base del titolo di competenza
legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei
beni culturali”, ora ricondotta anche ai principi generali (art. 9,
comma 3, recentemente novellato), di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio
quanto della tutela dei beni ambientali o culturali.
A ciò consegue che le disposizioni della l.r. n. 19 del 2009 non possono
essere lette nel senso di consentire di edificare in deroga al vincolo
paesaggistico.
20. L’art. 6-bis, in particolare, specificamente invocato dall’appellante,
nel disciplinare gli interventi edilizi in zona agricola, ammette i
mutamenti di destinazione d’uso di immobili o di loro parti, purché «regolarmente
assentiti», per uso residenziale del proprietario dell’immobile o di chi
abbia titolo a richiederli.
Nel caso di specie, ammesso e non concesso che alla luce delle
considerazioni svolte l’immobile possa considerarsi ancora “regolare”,
esso non esiste neppure sul piano fattuale, atteso che per realizzarlo si
ipotizza la demolizione totale della preesistente baracca in lamiera,
condonata (solo) purché realizzata in legno.
In sintesi, sia perché la baracca non può, o non può più considerarsi «regolarmente
assentita», come richiesto dalla norma, sia perché essa, proprio in
quanto tale, non è assimilabile ad un edificio ad uso anche parzialmente
residenziale, cui alludono gli artt. 4 e 5 della l.r. n. 19 del 2009,
richiamati dall’art. 6-bis, non è in alcun modo ipotizzabile una
preesistenza tale da consentirne il recupero in funzione abitativa.
21. Né può ritenersi tale ricostruzione estranea al contenuto motivazionale
dell’atto impugnato, siccome affermato dal primo giudice, che ha inteso
valorizzare al riguardo l’intervento chiarificatore della difesa civica.
Lo stesso infatti reca un esplicito richiamo alla l.r. n. 19 del 2009,
ritenendola inapplicabile «in quanto le caratteristiche costruttive e
tipologiche della struttura oggetto di intervento (baracca costituita
dall’assemblaggio di pannelli in lamiere di carattere su struttura in pali
in legno), non sono riconducibili alla definizione di immobile con le
caratteristiche di “edificio “ai sensi dell’art. 2 e succ. previste dalla
richiamata legge R.C. n. 19/2009».
La Parte II del medesimo atto, dedicata alla confutazione delle
controdeduzioni di parte, riportando testualmente il contenuto definitorio
dell’art. 2, lett. b), della medesima legge regionale, ribadisce come una
baracca non possa essere parificata ad un “edificio residenziale”,
nella logica di recupero del patrimonio rurale preesistente, né in senso
ancor più lato a qualsivoglia “edificio”, non attagliandosi alle sue
modalità costruttive nessuno dei sistemi individuati dall’art. 54 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
In che misura tale affermata sostanziale inconsistenza strutturale avrebbe
dovuto impattare sulla valutabilità della stessa domanda di condono è
questione che esula dal perimetro dell’odierna controversia (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.07.2022 n. 6180 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Vincolo
alle ville vesuviane indipendentemente da chi ne sia il proprietario.
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Beni culturali – Vincolo – Ville vesuviane.
Le ville vesuviane incluse nell’elenco approvato con
d.m. 19.10.1976 costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da
chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della
tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante
accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che la l. n. 578/1971, per identità di
finalità e funzioni, si pone come normativa speciale rispetto a quella
generale, in tema di tutela dei beni culturali, dettata dalla L. n.
1089/1939 e successivamente dai D.Lgs. nn. 490/1999 e 42/2004.
La previsione degli interventi e sussidi pubblici e dei particolari obblighi
di fare espressamente contemplati dalla L. n. 578/1971 (artt. 14 e segg.),
logicamente presuppone l'insistenza di quelli di non fare di cui alla legge
generale e delle specifiche tutele da questa accordate ai beni culturali (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 06/05/2013, n. 2420).
Nell'impostazione della menzionata legge speciale, la natura culturale del
bene deriva, dunque, direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate
dall’apposta commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco
delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del Ministero ai
sensi del menzionato art. 13, comma 3.
Dalle esposte considerazioni discende, pertanto, che le ville vesuviane
incluse nel suddetto elenco, nella specie approvato con D.M. 19/10/1976 e
pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege,
indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini
dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti
beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse.
La Sezione ha poi chiarito che se è vero che lo stato di abbandono e degrado
in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a
vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa
tutela (Cons. Stato, Sez VI,
14/10/2015, n. 4747;
16/07/2015, n. 3560;
08/04/2015, n. 1779;
27/11/2012, n. 5989;
11/06/2012, n. 3401), ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a
causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle
caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza
culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nella specie,
ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione (che
potrebbe essersi verificata anteriormente all’imposizione del vincolo) e
l’estensione del vincolo (che pur potendosi logicamente estendere al
giardino non è determinato precisamente nella sua estensione e potrebbe
–ipoteticamente- esser fatto oggetto di eventuali approfondimenti collegati
ad un piano di recupero che esula però dall’oggetto del contenzioso e si
proietta in una futura azione amministrativa che non può in alcun modo
rilevare nel processo) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.05.2022 n. 3605 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Alla
Corte costituzionale la questione della natura giuridica dell’indennità
prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 (codice dei beni
culturali e del paesaggio).
Il Consiglio di giustizia amministrativa torna ad occuparsi della c.d.
indennità paesaggistica (dovuta in caso di accoglimento della domanda di
sanatoria paesaggistica), sottoponendo alla Corte costituzionale sia
l’annosa questione della reviviscenza di norme abrogate da una disposizione
già dichiarata incostituzionale, sia –sotto il profilo sostanziale– la
questione della natura giuridica dell’indennità prevista dall’art. 167,
comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio (di cui al d.lgs. n.
42 del 2004), vale a dire se si tratti di sanzione amministrativa o di mera
riparazione per il danno ambientale provocato.
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Ambiente – Regione siciliana – Vincolo paesaggistico sopravvenuto –
Sanzioni amministrative pecuniarie – Esclusione – Questione rilevante e non
manifestamente infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in
riferimento agli artt. 9, 117, secondo comma, lett. s), la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge della Regione
siciliana n. 17 del 1994, nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della
Corte costituzionale 08.02.2006, n. 39 –che fornisce un’interpretazione
autentica del disposto di cui all’art. 23, comma 10, della legge della
Regione siciliana n. 37 del 1985, secondo la quale, in caso di vincolo
paesaggistico apposto successivamente all’edificazione di un manufatto
abusivo, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie a
carico dell’autore dell’abuso–, in quanto appare violata la competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e
del paesaggio, con significativa alterazione del meccanismo delineato dal
legislatore statale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, così
come interpretato, da un lato, dalla richiamata
Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2,
comma 46, l. n. 662 del 1996 (…), che esplicita come, in caso di condono,
resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo
sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una
disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di
riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004 (1).
E’ altresì rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5,
comma 3, ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella formulazione che si ritiene
attualmente vigente, laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di
cui all’art. 167, comma 5,
d.lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico,
in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Ciò, in quanto la
norma censurata consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria
negativa in caso di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Altrettanto non avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a
fronte della medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del
paesaggio che non può essere difforme (2).
---------------
(1-2) I. – Con la sentenza (non definitiva) in rassegna
–nonché con le coeve sentenze non definitive
n. 215 e
n. 216- il C.g.a. torna ad interrogare la Corte costituzionale (si
vedano le precedenti decisioni 14.06.2021, nn. 532 e 533 la prima delle
quali oggetto della
NEWS US n. 68 del 09.08.2021 alla quale si rinvia per approfondimenti),
su una controversa disposizione di legge della Regione siciliana, l’art. 5,
comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994, già oggetto della
sentenza della Corte 08.02.2006, n. 39 (in Foro it., 2006, I, 2994, con
nota di FUZIO), ponendo –tra le altre cose– un interrogativo in tema di
reviviscenza di norme abrogate da disposizione dichiarata incostituzionale.
La questione concerne l’istituto della c.d. indennità paesaggistica,
disciplinato a livello nazionale dall’art. 167, comma 5, del codice dei beni
culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004), il quale dispone che il
proprietario, possessore o detentore dell’immobile, che –su sua domanda–
abbia ottenuto l’accertamento di compatibilità paesaggistica degli
interventi abusivamente realizzati, “è tenuto al pagamento di una somma
equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione”.
Nel giudizio dinnanzi al C.g.a. (come in quelli precedenti sopra citati)
viene in considerazione l’ipotesi del vincolo paesaggistico sopravvenuto,
imposto dalla legge n. 431 del 1985 (cosiddetta “Legge Galasso”)
successivamente alla realizzazione degli interventi abusivi (nella specie la
realizzazione di un appartamento posto al piano secondo, facente parte di un
edificio condominiale composto da cinque elevazioni nel Comune di
Agrigento). L’unica differenza in punto di fatto, rispetto ai citati
precedenti citati del C.g.a., è costituita dalla assenza della questione
inerente la trasmissibilità della sanzione agli eredi e della possibile
violazione, in tema, dell’art. 7 della
l. n. 689 del 1981.
II. – La fattispecie esaminata dal giudice rimettente si riferisce
ad una questione assai rilevante per la Regione siciliana (nonché per il
patrimonio paesaggistico nazionale e addirittura mondiale) quale è quella
degli abusi realizzati nella valle dei templi di Agrigento, zona soggetta a
vincolo solo a partire dal 1985.
La decisione della Corte costituzionale, sollecitata dal C.g.a., è destinata
a regolare numerose controversie tuttora pendenti (circa 80) presso il
medesimo plesso. Il giudizio di primo grado, deciso dal Tar per la Sicilia,
sezione I, con
sentenza 03.05.2021 n. 1423, aveva visto vittoriosa la parte privata,
con annullamento dell’ingiunzione di pagamento disposta nei suoi confronti.
Secondo il Giudice di prime cure, assumeva portata decisiva:
- l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove venne
edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino al
sopravvenire della l. n. 431 del 1985, c.d. legge Galasso);
- la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico al momento
in cui l’abuso venne commesso;
- la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente sull’area ove
venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai fini
dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza
del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando
l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed aver
argomentato sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1
della L. n. 689 del 1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della legge regionale
della Sicilia n. 17 del 1994.
Nella sentenza in commento il C.g.a. -come in quelle precedenti citate-
sostiene invece la tesi opposta, che esclude la natura di sanzione
amministrativa dell’indennità de qua. Da tale premessa si sviluppa il
ragionamento del giudice di appello che lo conduce a ritenere
imprescindibile, per la soluzione della controversia, l’applicazione della
normativa regionale in tema di indennità paesaggistica (nella formulazione
anteriore a quella dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 39 del
2006 della Corte, che oggi, secondo il C.g.a., rivive), sospettata di ledere
la Costituzione sotto il profilo della diminuzione del livello di protezione
ambientale che risulta garantito, per l’intero territorio nazionale, dalla
disciplina di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Per quanto concerne i passaggi salienti della decisione in rassegna, si
rinvia alla citata
NEWS US n. 68 del 2021 con particolare riferimento ai §§:
a) inerente il quadro normativo vigente;
b) sulle ragioni per cui l’indennità prevista dall’art. 167, comma
5, del d.lgs. n. 42 del 2004 non costituisce una sanzione amministrativa, ma
ha solo natura riparatoria del danno ambientale, con conseguente non
applicazione della legge n. 689 del 1981;
d) sulla questione del vincolo sopravvenuto alla realizzazione
delle opere;
e) sulle ragioni per cui, nel caso all’esame, il C.g.a. ritiene che
l’indennità paesaggistica prevista dall’art. 167, comma 5, del codice dei
beni culturali e del paesaggio sia effettivamente dovuta, soffermandosi
sull’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 17 del 1994 che –nel suo
testo originario, prima della sostituzione recata dall’art. 17, comma 11,
della legge regionale n. 4 del 2003– disponeva (con norma interpretativa del
precedente art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985) quanto
segue: “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è
richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo
sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva.
Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”. Di
modo che, in base all’ultimo periodo di detta disposizione, in Sicilia
sarebbe inibita l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso
di vincolo sopravvenuto. La disposizione regionale tuttavia secondo il
C.g.a. sarebbe tuttora vigente;
f) e h) sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge
regionale n. 17 del 1994 (nel testo originario e ritenuto tuttora vigente),
con particolare riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione che
inibisce l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di
vincolo sopravvenuto in relazione agli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s);
i) sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale del citato art. 5, comma 3, in relazione agli
artt. 3 e 97 Cost..
III. – Per completezza, in ordine al fenomeno della reviviscenza
delle leggi abrogate e degli effetti delle pronunce di incostituzionalità,
si veda anche la
NEWS US n. 62 del 20.07.2021 relativa alla sentenza non definitiva Cons.
Stato, sez. IV,
02.07.2021, n. 5078, alla quale si rinvia in particolare ai §§ j), m) ed
n) (CGARS,
sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 217 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
7. Il Collegio ritiene in via preliminare di illustrare l’ordine
espositivo con il quale verranno affrontate le questioni sottoposte al suo
scrutinio nel presente giudizio, anche in relazione alla decisione di
rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 3, della l.r. siciliana n. 17/1994.
8. Si premette che:
- il presente giudizio è uno dei tanti, numerosi, attualmente
pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad
oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in
Agrigento nella medesima area (con riferimento a due di tali fascicoli, come
meglio si chiarirà nel prosieguo della esposizione, questo CGARS ha disposto
con sentenza parziale ed ordinanza collegiale la rimessione delle cause alla
Corte Costituzionale: per numerosi altri, finora, è stata disposta la c.d. “sospensione
impropria”);
- non può essere messa in discussione l’assoluta peculiarità della
Valle dei Templi di Agrigento, espressione di una compenetrazione fra
profili archeologici, artistici, storici e dell’ambiente circostante che
attribuisce al sito il carattere dell’unicità: nel dicembre del 1997, nel
corso della 21a riunione annuale del Comitato del Patrimonio mondiale dell’Unesco,
tenutasi a Napoli (01-06.12.1997), è stata iscritta nella Lista del
Patrimonio mondiale dell’Umanità con la denominazione “Area Archeologica
di Agrigento” (il documento ICOMOS n. 831 descrive il sito e i
principali monumenti in esso contenuti).
9. Si premette altresì che nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n.
n. 99/2020 chiamato in decisione nella pubblica udienza del 05.05.2021:
a) questo CGARS, con ordinanza collegiale 23.10.2020 n. 976, ha
disposto una verificazione al fine di chiarire l’esatta collocazione
dell’immobile per cui era lite rispetto alla perimetrazione della “zona B”
di cui ai decreti ministeriali 12.06.1957, 16.05.1968 e 07.10.1971 ed al
successivo decreto del Presidente della Regione siciliana n. 91 del 1991,
nonché al precedente decreto Presidenziale 06.08.1966 n. 807 e in data
15.11.2020 il verificatore ha depositato la relazione di verificazione;
b) l’immobile per cui è causa è ubicato in area corrispondente a
quella oggetto della relazione di verificazione resa nell’ambito del
procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020;
c) nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 il
Collegio ha reso la
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 (ed in pari data,
nell’ambito di procedimento iscritto al r.g.n. n. 250/2019 il Collegio ha
reso la
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 533 del 14.06.2021);
d)alle argomentazioni sviluppate nel provvedimento r.g.n. n.
99/2020 sopra citato si farà ampio riferimento in seno al presente
provvedimento.
10. Ciò posto, si procede alla disamina delle questioni oggetto di scrutinio
nel seguente ordine:
a) in primis –al fine di perimetrare gli argomenti
effettivamente rilevanti- si esamina il primo (ed infondato, ad avviso del
Collegio) motivo dell’appello della difesa erariale;
b) successivamente si espone il convincimento del Collegio, in
punto di fatto, sul regime vincolistico dell’area in cui insiste l’immobile
per cui è causa (con reiezione della tesi della difesa erariale secondo cui
al tempo dell’abuso sarebbe stato già presente un vincolo paesaggistico o
che, comunque, il vincolo archeologico fosse “equipollente” a quello
paesaggistico);
c) immediatamente di seguito, sono rappresentate le conseguenze che
ciò comporta con riguardo all’odierno processo, qualificando la natura
giuridica della fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
d) sono quindi esposte le ragioni per cui si ritiene inapplicabile
alla fattispecie il disposto di cui all’art. 1 L. n. 689/1981;
e) infine, riassunte le ragioni della rilevanza della questione, è
esaminato il tema della non manifesta infondatezza della questione
concernente la compatibilità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della L.r.
siciliana n. 17/1994, considerato anche l’inquadramento giuridico di cui al
punto c).
11. In ossequio alla condivisibile ricostruzione di cui a Cass. civ., ss.uu.
11.12.2007 n. 25837 (secondo cui avrebbero sempre carattere decisorio, e
devono essere immediatamente impugnati ovvero essere oggetto di riserva di
impugnazione, i capi della ordinanza di rimessione che decidono nei sensi di
cui all’art. 279, comma 1, n. 4 c.p.c.) ed in linea con le prescrizioni di
cui all’art. 36, comma 2, c.p.a., a miglior garanzia delle parti del
processo, si provvederà a decidere le questioni di cui alle lettere da a) a
c) del superiore elenco con sentenza non definitiva, che tuttavia, al fine
di consentire la unicità di esame alla Corte costituzionale, non verrà resa
separatamente, ma unitamente alla ordinanza collegale di rimessione.
12. Ciò premesso, proprio al fine di sgombrare il campo da censure che
appaiono manifestamente inaccoglibili (e, insieme, per rendere manifesta la
rilevanza della questione devoluta con la ordinanza collegale di rimessione)
si esamina prioritariamente la seconda e subordinata censura contenuta
nell’appello principale, imperniata sull’asserita obliterazione della
circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava
l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico
(art. 59 l. n. 1089/1939).
12.1. Il motivo (come peraltro già chiarito ai capi 15.1. e 15.2 della
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 532 del 14.06.2021 ed ai capi 13 e 13.1 della
sentenza non
definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533
del 14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono) non è
fondato.
L’art. 59 l. n. 1089/1939 dispone, fra l’altro, che chi trasgredisce le
disposizioni contenute negli artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21 è tenuto a
corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla
diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione, se
la riduzione in pristino non è possibile.
L’obbligo di corrispondere la somma discende dall’effettuazione di attività
non consentite (o almeno non consentite in mancanza di autorizzazione) su
cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, che
appartengono a province, comuni ed enti e istituti legalmente riconosciuti o
che, pur appartenendo a privati, siano state oggetto di specifica notifica
ai sensi della stessa legge (artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21).
La L. n. 1089/1939 tutela quindi beni determinati, da essa non derivano
vincoli di zona o porzioni di territorio.
Nel caso di specie né le parti, né l’Amministrazione, hanno mai reso edotto
il Giudice di primo grado o questo Collegio della sussistenza di detto
vincolo specifico sul bene di proprietà dell’appellata, né risulta
altrimenti che esso sia mai stato apposto né gli atti amministrativi
impugnati vi hanno mai fatto riferimento.
Neppure sarebbe possibile traslare l’impianto normativo della L. n.
1089/1939 ai beni (in passato) oggetto di tutela ai sensi della L. n.
1497/1939, senza al contempo porre in essere una operazione ermeneutica
contra legem, in sfavor rei, e contraria alla lettera delle norme
invocate ed applicabili.
Il motivo è, all’evidenza, manifestamente infondato, armonicamente alle
conclusioni da tempo raggiunte dalla giurisprudenza amministrativa (ex
aliis Cons. St., VI, 12.11.1990 n. 951) in punto di distinzione
dell’impianto di cui alla L. n. 1089/1939 rispetto a quello di cui alla L.
n. 1497/1939.
13. Ciò rilevato, il Collegio ritiene a questo punto di doversi addentrare,
ai fini della trattazione del primo motivo dell’appello principale e della
rimessione alla Corte costituzionale, nell’inquadramento giuridico dei vari
aspetti che contraddistinguono l’applicazione dell’istituto di cui all’art.
167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994
al caso di specie.
13.1. Come brevemente chiarito nella parte “in fatto” della presente
decisione, il primo giudice ha accolto il ricorso di primo grado (anche
richiamando per relationem alcuni precedenti giurisprudenziali),
sulla scorta di un triplice argomentare fattuale e giuridico:
a) l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove
venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino
al sopravvenire della l. n. 431/1985, c.d. legge Galasso);
b) la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico
al momento in cui l’abuso venne commesso;
c) la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente
sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai
fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza
del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando
l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed argomentando
quindi sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della
L. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della L.r. n. 17/1994.
13.2. Quanto ai primi tre profili dell’iter motivazionale seguito dal Tar
(precedenti punti a, b e c) il Collegio ne condivide l’approdo e ritiene, di
converso, che le censure articolate dalla difesa erariale non meritino
condivisione.
13.3. Come emerge dalla verificazione effettuata nell’ambito del
procedimento r.g. n. 99/2020, cui si è prima fatto riferimento, e come
peraltro si darà conto brevemente alla luce dell’analisi dei testi normativi
susseguitesi, ritiene il Collegio che –per quanto paradossale ciò possa
sembrare tenuto conto delle peculiari caratteristiche e dell’evidente pregio
dell’area geografica in esame- sino al 1985 sull’area dove venne perpetrato
l’abuso non insisteva alcun vincolo paesaggistico, e che non possa neppure
seguirsi la difesa erariale (primo motivo dell’appello principale) laddove
questa sostiene che il vincolo archeologico sussistente potesse “parificarsi”
ad un vincolo paesaggistico (o, per dirla altrimenti ricomprendesse profili
paesaggistici).
13.4. Detta conclusione si spiega in ragione dell’evoluzione normativa
intervenuta in materia e delle circostanze di fatto che sono di seguito
illustrate.
13.4.1. Quanto alle circostanze di fatto, va premesso che le appellate hanno
dichiarato che il fabbricato è stato realizzato ed ultimato entro l’anno
1982, (e tale affermazione è rimasta incontestata) e che esso ricade
all’interno della zona perimetrata quale “Zona B” (anche tale
affermazione è rimasta incontestata dalla difesa erariale); ne discende
pertanto che le emergenze fattuali e giuridiche di cui alla verificazione
effettuata nell’ambito del processo r.g.n. 99/2020 sono perfettamente
traslabili alla presente fattispecie.
13.4.2. Ciò posto, l’evoluzione normativa può essere così riassunta:
- a seguito delle attività della Commissione provinciale per la
tutela delle bellezze naturali della Provincia di Agrigento, il Ministro
della pubblica istruzione, con decreto 12.06.1957 “Dichiarazione di
notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di
vista della città sulla Valle stessa, siti nell’ambito del comune di
Agrigento”, sottopose a tutela paesistica un’ampia zona del territorio
comunale;
- a seguito della “frana di Agrigento” venne approvato il
d.l. 30.07.1966 n. 590, "Dichiarazione di zona archeologica di interesse
nazionale della Valle dei Templi di Agrigento", convertito in L.
28.09.1966 n. 749;
- a distanza di sola una settimana il Presidente della Regione
Siciliana intervenne nella questione emanando il decreto presidenziale
06.08.1966 n. 807 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della
zona della Valle dei Templi e dei punti di vista del belvedere del comune di
Agrigento”, che sottopose una più ampia zona del territorio comunale a
vincolo paesistico;
- in esecuzione L. 28.09.1966 n. 749, di conversione del d.l.
30.07.1966 n. 590, venne emanato dal Ministero della pubblica istruzione di
concerto con il Ministero per i lavori pubblici, il decreto 16.05.1968, “Determinazione
del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, delle prescrizioni d’uso
e dei vincoli di in edificabilità” (c.d. Gui-Mancini) -poi modificato
dal decreto 07.10.1971 “Modifiche del decreto ministeriale 16.05.1968,
concernente la determinazione del perimetro della Valle dei Templi di
Agrigento, prescrizioni d’uso e vincoli di in edificabilità” (c.d.
Misasi-Lauricella)-, che vincolò e delimitò la Valle dei Templi, definendo e
suddividendo l’area vincolata in cinque zone, dalla A alla E, aventi
ciascuna specifica prescrizione, oltre ad avere introdotto (la
Misasi-Lauricella) il nulla osta della Soprintendenza ai BB.CC.AA. per la
realizzazione di infrastrutture urbanistiche;
- in data 17.08.1985 venne pubblicata nella G.U.R.S. la L.
10.08.1985 n. 37 “Nuove norme in materia di controllo dell'attività
urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive”,
il cui art. 25, “Parco archeologico di Agrigento”, prevedeva al comma
1, che “Entro il 31.10.1985, il Presidente della Regione, di concerto con
gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e
l'ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di
Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali,
provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco
archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei
confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere
della competente Commissione legislativa dell' Assemblea regionale siciliana”:
la delimitazione dei confini del Parco archeologico venne stabilita con il
decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91 “Delimitazione
dei confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento”
(c.d. Nicolosi), che fece coincidere il confine del Parco archeologico di
Agrigento con il confine della zona A –delimitata con l’art. 2 del decreto
ministeriale 16.5.1968 (c.d. Gui-Mancini) e poi modificato con decreto
ministeriale 07.10.1971 (c.d. Misasi-Lauricella)– e che ampliò anche la zona
“B”, includendo Cozzo S. Biagio, Contrada Chimento ed una zona a nord della
Contrada Mosè.
13.5. Quindi, in disparte il vincolo paesaggistico di cui alla legge Galasso
ed al successivo d.lgs. n. 42/2004, in base alla normativa vigente al tempo
della costruzione (1973/76), il manufatto oggetto di controversia era
sottoposto a vincolo archeologico in base al decreto 16.05.1968 e al decreto
07.10.1971, così come per il successivo decreto del Presidente della Regione
Siciliana 13.06.1991 n. 91.
Di converso deve considerarsi accertato che l’area non era soggetta a
vincolo paesaggistico all’epoca della costruzione, in quanto né il decreto
del 1968 né il decreto 07.10.1971 lo imponevano.
13.6. Il vincolo paesaggistico è quindi sopravvenuto rispetto alla
realizzazione del manufatto per cui è lite.
Così disattesa la tesi proposta principaliter dalla difesa erariale
secondo cui nell’area insisteva un vincolo paesaggistico al tempo della
commissione dell’abuso, il Collegio deve farsi carico dell’ulteriore
prospettazione critica contenuta nel primo motivo dell’appello, secondo cui
il vincolo archeologico imposto sull’area avesse una portata effettuale
identica ad un vincolo paesaggistico, e/o ricomprendesse quest’ultimo.
Come avvertito nella premessa, anche tale profilo critico non è persuasivo.
Osta, all’accoglimento di tale prospettazione:
a) la diversa natura dei due vincoli presi in considerazione;
b) il dato letterale: d.m. 16.05.1968;
c) in termini assorbenti, il chiaro dettato della sentenza della
Corte costituzionale 11.04.1969 n. 74.
Nel periodo storico che ha preceduto e accompagnato la realizzazione
dell’immobile abusivo (fra il 1968, anno dell’entrata in vigore del d.m.
16.05.1968, e l’anno 1973, di completamento dell’immobile abusivo)
l'efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti
dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai
sensi dell'art. 2, ultimo comma, della l. n. 1497/1939, l'elenco delle
località, predisposto dalla Commissione ivi prevista e nel quale è compresa
la bellezza di insieme, viene pubblicato nell'albo dei Comuni interessati
(Corte cost., 23.07.1997 n. 262).
Il vincolo è apposto attraverso un procedimento tipico, che si conclude con
un provvedimento finale costitutivo di obblighi (art. 7 l. n. 1497/1939) a
carico dei soggetti “proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi
titolo, dell'immobile il quale sia stato compreso nei pubblicati elenchi
delle località” ed è destinato a venire meno quando l'autorità preposta
alla approvazione definitiva rifiuti l'approvazione (anche parzialmente
eliminando l'efficacia rispetto a taluni immobili) ovvero intervenga una
successiva modifica dell'elenco suddetto.
La Consulta ha sottolineato (per differenza con il sistema introdotto dalla
l. n. 431/1985, ora contenuto nel d.lgs. n. 42/2004) che la l. n. 1497/1939
prevede una tutela diretta alla preservazione di cose e località di
particolare pregio estetico isolatamente considerate.
L'art. 2-bis del d.l. 30.07.1966 n. 590, convertito, con modificazioni,
nella l. 28.09.1966 n. 749, che ha dichiarato la Valle dei Templi di
Agrigento zona archeologica di interesse nazionale, e il successivo d.m.
16.05.1968 non solo fanno esplicito riferimento al vincolo archeologico ma
non incanalano detta qualificazione nell’alveo indicato dalla l. n.
1497/1939, così apponendo un vincolo avente una natura corrispondente a
quella dichiarata, appunto archeologica (e non paesaggistica).
Del resto la Corte costituzionale ha affermato che “l'art. 2-bis ha
disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all'autorità
amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un
fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966,
ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e
dell'interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell'evento”
(Corte cost. 11.04.1979 n. 64).
Il d.m. 07.10.1971, successivo a Corte costituzionale n. 74/1969, recante la
nuova perimetrazione del sito, non solo non scalfisce la tesi della natura
non paesaggistica del vincolo originariamente apposto alla Valle dei Templi,
ma ne avalla l’impostazione, laddove, nelle premesse, ravvisa la finalità
dell’intervento normativo nella volontà di consentire “le ricerche
archeologiche e le opere di restauro, sistemazione e valorizzazione della
zona archeologica e dei suoi monumenti, nonché le opere necessarie alla
custodia dei reperti antichi”.
13.7. Deve quindi concludersi che il vincolo archeologico imposto sull’area
non avesse una portata effettuale identica al vincolo paesaggistico e/o non
ricomprendesse quest’ultimo, non ricadendo l’immobile nel perimetro del
vincolo paesistico.
Pertanto il Collegio è convinto che anche tale prospettazione critica
dell’appello principale vada disattesa.
14. La superiore ricostruzione, quindi, è conforme a quella del Tar, in
punto di determinazione dell’assetto vincolistico dell’area ove è stato
perpetrato l’abuso ed al tempo dello stesso (sul punto anche Cass. pen., III,
04.09.2014 n. 36853).
14.1. Il Tar ha da ciò fatto discendere le conseguenze demolitorie censurate
dalla difesa erariale, ritenendo che la sanzione ex art. 167 d.lgs. n.
42/2004 vada ascritta nel novero delle sanzioni amministrative e che il
canone della irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal
comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994 impedisca di ritenere legittimo il
provvedimento impugnato.
14.2. Tale questione richiede una attenta, seppur sintetica, analisi, per la
quale è necessario inquadrare il provvedimento impugnato e l’indennità che
ne costituisce l’oggetto (analisi, questa, già svolta nell’ambito della
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 532 del 14.06.2021 e della sentenza non definitiva
parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del
14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono).
Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha qualificato l’indennità di
cui all'art. 15 l. n. 1497/1939 (trasfusa poi nell'art. 164 d.lgs. n.
490/1999, ed oggi nell'art. 167 d.lgs. n. 42/2004) come sanzione
amministrativa (Cons. St.: V, 24.04.1980 n. 441; 24.11.1981 nn. 700 e 702;
VI, 29.03.1983 n. 162; VI, 04.10.1983 n. 701; VI, 05.08.1985 n. 431; VI,
16.05.1990 n. 242, VI, 31.05.1990 n. 551; VI, 15.04.1993 n. 290; VI,
02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; IV, 12.11.2000 n. 6279; IV,
02.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II,
25.07.2020 n. 4755; CGARS: sez. cons. 16.11.1993 n. 452; sez. giur.
13.03.2014 n. 123; 17.02.2017 n. 58; 23.03.2018 n. 168; 17.05.2018 n. 293;
22.08.2018 n. 484; 29.11.2018 n. 958; 25.03.2019 n. 251, 20.03.2020 n. 198;
01.07.2020 n. 505; 03.07.2020 n. 527; Cass.: sez. un., 18.05.1995 n. 5473;
10.08.1996 n. 7403; 04.04.2000 n. 94; 10.03.2004 n. 4857; 10.03.2005 n.
5214), specificando in alcune occasioni che l’assenza di danno sostanziale
al paesaggio non esonera dalla sanzione, essendovi comunque sempre un danno
formale per aver edificato senza nulla osta paesaggistico (Cons. St., V,
01.10.1999 n. 1225; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386;
31.10.2000 n. 5828; IV, 27.10.2003 n. 6632; IV, 12.03.2011 n. 1359; V,
26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 27.05.2020 n. 4755).
Nondimeno, nell’ambito degli arresti richiamati, alla qualificazione
dell’indennità in discorso quale sanzione amministrativa pecuniaria non è
seguita l’integrale applicazione della disciplina sistematica di cui alla l.
n. 689/1981 (seppur nei “limiti di compatibilità” scolpiti sub art.
12) rinvenendosi almeno tre punti di frizione: l’irretroattività, il regime
della prescrizione e l’intrasmissibilità agli eredi ed aventi causa.
La sentenza oggi appellata, come già rilevato nella parte “in fatto”,
si sofferma soltanto sulla questione della sopravvenienza del vincolo, a
differenza di numerose altre, rese da altra qualificata giurisprudenza
amministrativa di primo grado e dal Consiglio di Stato (in particolare
sentenze rese dal medesimo Tar ed avverso le quali pendono circa ottanta
ricorsi in appello presso questo CGARS) ed a differenza di quella impugnata
nell’ambito del ricorso r.g.n. 99/2020, parimenti chiamato in decisione alla
odierna udienza pubblica e definito con la sentenza non definitiva parziale
ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021;
Il Collegio, deve segnalare quella che è –a suo avviso- un’incoerenza
sistematica notevole nella giurisprudenza “tradizionale”, che ritiene
che la fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta al novero
delle sanzioni amministrative e che alla stessa si applichi l’impianto di
cui alla legge 689/1981.
Giova precisare, in proposito, che assai sovente la giurisprudenza ha:
a) sostenuto tout court l’applicabilità l. n. 689/1981 (in quanto
si qualifica il provvedimento impugnato quale sanzione amministrativa) al
disposto di cui all’ art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
b) applicato le disposizioni della predetta legge n. 689/1981, in
punto di irretroattività (art. 1) e quanto al regime della prescrizione (art
28);
c) ritenuto inapplicabile il regime della citata legge n. 689 in
punto di intrasmissibilità agli eredi (art. 7), nella evidente difficoltà di
contrastare approdi pacifici della giurisprudenza amministrativa e penale
formatasi sull’ambulatorietà dell’ordine di demolizione (Cons. St., IV,
12.04.2011 n. 2266; IV, 24.12.2008 n. 6554; nonché Cass., III, 15.07.2020 n.
26334; III, 22.10.2009 n. 48925) e, -si può ipotizzare- nel convincimento
che l’affermazione di un simile principio renderebbe il precetto primario
facilmente eludibile.
14.3. In punto di inquadramento generale il Collegio ritiene, non solo per
la segnalata incoerenza intrinseca (che, semmai, è soltanto la “spia”
di una ricostruzione complessivamente non appagante: si veda peraltro la
uniforme giurisprudenza che esclude, sempre e comunque, l’applicazione
dell’art. 14 l. n. 689/1981 alla fattispecie in esame: ex aliis CGARS,
sez. giurisdizionale, 23.05.2018 n. 300) e sulla scorta di un più recente e
meditato orientamento giurisprudenziale (Cons. St., IV, 31.08.2017 n. 4109;
Id., II, 30.10.2020 n. 6678), che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5,
d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla
cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si
applichi la l. n. 689/1981.
14.4. L’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 stabilisce, al comma 1, la regola
generale per cui la violazione della disciplina paesaggistica contenuta nel
Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio
determina per il trasgressore l’obbligo di rimessione in pristino a proprie
spese.
Alla regola generale si sottrae la fattispecie di accertamento della
compatibilità paesaggistica disciplinata al successivo comma 4, ai sensi del
quale l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n.
380 del 2001.
A tal fine, in base al successivo comma 5:
- il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi presenta
apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi;
- l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine
perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
- qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore
importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione (l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa
perizia di stima) mentre in caso di rigetto della domanda si applica la
sanzione demolitoria.
Il detto comma 5 dell’art. 167 dispone altresì che “la domanda di
accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’art.
181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti
di cui al presente comma”, che disciplina, fra l’altro, il pagamento
della somma dovuta dal trasgressore.
Ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 il proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area
interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter (che coincidono con i
sopra riferiti interventi di cui all’art. 167, comma 4), presenta apposita
domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi e l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine
perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni
(con disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 167, comma 5).
14.5. Da quanto sopra discende che:
- l’istanza presentata dal proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti
interventi, avvia un procedimento avente due finalità connesse, essendo
volto all'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi e, nel contempo, se il risultato dell’attività di verifica è
positivo, alla comminatoria del pagamento della somma di cui al comma 5 del
predetto art. 167;
- la soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato (a vedere
riconosciuta la conformità paesaggistica del manufatto abusivo) porta con
sé, quindi, necessariamente, in funzione di contrappeso, la debenza della
somma;
- l’obbligo di corrispondere la somma sorge con l’adozione
dell’atto favorevole ma non è esigibile fino alla liquidazione
dell’ammontare (l’intervallo procedimentale successivo all’accertamento
della conformità ambientale è funzionale proprio, e solo, come si vedrà
infra, alla quantificazione del dovuto);
- nella prospettiva pubblicistica l’interesse paesaggistico è
perseguito superando, innanzitutto, l’alternativa fra, da un lato,
incompatibilità paesaggistica e riduzione in pristino (comma 1 dell’art. 167
d.lgs. n. 42/2004) e, dall’altro lato, compatibilità paesaggistica
dell’intervento ai sensi del comma 4 dell’art. 167 e debenza della somma di
denaro;
- al rigetto della domanda consegue quindi la misura
ripristinatoria per eccellenza, riposante nella demolizione (Cons. St., VI,
21.12.2020 n. 8171 e 15.04.1993 n. 290).
- diversamente, l’accertamento della compatibilità paesaggistica
determina, in ragione del principio di efficienza dell’intero sistema
(l’attuale conformità paesaggistica rende recessiva la precedente
irregolarità), il superamento della pretesa di assicurare il ripristino
dello status quo ante;
- la cura del relativo interesse impone comunque
all’Amministrazione di tenere in considerazione l’abuso commesso facendone
sopportare il costo (per la collettività, nei termini che si diranno
infra) al privato istante attraverso il pagamento di una somma di
denaro, quantificata, nei termini di cui al comma 5 dell’art. 167 d.lgs. n.
42/2004, previa perizia di stima, e avente anche una finalità
general-preventiva;
- i provvedimenti di accertamento della compatibilità paesaggistica
e di condanna al pagamento della somma di denaro, nonché di quantificazione
del dovuto, concorrono tutti alla cura del paesaggio e si pongono, fra loro,
in una relazione di necessarietà, nel senso che detto interesse pubblico è
adeguatamente amministrato solo in quanto siano adottati tutti;
- il collegamento pubblicistico fra le determinazioni
dell’Amministrazione (compatibilità paesaggistica, condanna al pagamento di
una somma di denaro e quantificazione dell’importo) è reso evidente dalla
disposizione che prevede che l’istanza presentata dal privato sia funzionale
non solo all’accertamento della compatibilità paesaggistica ma anche alla
quantificazione del pagamento della somma di denaro;
- l’obbligo di pagare la somma di denaro deriva dalla legge e
diviene attuale con l’accertamento positivo della conformità paesaggistica
dell’intervento (che invece, all’accertamento negativo, segue la riduzione
in pristino),
- segnatamente l’an della debenza è reso certo al momento
della verifica (positiva) di conformità paesaggistica del manufatto;
nondimeno, posto che esso non è ancora liquido, non è esigibile fino
all’avvenuta determinazione del quantum;
- la quantificazione della somma dovuta è connotata dalla cura
dell’interesse paesaggistico essendo effettuata infatti in base a una stima,
nel “maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”;
- a quest’ultima è riconducibile una duplice ratio;
- innanzitutto essa è funzionale alla cura dell’ambiente; in tal
senso il parametro di quantificazione prescelto non è avulso dalla necessità
di superare la prospettiva ripristinatoria, di per sé rinvenibile nella sola
riduzione in pristino, ed è riconducibile alla necessità di calmierare l’esternalità
negativa derivante dalla trasgressione paesaggistica, connessa ad un
interesse in parte adespota, anche in relazione alla sua connessione con il
valore dell’ambiente e delle esigenze di preservarlo alle generazioni
future;
- ciò è reso evidente dall’utilizzo delle somme ricavate per “l’esecuzione
delle rimessioni in pristino” e per “finalità di salvaguardia nonché
per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione
degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in
pristino” (comma 6 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e dalla
quantificazione della stessa in modo non avulso dalla trasgressione
commessa, dal momento che uno dei parametri è costituito dal danno arrecato;
- la precedente normativa infatti, contenuta nell’art. 15 l. n.
1497/1939, nel d.m. 26.09.1997, poi trasfuso nell’art. 164 d.lgs. n.
490/1999, qualificava l’indennità come risarcitoria, così evidenziandone la
funzione di compensazione della collettività dell’utilità perduta nel tempo
dell’abuso, valorizzando in modo astratto l’oggetto di tutela, l’interesse
paesaggistico, cioè considerandolo nel suo valore di scambio;
- in tal senso si può interpretare la recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato che delinea la condanna pecuniaria in esame come “sanzione
riparatoria alternativa” al ripristino dello status quo ante, così non
applicando la disciplina contenuta nella l. n. 689/1981 e, in particolare,
la norma sulla trasmissibilità agli eredi (Cons. St., VI, 21.12.2020 n.
8171; Id., II, 30.10.2020 n. 6678);
- il ripristino non deve, infatti, intendersi quale riaffermazione
della situazione precedente all’abuso (che l’istituto in esame è volto
proprio a superare) ma sta a indicare la finalità di risolvere, pro futuro,
l’intervenuta turbativa degli interessi, al fine di presidiare questi ultimi
(attraverso la debenza di una somma di denaro commisurata alla maggior somma
fra il danno prodotto e le connesse conseguenze profittevoli);
- nondimeno la corresponsione della somma di denaro svolge altresì
una funzione di deterrenza derivante dall’effetto afflittivo, del quale è
indice la terminologia utilizzata dal legislatore, che fa riferimento alla “sanzione”,
il criterio normativo di quantificazione, basato sul “maggiore importo”
tra il danno arrecato e il profitto conseguito, potenzialmente foriero di
una condanna per un importo superiore rispetto al pregiudizio economico
prodotto, e la stessa dinamica sottesa all’istituto di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004. La tenuta del sistema non può infatti essere messa in
pericolo da una sopravvenuta compatibilità ambientale, idonea, in tesi, a
far venir meno la precedente trasgressione, pena l’indebolimento del vincolo
paesaggistico, la cui violazione potrebbe essere percepita come non
decisiva, nella speranza che in futuro venga meno, così eliminando anche le
conseguenze della situazione antigiuridica antecedente;
- la portata afflittiva è comunque secondaria, considerata
l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione dei presupposti di applicazione
della condanna pecuniaria, dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa
(elemento determinante per qualificare una fattispecie come sanzionatoria
secondo l’Ad. Plen. 11.09.2020 n. 18) e dal fatto che la condanna pecuniaria
non costituisce una conseguenza diretta dell’illecito commesso;
- essa è infatti principalmente il portato di un provvedimento
favorevole (l’accertamento della compatibilità ambientale) di cui
costituisce il corollario e il contrappeso;
- la funzione della condanna pecuniaria di cui all’art. 167, comma
5, è, quindi, solo parzialmente riconducibile all’afflizione che connota sia
il danno punitivo (SS.UU. 05.07.2017 n. 16601 e 06.05.2015 n. 9100), sia la
sanzione amministrativa (fattispecie che richiedono entrambe una previsione
di legge, ai sensi rispettivamente dell’art. 25, comma 2, Cost. e dell’art.
23 Cost., nel caso di specie da rinvenirsi nella norma di legge appena
citata);
- nel complesso l’imposizione del pagamento della somma di denaro
ha quindi una finalità compensativa del danno prodotto e solo in parte
afflittiva;
- il relativo procedimento costituisce una manifestazione tipica di
potestà amministrativa, nell’ambito dei quale il cittadino versa in una
posizione di interesse legittimo e ciò anche considerando la sua componente
afflittiva (secondaria e servente), e diversamente rispetto all’esercizio
del solo potere punitivo da parte dell’Amministrazione, nel quale non vi è
ponderazione di interessi (Cass., I, 23.06.1987 n. 5489), essendo
ricollegato al vincolato accertamento, secondo la procedura di cui alla l.
n. 689/1981, del verificarsi concreto della fattispecie legale, cui
corrisponde il diritto soggettivo dell’intimato a non subire l’imposizione
di prestazioni fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, con
conseguente devoluzione delle relative controversie, in assenza di ipotesi
di giurisdizione esclusiva, al giudice ordinario (Cons. St., V, 24.01.2019
n. 587);
- dal punto di vista strutturale il procedimento in esame vede una
prima fase deputata a verificare la compatibilità paesaggistica (e la
connessa, e dovuta, condanna al pagamento della somma di denaro) mentre il
successivo intervallo temporale, finalizzato a quantificare l’importo, è
meramente servente, essendo necessario per rendere liquido ed esigibile
l’importo e quindi effettivo il rimedio (rispetto al precedente abuso)
dell’ordine di pagamento;
- al procedimento si applicano i principi dell’attività
amministrativa, pur considerandone il (parziale) carattere afflittivo: la l.
n. 241 del 1990 offre la regolamentazione di base di qualsiasi procedimento
amministrativo che non sia accompagnato da una normativa specifica; la l. n.
689/1981 non può essere applicata al di là della categoria delle sanzioni
amministrative pecuniarie (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548), “non può
che tornare a trovare applicazione quello generale di cui alla l. n.
241/1990” (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548) e, infatti, alle sanzioni
pecuniarie sostitutive di una misura ripristinatoria di carattere reale non
si applica la l. n. 689/1981 (CGARS, 09.02.2021 n. 95 e Cons. St., VI,
20.10.2016 n. 4400);
- la ragione dell’impostazione è rinvenibile nell’interrelazione
reciproca della doppia finalità, che non può andare a nocumento
dell’interesse pubblico che il provvedimento mira a tutelare dal momento che
-come già detto- prevalgono le istanze di cura di detto interesse (mentre la
potestà afflittiva è recessiva) e che in ogni caso entrambe le funzioni
assolte di cura del bene paesaggistico leso e di deterrenza, sono comunque
destinate da ultimo a tutelare l’interesse della collettività, alla quale,
in ultima istanza, è comunque preordinata anche la potestà punitiva dello
Stato: “La sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento
diverso da quello previsto dalla legge 07.08.1990, n. 241, che fa capo alla
l. n. 689/1981, è garantita dai principi di legalità, personalità e
colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla
Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè,
alcun limite di “merito” amministrativo), laddove alle sanzioni “altre” si
applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate
dalla legge generale sul procedimento amministrativo)” (Cons. St., V,
24.01.2019 n. 587).
15. Ciò posto, (con riferimento ai tre “punti di frizione” prima
delineati) si osserva che:
a) la questione della prescrizione non viene in rilievo nel
presente processo, in quanto non sollevata dalla parte originaria
ricorrente, (e comunque, sul punto, a soli fini di comprova della coerenza
della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si rinvia alla
sentenza di questo CGARS n. 95 del 2021, che perviene comunque alla
conclusione della prescrizione quinquennale, senza tuttavia fondarla
sull’art. 28 l. n. 689/1981);
b) parimenti la problematica della intrasmissibilità della sanzione
ad eredi ed aventi causa non viene in rilievo nel presente processo, in
quanto anch’essa mai sollevata dalle originarie ricorrenti (sul punto, a
soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva
patrocinata dal Collegio, si fa integrale riferimento ai capi da 18.1 a 18.3
della sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 532 del 14.06.2021 resa nell’ambito del procedimento
iscritto al r.g.n. n. 99/2020 e parimenti chiamato in decisione alla odierna
udienza pubblica);
c) assume invece rilevanza la tematica concernente
l’irretroattività del vincolo paesaggistico imposto sull’area (in ordine
alla quale si è prima chiarito, in punto di fatto, orientamento del
Collegio).
16. Affrontati, e ritenuti infondati, i motivi sopra esaminati (il secondo e
subordinato motivo dell’appello principale, e l’articolazione del primo
motivo dell’appello principale incentrata sulla preesistenza di un vincolo
paesaggistico rispetto al momento di commissione dell’abuso), non rimane al
Collegio che procedere nello scrutinio del primo motivo contenuto
nell’appello principale.
16.1. Con detta censura l’appellante amministrazione ha dedotto che il Tar
avrebbe commesso un errore fattuale, non ritenendo che alla data di
commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già)
interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico),
vigente sin dal 1971 (quindi precedente al vincolo introdotto dalla l. n.
431/1985).
16.2. Il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del
vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando
sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n.
689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 l.r. n. 17/1994.
16.2. Il Collegio ritiene, come già illustrato sopra, che fino alla l. n.
431/1985 l’area ove insiste immobile de quo non fosse gravata da alcun
vincolo paesaggistico.
16.3. Il caso in esame è quindi connotato da un vincolo paesaggistico
sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto abusivo (ultimata nel
1973/1976, come si evince dalla domanda di sanatoria).
17. Viene quindi in rilievo il tema, comune, come detto, a numerose altre
controversie pendenti presso il CGARS, dell’applicazione dell’art. 1 della
l. n. 689/1981 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994.
17.1. Come già motivato, il Collegio ritiene che l’indennità di cui all’art.
167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo
funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla
medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
Detta qualificazione dell’indennità in parola impone piuttosto di
considerare la normativa vigente al momento della pronuncia
dell’Amministrazione, in base alla regola generale (non applicabile
all’attività sanzionatoria in senso stretto) per cui la pubblica
Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe l’obbligo di
osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui
provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa
impone (Ad. Plen. n. 20/1999).
17.2. Declinando la suddetta norma di azione dell’Amministrazione nel
settore di interesse l’Adunanza plenaria ha affermato che, in base alla
disciplina nazionale (art. 32 della l. n. 47/1985, che fa riferimento ai
vincoli paesaggistici, e successivi interventi normativi, di cui all'art. 4
del d.l. n. 146/1985, all'art. 12 del d.l. n. 2/1988, dichiarato
costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 10.03.1988 n. 302, all'art. 2,
comma 43, della l. 23.12.1996 n. 662 e all’art. 1 l. n. 449/1997) e al
diritto vivente formatosi su di essa, la disposizione di portata generale di
cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti
all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa
deve “interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare
altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente” (Ad. Plen. n. 20/1999).
La giurisprudenza amministrativa successiva ha seguito la suddetta
impostazione (Cons. St., VI, 25.03.2019 n. 1960; 25.01.2019 n. 627 e
22.02.2018 n. 1121; IV, 14.11.2017 n. 5230). E ciò anche in relazione
all’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica del manufatto abusivo, comunque dovuta a livello nazionale,
indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o
risarcitoria. In tale ambito, pertanto, non si è ritenuto applicabile l’art.
1 l. n. 689/1981, anche (seppur con le contraddittorietà evidenziate sopra)
nei casi in cui l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004
è stata qualificata come sanzionatoria (con conseguente conferma
dell’opzione ermeneutica illustrata sopra che supera le contraddittorietà
della più risalente impostazione).
Il consolidarsi di tale orientamento –che il Collegio condivide- si spiega
anche in ragione del portato dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, che
esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al
paesaggio (di cui infra quanto ai rapporti con la normativa
regionale) e la giurisprudenza si è conformata (Cons. St., VI, 22.07.2018 n.
4617; Id., II, 02.10.2019 n. 6605).
Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento
impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento
consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare "la natura
chiaramente interpretativa”, in quanto "la sanzione paesaggistica va
fatta risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua
applicazione retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi
della legge n. 47/1985 in quanto la formula utilizzata ("qualsiasi
intervento realizzato abusivamente") lascia chiaramente intendere che il
perimetro applicativo della norma prescinde dall'epoca alla quale risale la
presentazione della domanda di condono, venendo invero in considerazione il
danno ambientale perpetrato invece che l'assetto procedimentale per il
conseguimento della sanatoria urbanistica (…). La natura interpretativa
della norma, quale espressione di un principio di autonomia tra sanatoria
edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione anche alla sanatoria
presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, nel 1990,
trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra procedimento
paesaggistico e procedimento edilizio” (Cons. St., II, 30.10.2020 n.
6678).
17.3. In considerazione della disciplina vigente in ambito nazionale,
quindi, ad avviso del Collegio:
a) non troverebbe applicazione, per le già esposte ragioni, l’art.
1 della L. n. 689/1981;
b) la controversia andrebbe decisa sulla base della legge vigente
al momento della pronuncia dell’Amministrazione, con la conseguenza che, in
presenza di un vincolo attuale (nel senso appena detto), l’indennità sarebbe
dovuta (e l’appello andrebbe accolto sul punto, con conseguente riforma
dell’impugnata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado).
17.4. Sennonché, pur essendosi esclusa l’applicabilità dell’art. 1 l. n.
689/1981, ai fini della compiuta disamina della tematica della
irretroattività occorre adesso confrontarsi con un’ulteriore disposizione
normativa di matrice regionale.
Nella Regione Siciliana viene, infatti, in evidenza l’art. 5, comma 3, l.r.
n. 17/1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’art.
23, comma 10, della l.r. 10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto”
alla sentenza della Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò
costituzionalmente illegittimo l’art. 17, comma 11, L.r. 16.04.2003 n. 4)
dispone che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del
vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il
vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera
abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che
inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di
vincolo sopravvenuto.
17.5. Il Collegio, prima di affrontare il tema della costituzionalità di
detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima
(sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni
riunite, 12.05.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una
duplice prospettiva.
17.6. Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del
Giudice delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non
opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il
ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze
imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a
interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di
certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema
delle fonti (Corte cost. 24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema
giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità
delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza
nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del
giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost.
24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, L.r. n. 4 del 2003 (“Il parere
dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della
concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il
vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera
abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla
osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini
della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto
successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo,
dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di
fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n.
17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia
di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo
sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta
paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto
inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad
essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente
illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella
sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata
dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la
seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato
addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come
autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione
costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che
ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione,
riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo
evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica
materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la
norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe,
disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della
Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica
successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro
legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno
l’esigenza interpretativa.
Il Collegio ritiene pertanto che sia tuttora in vigore la norma contenuta
nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla
sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in
considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di
detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza,
determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato
in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte
costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo
dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto
successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative
pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico
dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla
sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove
si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale
risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della
l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5,
comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale
di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto
all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.07.1999 n.
20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte
costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione
di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile
la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità
amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte
sulla reviviscenza.
17.7. In secondo luogo, il Collegio ritiene che l’art. 2, comma 46, l. n.
662/1996 (cui la giurisprudenza ha peraltro attribuito portata
interpretativa: così il già richiamato arresto, Cons. St., II, 30.10.2020 n.
6678), che esplicita che in caso di condono edilizio resta dovuta
l’indennità per danno al paesaggio (“Per le opere eseguite in aree
sottoposte al vincolo di cui alla l. 29.06.1939, n. 1497, e al d.l.
27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla l. 08.08.1985, n.
431, il versamento dell'oblazione non esime dall'applicazione dell'indennità
risarcitoria prevista dall'articolo 15 della citata legge n. 1497/1939”),
non abbia abrogato la disposizione regionale del 1994.
Ciò in quanto, in ambito di competenza legislativa esclusiva devoluta ad una
regione a statuto speciale (come è nella specie) ed in presenza di legge
regionale, la successiva legge statale (incompatibile) non supporta, fatta
salva l’ipotesi del rinvio dinamico, il sistema della successione delle
leggi nel tempo nel senso di ritenere implicitamente abrogata la legge
precedente il cui contenuto sia incompatibile con il disposto della fonte
primaria successiva: osta la competenza legislativa esclusiva della Regione
Sicilia (di cui infra) che impone di valutare non solo
l’incompatibilità ma anche la portata della successiva norma statale in
termini di norma nazionale di grande riforma, richiedendo la pronuncia sul
punto della Corte costituzionale.
Mentre l’ordinamento italiano devolve il primo profilo (relativo
all’incompatibilità) al giudizio diffuso degli operatori del diritto che si
trovino ad applicarla, non avviene così rispetto al secondo profilo di
valutazione (appartenenza o meno della norma statale alla categoria delle
norme di grande riforma), devoluto, anche in ragione della complessità che
lo connota, alla Corte costituzionale, anche nella prospettiva della
certezza del diritto.
Del resto “i due istituti giuridici dell'abrogazione e della
illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si
muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il
campo dell'abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della
illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia
abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più
limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una legge” (Corte cost. 14.06.1956 n. 1).
Il rapporto fra l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 e l’art. 2, comma 46, l.
n. 662 del 1996, non trovando soluzione nelle regole che governano la
successione delle leggi nel tempo, è quindi ricompreso nella questione di
legittimità costituzionale che si pone alla Corte costituzionale.
18. Ritenuto quanto sopra, il Collegio intende porre la questione di
legittimità costituzionale sull’art. 5, comma 3, della L.r. n. 17/1994, con
specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo
sopravvenuto (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del
vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il
vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera
abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”).
18.1. La questione è rilevante in ragione di quanto a più riprese
considerato ed in quanto, in costanza della norma regionale suddetta (e pur
essendo il Collegio persuaso che non trovi applicazione il disposto di cui
all’art. 1 l. n. 689/1981) nel caso di specie dovrebbe confermarsi la
pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento
dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la
realizzazione della costruzione abusiva.
Laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di
incostituzionalità (ovvero anche, semplicemente, laddove si ritenesse,
difformemente da quanto ipotizzato dal questo Giudice, che la predetta
disposizione non sia più in vigore in quanto implicitamente abrogata) il
Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di
primo grado.
Non può poi sottacersi la particolare rilevanza che assume la questione per
questo CGARS (oltre che per l’Amministrazione siciliana e i cittadini che
afferiscono al relativo territorio), atteso che il presente giudizio è uno
dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di
Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati
abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima
area.
19. Sembra evidente che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (nello stabilire
che l’art. 23, comma 10, l.r. n. 37/1985, debba essere interpretato nel
senso che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo
è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo
sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”,
dispone che “nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) sia
volto a impedire che dall’abuso derivino effetti negativi sul proprietario
dell’immobile allorquando il vincolo paesaggistico è successivo alla
realizzazione dell’abuso (e sembra altresì evidente che, in questa chiave di
lettura, tale esenzione ricomprenderebbe anche eredi ed aventi causa, che
altrimenti ci si troverebbe al cospetto di una illogicità incomprensibile:
l’autore dell’ abuso verrebbe “privilegiato” rispetto all’avente
causa di questi).
La voluntas legis regionale non pare, in tale prospettiva, attribuire
un ruolo decisivo all’uso del termine “sanzione”, ritenendosi
piuttosto che essa voglia impedire l’esborso di denaro, indipendentemente
dalla qualificazione di quest’ultimo.
Il termine sanzione delinea la conseguenza di carattere patrimoniale
derivante dall’aver realizzato un’opera abusiva ed è coerente con la
qualificazione attribuita all’epoca all’indennità in discorso.
In tal senso si ritiene che la possibilità di esperire un’interpretazione
costituzionalmente orientata, che, valorizzando l’utilizzo del termine “sanzione”,
ritenga non applicabile all’indennità di cui all’art. 167, comma 5, del
d.lgs. n. 42/2004 la norma regionale contenuta nell’art. 5, comma 3, della
l.r. n. 17/1994, non sia percorribile: osta il principio della certezza del
diritto. Il profilo emerge con evidenza se si considera la già richiamata
circostanza relativa all’attuale pendenza di ottanta giudizi di contenuto
analogo presso questo CGARS, così risaltando la rilevanza che assume il
connotato della certezza del diritto non solo per l’organo giurisdizionale
ma altresì per l’Amministrazione siciliana e gli abitanti del relativo
territorio.
Invero, a tacere del fatto che, se si interpretasse in tal senso la
disposizione regionale, si determinerebbe un’ipotesi di norma inutiliter
data, si aggiunge che l’art. 5 l.r., per come è stato costantemente
applicato, intende riferirsi, laddove utilizza il termine “sanzione”,
proprio all’indennità per danno al paesaggio
Si ritiene pertanto che la disposizione regionale della cui legittimità
costituzionale si dubita sia riferita all’indennità di cui all’art. 167,
comma 5, d.lgs. n. 42/2004 (indipendentemente dalla qualificazione di detta
indennità sulla quale ci si è prima soffermati, laddove si ritiene di avere
chiarito le ragioni per le quali il Collegio non la ricompresa nella
categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie normate dalla l. n.
689/1981).
Nondimeno il Collegio, pur ritenendo che detta qualificazione non abbia un
rilievo così determinante in punto di valutazione della non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ancorata alla
diversità di disciplina con la normativa statale in punto di abuso
paesaggistico (nei termini illustrati infra), come si dirà, non
ignora che la qualificazione dell’indennità in parola in termini di sanzione
amministrativa pecuniaria non è indifferente per il Giudice ad quem,
come si avrà modo di illustrare nel paragrafo 21.
19.1. Premesso ciò, la valutazione della non manifesta infondatezza si
articola innanzitutto nel senso che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994,
nella formulazione ritenuta vigente, viola la competenza legislativa
esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi degli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), della
Costituzione, in quanto determina una lesione diretta dei beni culturali e
paesaggistici tutelati, con la conseguente grave diminuzione del livello di
tutela garantito nell'intero territorio nazionale. La predetta norma
regionale interseca la disciplina sulla protezione del paesaggio (in quanto
provvede a delineare le conseguenze dell’abuso anche paesaggistico),
normativa che, a sua volta, rispecchia la natura unitaria del valore
primario e assoluto dell'ambiente, di esclusiva spettanza statale ai sensi
dell'art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione.
Ciò in quanto:
- ai sensi dell’art. 9, comma 2, Cost. la Repubblica tutela il
paesaggio e il patrimonio storico della Nazione;
- l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. attribuisce alla Stato la
competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali;
- l'art. 14, comma 1, lett. n), dello Statuto speciale della
Regione Sicilia, approvato con r.d.l. 15.05.1946 n. 455 e successive
modificazioni e integrazioni, riconosce una potestà legislativa esclusiva in
materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle
opere artistiche.
In merito alla materia del paesaggio si rileva che:
- l’art. 9 Cost. (la Repubblica “tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione”) ha costituito, in
combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost., l’asse portante per il
riconoscimento del diritto primario a godere di un ambientale salubre, e ciò
attraverso la lettura effettuata dalla Corte costituzionale nelle sentenze
n. 210 e n. 641 del 1987, poi consacrato nel 2001, con la riforma del titolo
V della Costituzione, attraverso i rinvii espressi ad ambiente ed ecosistema
introdotti dall’art. 117, secondo comma, lett. s);
- la nozione di paesaggio di cui all’art. 9 Cost. ha così assunto
una connotazione che partecipa sia dell’esigenza di cura di singoli beni,
quindi dei valori storici, culturali ed estetici del territorio, sia quella
di non pretermettere l’interesse alla tutela dell’ambiente, sia quell’attenzione
alla materia dell’urbanistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74 e 17.04.2015 n.
64);
- specularmente l’ampia nozione di ambiente, così come è stata
ricostruita specie dopo il 2001, ha una morfologia complessa, capace di
ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici, ma anche
i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo
originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e
territoriale (Corte cost. 30.03.2018 n. 66, punto 2.2. del Considerato in
diritto).
Detto ciò in punto di norme costituzionali di interesse nella presente
controversia si rileva conseguentemente, in relazione alle soggettività
coinvolte dalle suddette attribuzioni, che:
- la tutela del paesaggio non si identifica con una materia in
senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore
costituzionalmente protetto, integrante una materia trasversale (Corte cost.
17.04.2017 n. 77), sulla quale lo Stato esercita, in ragione della portata
ascensionale della sussidiarietà, istanze unitarie che trascendono l’ambito
regionale (Corte cost. 01.10.2003 n. 303);
- in molteplici occasioni, codesta Corte ha affermato che la
conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, comma
2, lett. s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato (Corte cost. 23.07.2018
n. 172);
- l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale
materia-obiettivo non implica una preclusione assoluta all'intervento
regionale, purché questo sia volto all'implementazione del valore ambientale
e all'innalzamento dei suoi livelli di tutela (sentenza 23.07.2019 n. 172,
punto 6.2. del Considerato in diritto e sentenza n. 178/2018, punto 2.1. del
Considerato in diritto; nello stesso senso sentenza Corte cost. 17.04.2017
n. 77, 16.07.2014, 24.10.2013 n. 246, 20.06.2013 n. 145, 26.02.2010 n. 67,
18.04.2008 n. 104 e 14.11.2007 n. 378);
- alle regioni non è consentito modificare gli istituti di
protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto
il territorio nazionale, “senza che ciò sia giustificato da più
stringenti ragioni di tutela” (Corte cost. 21.04.2021 n. 74);
- fra gli istituti di protezione ambientale che dettano una
disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, che alle
regioni non è consentito modificare, deve essere annoverata l'autorizzazione
paesaggistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74).
Con specifico riferimento alle competenze legislative delle regioni a
statuto speciale, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che il
legislatore statale, tramite l'emanazione delle norme di grande riforma
economico-sociale, “conserva il potere -anche relativamente al titolo
competenziale legislativo "nella materia 'tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali', di cui all'art. 117, secondo comma,
lettera s), della Costituzione, [...]- di vincolare la potestà legislativa
primaria delle regioni a statuto speciale" (sentenza n. 238/2013, punto
2.2. del Considerato in diritto).
Specularmente la Regione Siciliana, con specifico riferimento alla
competenza legislativa esclusiva attribuitale dallo Statuto speciale in
materia di paesaggio e di urbanistica, deve rispettare, oltre che, in
generale, i precetti costituzionali, anche le “norme di grande riforma
economico-sociale” poste dallo Stato nell'esercizio delle proprie
competenze legislative (Corte cost. 08.11.2017 n. 232 con riferimento alla
disciplina dell’accertamento di conformità).
A ciò si aggiunge che la definizione dell’ambiente quale materia trasversale
porta con sé consente l’attivazione, da parte dello Stato, istanze unitarie
che trascendono l’ambito regionale in ragione della portata ascensionale
della sussidiarietà (Corte cost. 01.10.2003 n. 303).
In ragione di quanto sopra si rileva che:
- la l. n. 431 del 1995 è stata qualificata in termini di legge di
grande riforma (Corte cost. 27.06.1986 n. 151), così come il d.lgs. n.
42/2004 (Corte cost. 29.10.2009 n. 272): il codice dei beni culturali “detta
le coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica affidata
congiuntamente allo Stato e alle regioni” (sentenza n. 66/18, punto 2.4.
del Considerato in diritto), in coerenza con i principi delineati supra
in tema di protezione del paesaggio e di tutela dell'ambiente e della
valenza della disciplina statale diretta a proteggere l'ambiente e il
paesaggio quale limite alla competenza legislativa in materia anche delle
regioni a statuto speciale;
- tale qualificazione discende dal fatto che il codice dei beni
culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004 impatta in modo
diretto sul valore primario e assoluto del paesaggio (“il paesaggio va,
cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che
superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (così
la sentenza 05.05.2006 n. 182), così come richiamato dall’art. 9 Cost. e
dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e ne delinea un nuovo assetto,
improntato a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione del
territorio nella prospettiva estetica e culturale, intesa in senso dinamico;
- l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004,
sulla quale è intervenuto l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 nei termini
sopra delineati, risulta, -in ragione della funzione riparatoria rispetto
all’esternalità negativa prodotta con l’abuso e in funzione
general-preventiva, di dissuasione-, direttamente connessa al valore
primario e assoluto che il d.lgs. n. 42/2004 attribuisce al paesaggio.
21. A fronte di ciò:
- la disciplina sul condono edilizio è organicamente regolamentata
in ambito nazionale prevedendo che l’accertamento postumo (nei termini
evidenziati sopra, nei paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) della compatibilità
paesaggistica sia accompagnato dal pagamento dell’indennità di cui all’art.
167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004;
- è stato già illustrato, come il pagamento della somma di denaro
connessa all’accertamento della compatibilità paesaggistica costituisca un
tratto fondamentale dell’istituto a livello di disciplina nazionale;
- come si è rilevato sopra, l’indennità connessa all’accertamento
postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo è dovuta in
ambito nazionale, anche se il vincolo paesaggistico è sopravvenuto rispetto
alla realizzazione dell’abuso (e ciò indipendentemente dalla qualificazione
della medesima come sanzionatoria o risarcitoria);
- ciò in ragione, da un lato, della richiamata Adunanza
plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dell’art. 2, comma 46, l.
n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro
attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di
condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio;
- l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nel prevedere che la sanzione
amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del
vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, si discosta
dalla disciplina nazionale sopra illustrata lasciando “scoperto” il
periodo precedente nel quale l’abuso è stato commesso ma l’accertamento di
compatibilità non è ancora avvenuto;
- in tal senso viene assicurata sul territorio siciliano una tutela
meno elevata del valore ambiente e paesaggio rispetto a quella garantita sul
rimanente territorio nazionale,
- in ambito siciliano, infatti, la conformità attuale alla
disciplina paesaggistica consente di superare il precedente abuso senza
ulteriori conseguenze negative, sicché viene meno il disvalore ambientale e
paesaggistico connesso a quest’ultimo, parificando la posizione di chi non
ha commesso abuso alla posizione di chi lo ha commesso ma ha ottenuto
l’accertamento positivo di conformità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004
solo dopo averlo realizzato;
- così non avviene, come si è già visto, sul rimanente territorio
nazionale, dove la tutela del paesaggio è presidiata a livello
general-preventivo anche attraverso il pagamento di un’indennità a copertura
delle conseguenze pregiudizievoli dell’abuso commesso;
- tale ultimo aspetto assume una particolare rilevanza nell’ambito
dell’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (come sopra già
illustrato), delineando un procedimento avente due prospettive, quella del
superamento di una situazione di non conformità formale alla disciplina
paesaggistica in seguito all’accertamento della compatibilità sostanziale
del manufatto (questo a presidio di un principio di efficienza e di scarsità
delle risorse che accomuna l’intero ordinamento giuridico e non solo la
prospettiva pubblicistica) e il contrappeso del pagamento di un’indennità in
funzione general-preventiva a presidio del rispetto ex ante delle
regole poste a tutela del paesaggio attraverso il pagamento dell’indennità
(che altrimenti viene meno la cogenza delle medesime, con conseguente
intaccamento del valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio);
- si è illustrato sopra come il procedimento e la posizione
dell’Amministrazione sul punto si giustifichi e trovi le ragioni del proprio
canone di azione solo nel bilanciamento fra i due aspetti sopra delineati e
come non possa esservi l’uno, senza l’altro.
L’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella formulazione che
si ritiene attualmente vigente (come sopra illustrato), laddove non consente
l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004
in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, contrasta, eccedendo
dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dall’art. 14, lett. n),
dello Statuto in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle
antichità e delle opere artistiche, con le norme di grande riforma
economico-sociale contenute nell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, con
conseguente violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Ciò in quanto comporta una significativa alterazione del meccanismo
delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e
paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata
Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2,
comma 46, l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha
peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso
di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di
vincolo sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una
disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di
riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004.
20.1. Il Collegio solleva altresì questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella ridetta
formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente
l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d.lgs. n. 42/2004
in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai
parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
Ciò, in quanto la norma censurata consente di eliminare qualsiasi
conseguenza pecuniaria negativa in caso di accertamento postumo della
compatibilità paesaggistica. Altrettanto non avviene invece sul restante
territorio nazionale, pur a fronte della medesima situazione di fatto e di
un livello di tutela del paesaggio che non può essere difforme (almeno verso
il basso, essendo, come già visto, consentito alle Regioni unicamente di
innalzare lo standard di tutela).
Nel meccanismo disegnato dalla norma regionale della cui costituzionalità il
Collegio dubita, la regolarizzazione del fatto lesivo per il paesaggio
(certamente sussistente al momento della delibazione dell’amministrazione
sulla domanda di condono) avviene senza alcuna conseguenza pregiudizievole
per il suo autore.
Dal che la considerazione che la disciplina qui censurata possa indebolire
l’efficacia deterrente del sistema delineato dall’art. 167 del d.lgs. n.
42/2004, così come interpretato dall’Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e
dall’art. 2, comma 46, della l. n. 662 del 1996, con conseguente
incentivazione a tenere il comportamento, confidando nella possibilità di un
adempimento successivo, in grado di superare l’illecito paesaggistico
commesso: così vanificando l’efficacia deterrente dell’istituto, con
conseguente irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso
pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione.
Né giustifica la diversità di trattamento del danno al paesaggio sul
territorio siciliano la prospettiva di un rapporto tra pubblica
amministrazione e consociati imperniato su uno schema
dialogico-collaborativo anziché oppositivo, che si tradurrebbe
nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato circa la
necessità di conformarsi al precetto, che imporrebbe la previa imposizione
del vincolo paesaggistico sull’area oggetto di abuso rispetto alla
realizzazione di questo.
L’argomentazione infatti non spiega la diversità della disciplina siciliana,
in quanto un’argomentazione analoga potrebbe articolarsi anche in relazione
al rimanente territorio nazionale.
A ciò si aggiunge, in senso inverso, che il valore del paesaggio giustifica
piuttosto, per i motivi sopra esposti, l’impostazione opposta.
Non sfugge, tra l’altro, che in riferimento all’ambito del diritto penale la
possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o
addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle
conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata
recentemente anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art.
162-ter del codice penale ad opera l. 23.06.2017, n. 103 (Modifiche al
codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento
penitenziario), che prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti
procedibili a querela soggetta a remissione –senza alcuna residua sanzione
per il trasgressore– quando, anche in assenza di remissione della querela da
parte della persona offesa, questi abbia riparato interamente il danno
cagionato dal reato ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o
pericolose di esso entro l’apertura del dibattimento di primo grado.
Nondimeno nel caso di specie il meccanismo introdotto dal legislatore
regionale con l’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994 non assicura la
riparazione del danno in quanto la regolarizzazione della posizione del
soggetto istante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004
avviene prescindendo dalla valutazione del pregiudizio arrecato al bene
ambiente, che, anzi, tale omissione costituisce l’effetto precipuo della
norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale. E ciò è ancora
più rilevante in quanto l’interesse pubblico al paesaggio presenta le
caratteristiche dell’interesse almeno in parte adespota, potenzialmente
incidente sulle generazioni future, e le cui violazioni determinano
esternalità negative difficilmente apprezzabili (di talché anche la
particolare modalità di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 167,
comma 5).
Non può quindi ritenersi, in uno con la Corte costituzionale, che ha
ritenuto che l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale
corrisponda a legittime opzioni di politica criminale o di politica
sanzionatoria (18.01.2021 n. 5), che la scelta operata dal legislatore
regionale con l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 non trasmodi nella
manifesta irragionevolezza o non si traduca in un evidente pregiudizio al
principio del buon andamento dell’amministrazione
L'art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, eccedendo dalle competenze
statutarie della Regione autonoma della Sicilia di cui all'art. 14, comma 1,
lett. n), e quindi essendo privo di giustificazione, viola quindi anche gli
artt. 3 e 97 della Costituzione.
21.2. Da ultimo, per completezza espositiva, sarà consentita una
considerazione. Si è già chiarito che l’indennità di cui all’art. 167, comma
5, d.lgs. n. 42/2004 non riveste, per il Collegio, i connotati della
sanzione amministrativa in ragione delle considerazioni sopra illustrate.
Nondimeno, se anche si ritenesse di attribuire detta qualificazione
all’indennità in parola, questo CGARS ritiene che la norma censurata non si
presti a una interpretazione adeguatrice, che ne determini la sussumibilità
nell’ambito della categoria delle sanzioni amministrative sostanzialmente
penali.
Detta indennità infatti si situa nell’ambito di una fattispecie (quella di
cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004) favorevole per il privato
istante in quanto consente il superamento di un precedente illecito. Sicché
l’analisi concreta delle finalità perseguite (già sopra illustrata ai
paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) rende recessiva, sulla base dei parametri
Engel, la finalità punitiva rispetto a quella
preventiva, nel senso che l’indennità costituisce una misura a tutela del
paesaggio, che consente di superare l’illecito commesso, alla quale
risultano estranei gli aspetti meramente afflittivi della pena (potendosi al
più rinvenire delle secondarie finalità di deterrenza).
La tecnica di quantificazione, peraltro, basata sul binomio danno
arrecato-profitto conseguito, osta a ritenere particolarmente elevato il
grado di afflittività in quanto la misura del dovuto non trova
giustificazione nella necessità di assicurare l’effetto punitivo ma nel
tentativo di rimediare a un danno arrecato. Nella determinazione
dell’indennità non si ha infatti riguardo all’elemento soggettivo del fatto,
né all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle
conseguenze della violazione e neppure alla personalità dello stesso e alle
sue condizioni economiche, parametri che il legislatore ha individuato al
fine di assicurare la finalità punitiva (art. 11 della l. n. 689/1981).
Detto ciò in punto di non annoverabilità dell’indennità controversa
nell’ambito delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, questo
CGARS ritiene che la riconducibilità della stessa nella categoria delle
sanzioni amministrative (sussumibilità comunque avversata da questo CGARS,
come sopra illustrato) non consentirebbe comunque di superare le questioni
di legittimità costituzionale in ragione dei principi della conoscibilità
del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (Corte cost.
29.05.2019 n. 134).
In altre parole, questo CGARS ritiene che non possa essere utilizzato, in
funzione paralizzante rispetto alla questione di legittimità costituzionale
della norma censurata, il rilievo che essa (laddove non consente di irrogare
la “sanzione” nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico)
sarebbe giustificata dalla necessità di allineare la fattispecie alla regola
generale di conoscibilità del precetto la cui violazione determina la
conseguenza sanzionatoria.
Piuttosto, l’ordinamento suppone (e impone) che colui che realizza un
illecito edilizio si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che
dalla condotta derivano nel corso del tempo, fino a che la posizione del
medesimo non risulta nuovamente conforme all’ordinamento giuridico (secondo
il canone del versari in re illicita): il precetto da conoscere
anticipatamente non è rappresentato dal singolo vincolo paesaggistico ma dal
fatto che la realizzazione del manufatto deve avvenire nel rispetto delle
regole di settore, pena, quanto meno, il pagamento di un’indennità.
Il settore non risulta esposto né al rischio che, in contrasto con il
principio della divisione dei poteri, l’autorità amministrativa o il giudice
assuma[no] un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i
confini tra il lecito e l’illecito, né al rischio di violare la libera
autodeterminazione individuale, dal momento che consente al destinatario
della norma di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta
(così non realizzandosi le situazioni che rappresentano la ratio dei
principi della conoscibilità del precetto e della prevedibilità delle
conseguenze sanzionatorie, così (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32 l. n. 47/1985 rende
infatti rilevanti i vincoli di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
di tutela del patrimonio storico artistico e di tutela della salute che
appongono limiti all’edificazione ai fini dell’accertamento di conformità in
sanatoria: è la legge che impone quindi una corrispondenza stretta fra il
vincolo edilizio e i suddetti vincoli, ritenendoli connessi quanto agli
interessi pubblici coinvolti e inestricabilmente compromessi dalla concreta
realizzazione illecita del manufatto.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che detta disposizione non rechi alcuna
deroga al principio di legalità in quanto “è la legge che attribuisce la
funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la
definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri
interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione
interferisce” e che “la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma
dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge,
deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma
vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone” (n. 20 del
1999).
Sicché, una volta che la cura dell’interesse paesaggistico, in uno con la
cura degli altri interessi coinvolti nell’operazione, sia così realizzata
dall’Amministrazione preposta, questa è tenuta a valutare anche i vincoli
sopravvenuti rispetto alla costruzione, fino al momento della propria
decisione. Sennonché tale incombenza (di considerare anche i vincoli
sopravvenuti) non trova ragion d’essere in un comportamento della parte
pubblica, essendo piuttosto ascrivibile al fatto che in precedenza il
privato abbia agito in assenza di titolo, non consentendo così la verifica
di quanto edificato.
Pertanto, se sanzione vi è, essa svolge la funzione di punire il
trasgressore non, in via diretta, per avere violato il vincolo
paesaggistico, ma per non essersi premunito del titolo edificatorio,
esponendolo alle conseguenze negative che nel corso del tempo quella
condotta produce, fino al momento in cui il privato non ritiene di porre
fine alle conseguenze antigiuridiche della stessa,
presentando la domanda di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 e
l’Amministrazione si pronunci sulla stessa.
Non si pone quindi un tema di conoscibilità del precetto, potendosi al più
porre una questione di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, che
questo CGARS ritiene superabile in ragione del fatto che gli interessi
coinvolti, oltre a quello strettamente edificatorio, sono indicati nell’art.
32 e così sono prevedibili le conseguenze che derivano dalla violazione di
detti interessi: l’unico elemento di aleatorietà attiene alla mancanza di
sicurezza in ordine al fatto che l’area interessata dall’illecito sia nel
corso del tempo sottoposta (o meno) a vincolo.
Detta aleatorietà, peraltro, è contenuta dalla predeterminazione della
tipologia di vincoli e di conseguenze che ne derivano, da un lato, e,
dall’altro lato, dal fatto che dipende proprio dal soggetto “punito”
la possibilità di ridurre, se non azzerare, detta aleatorietà presentando
l’istanza di compatibilità (paesaggistica, per quanto interessa nella
presente controversia).
21. Detto ciò in funzione delle questioni di legittimità sollevate, proprio
per quanto si è in ultimo esposto nel precedente paragrafo questo CGARS non
ritiene di porre ulteriori questioni in relazione specificamente
all’eventuale qualificazione (avversata dal Collegio, come sopra illustrato)
dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in termini di
sanzione amministrativa dal momento che la giurisprudenza costituzionale
ritiene che “la competenza sanzionatoria amministrativa non è in grado di
autonomizzarsi come materia a sé, ma accede alle materie sostanziali”
(Corte cost. 07.06.2018 n. 121), così assorbendosi nelle questioni di
costituzionalità già poste, dovendosi rilevare che le denunciate
problematiche in punto di depotenziamento della tutela del paesaggio
manterrebbero in simile ipotesi inalterata consistenza (cfr. Corte cost.,
17.11.2020, n. 240, seppur con riferimento a Regione a Statuto ordinario)
22. Tanto premesso, richiamando quanto sopra osservato in punto di rilevanza
della medesima e riassunto al paragrafo 19 (in costanza della norma
regionale suddetta nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di
primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità,
atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione
della costruzione abusiva, mentre, laddove, invece, la norma venga meno in
seguito a pronuncia di incostituzionalità il Collegio dovrebbe determinarsi
in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado), in punto di non
manifesta infondatezza (in ragione della nozione di norma di grande riforma
economico sociale, che la Regione Siciliana è tenuta a rispettare pur
essendo titolare di una competenza legislativa esclusiva in materia di
paesaggio, e della irragionevole disparità di trattamento), ed in punto di
impossibilità di interpretazione adeguatrice della norma, il CGARS solleva
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, L.r. n.
17/1994, per contrasto con gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97
della Costituzione ai sensi dell’art. 23, comma 2, l. 11.03.1953 n. 87,
ritenendola rilevante.
Il processo deve, pertanto, essere sospeso ai sensi e per gli effetti di cui
agli artt. 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c., con trasmissione immediata degli
atti alla Corte costituzionale.
Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è
riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, in sede
giurisdizionale, parzialmente e non definitivamente pronunciando:
- respinge nei sensi di cui alla motivazione il primo motivo
dell’appello principale;
- respinge l’articolazione del primo motivo dell’appello principale
volta a sostenere che al tempo dell’abuso sussistesse nell’area un vincolo
paesaggistico, ovvero che il vincolo archeologico ivi sussistente fosse
equiparabile ad un vincolo paesaggistico;
- visto l’art. 23 L. 11.03.1953 n. 87, dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 3, L.r. n. 17/1994 in relazione agli artt.
3, 9, 97 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, nei sensi di cui in
motivazione;
- sospende il presente giudizio ai sensi dell’art. 79, comma 1,
c.p.a.;
- dispone, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo,
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale (CGARS,
sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 217 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
Corte costituzionale l’esclusione di sanzioni amministrative pecuniarie in
caso di vincolo sopravvenuto.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo sopravvenuto - Sanzioni amministrative
pecuniarie – L.reg. Sicilia n. 17 del 1994 - Violazione artt. 9 e 117, comma
2, lett. s), 3 e 97 Cost..
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in
relazione agli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97 Cost., la questione
legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.reg. Sicilia n. 17 del
1994, con specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione,
che inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di
vincolo sopravvenuto (“il nulla-osta dell'autorità preposta alla gestione
del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche
quando il vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione
dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è
esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti
dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso
edilizio”) (1).
---------------
(1) Analoghe remissione sono state disposte con sentenze
16.02.2022,
n. 216 e
n. 217.
Ha ricordato il C.g.a. che nella Regione Siciliana viene, infatti, in
evidenza l’art. 5, comma 3, l.reg. Sicilia n. 17 del 1994, recante “norma
di interpretazione autentica” dell’art. 23, comma 10, l.reg. Sicilia
10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della
Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente
illegittimo l’art. 17, comma 11, l.r. 16.04.2003 n. 4) dispone che “il
nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai
fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato
apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel
caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni
amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso,
a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che
inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di
vincolo sopravvenuto.
Prima di affrontare il tema della costituzionalità di detta disposizione,
ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima (sulla scia di
CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni riunite, 12.05.2021
n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una duplice
prospettiva.
Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del Giudice
delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in
via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il ritorno in
vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per
lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a interpretare e applicare
tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto, che
esprime un principio essenziale per il sistema delle fonti (Corte cost.
24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema giuridico, in quanto
espressione delle esigenze di sicura conoscibilità delle norme che
compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza
nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del
giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost.
24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003 (“Il parere
dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della
concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il
vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera
abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla
osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini
della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto
successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo,
dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di
fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n.
17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia
di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo
sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta
paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto
inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad
essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente
illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella
sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata
dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la
seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato
addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come
autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione
costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che
ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione,
riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo
evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica
materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la
norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe,
disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della
Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica
successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro
legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno
l’esigenza interpretativa.
E’ pertanto evidente che sia tuttora in vigore la norma contenuta nell’art.
5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla sostituzione
operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in considerazione
del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di detta
disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza,
determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato
in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte
costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo
dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto
successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative
pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico
dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla
sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove
si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale
risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della
l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5,
comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale
di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto
all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la
sentenza 22.7.1999 n. 20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte
costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione
di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile
la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità
amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte
sulla reviviscenza (CGARS,
sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 215 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
7. Il Collegio ritiene in via preliminare di illustrare l’ordine espositivo
con il quale verranno affrontate le questioni sottoposte al suo scrutinio
nel presente giudizio, anche in relazione alla decisione di rimettere alla
Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5,
comma 3, della l.r. siciliana n. 17/1994.
8. Si premette che:
- il presente giudizio è uno dei tanti, numerosi, attualmente
pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad
oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in
Agrigento nella medesima area (con riferimento a due di tali fascicoli, come
meglio si chiarirà nel prosieguo della esposizione, questo CGARS ha disposto
con sentenza parziale ed ordinanza collegiale la rimessione delle cause alla
Corte Costituzionale: per numerosi altri, finora, è stata disposta la c.d. “sospensione
impropria”);
- non può essere messa in discussione l’assoluta peculiarità della
Valle dei Templi di Agrigento, espressione di una compenetrazione fra
profili archeologici, artistici, storici e dell’ambiente circostante che
attribuisce al sito il carattere dell’unicità: nel dicembre del 1997, nel
corso della 21a riunione annuale del Comitato del Patrimonio mondiale dell’Unesco,
tenutasi a Napoli (01-06.12.1997), è stata iscritta nella Lista del
Patrimonio mondiale dell’Umanità con la denominazione “Area Archeologica
di Agrigento” (il documento ICOMOS n. 831 descrive il sito e i
principali monumenti in esso contenuti).
9. Si premette altresì che nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n.
n. 99/2020 chiamato in decisione nella pubblica udienza del 05.05.2021:
a) questo CGARS, con ordinanza collegiale 23.10.2020 n. 976, ha
disposto una verificazione al fine di chiarire l’esatta collocazione
dell’immobile per cui era lite rispetto alla perimetrazione della “zona B”
di cui ai decreti ministeriali 12.06.1957, 16.05.1968 e 07.10.1971 ed al
successivo decreto del Presidente della Regione siciliana n. 91 del 1991,
nonché al precedente decreto Presidenziale 06.08.1966 n. 807 e in data
15.11.2020 il verificatore ha depositato la relazione di verificazione;
b) l’immobile per cui è causa è ubicato in area corrispondente a
quella oggetto della relazione di verificazione resa nell’ambito del
procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020;
c) nell’ambito del procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 il
Collegio ha reso la
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 (ed in pari data,
nell’ambito di procedimento iscritto al r.g.n. n. 250/2019 il Collegio ha
reso la
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 533 del 14.06.2021);
d) alle argomentazioni sviluppate nel provvedimento r.g.n. n.
99/2020 sopra citato si farà ampio riferimento in seno al presente
provvedimento.
10. Ciò posto, si procede alla disamina delle questioni oggetto di scrutinio
nel seguente ordine:
a) in primis –al fine di perimetrare gli argomenti
effettivamente rilevanti- si esamina il primo (ed infondato, ad avviso del
Collegio) motivo dell’appello della difesa erariale;
b) successivamente si espone il convincimento del Collegio, in
punto di fatto, sul regime vincolistico dell’area in cui insiste l’immobile
per cui è causa (con reiezione della tesi della difesa erariale secondo cui
al tempo dell’abuso sarebbe stato già presente un vincolo paesaggistico o
che, comunque, il vincolo archeologico fosse “equipollente” a quello
paesaggistico);
c) immediatamente di seguito, sono rappresentate le conseguenze che
ciò comporta con riguardo all’odierno processo, qualificando la natura
giuridica della fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
d) sono quindi esposte le ragioni per cui si ritiene inapplicabile
alla fattispecie il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981;
e) infine, riassunte le ragioni della rilevanza della questione, è
esaminato il tema della non manifesta infondatezza della questione
concernente la compatibilità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della l.r.
siciliana n. 17/1994, considerato anche l’inquadramento giuridico di cui al
punto c).
11. In ossequio alla condivisibile ricostruzione di cui a Cass. civ., ss.uu.
11.12.2007 n. 25837 (secondo cui avrebbero sempre carattere decisorio, e
devono essere immediatamente impugnati ovvero essere oggetto di riserva di
impugnazione, i capi della ordinanza di rimessione che decidono nei sensi di
cui all’art. 279, comma 1, n. 4, c.p.c.) ed in linea con le prescrizioni di
cui all’art. 36, comma 2, c.p.a., a miglior garanzia delle parti del
processo, si provvederà a decidere le questioni di cui alle lettere da a) a
c) del superiore elenco con sentenza non definitiva, che tuttavia, al fine
di consentire la unicità di esame alla Corte costituzionale, non verrà resa
separatamente, ma unitamente alla ordinanza collegale di rimessione.
12. Ciò premesso, proprio al fine di sgombrare il campo da censure che
appaiono manifestamente inaccoglibili (e, insieme, per rendere manifesta la
rilevanza della questione devoluta con la ordinanza collegale di rimessione)
si esamina prioritariamente la seconda e subordinata censura contenuta
nell’appello principale, imperniata sull’asserita obliterazione della
circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava
l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico
(art. 59 l. n. 1089/1939).
12.1. Il motivo (come peraltro già chiarito ai capi 15.1. e 15.2 della
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 532 del 14.06.2021 ed ai capi 13 e 13.1 della
sentenza non
definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533
del 14.06.2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono) non è
fondato.
L’art. 59 l. n. 1089/1939 dispone, fra l’altro, che chi trasgredisce le
disposizioni contenute negli artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21 è tenuto a
corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla
diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione, se
la riduzione in pristino non è possibile.
L’obbligo di corrispondere la somma discende dall’effettuazione di attività
non consentite (o almeno non consentite in mancanza di autorizzazione) su
cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, che
appartengono a province, comuni ed enti e istituti legalmente riconosciuti o
che, pur appartenendo a privati, siano state oggetto di specifica notifica
ai sensi della stessa legge (artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21).
La l. n. 1089/1939 tutela quindi beni determinati, da essa non derivano
vincoli di zona o porzioni di territorio.
Nel caso di specie né le parti, né l’Amministrazione, hanno mai reso edotto
il Giudice di primo grado o questo Collegio della sussistenza di detto
vincolo specifico sul bene di proprietà dell’appellata, né risulta
altrimenti che esso sia mai stato apposto né gli atti amministrativi
impugnati vi hanno mai fatto riferimento.
Neppure sarebbe possibile traslare l’impianto normativo della l. n.
1089/1939 ai beni (in passato) oggetto di tutela ai sensi della l. n.
1497/1939, senza al contempo porre in essere una operazione ermeneutica
contra legem, in sfavor rei, e contraria alla lettera delle norme
invocate ed applicabili.
Il motivo è, all’evidenza, manifestamente infondato, armonicamente alle
conclusioni da tempo raggiunte dalla giurisprudenza amministrativa (ex
aliis Cons. St., VI, 12.11.1990 n. 951) in punto di distinzione
dell’impianto di cui alla l. n. 1089/1939 rispetto a quello di cui alla l.
n. 1497/1939.
13. Ciò rilevato, il Collegio ritiene a questo punto di doversi addentrare,
ai fini della trattazione del primo motivo dell’appello principale e della
rimessione alla Corte costituzionale, nell’inquadramento giuridico dei vari
aspetti che contraddistinguono l’applicazione dell’istituto di cui all’art.
167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994
al caso di specie.
13.1. Come brevemente chiarito nella parte “in fatto” della presente
decisione, il primo giudice ha accolto il ricorso di primo grado (anche
richiamando per relationem alcuni precedenti giurisprudenziali),
sulla scorta di un triplice argomentare fattuale e giuridico:
a) l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove
venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino
al sopravvenire della l. n. 431/1985, c.d. legge Galasso);
b) la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico
al momento in cui l’abuso venne commesso;
c) la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente
sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai
fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza
del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando
l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed argomentando
quindi sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della
l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994.
13.2. Quanto ai primi tre profili dell’iter motivazionale seguito dal Tar
(precedenti punti a, b e c) il Collegio ne condivide l’approdo e ritiene, di
converso, che le censure articolate dalla difesa erariale non meritino
condivisione.
13.3. Come emerge dalla verificazione effettuata nell’ambito del
procedimento r.g. n. 99/2020, cui si è prima fatto riferimento, e come
peraltro si darà conto brevemente alla luce dell’analisi dei testi normativi
susseguitesi, ritiene il Collegio che –per quanto paradossale ciò possa
sembrare tenuto conto delle peculiari caratteristiche e dell’evidente pregio
dell’area geografica in esame- sino al 1985 sull’area dove venne perpetrato
l’abuso non insisteva alcun vincolo paesaggistico, e che non possa neppure
seguirsi la difesa erariale (primo motivo dell’appello principale) laddove
questa sostiene che il vincolo archeologico sussistente potesse “parificarsi”
ad un vincolo paesaggistico (o, per dirla altrimenti ricomprendesse profili
paesaggistici).
13.4. Detta conclusione si spiega in ragione dell’evoluzione normativa
intervenuta in materia e delle circostanze di fatto che sono di seguito
illustrate.
13.4.1. Quanto alle circostanze di fatto, va premesso che l’appellata ha
dichiarato che il fabbricato è stato realizzato ed ultimato entro l’anno
1975 (e tale affermazione è rimasta incontestata) e che esso ricade
all’interno della zona perimetrata quale “Zona B” (anche tale
affermazione è rimasta incontestata dalla difesa erariale); ne discende
pertanto che le emergenze fattuali e giuridiche di cui alla verificazione
effettuata nell’ambito del processo r.g.n. 99/2020 sono perfettamente
traslabili alla presente fattispecie.
13.4.2. Ciò posto, l’evoluzione normativa può essere così riassunta:
- a seguito delle attività della Commissione provinciale per la
tutela delle bellezze naturali della Provincia di Agrigento, il Ministro
della pubblica istruzione, con decreto 12.06.1957 “Dichiarazione di
notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di
vista della città sulla Valle stessa, siti nell’ambito del comune di
Agrigento”, sottopose a tutela paesistica un’ampia zona del territorio
comunale;
- a seguito della “frana di Agrigento” venne approvato il
d.l. 30.07.1966 n. 590, "Dichiarazione di zona archeologica di interesse
nazionale della Valle dei Templi di Agrigento", convertito in l.
28.09.1966 n. 749;
- a distanza di sola una settimana il Presidente della Regione
Siciliana intervenne nella questione emanando il decreto presidenziale
06.08.1966 n. 807 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della
zona della Valle dei Templi e dei punti di vista del belvedere del comune di
Agrigento”, che sottopose una più ampia zona del territorio comunale a
vincolo paesistico;
- in esecuzione l. 28.09.1966 n. 749, di conversione del d.l.
30.07.1966 n. 590, venne emanato dal Ministero della pubblica istruzione di
concerto con il Ministero per i lavori pubblici, il decreto 16.05.1968,
“Determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, delle
prescrizioni d’uso e dei vincoli di in edificabilità” (c.d. Gui-Mancini) -poi modificato dal decreto
07.10.1971 “Modifiche del decreto ministeriale 16.05.1968, concernente la determinazione del perimetro della Valle dei
Templi di Agrigento, prescrizioni d’uso e vincoli di in edificabilità” (c.d.
Misasi-Lauricella)-, che vincolò e delimitò la Valle dei Templi, definendo
e suddividendo l’area vincolata in cinque zone, dalla A alla E, aventi
ciascuna specifica prescrizione, oltre ad avere introdotto (la Misasi-Lauricella) il nulla osta della Soprintendenza ai BB.CC.AA. per la
realizzazione di infrastrutture urbanistiche;
- in data 17.08.1985 venne pubblicata nella G.U.R.S. la l. 10.08.1985
n. 37 “Nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive”,
il cui art. 25, “Parco archeologico di Agrigento”, prevedeva al comma 1, che
“Entro il 31.10.1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli
Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l'ambiente,
sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del
Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare
il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle
dei Templi di Agrigento ed all' individuazione dei confini delle zone da
assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente
Commissione legislativa dell' Assemblea regionale siciliana”: la
delimitazione dei confini del Parco archeologico venne stabilita con il
decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.06.1991 n. 91
“Delimitazione dei confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi di
Agrigento” (c.d. Nicolosi), che fece coincidere il confine del Parco
archeologico di Agrigento con il confine della zona A –delimitata con
l’art. 2 del decreto ministeriale 16.05.1968 (c.d. Gui-Mancini) e poi
modificato con decreto ministeriale 07.10.1971 (c.d. Misasi-Lauricella)– e
che ampliò anche la zona “B”, includendo Cozzo S. Biagio, Contrada Chimento
ed una zona a nord della Contrada Mosè.
13.5. Quindi, in disparte il vincolo paesaggistico di cui alla legge Galasso
ed al successivo d.lgs. n. 42/2004, in base alla normativa vigente al tempo
della costruzione (1973/76), il manufatto oggetto di controversia era
sottoposto a vincolo archeologico in base al decreto 16.05.1968 e al decreto
07.10.1971, così come per il successivo decreto del Presidente della Regione
Siciliana 13.06.1991 n. 91.
Di converso deve considerarsi accertato che l’area non era soggetta a
vincolo paesaggistico all’epoca della costruzione, in quanto né il decreto
del 1968 né il decreto 07.10.1971 lo imponevano.
13.6. Il vincolo paesaggistico è quindi sopravvenuto rispetto alla
realizzazione del manufatto per cui è lite.
Così disattesa la tesi proposta principaliter dalla difesa erariale secondo
cui nell’area insisteva un vincolo paesaggistico al tempo della commissione
dell’abuso, il Collegio deve farsi carico dell’ulteriore prospettazione
critica contenuta nel primo motivo dell’appello, secondo cui il vincolo
archeologico imposto sull’area avesse una portata effettuale identica ad un
vincolo paesaggistico, e/o ricomprendesse quest’ultimo.
Come avvertito nella premessa, anche tale profilo critico non è persuasivo.
Osta, all’accoglimento di tale prospettazione:
a) la diversa natura dei due vincoli presi in considerazione;
b) il dato letterale: d.m. 16.05.1968;
c) in termini assorbenti, il chiaro dettato della sentenza della
Corte costituzionale 11.04.1969 n. 74.
Nel periodo storico che ha preceduto e accompagnato la realizzazione
dell’immobile abusivo (fra il 1968, anno dell’entrata in vigore del d.m.
16.05.1968, e l’anno 1973, di completamento dell’immobile abusivo)
l'efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti
dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai
sensi dell'art. 2, ultimo comma, della l. n. 1497/1939, l'elenco delle
località, predisposto dalla Commissione ivi prevista e nel quale è compresa
la bellezza di insieme, viene pubblicato nell'albo dei Comuni interessati
(Corte cost., 23.07.1997 n. 262).
Il vincolo è apposto attraverso un procedimento tipico, che si conclude con
un provvedimento finale costitutivo di obblighi (art. 7 l. n. 1497/1939) a
carico dei soggetti “proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi
titolo, dell'immobile il quale sia stato compreso nei pubblicati elenchi
delle località” ed è destinato a venire meno quando l'autorità preposta
alla approvazione definitiva rifiuti l'approvazione (anche parzialmente
eliminando l'efficacia rispetto a taluni immobili) ovvero intervenga una
successiva modifica dell'elenco suddetto.
La Consulta ha sottolineato (per differenza con il sistema introdotto dalla
l. n. 431/1985, ora contenuto nel d.lgs. n. 42/2004) che la l. n. 1497/1939
prevede una tutela diretta alla preservazione di cose e località di
particolare pregio estetico isolatamente considerate.
L'art. 2-bis del d.l. 30.7.1966 n. 590, convertito, con modificazioni, nella
l. 28.09.1966 n. 749, che ha dichiarato la Valle dei Templi di Agrigento
zona archeologica di interesse nazionale, e il successivo d.m. 16.05.1968
non solo fanno esplicito riferimento al vincolo archeologico ma non
incanalano detta qualificazione nell’alveo indicato dalla l. n. 1497/1939,
così apponendo un vincolo avente una natura corrispondente a quella
dichiarata, appunto archeologica (e non paesaggistica).
Del resto la Corte costituzionale ha affermato che “l'art. 2-bis ha
disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all'autorità
amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un
fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966,
ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e
dell'interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell'evento”
(Corte cost. 11.04.1979 n. 64).
Il d.m. 07.10.1971, successivo a Corte costituzionale n. 74/1969, recante la
nuova perimetrazione del sito, non solo non scalfisce la tesi della natura
non paesaggistica del vincolo originariamente apposto alla Valle dei Templi,
ma ne avalla l’impostazione, laddove, nelle premesse, ravvisa la finalità
dell’intervento normativo nella volontà di consentire “le ricerche
archeologiche e le opere di restauro, sistemazione e valorizzazione della
zona archeologica e dei suoi monumenti, nonché le opere necessarie alla
custodia dei reperti antichi”.
13.7. Deve quindi concludersi che il vincolo archeologico imposto sull’area
non avesse una portata effettuale identica al vincolo paesaggistico e/o non
ricomprendesse quest’ultimo, non ricadendo l’immobile nel perimetro del
vincolo paesistico.
Pertanto il Collegio è convinto che anche tale prospettazione critica
dell’appello principale vada disattesa.
14. La superiore ricostruzione, quindi, è conforme a quella del Tar, in
punto di determinazione dell’assetto vincolistico dell’area ove è stato
perpetrato l’abuso ed al tempo dello stesso (sul punto anche Cass. pen., III,
04.09.2014 n. 36853).
14.1. Il Tar ha da ciò fatto discendere le conseguenze demolitorie censurate
dalla difesa erariale, ritenendo che la sanzione ex art. 167 d.lgs. n.
42/2004 vada ascritta nel novero delle sanzioni amministrative e che il
canone della irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal
comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994 impedisca di ritenere legittimo il
provvedimento impugnato.
14.2. Tale questione richiede una attenta, seppur sintetica, analisi, per la
quale è necessario inquadrare il provvedimento impugnato e l’indennità che
ne costituisce l’oggetto (analisi, questa, già svolta nell’ambito della
sentenza non definitiva parziale e ordinanza di rimessione in Corte
costituzionale n. 532 del 14.06.2021 e della sentenza non definitiva
parziale e ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 533 del 14.06.
2021, con le considerazioni che di seguito si ritrascrivono).
Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha qualificato l’indennità di
cui all'art. 15 l. n. 1497/1939 (trasfusa poi nell'art. 164 d.lgs. n.
490/1999, ed oggi nell'art. 167 d.lgs. n. 42/2004) come sanzione
amministrativa (Cons. St.: V, 24.04.1980 n. 441; 24.11.1981 nn. 700 e 702;
VI, 29.03.1983 n. 162; VI, 04.10.1983 n. 701; VI, 05.08.1985 n. 431; VI,
16.05.1990 n. 242, VI, 31.05.1990 n. 551; VI, 15.04.1993 n. 290; VI,
02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386; IV, 12.11.2000 n. 6279; IV,
02.03.2011 n. 1359; V, 26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II,
25.07.2020 n. 4755; CGARS: sez. cons. 16.11.1993 n. 452; sez. giur.
13.03.2014 n. 123; 17.02.2017 n. 58; 23.03.2018 n. 168; 17.05.2018 n. 293;
22.08.2018 n. 484; 29.11.2018 n. 958; 25.03.2019 n. 251, 20.03.2020 n. 198;
01.07.2020 n. 505; 03.07.2020 n. 527; Cass.: sez. un., 18.05.1995 n. 5473;
10.08.1996 n. 7403; 04.04.2000 n. 94; 10.03.2004 n. 4857; 10.03.2005 n.
5214), specificando in alcune occasioni che l’assenza di danno sostanziale
al paesaggio non esonera dalla sanzione, essendovi comunque sempre un danno
formale per aver edificato senza nulla osta paesaggistico (Cons. St., V,
01.10.1999 n. 1225; VI, 02.06.2000 n. 3184; VI, 09.10.2000 n. 5386;
31.10.2000 n. 5828; IV, 27.10.2003 n. 6632; IV, 12.03.2011 n. 1359; V,
26.09.2013 n. 4783; VI, 08.01.2020 n. 130; II, 27.05.2020 n. 4755).
Nondimeno, nell’ambito degli arresti richiamati, alla qualificazione
dell’indennità in discorso quale sanzione amministrativa pecuniaria non è
seguita l’integrale applicazione della disciplina sistematica di cui alla l.
n. 689/1981 (seppur nei “limiti di compatibilità” scolpiti sub art.
12) rinvenendosi almeno tre punti di frizione: l’irretroattività, il regime
della prescrizione e l’intrasmissibilità agli eredi ed aventi causa.
La sentenza oggi appellata, come già rilevato nella parte “in fatto”, si
sofferma soltanto sulla questione della sopravvenienza del vincolo, a
differenza di numerose altre, rese da altra qualificata giurisprudenza
amministrativa di primo grado e dal Consiglio di Stato (in particolare
sentenze rese dal medesimo Tar ed avverso le quali pendono circa ottanta
ricorsi in appello presso questo CGARS) ed a differenza di quella impugnata
nell’ambito del ricorso r.g.n. 99/2020 e definito con la sentenza non
definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n.
532 del 14.06.2021;
Il Collegio, deve segnalare quella che è –a suo avviso- un’incoerenza
sistematica notevole nella giurisprudenza “tradizionale”, che ritiene
che la fattispecie ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004 vada ascritta al novero
delle sanzioni amministrative e che alla stessa si applichi l’impianto di
cui alla legge 689/1981.
Giova precisare, in proposito, che assai sovente la giurisprudenza ha:
a) sostenuto tout court l’applicabilità l. n. 689/1981 (in quanto
si qualifica il provvedimento impugnato quale sanzione amministrativa) al
disposto di cui all’ art. 167 d.lgs. n. 42/2004;
b) applicato le disposizioni della predetta legge n. 689/1981, in
punto di irretroattività (art. 1) e quanto al regime della prescrizione (art
28);
c) ritenuto inapplicabile il regime della citata legge n. 689 in
punto di intrasmissibilità agli eredi (art. 7), nella evidente difficoltà di
contrastare approdi pacifici della giurisprudenza amministrativa e penale
formatasi sull’ambulatorietà dell’ordine di demolizione (Cons. St., IV,
12.04.2011 n. 2266; IV, 24.12.2008 n. 6554; nonché Cass., III, 15.07.2020 n.
26334; III, 22.10.2009 n. 48925) e, -si può ipotizzare- nel convincimento
che l’affermazione di un simile principio renderebbe il precetto primario
facilmente eludibile.
14.3. In punto di inquadramento generale il Collegio ritiene, non solo per
la segnalata incoerenza intrinseca (che, semmai, è soltanto la “spia”
di una ricostruzione complessivamente non appagante: si veda peraltro la
uniforme giurisprudenza che esclude, sempre e comunque, l’applicazione
dell’art. 14 l. n. 689/1981 alla fattispecie in esame: ex aliis CGARS, sez.
giurisdizionale, 23.05.2018 n. 300) e sulla scorta di un più recente e
meditato orientamento giurisprudenziale (Cons. St., IV, 31.08.2017 n. 4109;
Id., II, 30.10.2020 n. 6678), che l’indennità di cui all’art. 167, comma 5,
d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla
cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si
applichi la l. n. 689/1981.
14.4. L’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 stabilisce, al comma 1, la regola
generale per cui la violazione della disciplina paesaggistica contenuta nel
Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio
determina per il trasgressore l’obbligo di rimessione in pristino a proprie
spese.
Alla regola generale si sottrae la fattispecie di accertamento della
compatibilità paesaggistica disciplinata al successivo comma 4, ai sensi del
quale l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n.
380 del 2001.
A tal fine, in base al successivo comma 5:
- il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti interventi presenta
apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi;
- l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine
perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
- qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore
importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione (l'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa
perizia di stima) mentre in caso di rigetto della domanda si applica la
sanzione demolitoria.
Il detto comma 5 dell’art. 167 dispone altresì che “la domanda di
accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’art.
181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti
di cui al presente comma”, che disciplina, fra l’altro, il pagamento
della somma dovuta dal trasgressore.
Ai sensi dell’art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 il proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area
interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter (che coincidono con i
sopra riferiti interventi di cui all’art. 167, comma 4), presenta apposita
domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi e l'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine
perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni
(con disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 167, comma 5).
14.5. Da quanto sopra discende che:
- l’istanza presentata dal proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dai suddetti
interventi, avvia un procedimento avente due finalità connesse, essendo
volto all'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi
medesimi e, nel contempo, se il risultato dell’attività di verifica è
positivo, alla comminatoria del pagamento della somma di cui al comma 5 del
predetto art. 167;
- la soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato (a vedere
riconosciuta la conformità paesaggistica del manufatto abusivo) porta con
sé, quindi, necessariamente, in funzione di contrappeso, la debenza della
somma;
- l’obbligo di corrispondere la somma sorge con l’adozione
dell’atto favorevole ma non è esigibile fino alla liquidazione
dell’ammontare (l’intervallo procedimentale successivo all’accertamento
della conformità ambientale è funzionale proprio, e solo, come si vedrà
infra, alla quantificazione del dovuto);
- nella prospettiva pubblicistica l’interesse paesaggistico è
perseguito superando, innanzitutto, l’alternativa fra, da un lato,
incompatibilità paesaggistica e riduzione in pristino (comma 1 dell’art. 167
d.lgs. n. 42/2004) e, dall’altro lato, compatibilità paesaggistica
dell’intervento ai sensi del comma 4 dell’art. 167 e debenza della somma di
denaro;
- al rigetto della domanda consegue quindi la misura
ripristinatoria per eccellenza, riposante nella demolizione (Cons. St., VI,
21.12.2020 n. 8171 e 15.04.1993 n. 290).
- diversamente, l’accertamento della compatibilità paesaggistica
determina, in ragione del principio di efficienza dell’intero sistema
(l’attuale conformità paesaggistica rende recessiva la precedente
irregolarità), il superamento della pretesa di assicurare il ripristino
dello status quo ante;
- la cura del relativo interesse impone comunque
all’Amministrazione di tenere in considerazione l’abuso commesso facendone
sopportare il costo (per la collettività, nei termini che si diranno infra)
al privato istante attraverso il pagamento di una somma di denaro,
quantificata, nei termini di cui al comma 5 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004,
previa perizia di stima, e avente anche una finalità general-preventiva;
- i provvedimenti di accertamento della compatibilità paesaggistica
e di condanna al pagamento della somma di denaro, nonché di quantificazione
del dovuto, concorrono tutti alla cura del paesaggio e si pongono, fra loro,
in una relazione di necessarietà, nel senso che detto interesse pubblico è
adeguatamente amministrato solo in quanto siano adottati tutti;
- il collegamento pubblicistico fra le determinazioni
dell’Amministrazione (compatibilità paesaggistica, condanna al pagamento di
una somma di denaro e quantificazione dell’importo) è reso evidente dalla
disposizione che prevede che l’istanza presentata dal privato sia funzionale
non solo all’accertamento della compatibilità paesaggistica ma anche alla
quantificazione del pagamento della somma di denaro;
- l’obbligo di pagare la somma di denaro deriva dalla legge e
diviene attuale con l’accertamento positivo della conformità paesaggistica
dell’intervento (che invece, all’accertamento negativo, segue la riduzione
in pristino),
- segnatamente l’an della debenza è reso certo al momento
della verifica (positiva) di conformità paesaggistica del manufatto;
nondimeno, posto che esso non è ancora liquido, non è esigibile fino
all’avvenuta determinazione del quantum;
- la quantificazione della somma dovuta è connotata dalla cura
dell’interesse paesaggistico essendo effettuata infatti in base a una stima,
nel “maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”;
- a quest’ultima è riconducibile una duplice ratio;
- innanzitutto essa è funzionale alla cura dell’ambiente; in tal
senso il parametro di quantificazione prescelto non è avulso dalla necessità
di superare la prospettiva ripristinatoria, di per sé rinvenibile nella sola
riduzione in pristino, ed è riconducibile alla necessità di calmierare l’esternalità
negativa derivante dalla trasgressione paesaggistica, connessa ad un
interesse in parte adespota, anche in relazione alla sua connessione con il
valore dell’ambiente e delle esigenze di preservarlo alle generazioni
future;
- ciò è reso evidente dall’utilizzo delle somme ricavate per
“l’esecuzione delle rimessioni in pristino” e per “finalità di salvaguardia
nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di
riqualificazione degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino” (comma 6 dell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e dalla
quantificazione della stessa in modo non avulso dalla trasgressione
commessa, dal momento che uno dei parametri è costituito dal danno arrecato;
- la precedente normativa infatti, contenuta nell’art. 15 l. n.
1497/1939, nel d.m. 26.09.1997, poi trasfuso nell’art. 164 d.lgs. n.
490/1999, qualificava l’indennità come risarcitoria, così evidenziandone la
funzione di compensazione della collettività dell’utilità perduta nel tempo
dell’abuso, valorizzando in modo astratto l’oggetto di tutela, l’interesse
paesaggistico, cioè considerandolo nel suo valore di scambio;
- in tal senso si può interpretare la recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato che delinea la condanna pecuniaria in esame come
“sanzione riparatoria alternativa” al ripristino dello status quo ante, così
non applicando la disciplina contenuta nella l. n. 689/1981 e, in
particolare, la norma sulla trasmissibilità agli eredi (Cons. St., VI,
21.12.2020 n. 8171; Id., II, 30.10.2020 n. 6678);
- il ripristino non deve, infatti, intendersi quale riaffermazione
della situazione precedente all’abuso (che l’istituto in esame è volto
proprio a superare) ma sta a indicare la finalità di risolvere, pro futuro,
l’intervenuta turbativa degli interessi, al fine di presidiare questi ultimi
(attraverso la debenza di una somma di denaro commisurata alla maggior somma
fra il danno prodotto e le connesse conseguenze profittevoli);
- nondimeno la corresponsione della somma di denaro svolge altresì
una funzione di deterrenza derivante dall’effetto afflittivo, del quale è
indice la terminologia utilizzata dal legislatore, che fa riferimento alla
“sanzione”, il criterio normativo di quantificazione, basato sul “maggiore
importo” tra il danno arrecato e il profitto conseguito, potenzialmente
foriero di una condanna per un importo superiore rispetto al pregiudizio
economico prodotto, e la stessa dinamica sottesa all’istituto di cui
all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004. La tenuta del sistema non può infatti
essere messa in pericolo da una sopravvenuta compatibilità ambientale,
idonea, in tesi, a far venir meno la precedente trasgressione, pena
l’indebolimento del vincolo paesaggistico, la cui violazione potrebbe essere
percepita come non decisiva, nella speranza che in futuro venga meno, così
eliminando anche le conseguenze della situazione antigiuridica antecedente;
- la portata afflittiva è comunque secondaria, considerata
l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione dei presupposti di applicazione
della condanna pecuniaria, dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa
(elemento determinante per qualificare una fattispecie come sanzionatoria
secondo l’Ad. Plen. 11.09.2020 n. 18) e dal fatto che la condanna pecuniaria
non costituisce una conseguenza diretta dell’illecito commesso;
- essa è infatti principalmente il portato di un provvedimento
favorevole (l’accertamento della compatibilità ambientale) di cui
costituisce il corollario e il contrappeso;
- la funzione della condanna pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5,
è, quindi, solo parzialmente riconducibile all’afflizione che connota sia il
danno punitivo (SS.UU. 05.07.2017 n. 16601 e 06.05.2015 n. 9100), sia la sanzione
amministrativa (fattispecie che richiedono entrambe una previsione di legge,
ai sensi rispettivamente dell’art. 25, comma 2, Cost. e dell’art. 23 Cost., nel
caso di specie da rinvenirsi nella norma di legge appena citata);
- nel complesso l’imposizione del pagamento della somma di denaro
ha quindi una finalità compensativa del danno prodotto e solo in parte
afflittiva;
- il relativo procedimento costituisce una manifestazione tipica di
potestà amministrativa, nell’ambito dei quale il cittadino versa in una
posizione di interesse legittimo e ciò anche considerando la sua componente
afflittiva (secondaria e servente), e diversamente rispetto all’esercizio
del solo potere punitivo da parte dell’Amministrazione, nel quale non vi è
ponderazione di interessi (Cass., I, 23.06.1987 n. 5489), essendo ricollegato
al vincolato accertamento, secondo la procedura di cui alla l. n. 689/1981,
del verificarsi concreto della fattispecie legale, cui corrisponde il
diritto soggettivo dell’intimato a non subire l’imposizione di prestazioni
fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, con conseguente
devoluzione delle relative controversie, in assenza di ipotesi di
giurisdizione esclusiva, al giudice ordinario (Cons. St., V, 24.01.2019 n.
587);
- dal punto di vista strutturale il procedimento in esame vede una
prima fase deputata a verificare la compatibilità paesaggistica (e la
connessa, e dovuta, condanna al pagamento della somma di denaro) mentre il
successivo intervallo temporale, finalizzato a quantificare l’importo, è
meramente servente, essendo necessario per rendere liquido ed esigibile
l’importo e quindi effettivo il rimedio (rispetto al precedente abuso)
dell’ordine di pagamento;
- al procedimento si applicano i principi dell’attività
amministrativa, pur considerandone il (parziale) carattere afflittivo: la l.
n. 241 del 1990 offre la regolamentazione di base di qualsiasi procedimento
amministrativo che non sia accompagnato da una normativa specifica; la l. n.
689/1981 non può essere applicata al di là della categoria delle sanzioni
amministrative pecuniarie (Cons. St., II, 04.06.2020 n. 3548), “non può che
tornare a trovare applicazione quello generale di cui alla l. n. 241/1990” (Cons.
St., II, 04.06.2020 n. 3548) e, infatti, alle sanzioni pecuniarie sostitutive
di una misura ripristinatoria di carattere reale non si applica la l. n.
689/1981 (CGARS, 09.02.2021 n. 95 e Cons. St., VI, 20.10.2016 n. 4400);
- la ragione dell’impostazione è rinvenibile nell’interrelazione
reciproca della doppia finalità, che non può andare a nocumento
dell’interesse pubblico che il provvedimento mira a tutelare dal momento che
-come già detto- prevalgono le istanze di cura di detto interesse (mentre
la potestà afflittiva è recessiva) e che in ogni caso entrambe le funzioni
assolte di cura del bene paesaggistico leso e di deterrenza, sono comunque
destinate da ultimo a tutelare l’interesse della collettività, alla quale,
in ultima istanza, è comunque preordinata anche la potestà punitiva dello
Stato: “La sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento
diverso da quello previsto dalla legge 07.08.1990, n. 241, che fa capo
alla l. n. 689/1981, è garantita dai principi di legalità, personalità e
colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla
Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè,
alcun limite di “merito” amministrativo), laddove alle sanzioni “altre” si
applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate
dalla legge generale sul procedimento amministrativo)” (Cons. St., V,
24.01.2019 n. 587).
15. Ciò posto, (con riferimento ai tre “punti di frizione” prima delineati)
si osserva che:
a) la questione della prescrizione non viene in rilievo nel
presente processo, in quanto non sollevata dalla parte originaria
ricorrente, (e comunque, sul punto, a soli fini di comprova della coerenza
della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si rinvia alla
sentenza di questo CGARS n. 95 del 2021, che perviene comunque alla
conclusione della prescrizione quinquennale, senza tuttavia fondarla
sull’art. 28 l. n. 689/1981);
b) parimenti la problematica della intrasmissibilità della sanzione
ad eredi ed aventi causa non viene in rilievo nel presente processo, anche
se sollevata in primo grado dalla parte originaria ricorrente e assorbita
(sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione
complessiva patrocinata dal Collegio, si fa integrale riferimento ai capi da
18.1 a 18.3 della sentenza non definitiva parziale ed ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 532 del 14.06.2021 resa nell’ambito del
procedimento iscritto al r.g.n. n. 99/2020 e parimenti chiamato in decisione
alla odierna udienza pubblica);
c) ugualmente non viene in rilievo nel presente processo la censura
relativa alla illegittimità derivata per apposizione di condizione
illegittima, anche se sollevata in primo grado dalla parte originaria
ricorrente e assorbita;
d) assume invece rilevanza la tematica concernente
l’irretroattività del vincolo paesaggistico imposto sull’area (in ordine
alla quale si è prima chiarito, in punto di fatto, orientamento del
Collegio).
16. Affrontati, e ritenuti infondati, i motivi sopra esaminati (il secondo e
subordinato motivo dell’appello principale, e l’articolazione del primo
motivo dell’appello principale incentrata sulla preesistenza di un vincolo
paesaggistico rispetto al momento di commissione dell’abuso), non rimane al
Collegio che procedere nello scrutinio del primo motivo contenuto
nell’appello principale.
16.1. Con detta censura l’appellante amministrazione ha dedotto che il Tar
avrebbe commesso un errore fattuale, non ritenendo che alla data di
commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già)
interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico),
vigente sin dal 1971 (quindi precedente al vincolo introdotto dalla l. n.
431/1985).
16.2. Il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del
vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando
sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n.
689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 l.r. n. 17/1994.
16.2. Il Collegio ritiene, come già illustrato sopra, che fino alla l. n.
431/1985 l’area ove insiste immobile de quo non fosse gravata da alcun
vincolo paesaggistico.
16.3. Il caso in esame è quindi connotato da un vincolo paesaggistico
sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto abusivo (ultimata nel
1973/1976, come si evince dalla domanda di sanatoria).
17. Viene quindi in rilievo il tema, comune, come detto, a numerose altre
controversie pendenti presso il CGARS, dell’applicazione dell’art. 1 della
l. n. 689/1981 e dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994.
17.1. Come già motivato, il Collegio ritiene che l’indennità di cui all’art.
167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo
funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla
medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
Detta qualificazione dell’indennità in parola impone piuttosto di
considerare la normativa vigente al momento della pronuncia
dell’Amministrazione, in base alla regola generale (non applicabile
all’attività sanzionatoria in senso stretto) per cui la pubblica
Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe l’obbligo di
osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui
provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa
impone (Ad. Plen. n. 20/1999).
17.2. Declinando la suddetta norma di azione dell’Amministrazione nel
settore di interesse l’Adunanza plenaria ha affermato che, in base alla
disciplina nazionale (art. 32 della l. n. 47/1985, che fa riferimento ai
vincoli paesaggistici, e successivi interventi normativi, di cui all'art. 4
del d.l. n. 146/1985, all'art. 12 del d.l. n. 2/1988, dichiarato
costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 10.03.1988 n. 302, all'art. 2,
comma 43, della l. 23.12.1996 n. 662 e all’art. 1 l. n. 449/1997) e al
diritto vivente formatosi su di essa, “la disposizione di portata generale
di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti
all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa
deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla
esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare
altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente” (Ad. Plen. n. 20/1999).
La giurisprudenza amministrativa successiva ha seguito la suddetta
impostazione (Cons. St., VI, 25.03.2019 n. 1960; 25.01.2019 n. 627 e 22.02.2018
n. 1121; IV, 14.11.2017 n. 5230). E ciò anche in relazione all’indennità
connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del
manufatto abusivo, comunque dovuta a livello nazionale, indipendentemente
dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria. In
tale ambito, pertanto, non si è ritenuto applicabile l’art. 1 l. n.
689/1981, anche (seppur con le contraddittorietà evidenziate sopra) nei casi
in cui l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 è stata
qualificata come sanzionatoria (con conseguente conferma dell’opzione
ermeneutica illustrata sopra che supera le contraddittorietà della più
risalente impostazione).
Il consolidarsi di tale orientamento –che il Collegio condivide- si spiega
anche in ragione del portato dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996, che
esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al
paesaggio (di cui infra quanto ai rapporti con la normativa regionale) e la
giurisprudenza si è conformata (Cons. St., VI, 22.07.2018 n. 4617; Id., II,
02.10.2019 n. 6605).
“Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento
impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento
consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare "la natura
chiaramente interpretativa”, in quanto la sanzione paesaggistica va fatta
risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua applicazione
retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi della legge
n. 47/1985 in quanto la formula utilizzata ("qualsiasi intervento realizzato
abusivamente") lascia chiaramente intendere che il perimetro applicativo
della norma prescinde dall'epoca alla quale risale la presentazione della
domanda di condono, venendo invero in considerazione il danno ambientale
perpetrato invece che l'assetto procedimentale per il conseguimento della
sanatoria urbanistica (…).
La natura interpretativa della norma, quale espressione di un principio di
autonomia tra sanatoria edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione
anche alla sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n.
47/1985, nel 1990, trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra
procedimento paesaggistico e procedimento edilizio” (Cons. St., II,
30.10.2020 n. 6678).
17.3. In considerazione della disciplina vigente in ambito nazionale,
quindi, ad avviso del Collegio:
a) non troverebbe applicazione, per le già esposte ragioni, l’art.
1 della l. n. 689/1981;
b) la controversia andrebbe decisa sulla base della legge vigente
al momento della pronuncia dell’Amministrazione, con la conseguenza che, in
presenza di un vincolo attuale (nel senso appena detto), l’indennità sarebbe
dovuta (e l’appello andrebbe accolto sul punto, con conseguente riforma
dell’impugnata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado).
17.4. Sennonché, pur essendosi esclusa l’applicabilità dell’art. 1 l. n.
689/1981, ai fini della compiuta disamina della tematica della
irretroattività occorre adesso confrontarsi con un’ulteriore disposizione
normativa di matrice regionale.
Nella Regione Siciliana viene, infatti, in evidenza l’art. 5, comma 3, l.r. n.
17/1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’art. 23, comma 10,
della l.r. 10.08.1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza
della Corte costituzionale 08.02.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente
illegittimo l’art. 17, comma 11, l.r. 16.04.2003 n. 4) dispone che “il nulla
osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini
della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto
successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva. Tuttavia, nel caso di
vincolo apposto successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni
amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso,
a carico dell'autore dell'abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che
inibisce l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di
vincolo sopravvenuto.
17.5. Il Collegio, prima di affrontare il tema della costituzionalità di
detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima
(sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.05.2021, n. 149; Id., sezioni
riunite, 12.05.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.05.2021 n. 354) in una
duplice prospettiva.
17.6. Quanto al primo profilo, si rileva che –secondo gli insegnamenti del
Giudice delle leggi- il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non
opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il
ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze
imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a
interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di
certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema
delle fonti (Corte cost. 24.01.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema
giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità
delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza
nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del
giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost.
24.01.2012 n. 13).
Nel caso di specie l'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003 (“Il parere
dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della
concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il
vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell'opera
abusiva”) ha sostituito l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“il nulla osta
dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della
concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto
successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”), offrendo, dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di fatto ha abrogato
l’interpretazione contenuta nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella sua
originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia
di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo
sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta
paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto
inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad
essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente
illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella
sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata
dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la
seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un
“significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già
determinato come autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione
costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che
ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione,
riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo
evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica
materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la
norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe,
disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della
Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica
successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro
legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno
l’esigenza interpretativa.
Il Collegio ritiene pertanto che sia tuttora in vigore la norma contenuta
nell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla
sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4 del 2003, anche in
considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di
detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza,
determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato
in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte
costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo
dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto
successivamente, è esclusa l'irrogazione di sanzioni amministrative
pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico
dell'autore dell'abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla
sostituzione operata dall'art. 17, comma 11, l.r. n. 4/2003, neppure laddove
si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale
risalente) che l’interpretazione autentica dell'art. 23, comma 10, della l.r.
n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l'art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una
interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto
all'art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l'intervento
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.07.1999 n.
20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte
costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione
di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile
la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità
amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte
sulla reviviscenza.
17.7. In secondo luogo, il Collegio ritiene che l’art. 2, comma 46, l. n.
662/1996 (cui la giurisprudenza ha peraltro attribuito portata
interpretativa: così il già richiamato arresto, Cons. St., II, 30.10.2020 n.
6678), che esplicita che in caso di condono edilizio resta dovuta
l’indennità per danno al paesaggio (“Per le opere eseguite in aree
sottoposte al vincolo di cui alla l. 29.06.1939, n. 1497, e al d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla l.
08.08.1985,
n. 431, il versamento dell'oblazione non esime dall'applicazione
dell'indennità risarcitoria prevista dall'articolo 15 della citata legge n.
1497/1939”), non abbia abrogato la disposizione regionale del 1994. Ciò in
quanto, in ambito di competenza legislativa esclusiva devoluta ad una
regione a statuto speciale (come è nella specie) ed in presenza di legge
regionale, la successiva legge statale (incompatibile) non supporta, fatta
salva l’ipotesi del rinvio dinamico, il sistema della successione delle
leggi nel tempo nel senso di ritenere implicitamente abrogata la legge
precedente il cui contenuto sia incompatibile con il disposto della fonte
primaria successiva: osta la competenza legislativa esclusiva della Regione
Sicilia (di cui infra) che impone di valutare non solo l’incompatibilità ma
anche la portata della successiva norma statale in termini di norma
nazionale di grande riforma, richiedendo la pronuncia sul punto della Corte
costituzionale.
Mentre l’ordinamento italiano devolve il primo profilo (relativo
all’incompatibilità) al giudizio diffuso degli operatori del diritto che si
trovino ad applicarla, non avviene così rispetto al secondo profilo di
valutazione (appartenenza o meno della norma statale alla categoria delle
norme di grande riforma), devoluto, anche in ragione della complessità che
lo connota, alla Corte costituzionale, anche nella prospettiva della
certezza del diritto. Del resto “i due istituti giuridici dell'abrogazione e
della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro,
si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse.
Il campo dell'abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello
della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia
abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più
limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una legge” (Corte cost. 14.06.1956 n. 1).
Il rapporto fra l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 e l’art. 2, comma 46, l. n.
662 del 1996, non trovando soluzione nelle regole che governano la
successione delle leggi nel tempo, è quindi ricompreso nella questione di
legittimità costituzionale che si pone alla Corte costituzionale.
18. Ritenuto quanto sopra, il Collegio intende porre la questione di
legittimità costituzionale sull’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, con
specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo
sopravvenuto (“il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del
vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il
vincolo sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera
abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”).
18.1. La questione è rilevante in ragione di quanto a più riprese
considerato ed in quanto, in costanza della norma regionale suddetta (e pur
essendo il Collegio persuaso che non trovi applicazione il disposto di cui
all’art. 1 l. n. 689/1981) nel caso di specie dovrebbe confermarsi la
pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento
dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la
realizzazione della costruzione abusiva.
Laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di
incostituzionalità (ovvero anche, semplicemente, laddove si ritenesse,
difformemente da quanto ipotizzato dal questo Giudice, che la predetta
disposizione non sia più in vigore in quanto implicitamente abrogata) il
Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di
primo grado.
Non può poi sottacersi la particolare rilevanza che assume la questione per
questo CGARS (oltre che per l’Amministrazione siciliana e i cittadini che
afferiscono al relativo territorio), atteso che il presente giudizio è uno
dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di
Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati
abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima
area.
19. Sembra evidente che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 (nello stabilire
che l’art. 23, comma 10, l.r. n. 37/1985, debba essere interpretato nel senso
che “il nulla osta dell'autorità preposta alla gestione del vincolo è
richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo
sia stato apposto successivamente all'ultimazione dell'opera abusiva”,
dispone che “nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme
disciplinanti lo stesso, a carico dell'autore dell'abuso edilizio”) sia
volto a impedire che dall’abuso derivino effetti negativi sul proprietario
dell’immobile allorquando il vincolo paesaggistico è successivo alla
realizzazione dell’abuso (e sembra altresì evidente che, in questa chiave di
lettura, tale esenzione ricomprenderebbe anche eredi ed aventi causa, che
altrimenti ci si troverebbe al cospetto di una illogicità incomprensibile:
l’autore dell’ abuso verrebbe “privilegiato” rispetto all’avente causa di
questi).
La voluntas legis regionale non pare, in tale prospettiva, attribuire
un ruolo decisivo all’uso del termine “sanzione”, ritenendosi piuttosto che
essa voglia impedire l’esborso di denaro, indipendentemente dalla
qualificazione di quest’ultimo.
Il termine sanzione delinea la conseguenza di carattere patrimoniale
derivante dall’aver realizzato un’opera abusiva ed è coerente con la
qualificazione attribuita all’epoca all’indennità in discorso.
In tal senso si ritiene che la possibilità di esperire un’interpretazione
costituzionalmente orientata, che, valorizzando l’utilizzo del termine
“sanzione”, ritenga non applicabile all’indennità di cui all’art. 167, comma 5,
del d.lgs. n. 42/2004 la norma regionale contenuta nell’art. 5, comma 3,
della l.r. n. 17/1994, non sia percorribile: osta il principio della
certezza del diritto. Il profilo emerge con evidenza se si considera la già
richiamata circostanza relativa all’attuale pendenza di ottanta giudizi di
contenuto analogo presso questo CGARS, così risaltando la rilevanza che
assume il connotato della certezza del diritto non solo per l’organo
giurisdizionale ma altresì per l’Amministrazione siciliana e gli abitanti
del relativo territorio.
Invero, a tacere del fatto che, se si interpretasse in tal senso la
disposizione regionale, si determinerebbe un’ipotesi di norma inutiliter
data, si aggiunge che l’art. 5 l.r., per come è stato costantemente
applicato, intende riferirsi, laddove utilizza il termine “sanzione”,
proprio all’indennità per danno al paesaggio
Si ritiene pertanto che la disposizione regionale della cui legittimità
costituzionale si dubita sia riferita all’indennità di cui all’art. 167,
comma 5, d.lgs. n. 42/2004 (indipendentemente dalla qualificazione di detta
indennità sulla quale ci si è prima soffermati, laddove si ritiene di avere
chiarito le ragioni per le quali il Collegio non la ricompresa nella
categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie normate dalla l. n.
689/1981).
Nondimeno il Collegio, pur ritenendo che detta qualificazione non abbia un
rilievo così determinante in punto di valutazione della non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ancorata alla
diversità di disciplina con la normativa statale in punto di abuso
paesaggistico (nei termini illustrati infra), come si dirà, non
ignora che la qualificazione dell’indennità in parola in termini di sanzione
amministrativa pecuniaria non è indifferente per il Giudice ad quem,
come si avrà modo di illustrare nel paragrafo 21.
19.1. Premesso ciò, la valutazione della non manifesta infondatezza si
articola innanzitutto nel senso che l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nella
formulazione ritenuta vigente, viola la competenza legislativa esclusiva
dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi degli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in quanto
determina una lesione diretta dei beni culturali e paesaggistici tutelati,
con la conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito
nell'intero territorio nazionale. La predetta norma regionale interseca la
disciplina sulla protezione del paesaggio (in quanto provvede a delineare le
conseguenze dell’abuso anche paesaggistico), normativa che, a sua volta,
rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell'ambiente,
di esclusiva spettanza statale ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s), della
Costituzione.
Ciò in quanto:
- ai sensi dell’art. 9, comma 2, Cost. la Repubblica tutela il
paesaggio e il patrimonio storico della Nazione;
- l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. attribuisce alla Stato la
competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali;
- l'art. 14, comma 1, lett. n), dello Statuto speciale della Regione
Sicilia, approvato con r.d.l. 15.05.1946 n. 455 e successive
modificazioni e integrazioni, riconosce una potestà legislativa esclusiva in
materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle
opere artistiche.
In merito alla materia del paesaggio si rileva che:
- l’art. 9 Cost. (la Repubblica “tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione”) ha costituito, in combinato
disposto con gli artt. 2 e 32 Cost., l’asse portante per il riconoscimento
del diritto primario a godere di un ambientale salubre, e ciò attraverso la
lettura effettuata dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 210 e n. 641
del 1987, poi consacrato nel 2001, con la riforma del titolo V della
Costituzione, attraverso i rinvii espressi ad ambiente ed ecosistema
introdotti dall’art. 117, secondo comma, lett. s);
- la nozione di paesaggio di cui all’art. 9 Cost. ha così assunto
una connotazione che partecipa sia dell’esigenza di cura di singoli beni,
quindi dei valori storici, culturali ed estetici del territorio, sia quella
di non pretermettere l’interesse alla tutela dell’ambiente, sia quell’attenzione
alla materia dell’urbanistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74 e 17.04.2015 n.
64);
- specularmente l’ampia nozione di ambiente, così come è stata
ricostruita specie dopo il 2001, ha una morfologia complessa, capace di
ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici, ma anche
i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo
originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e
territoriale (Corte cost. 30.03.2018 n. 66, punto 2.2. del Considerato in
diritto).
Detto ciò in punto di norme costituzionali di interesse nella presente
controversia si rileva conseguentemente, in relazione alle soggettività
coinvolte dalle suddette attribuzioni, che:
- la tutela del paesaggio non si identifica con una materia in
senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore
costituzionalmente protetto, integrante una materia trasversale (Corte cost.
17.04.2017 n. 77), sulla quale lo Stato esercita, in ragione della portata
ascensionale della sussidiarietà, istanze unitarie che trascendono l’ambito
regionale (Corte cost. 01.10.2003 n. 303);
- in molteplici occasioni, codesta Corte ha affermato che la
conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, comma
2, lett. s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato (Corte cost. 23.07.2018 n.
172);
- l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale
materia-obiettivo non implica una preclusione assoluta all'intervento
regionale, purché questo sia volto all'implementazione del valore ambientale
e all'innalzamento dei suoi livelli di tutela (sentenza 23.07.2019 n. 172,
punto 6.2. del Considerato in diritto e sentenza n. 178/2018, punto 2.1. del
Considerato in diritto; nello stesso senso sentenza Corte cost. 17.04.2017 n.
77, 16.07.2014, 24.10.2013 n. 246, 20.06.2013 n. 145, 26.02.2010 n. 67,
18.04.2008 n. 104 e 14.11.2007 n. 378);
- alle regioni non è consentito modificare gli istituti di
protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto
il territorio nazionale, “senza che ciò sia giustificato da più stringenti
ragioni di tutela” (Corte cost. 21.04.2021 n. 74);
- fra gli istituti di protezione ambientale che dettano una
disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, che alle
regioni non è consentito modificare, deve essere annoverata l'autorizzazione
paesaggistica (Corte cost. 21.04.2021 n. 74).
Con specifico riferimento alle competenze legislative delle regioni a
statuto speciale, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che il
legislatore statale, tramite l'emanazione delle norme di grande riforma
economico-sociale, “conserva il potere -anche relativamente al titolo competenziale legislativo "nella materia 'tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali', di cui all'art. 117, secondo comma,
lettera s), della Costituzione, [...]- di vincolare la potestà legislativa
primaria delle regioni a statuto speciale" (sentenza n. 238/2013, punto 2.2.
del Considerato in diritto).
Specularmente la Regione Siciliana, con specifico riferimento alla
competenza legislativa esclusiva attribuitale dallo Statuto speciale in
materia di paesaggio e di urbanistica, deve rispettare, oltre che, in
generale, i precetti costituzionali, anche le “norme di grande riforma
economico-sociale” poste dallo Stato nell'esercizio delle proprie competenze
legislative (Corte cost. 08.11.2017 n. 232 con riferimento alla disciplina
dell’accertamento di conformità).
A ciò si aggiunge che la definizione dell’ambiente quale materia trasversale
porta con sé consente l’attivazione, da parte dello Stato, istanze unitarie
che trascendono l’ambito regionale in ragione della portata ascensionale
della sussidiarietà (Corte cost. 01.10.2003 n. 303).
In ragione di quanto sopra si rileva che:
- la l. n. 431 del 1995 è stata qualificata in termini di legge di
grande riforma (Corte cost. 27.06.1986 n. 151), così come il d.lgs. n.
42/2004 (Corte cost. 29.10.2009 n. 272): il codice dei beni culturali “detta
le coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica affidata
congiuntamente allo Stato e alle regioni” (sentenza n. 66/2018, punto 2.4. del
Considerato in diritto), in coerenza con i principi delineati supra in tema
di protezione del paesaggio e di tutela dell'ambiente e della valenza della
disciplina statale diretta a proteggere l'ambiente e il paesaggio quale
limite alla competenza legislativa in materia anche delle regioni a statuto
speciale;
- tale qualificazione discende dal fatto che il codice dei beni
culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004 impatta in modo
diretto sul valore primario e assoluto del paesaggio (“il paesaggio va,
cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che
superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (così la
sentenza 05.05.2006 n. 182), così come richiamato dall’art. 9 Cost. e
dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e ne delinea un nuovo assetto,
improntato a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione del
territorio nella prospettiva estetica e culturale, intesa in senso dinamico;
- l’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, sulla
quale è intervenuto l’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996 nei termini sopra
delineati, risulta, -in ragione della funzione riparatoria rispetto all’esternalità
negativa prodotta con l’abuso e in funzione general-preventiva, di
dissuasione-, direttamente connessa al valore primario e assoluto che il d.lgs. n. 42/2004 attribuisce al paesaggio.
21. A fronte di ciò:
- la disciplina sul condono edilizio è organicamente regolamentata
in ambito nazionale prevedendo che l’accertamento postumo (nei termini
evidenziati sopra, nei paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) della compatibilità
paesaggistica sia accompagnato dal pagamento dell’indennità di cui all’art.
167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004;
- è stato già illustrato, come il pagamento della somma di denaro
connessa all’accertamento della compatibilità paesaggistica costituisca un
tratto fondamentale dell’istituto a livello di disciplina nazionale;
- come si è rilevato sopra, l’indennità connessa all’accertamento
postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo è dovuta in
ambito nazionale, anche se il vincolo paesaggistico è sopravvenuto rispetto
alla realizzazione dell’abuso (e ciò indipendentemente dalla qualificazione
della medesima come sanzionatoria o risarcitoria);
- ciò in ragione, da un lato, della richiamata Adunanza plenaria n.
20 del 1999 e, dall’altro lato, dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 del 1996
(cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una
portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti
dovuta l’indennità per danno al paesaggio;
- l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994, nel prevedere che la sanzione
amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del
vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, si discosta
dalla disciplina nazionale sopra illustrata lasciando “scoperto” il
periodo precedente nel quale l’abuso è stato commesso ma l’accertamento di
compatibilità non è ancora avvenuto;
- in tal senso viene assicurata sul territorio siciliano una tutela
meno elevata del valore ambiente e paesaggio rispetto a quella garantita sul
rimanente territorio nazionale,
- in ambito siciliano, infatti, la conformità attuale alla
disciplina paesaggistica consente di superare il precedente abuso senza
ulteriori conseguenze negative, sicché viene meno il disvalore ambientale e
paesaggistico connesso a quest’ultimo, parificando la posizione di chi non
ha commesso abuso alla posizione di chi lo ha commesso ma ha ottenuto
l’accertamento positivo di conformità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004
solo dopo averlo realizzato;
- così non avviene, come si è già visto, sul rimanente territorio
nazionale, dove la tutela del paesaggio è presidiata a livello
general-preventivo anche attraverso il pagamento di un’indennità a copertura
delle conseguenze pregiudizievoli dell’abuso commesso;
- tale ultimo aspetto assume una particolare rilevanza nell’ambito
dell’istituto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 (come sopra già
illustrato), delineando un procedimento avente due prospettive, quella del
superamento di una situazione di non conformità formale alla disciplina
paesaggistica in seguito all’accertamento della compatibilità sostanziale
del manufatto (questo a presidio di un principio di efficienza e di scarsità
delle risorse che accomuna l’intero ordinamento giuridico e non solo la
prospettiva pubblicistica) e il contrappeso del pagamento di un’indennità in
funzione general-preventiva a presidio del rispetto ex ante delle
regole poste a tutela del paesaggio attraverso il pagamento dell’indennità
(che altrimenti viene meno la cogenza delle medesime, con conseguente
intaccamento del valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio);
- si è illustrato sopra come il procedimento e la posizione
dell’Amministrazione sul punto si giustifichi e trovi le ragioni del proprio
canone di azione solo nel bilanciamento fra i due aspetti sopra delineati e
come non possa esservi l’uno, senza l’altro.
L’art. 5, comma 3, ultimo periodo, l.r. n. 17/1994, nella formulazione che
si ritiene attualmente vigente (come sopra illustrato), laddove non consente
l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004
in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, contrasta, eccedendo
dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dall’art. 14 lett. n)
dello Statuto in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle
antichità e delle opere artistiche, con le norme di grande riforma
economico-sociale contenute nell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, con
conseguente violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Ciò in quanto comporta una significativa alterazione del meccanismo
delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e
paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata Adunanza
plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2, comma 46, l. n. 662
del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito
una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti
dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo
sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una
disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di
riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
20.1. Il Collegio solleva altresì questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5, comma 3, ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella ridetta
formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente
l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004
in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai
parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Ciò, in quanto la norma censurata
consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria negativa in caso di
accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Altrettanto non
avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a fronte della
medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del paesaggio che non
può essere difforme (almeno verso il basso, essendo, come già visto,
consentito alle Regioni unicamente di innalzare lo standard di tutela).
Nel meccanismo disegnato dalla norma regionale della cui costituzionalità il
Collegio dubita, la regolarizzazione del fatto lesivo per il paesaggio
(certamente sussistente al momento della delibazione dell’amministrazione
sulla domanda di condono) avviene senza alcuna conseguenza pregiudizievole
per il suo autore.
Dal che la considerazione che la disciplina qui censurata possa indebolire
l’efficacia deterrente del sistema delineato dall’art. 167 del d.lgs. n.
42/2004, così come interpretato dall’Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e
dall’art. 2, comma 46, della l. n. 662 del 1996, con conseguente
incentivazione a tenere il comportamento, confidando nella possibilità di un
adempimento successivo, in grado di superare l’illecito paesaggistico
commesso: così vanificando l’efficacia deterrente dell’istituto, con
conseguente irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso
pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione.
Né giustifica la diversità di trattamento del danno al paesaggio sul
territorio siciliano la prospettiva di un rapporto tra pubblica
amministrazione e consociati imperniato su uno schema
dialogico-collaborativo anziché oppositivo, che si tradurrebbe
nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato circa la necessità
di conformarsi al precetto, che imporrebbe la previa imposizione del vincolo
paesaggistico sull’area oggetto di abuso rispetto alla realizzazione di
questo.
L’argomentazione infatti non spiega la diversità della disciplina siciliana,
in quanto un’argomentazione analoga potrebbe articolarsi anche in relazione
al rimanente territorio nazionale.
A ciò si aggiunge, in senso inverso, che il valore del paesaggio giustifica
piuttosto, per i motivi sopra esposti, l’impostazione opposta.
Non sfugge, tra l’altro, che in riferimento all’ambito del diritto penale la
possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o
addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle
conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata
recentemente anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art.
162-ter del codice penale ad opera l. 23.06.2017, n. 103 (Modifiche al
codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento
penitenziario), che prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti
procedibili a querela soggetta a remissione –senza alcuna residua sanzione
per il trasgressore– quando, anche in assenza di remissione della querela
da parte della persona offesa, questi abbia riparato interamente il danno
cagionato dal reato ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o
pericolose di esso entro l’apertura del dibattimento di primo grado.
Nondimeno nel caso di specie il meccanismo introdotto dal legislatore
regionale con l’art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994 non assicura la
riparazione del danno in quanto la regolarizzazione della posizione del
soggetto istante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004
avviene prescindendo dalla valutazione del pregiudizio arrecato al bene
ambiente, che, anzi, tale omissione costituisce l’effetto precipuo della
norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale. E ciò è ancora
più rilevante in quanto l’interesse pubblico al paesaggio presenta le
caratteristiche dell’interesse almeno in parte adespota, potenzialmente
incidente sulle generazioni future, e le cui violazioni determinano
esternalità negative difficilmente apprezzabili (di talché anche la
particolare modalità di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 167,
comma 5).
Non può quindi ritenersi, in uno con la Corte costituzionale, che ha
ritenuto che l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale
corrisponda a legittime opzioni di politica criminale o di politica
sanzionatoria (18.01.2021 n. 5), che la scelta operata dal legislatore
regionale con l’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 non trasmodi nella manifesta
irragionevolezza o non si traduca in un evidente pregiudizio al principio
del buon andamento dell’amministrazione
L'art. 5, comma 3, della l.r. n. 17/1994, eccedendo dalle competenze
statutarie della Regione autonoma della Sicilia di cui all'art. 14, comma 1,
lettera n), e quindi essendo privo di giustificazione, viola quindi anche
gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
21.2. Da ultimo, per completezza espositiva, sarà consentita una
considerazione. Si è già chiarito che l’indennità di cui all’art. 167, comma
5, d.lgs. n. 42/2004 non riveste, per il Collegio, i connotati della sanzione
amministrativa in ragione delle considerazioni sopra illustrate.
Nondimeno, se anche si ritenesse di attribuire detta qualificazione
all’indennità in parola, questo CGARS ritiene che la norma censurata non si
presti a una interpretazione adeguatrice, che ne determini la sussumibilità
nell’ambito della categoria delle sanzioni amministrative sostanzialmente
penali.
Detta indennità infatti si situa nell’ambito di una fattispecie (quella di
cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004) favorevole per il privato
istante in quanto consente il superamento di un precedente illecito. Sicché
l’analisi concreta delle finalità perseguite (già sopra illustrata ai
paragrafi 15.3., 15.4. e 15.5.) rende recessiva, sulla base dei parametri
Engel, la finalità punitiva rispetto a quella
preventiva, nel senso che l’indennità costituisce una misura a tutela del
paesaggio, che consente di superare l’illecito commesso, alla quale
risultano estranei gli aspetti meramente afflittivi della pena (potendosi al
più rinvenire delle secondarie finalità di deterrenza).
La tecnica di quantificazione, peraltro, basata sul binomio danno
arrecato-profitto conseguito, osta a ritenere particolarmente elevato il
grado di afflittività in quanto la misura del dovuto non trova
giustificazione nella necessità di assicurare l’effetto punitivo ma nel
tentativo di rimediare a un danno arrecato. Nella determinazione
dell’indennità non si ha infatti riguardo all’elemento soggettivo del fatto,
né all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle
conseguenze della violazione e neppure alla personalità dello stesso e alle
sue condizioni economiche, parametri che il legislatore ha individuato al
fine di assicurare la finalità punitiva (art. 11 della l. n. 689/1981).
Detto ciò in punto di non annoverabilità dell’indennità controversa
nell’ambito delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, questo
CGARS ritiene che la riconducibilità della stessa nella categoria delle
sanzioni amministrative (sussumibilità comunque avversata da questo CGARS,
come sopra illustrato) non consentirebbe comunque di superare le questioni
di legittimità costituzionale in ragione dei principi della conoscibilità
del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (Corte cost.
29.05.2019 n. 134).
In altre parole, questo CGARS ritiene che non possa essere utilizzato, in
funzione paralizzante rispetto alla questione di legittimità costituzionale
della norma censurata, il rilievo che essa (laddove non consente di irrogare
la “sanzione” nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico)
sarebbe giustificata dalla necessità di allineare la fattispecie alla regola
generale di conoscibilità del precetto la cui violazione determina la
conseguenza sanzionatoria.
Piuttosto, l’ordinamento suppone (e impone) che colui che realizza un
illecito edilizio si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che
dalla condotta derivano nel corso del tempo, fino a che la posizione del
medesimo non risulta nuovamente conforme all’ordinamento giuridico (secondo
il canone del versari in re illicita): il precetto da conoscere
anticipatamente non è rappresentato dal singolo vincolo paesaggistico ma dal
fatto che la realizzazione del manufatto deve avvenire nel rispetto delle
regole di settore, pena, quanto meno, il pagamento di un’indennità.
Il settore non risulta esposto né al rischio che, in contrasto con il
principio della divisione dei poteri, l’autorità amministrativa o il giudice
assuma[no] un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i
confini tra il lecito e l’illecito, né al rischio di violare la libera
autodeterminazione individuale, dal momento che consente al destinatario
della norma di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta
(così non realizzandosi le situazioni che rappresentano la ratio dei
principi della conoscibilità del precetto e della prevedibilità delle
conseguenze sanzionatorie, così (Corte cost. 29.05.2019 n. 134).
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32 l. n. 47/1985 rende
infatti rilevanti i vincoli di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
di tutela del patrimonio storico artistico e di tutela della salute che
appongono limiti all’edificazione ai fini dell’accertamento di conformità in
sanatoria: è la legge che impone quindi una corrispondenza stretta fra il
vincolo edilizio e i suddetti vincoli, ritenendoli connessi quanto agli
interessi pubblici coinvolti e inestricabilmente compromessi dalla concreta
realizzazione illecita del manufatto.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che detta disposizione non rechi alcuna
deroga al principio di legalità in quanto “è la legge che attribuisce la
funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la
definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri
interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione
interferisce” e che “la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma
dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge,
deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma
vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone” (n. 20 del
1999).
Sicché, una volta che la cura dell’interesse paesaggistico, in uno con la
cura degli altri interessi coinvolti nell’operazione, sia così realizzata
dall’Amministrazione preposta, questa è tenuta a valutare anche i vincoli
sopravvenuti rispetto alla costruzione, fino al momento della propria
decisione. Sennonché tale incombenza (di considerare anche i vincoli
sopravvenuti) non trova ragion d’essere in un comportamento della parte
pubblica, essendo piuttosto ascrivibile al fatto che in precedenza il
privato abbia agito in assenza di titolo, non consentendo così la verifica
di quanto edificato.
Pertanto, se sanzione vi è, essa svolge la funzione di punire il
trasgressore non, in via diretta, per avere violato il vincolo
paesaggistico, ma per non essersi premunito del titolo edificatorio,
esponendolo alle conseguenze negative che nel corso del tempo quella
condotta produce, fino al momento in cui il privato non ritiene di porre
fine alle conseguenze antigiuridiche della stessa,
presentando la domanda di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004 e
l’Amministrazione si pronunci sulla stessa.
Non si pone quindi un tema di conoscibilità del precetto, potendosi al più
porre una questione di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, che
questo CGARS ritiene superabile in ragione del fatto che gli interessi
coinvolti, oltre a quello strettamente edificatorio, sono indicati nell’art.
32 e così sono prevedibili le conseguenze che derivano dalla violazione di
detti interessi: l’unico elemento di aleatorietà attiene alla mancanza di
sicurezza in ordine al fatto che l’area interessata dall’illecito sia nel
corso del tempo sottoposta (o meno) a vincolo.
Detta aleatorietà, peraltro, è contenuta dalla predeterminazione della
tipologia di vincoli e di conseguenze che ne derivano, da un lato, e,
dall’altro lato, dal fatto che dipende proprio dal soggetto “punito”
la possibilità di ridurre, se non azzerare, detta aleatorietà presentando
l’istanza di compatibilità (paesaggistica, per quanto interessa nella
presente controversia).
21. Detto ciò in funzione delle questioni di legittimità sollevate, proprio
per quanto si è in ultimo esposto nel precedente paragrafo questo CGARS non
ritiene di porre ulteriori questioni in relazione specificamente
all’eventuale qualificazione (avversata dal Collegio, come sopra illustrato)
dell’indennità di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004 in termini di
sanzione amministrativa dal momento che la giurisprudenza costituzionale
ritiene che “la competenza sanzionatoria amministrativa non è in grado di
autonomizzarsi come materia a sé, ma accede alle materie sostanziali”
(Corte cost. 07.06.2018 n. 121), così assorbendosi nelle questioni di
costituzionalità già poste, dovendosi rilevare che le denunciate
problematiche in punto di depotenziamento della tutela del paesaggio
manterrebbero in simile ipotesi inalterata consistenza (cfr. Corte cost.,
17.11.2020, n. 240, seppur con riferimento a Regione a Statuto ordinario).
22. Tanto premesso, richiamando quanto sopra osservato in punto di rilevanza
della medesima e riassunto al paragrafo 19 (in costanza della norma
regionale suddetta nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di
primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità,
atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione
della costruzione abusiva, mentre, laddove, invece, la norma venga meno in
seguito a pronuncia di incostituzionalità il Collegio dovrebbe determinarsi
in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado), in punto di non
manifesta infondatezza (in ragione della nozione di norma di grande riforma
economico sociale, che la Regione Siciliana è tenuta a rispettare pur
essendo titolare di una competenza legislativa esclusiva in materia di
paesaggio, e della irragionevole disparità di trattamento), ed in punto di
impossibilità di interpretazione adeguatrice della norma, il CGARS solleva
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.r. n.
17/1994, per contrasto con gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s), 3 e 97
della Costituzione ai sensi dell’art. 23, comma 2, l. 11.03.1953 n. 87,
ritenendola rilevante.
Il processo deve, pertanto, essere sospeso ai sensi e per gli effetti di cui
agli artt. 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c., con trasmissione immediata degli
atti alla Corte costituzionale.
Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è
riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede
giurisdizionale, parzialmente e non definitivamente pronunciando:
- respinge nei sensi di cui alla motivazione il primo motivo
dell’appello principale;
- respinge l’articolazione del primo motivo dell’appello principale
volta a sostenere che al tempo dell’abuso sussistesse nell’area un vincolo
paesaggistico, ovvero che il vincolo archeologico ivi sussistente fosse
equiparabile ad un vincolo paesaggistico;
- visto l’art. 23 l. 11.03.1953 n. 87, dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 3, l.r. n. 17/1994 in relazione agli artt.
3, 9, 97 e 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, nei sensi di cui in
motivazione;
- sospende il presente giudizio ai sensi dell’art. 79, comma 1,
c.p.a.;
- dispone, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo,
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
- rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle
spese di lite all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente
ordinanza (CGARS,
sentenza non definitiva 16.02.2022 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2021 |
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dicembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
PTP – Titolo edilizio – Assenso edilizio – Autotutela – Autorizzazione
paesaggistica.
L'assenso edilizio per un intervento da realizzarsi in zona tutelata da un
PTP ex art. 134, comma 1, lett c), d.lgs. n. 42/2004, rilasciato in carenza
dell'autorizzazione paesaggistica, è inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e
4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l'assenso edilizio sia rilasciato
sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non
nominatim, si è in presenza di una doppia situazione patologica (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663).
Sicché deve ritenersi
legittimo l'esercizio del potere di autotutela, sui pareri favorevoli resi
dai vari organi periferici del MiBAC (oggi MIC), da parte della Direzione
Generale del Ministero competente, in presenza di una erronea
rappresentazione degli elementi in fatto e diritto da indurre gli uffici a
ritenere non necessaria l'autorizzazione paesaggistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.12.2021 n. 8641 - articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.01.2022). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
ricordato come l'assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione
paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.);
analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un
presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica)
in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui
erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la
sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro
pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una
doppia situazione patologica.
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6.1 In linea generale, va ricordato altresì come lo stesso assenso edilizio,
rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr.
art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso
edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est,
l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non
sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano
stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza
dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio
non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione
patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.12.2021 n. 8641 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Rapporti
tra leggi statali e leggi regionali in materia paesaggistica.
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Paesaggio – Tutela - Competenza esclusiva dello Stato –
Poteri delle Regioni – Limite.
La conservazione dell’ambiente e del
paesaggio è materia di competenza esclusiva dello Stato ai
sensi dell’art. 117, comma 2, lettera s), Cost., con la
conseguenza che il legislatore statale conserva in questa
materia il potere di vincolare la potestà legislativa
regionale, anche primaria, al rispetto delle norme statali
qualificate come riforme economico sociali, e fra esse le
disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio
che disciplinano la gestione dei beni soggetti a tutela.
Pertanto, il legislatore regionale non può introdurre
deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano
una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio
nazionale e in particolare non può disciplinare in modo
difforme dalla legge statale i presupposti ed il
procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
(1).
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SENTENZA
1. La ricorrente appellante è una società immobiliare,
comproprietaria di un terreno ad Asiago, distinto al catasto
di quel Comune al foglio 64, mappali 84, 85, 1368, 87, 88,
206, 210, 1305, 171 e 882 e classificato dallo strumento
urbanistico generale vigente all’epoca dei fatti come area Z
- di trasformazione per servizi, edificabile previa
approvazione di un piano urbanistico attuativo-PUA ai sensi
dell’art. 40 delle norme tecniche di attuazione – NTA del
piano generale.
2. Più precisamente, l’area era destinata a parco pubblico,
parco attrezzato per il gioco dei bambini e impianti
sportivi, con un vincolo preordinato all’esproprio; era però
previsto, a titolo di incentivo, che ai privati i quali
avessero ceduto gratuitamente al Comune le aree destinate ai
servizi fosse riconosciuta la possibilità di realizzare
alcuni edifici residenziali, da situare in un punto già
previsto dal piano urbanistico generale, ovvero a 100 metri
di distanza da un canale artificiale che scorre da nord
verso sud lungo il confine est dell’ambito.
Il sito in questione si veniva così a trovare nella fascia
di 150 metri dal corso d’acqua in questione, fascia
vincolata ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera c), del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che in generale prevede la
necessità per edificare di seguire il relativo regime di
tutela e di ottenere quindi l’autorizzazione paesaggistica
(fatti pacifici in causa; cfr. comunque per tutto ciò doc. 5
in primo grado del ricorrente appellante, titolo di
proprietà; doc. 6 e 7 in primo grado del ricorrente, piano
urbanistico ed estratto NTA).
3. Di conseguenza, la società il giorno 22.01.2008 ha
presentato al Comune, assieme agli altri comproprietari, una
proposta di PUA (doc. 8 in primo grado del ricorrente
appellante).
4. Su questa proposta, il Comune, con atto 17.12.2009, prot.
n. 17100 (doc. 15 in primo grado del ricorrente appellante)
ha espresso un parere favorevole con prescrizioni.
5. Il Comune stesso, peraltro, ricevute dalla società le
integrazioni istruttorie necessarie per adeguarsi alle
prescrizioni stesse, ha ritenuto, dandone atto nella nota
predetta, di inviare il progetto di piano attuativo alla
competente Soprintendenza, in applicazione dell’art. 16,
comma 3, della l. 17.08.1942, n. 1150, per cui “I piani
particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili
soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela delle
cose di interesse artistico o storico, e alla legge
29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze
naturali, sono preventivamente sottoposte alla competente
soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione
quando sono approvati con decreto del Ministro per i lavori
pubblici”.
6. La Soprintendenza, con l’atto 04.03.2010, prot. n. 4548,
indicato in epigrafe, ha espresso un parere negativo (doc. 1
in primo grado del ricorrente appellante), confermato con il
successivo atto 24.04.2010, prot. n. 9310, pure indicato in
epigrafe, anche dopo che la società aveva chiesto di
rivederlo (doc. 3 in primo grado del ricorrente appellante).
Il Comune, pertanto, con il provvedimento 30.04.2010, prot.
n. 5521 a sua volta indicato in epigrafe (doc. 4 in primo
grado del ricorrente appellante), ha negato la necessaria
autorizzazione paesaggistica, con il risultato di bloccare
il progetto.
7. Con la sentenza ancora indicata in epigrafe, il TAR ha
respinto il ricorso della società contro questi atti,
ritenendoli legittimamente emanati.
...
16. E’ infondato il primo motivo, centrato sulla
presunta inapplicabilità dell’art. 16 della l. n. 1150/1942
ai piani particolareggiati come quello per cui è causa, per
i quali l’autorizzazione paesaggistica non sia richiesta in
modo espresso dalla legislazione regionale di riferimento.
16.1. In linea generale, come correttamente rilevato dal
giudice di primo grado, costante giurisprudenza della Corte
costituzionale afferma che la conservazione dell’ambiente e
del paesaggio è materia di competenza esclusiva dello Stato
ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera s), della
Costituzione anche nelle Regioni a statuto speciale, e non
solo in quelle a statuto ordinario come il Veneto.
Di conseguenza, sempre in generale, il legislatore statale
conserva in questa materia il potere di vincolare la potestà
legislativa regionale, anche primaria, al rispetto delle
norme statali qualificate come riforme economico sociali, e
fra esse le disposizioni del codice dei beni culturali e del
paesaggio che disciplinano la gestione dei beni soggetti a
tutela.
Sempre la Corte ha in questo senso affermato per quanto qui
interessa in via diretta, che il legislatore regionale non
può “introdurre deroghe agli istituti di protezione
ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su
tutto il territorio nazionale” e in particolare non può
disciplinare in modo difforme dalla legge statale i
presupposti ed il procedimento di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica: per tutte, da ultimo, sul
punto C. cost. 22.07.2021, n. 160, da cui la citazione e ove
ampi ulteriori richiami.
16.2. Ciò posto, in base alla nota regola per cui, nel
dubbio, le norme vanno interpretate in senso conforme a
Costituzione, il silenzio sul punto specifico della l.r. n.
11/2004 va interpretato, così come fatto dal giudice di
primo grado, come privo di rilevanza, nel senso di lasciare
intatta l’applicabilità della disciplina statale di cui al
d.lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, in base al combinato disposto dell’art. 16
della l. n. 1150/1942 e dell’art. 146 dello stesso d.lgs. n.
42/2004, per l’intervento per cui è causa è stata
correttamente richiesta l’autorizzazione paesaggistica, su
parere vincolante della Soprintendenza: in questo senso la
giurisprudenza di questo Consiglio, in particolare sez. VI,
15.03.2010, n. 1491, e 05.02.2010, n. 538.
La giurisprudenza contraria citata dalla difesa della
ricorrente appellante appare invece non esattamente
pertinente, dato che si tratta di sentenze di primo grado
che, ove appellate, sono state riformate nel senso appena
detto.
16.3. L’argomento della ricorrente appellante, secondo il
quale la valutazione di compatibilità paesaggistica andrebbe
invece compiuta a valle, all’atto del rilascio dei singoli
permessi di costruire, non va poi condiviso, sulla base di
quanto condivisibilmente affermato dalla citata sentenza n.
1491/2010.
In questo caso infatti, le valutazioni di compatibilità
paesaggistica sono due distinte: la prima si compie a monte,
riguarda il piano e quindi l’intervento nel suo complesso;
la seconda si compie a valle, per ciascuno degli edifici
previsti.
Sempre secondo la sentenza n. 1491/2010, le due valutazioni
citate si pongono come il generale rispetto al particolare,
nel senso che la valutazione sul piano complessivo va a
fissare i limiti entro i quali si può svolgere la
valutazione dei singoli interventi.
16.4. Un ulteriore argomento nel senso appena sostenuto si
ricava poi dalla lettera dell’art. 146, comma 4, del d.lgs.
n. 42/2004, che contrariamente a quanto sostiene la difesa
della ricorrente appellante, prevede l’autorizzazione
paesaggistica in genere per i “titoli legittimanti
l’intervento urbanistico-edilizio”, locuzione che
all’evidenza comprende anche un piano urbanistico attuativo.
La durata quinquennale dell’autorizzazione, inferiore al
termine di efficacia del piano attuativo, di regola pari a
dieci anni, significa poi solamente che se entro i cinque
anni l’intervento non fosse concluso, vi sarebbe l’onere di
ottenere una nuova autorizzazione per completarlo.
16.5. Quanto sopra rende infine superfluo esaminare la
questione relativa alla possibilità per il Comune di
richiedere senza esservi obbligato il parere alla
Soprintendenza per un dato intervento (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 16.11.2021 n. 7619 - massima tratta da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Illegittimità titolo
edilizio e assenza dei titoli abilitativi – Trasformazioni
del territorio in contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia – Esecuzione di lavori sine titulo
– Verifiche – Individuazione dell’elemento soggettivo
quantomeno colposo – Potere-dovere del giudice penale – Artt.
12, 13, 29, 44, d.P.R. 380/2001 – BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI – Fascia di profondità di 300 metri dalla linea
di battigia – Vincolo provvedimentale ex art. 136 d.lgs.
42/2004 – Fattispecie: sequestro preventivo di un chiosco
bar ricadente in fascia di profondità di 300 metri dalla
linea di battigia e in zona dichiarata di notevole interesse
pubblico – Artt. 136, 181 e 142 d.lgs. 42/2004.
In materia di tutela urbanistica e
paesaggistica, ai fini dell’integrazione dei reati di cui
all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001, fatta
salva la necessità di ravvisare in capo all’agente il
necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la
contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste
anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia
(oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo
per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia
sostanziale di fonte normativa o risultante dalla
pianificazione.
Da ciò consegue il potere-dovere del giudice penale di
valutare la conformità ai modello legale del titolo edilizio
(apparentemente) formatosi in relazione ad un’attività di
trasformazione del suolo per poter affermare che questa si
sia svolta in forza del necessario presupposto di legalità
sostanziale; ciò in base al fondamentale principio contenuto
nella disposizione generale secondo cui il permesso di
costruire deve essere rilasciato «in conformità alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente»
(art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001), ribadito in termini
ancor più estesi –quanto alla doverosa osservanza della
disciplina normativa di fonte primaria e secondaria–
dall’articolo successivo («il permesso di costruire è
rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello
unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli
strumenti urbanistici»: art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Fattispecie: sequestro preventivo di un chiosco bar
ricadente su un’area in cui vige non solo in vincolo di cui
all’art. 142, comma 1, d.lgs. 42/2004 –per essere il luogo
in una fascia di profondità di 300 metri dalla linea di
battigia– ma anche il vincolo provvedimentale ex art. 136
d.lgs. 42/2004, per essere stata la zona dichiarata di
notevole interesse pubblico, e ciò escluderebbe la deroga di
cui al comma 2, in relazione al comma 4 dell’art. 142 ed
all’art. 143, comma 1, d.lgs. 42/2004
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.11.2021 n. 39753 - link a
www.ambientediritto.it). |
ottobre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Lavori in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico – Assenza dell’autorizzazione –
Configurabilità del reato e disciplina del c.d. “condono
ambientale” – Artt. 181, 183 d.lgs. n. 42/2004 – DIRITTO
URBANISTICO – EDILIZIA – Nozione di superfici utili e di
volumetria – Casi d’inapplicabilità delle sanzioni penale
per effetto della c.d. “compatibilità paesaggistica”
– Interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria –
Artt. 3, 36 d.P.R. n. 380/2001.
A norma dell’art. 181, comma 1-ter,
d.lgs. n. 42 del 2004, la disposizione incriminatrice di cui
al comma 1 del medesimo art. 181, «qualora l’autorità
amministrativa competente accerti la compatibilità
paesaggistica secondo le procedure di cui al comma
1-quater», non si applica:
«a) per i lavori realizzati in assenza o difformità
dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità
dell’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380».
L’istituto della “compatibilità paesaggistica”, quindi, non
può trovare attuazione nel caso di lavori non autorizzati
che abbiano determinato la creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, o
che non siano configurabili quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria a norma dell’art. 3 d.P.R. n. 380
del 2001.
La nozione di superfici utili e di volumetria, inoltre, deve
essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per
la disciplina urbanistica e considerando l’impatto
dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del
territorio.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Principio di prevalenza della
tutela paesaggistica – Potere di incidere sulla
sanzionabilità penale – Riconoscimento Statale.
Il principio di prevalenza della tutela
paesaggistica deve essere declinato nel senso che al
legislatore regionale è impedito non solo adottare normative
che deroghino o contrastino con norme di tutela
paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con
previsioni di tutela in senso stretto, ma, altresì,
introdurre limiti o condizioni, in qualsiasi forma, senza
che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di
tutela, le quali possono se del caso trovare riconoscimento
anche negli strumenti urbanistici regionali o comunali,
tanto più, poi, se dette limitazioni trovino giustificazione
in mere esigenze urbanistiche.
La Corte costituzionale, del resto, già da tempo ha chiarito
che il potere di incidere sulla sanzionabilità penale spetta
al solo legislatore statale, cui va riconosciuta
discrezionalità in materia di estinzione del reato o della
pena, o di non procedibilità.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Rilascio del provvedimento in
sanatoria di “compatibilità paesaggistica” –
Sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto –
Verifiche del giudice.
Il rilascio del provvedimento di
“compatibilità paesaggistica” non determina per ciò stesso
l’operatività della causa di non applicazione della
disposizione penalmente sanzionata di cui all’art. 181,
comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, in quanto è comunque
riservato al giudice il compito di verificare se sussistono
i presupposti di fatto e di diritto dell’istituto estintivo.
Inoltre, ove la sussistenza dei presupposti di fatto e di
diritto per l’operatività dell’istituto di cui all’art. 181,
comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 non è desumibile dal
provvedimento di sanatoria, è comunque onere dell’imputato
allegarne l’esistenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.10.2021 n. 39164 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conformemente alla ormai univoca
giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta
sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità
deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del
territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto
rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco
temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione
dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
---------------
Non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere
qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo
durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul
territorio.
Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi,
con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo
o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto
stagionale».
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma
determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente
aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile
a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167,
commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
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Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo
l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo
parere della Soprintendenza ha natura vincolante».
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare
che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche
dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti
differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i
titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta
paesaggistico, è inefficace.
---------------
1. L’odierno appellante ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-,
dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la -OMISSIS-, sede
-OMISSIS-, avverso: il provvedimento del Comune di Polignano a Mare prot. n.
-OMISSIS-, avente ad oggetto «diffida all’esercizio dell'attività di
somministrazione di alimenti e bevande in località -OMISSIS-. Diffida al
conferimento di rifiuti ai contenitori ubicati sul territorio comunale»;
dell’ivi richiamato verbale di atti di accertamento del 18.05.2009, prot. n.
-OMISSIS-.; la nota del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-,
avente ad oggetto «divieto di prosecuzione dell’esercizio di attività
abusiva di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande» e del
richiamato verbale del 18.05.2009; all’occorrenza, l’ordinanza di
sospensione lavori del Comune di Polignano a Mare n. -OMISSIS-.
...
Il diniego di istanza di permesso di costruire in sanatoria è basato su
plurimi motivi ostativi alla doppia conformità, trattandosi di opere
realizzate su un’area in concessione demaniale e con vincolo paesaggistico
ai sensi del decreto legislativo 42/2004.
Al riguardo, conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa,
va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale,
atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio
fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento
finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed
edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione
dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento
di conformità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze
17.02.2021, n. 1457, 04.01.2021, n. 43, e 18.07.2016, n. 3194).
Ciò posto, è assorbente quanto precisato nel parere contrario della
Soprintendenza del 13.10.2010 sul riscontrato aumento di volume e superficie
utile del chiosco, trattandosi di struttura chiusa su tre lati, con una
conseguente variazione essenziale rispetto al progetto assentito nel 2003, a
cui non è applicabile “mini-sanatoria” paesaggistica di cui
all’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004.
In proposito va evidenziato che non vi è coincidenza tra precarietà e
utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali
vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con
conseguente impatto sul territorio. Ed invero, «i manufatti non precari,
ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso
per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere
reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Consiglio di Stato, sezione
VI, sentenza 03.06.2014, n. 2842; nello stesso senso cfr., ex aliis,
Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 22.12.2007, n. 6615; Consiglio
Stato, sezione V, decisione 12.12.2009, n. 7789; Consiglio di Stato, sezione
VI, sentenza 01.12.2014, n. 5934).
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma
determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente
aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile
a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167,
commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
Nel caso di specie è stata cagionata inoltre un’alterazione dello stato dei
luoghi determinata dallo scavo del banco di roccia per la realizzazione
della fossa di tipo Imhoff, non prevista dalle concessioni demaniali e dal
permesso di costruire, che non autorizzavano alcun tipo di scavo della
roccia, ma soltanto l’installazione di bagni chimici e facendo comunque
salva la necessità di realizzarle nell’ambito dell’area oggetto della
concessione, e non fuori da essa, come, invece, in concreto verificatosi.
Sul punto è inconferente il richiamo all’art. 11 della legge regionale della
-OMISSIS- n. 17/2006 recante l’obbligo in capo al concessionario di
stabilimento demaniale marittimo di garantire i servizi minimi (igienico-sanitari,
docce e chiosco-bar), poiché tale obbligo va ottemperato nel rispetto della
normativa e non autorizza ovviamente la realizzazione di opere abusive.
Con riferimento all’occupazione abusiva del demanio marittimo per la
realizzazione di tali opere, la normativa di settore non prevede la
possibilità di una specifica sanatoria, non avendo peraltro il pagamento
dell’indennità per l’occupazione abusiva alcun effetto sanante; diversamente
opinando, infatti, si darebbe ingresso ad un’illegale sanatoria atipica
demaniale e si aggirerebbe l’obbligo di una procedura di evidenza pubblica
aperta a tutti gli operatori economici interessati propedeutica
all’affidamento della concessione.
Ne deriva che l’amministrazione comunale non avrebbe potuto in alcun modo
accoglier l’istanza di sanatoria edilizia, stante la natura vincolata del
predetto parere negativo di compatibilità paesaggistica poiché, «nel
procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo
l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo
parere della Soprintendenza ha natura vincolante» (Consiglio di Stato,
sezione VI, 08.08.2018, n. 5770); in ogni caso, la giurisprudenza
amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un
permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente
vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica,
trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di
costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (cfr.,
ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 14.12.2015, n. 5663,
13.04.2016, n. 1436, e 21.05.2021, n. 3952).
Ne consegue peraltro che ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 qualsivoglia vizio formale e procedimentale verrebbe
sterilizzato dalla natura vincolata e necessitata del diniego di sanatoria
edilizia adottato dal Comune
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.10.2021 n. 6912 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Condono ambientale – Nozione
di volumetria – Qualificazione del fatto reato – Valutazione
di compatibilità paesaggistica e rilascio
dell’autorizzazione in sanatoria – Effetti – Art. 181,
d.lgs. n. 42/2004.
Ai fini della qualificazione del fatto
reato come contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1,
d.lgs. 22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art.
181, comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di
“volumetria” deve essere individuata prescindendo dai
criteri applicabili per la disciplina urbanistica e
considerando l’impatto dell’intervento sull’originario
assetto paesaggistico del territorio, sicché la nozione di
“volumetria” –al pari di quella di “superficie utile” di cui
al comma 1-ter, lett. a), della stessa disposizione– dev’essere
individuata prescindendo dai suddetti criteri urbanistici.
Inoltre, il rilascio del provvedimento di compatibilità
paesaggistica non determina automaticamente la non
punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al
giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti l’applicazione del cosiddetto condono
ambientale.
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3.1. il primo motivo è manifestamente infondato;
3.2. l’art. 181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del
2004, consente l’accertamento di compatibilità paesaggistica
per i lavori realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica che «non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati»;
3.3. nel caso di specie si tratta della abusiva
realizzazione di un manufatto che occupa una superficie di
mq. 29 e sviluppa una volumetria di mc. 80, stabilmente
ancorato alla sottostante platea di cemento e destinato al
ricovero di equini; la domanda di accertamento di
compatibilità paesaggistica era stata favorevolmente esitata
sul rilievo che la volumetria, trattandosi di costruzione
accessoria al deposito agricolo e di limitate dimensioni,
non è urbanisticamente rilevante ai sensi della legislazione
urbanistica provinciale, sicché l’intervento non avrebbe
determinato creazione di superfici utili o volumi ai sensi
dell’art. 181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004;
3.4. secondo il costante insegnamento di questa Corte, ai
fini della qualificazione del fatto reato come
contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs.
22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art. 181,
comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di “volumetria”
deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili
per la disciplina urbanistica e considerando l’impatto
dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del
territorio (Sez. 3, n. 23028 del 24/06/2020, Rv. 279708 –
01; Sez. 3, n. 16697 del 28/11/2017, dep. 2018, Rv. 272844 –
01), sicché la nozione di “volumetria” – al pari di
quella di “superficie utile” di cui al comma 1-ter,
lett. a), della stessa disposizione – dev’essere individuata
prescindendo dai suddetti criteri urbanistici (Sez. 3, n.
9060 del 04/10/2017, dep. 2018, Rv. 272450 – 01; Sez. 3, n.
889 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv. 251641 – 01; Sez. 3, n.
44189 del 19/09/2013, Rv. 257527 – 01);
3.5. inoltre, il rilascio del provvedimento di compatibilità
paesaggistica non determina automaticamente la non
punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al
giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti l’applicazione del cosiddetto condono
ambientale (Sez. 3, n. 13730 del 12/01/2016, Rv. 266955 –
01; Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv. 251640 –
01; Sez. 3, n. 27750 del 27/05/2008, Rv. 240822 – 01; in
senso analogo, Sez. 3, n. 36454 del 31/05/2019, Rv. 276758 –
01);
3.6. correttamente, di conseguenza, la Corte di appello ha
disatteso il provvedimento (che si deduce travisato per
omissione) che ha erroneamente ritenuto l’intervento non
produttivo di superfici utili o volumi ai sensi dell’art.
181, comma 1-ter, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2021 n. 34585 - link a www.ambientediritto.it). |
luglio 2021 |
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’assenza di una
esplicita motivazione non può neanche essere compensata dal
fatto che il potere esplicitato in materia edilizia o
paesaggistica si possa configurare come sostanzialmente
vincolato o, comunque a ridotti margini di discrezionalità,
poiché nel caso di specie risulta carente qualsiasi
certazione in ordine alla rilevanza della abusività (sul
piano edilizio e paesaggistico) dell’opera realizzata. Anche
in tali casi, infatti, l’onere motivazionale ed istruttorio
resta imprescindibile.
Tali principi sono stati costantemente ribaditi anche dalla
giurisprudenza più recente.
- “La motivazione costituisce infatti il contenuto
insostituibile della decisione amministrativa, anche in
ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di
legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art.
21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il
provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti”.
- “I provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione, intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine giuridico infranto,
all'esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco, bensì di un supporto giustificativo, id est della
certazione della esistenza di attività edilizia realizzata
in dispregio delle regole”.
- “L'ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e
rigorosamente vincolato. Infatti, la repressione dell'abuso
corrisponde per definizione all'interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato,
con la conseguenza che essa è già dotata di un'adeguata e
sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle
opere abusive e nella constatazione della loro abusività”.
---------------
5. Con il secondo
ed il terzo motivo, trattati unitamente per ragioni
di connessione oggettiva si lamenta la violazione degli artt.
22 e 33 del DPR n. 380/2001 e s.m.i., dell’art. 167 del
D.lgs. n. 42/2004 nonché eccesso di potere per difetto dei
presupposti, travisamento dei fatti, carenza istruttoria e
difetto di motivazione.
Il provvedimento impugnato ordina di provvedere “ai sensi
dell'art 33 D.P.R. 380/2001 e dell'art. 167, comma 1, D.Lgs.
42/2004, alla rimozione della catena”.
I ricorrenti sostengono che il provvedimento sarebbe carente
di motivazione ed istruttoria per quanto riguarda le
violazioni disciplinate e sanzionate nelle due disposizioni
richiamate nel provvedimento. In ogni caso le opere
contestate rientrerebbero tra gli interventi di edilizia
libera (ai sensi del punto n. 49 del glossario dell’edilizia
libera approvato con D.M. 02.03.2018) per cui non sarebbe
corretto il richiamo all’art. 33 del DPR n. 380/2001, avente
ad oggetto “interventi di ristrutturazione edilizia in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità”;
del pari non sarebbe applicabile (né risulta mai contestata
una violazione in tal senso) l’art. 167 del D.Lgs. n.
42/2004, anche in ragione della tipologia di opera che non
assumerebbe rilevanza paesaggistica.
Anche in questo caso le doglianze colgono nel segno in punto
di assenza di motivazione e carenza istruttoria.
Come sopra evidenziato il provvedimento incentra il suo
percorso istruttorio sulla fondatezza dei poteri di
autotutela possessoria e sulla presenza dell’uso pubblico
che legittimerebbe l’intervento ingiuntivo. Non è dato
rinvenire alcun riferimento alle fattispecie inerenti la
rilevanza edilizia o paesaggistica dell’opera realizzata.
L’assenza di una esplicita motivazione sui punti in
argomento non può neanche essere compensata dal fatto che il
potere esplicitato in materia edilizia o paesaggistica si
possa configurare come sostanzialmente vincolato o, comunque
a ridotti margini di discrezionalità, poiché nel caso di
specie risulta carente qualsiasi certazione in ordine alla
rilevanza della abusività (sul piano edilizio e
paesaggistico) dell’opera realizzata. Anche in tali casi,
infatti, l’onere motivazionale ed istruttorio resta
imprescindibile.
Tali principi sono stati costantemente ribaditi anche dalla
giurisprudenza più recente.
“La motivazione costituisce infatti il contenuto
insostituibile della decisione amministrativa, anche in
ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di
legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art.
21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il
provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti”
(TAR Calabria Catanzaro Sez. II, 22/03/2021, n. 634,
conforme Cons. Stato Sez. II, 18/06/2020, n. 3909).
“I provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione, intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine giuridico infranto,
all'esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco, bensì di un supporto giustificativo, id est della
certazione della esistenza di attività edilizia realizzata
in dispregio delle regole” (TAR Campania Napoli Sez. VI,
20/11/2020, n. 5395).
“L'ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e
rigorosamente vincolato. Infatti, la repressione dell'abuso
corrisponde per definizione all'interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato,
con la conseguenza che essa è già dotata di un'adeguata e
sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle
opere abusive e nella constatazione della loro abusività”
(Cons. Stato Sez. VI, 27/01/2020, n. 631).
Per tali ragioni anche il secondo ed il terzo motivo di
ricorso risultano fondati
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.07.2021 n. 730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: I
beni immobili posseduti da enti pubblici o persone giuridiche private senza
scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni, sono da considerare beni
culturali ope legis, fino a quando non intervenga una espressa
verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 dlgs 42/2004.
Il D.Lgs. n. 42/2004, all’art. 10, comma 1,
prevede che sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo
Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni
altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di
lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che
presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
L’art. 12 prevede che “Le cose indicate all’art. 10, c. 1, che siano
opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre
cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono
sottoposte alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia
stata effettuata la verifica di cui al comma 2”; il successivo comma 2
prevede che “i competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta
formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi
dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1,
sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero
medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione”.
Dal quadro normativo succintamente riportato emerge che il sistema di
tutela dei beni in discorso (ovvero dei beni immobili posseduti da enti
pubblici o privati senza scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni) è
imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente
a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II
del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello
svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato
alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo.
In altre parole, tali beni, se appartenenti a soggetti pubblici, sono
da considerare beni culturali ope legis, fino a quando non intervenga una
espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12.
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E' impugnata la nota del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
e del Turismo con la quale ha dichiarato l’insussistenza dell’interesse storico-artistico
relativamente all’immobile di proprietà del
Comune deducendo
il vizio di motivazione, non essendo compiutamente evincibile, dall’esame
del provvedimento impugnato, la ragione per cui è stata denegata
l’apposizione del vincolo, frutto di una valutazione non puntuale e,
comunque, difettosa e carente.
Secondo la prospettazione attorea, il parere reso dalla Soprintendenza
non ha distinto e adeguatamente motivato circa la rilevanza storica e
culturale del bene in questione, non essendovi traccia, nel diniego
impugnato, delle ragioni ostative volte al riconoscimento della rilevanza
storico-culturale, pur trattandosi di un “immobile particolarmente
identitario per la cultura coriglianese”.
Il Comune di Corigliano contesta la illegittimità del provvedimento
anche sotto il profilo della valutazione dell’interesse artistico ed
architettonico, in ragione degli elementi strutturali e decorativi
dell’edificio.
Invero, reputa il Collegio che sia meritevole di accoglimento il profilo del
difetto di motivazione in cui è incorsa l’Amministrazione, limitatamente
alla mancata valutazione del valore storico-culturale e identitario del bene
oggetto di verifica laddove gli artt. 10 e seguenti del Codice dei beni culturali
legittimano l’adozione di provvedimenti di vincolo, che possono fondarsi
sulle varie tipologie d’interesse previste dal legislatore, qualificando
alternativamente un certo bene e conferendo ad esso, in via esclusiva o
concorrente, un interesse connotato ora in senso artistico, ora storico, ora
archeologico, ora etnoantropologico.
In particolare, l’art. 10, comma 3, lett. d), assoggetta a tutela cose
immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che “rivestono un interesse
particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia
politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della
tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali
testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche,
collettive o religiose”.
Con riferimento a questo aspetto, oggetto di specifica previsione
normativa, sussiste il denunciato difetto di motivazione, poiché la P.A. non
ha in alcun modo argomentato -neppure nel parere della Soprintendenza,
richiamato per relationem- circa la eventuale rilevanza
storico-culturale e identitaria del bene oggetto di verifica, per come
rimarcata dall’Ente richiedente, essendosi viceversa limitata ad
argomentare, negli atti gravati, unicamente sugli elementi di interesse
architettonico e storico-artistico dell’opera edilizia, in sé considerata.
Ed invero, con l’istanza di verifica dell’interesse culturale ex art.
12 D.Lgs. n. 42/2004, il Comune di Corigliano d’Otranto aveva puntualmente
segnalato la rilevanza storica del bene di cui si controverte, evidenziando
nella apposita sezione del modulo che la struttura “ha esercitato le
proprie normali funzioni, rappresentando spettacoli di prosa, spettacoli
musicali (opera, operetta, musical, concerti, balletto) e la proiezione di
film […]. Il “Super Cinema” è stato un contenitore architettonico e
artistico che si contraddistingueva per la sua vivacità culturale".
Il provvedimento de quo si limita, invece, a motivare che “non
è stata dimostrata la sussistenza del requisito dei 70 anni dalla sua
esecuzione, così come previsto dall’art. 12, co. 1, del D.Lgs. 42/2004 e
s.m.i. Inoltre, lo stesso immobile non presenta sufficienti elementi di
interesse architettonico e storico-artistico di particolare rilevanza
culturale, così come previsto dal succitato D.Lgs. trattandosi di edilizia
presumibilmente risalente alla metà degli anni ‘50 del Novecento priva di
particolari elementi di pregio”.
La circostanza assume rilevanza dirimente, nell’ottica di un possibile
valore storico dell’edificio -oggi di proprietà comunale- nella evoluzione
culturale della comunità coriglianese, ben evidenziata nella relazione
tecnica di parte, prodotta in giudizio, nei seguenti termini: “il
Supercinema di Corigliano d’Otranto rappresenta un luogo d’interesse
storico, artistico e architettonico nonché di pregio culturale e
testimoniale; l’edificio ha, infatti, un grande potere evocativo di
monumento nel senso pieno del termine, che perpetua con la sua presenza il
ricordo dell’istituzione che ha rappresentato, ovvero di luogo di cultura,
di arte, di spettacolo e di socialità [… ]. È l’unico cinema sopravvissuto a
Corigliano d’Otranto e la sua presenza ha rappresentato un ruolo
fondamentale per lo sviluppo culturale della comunità che in esso da sempre
si è identificata e che oggi lo riconosce come luogo di memoria collettiva”.
---------------
... per l’annullamento:
- della nota del 20.12.2019, prot. n. 38437, trasmessa a mezzo PEC
in pari data, con la quale il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
e del Turismo ha dichiarato l’insussistenza dell’interesse storico-artistico
relativamente all’immobile denominato “Supercinema” di proprietà del
Comune di Corigliano d’Otranto;
...
3. Nel merito, il ricorso è affidato ai seguenti motivi:
I. Violazione e
falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 10-bis l. n. 241/1990. Violazione del
principio di buon andamento dell’attività amministrativa. Violazione e falsa
applicazione degli artt. 10, 12, 13 e seguenti del D.Lgs. 42/2004.
Violazione delle regole procedimentali. Eccesso di potere per carenza di
presupposti. Difetto d’istruttoria. Difetto di motivazione. Illogicità
manifesta;
II. Violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12 e ss. del
D.Lgs. 42/2004. Illogicità manifesta. Contraddittorietà. Anche con
riferimento alla Direttiva del Ministero dei Beni e delle Attività culturali
e del Turismo concernente le sale cinematografiche di interesse storico del
26.08.2014. Difetto e carenza di motivazione.
4. Il ricorso è meritevole di accoglimento, nei termini di seguito esposti.
4.1. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente sostiene che il
Ministero dei Beni Culturali sia incorso in un errore procedurale, avendo
ritenuto che non sia stata offerta prova in ordine alla sussistenza del
requisito temporale, previsto dall’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 42 del
2004, per la sottoposizione a vincolo dell’immobile in questione.
4.2. Il motivo è fondato.
4.3. Si deve premettere che il D.Lgs. n. 42/2004, all’art. 10, comma 1,
prevede che sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo
Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni
altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di
lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che
presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
4.4. L’art. 12 prevede che “Le cose indicate all’art. 10, c. 1, che siano
opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre
cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono
sottoposte alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia
stata effettuata la verifica di cui al comma 2”; il successivo comma 2
prevede che “i competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta
formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi
dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1,
sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero
medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione”.
4.5. Dal quadro normativo succintamente riportato emerge che il sistema di
tutela dei beni in discorso (ovvero dei beni immobili posseduti da enti
pubblici o privati senza scopo di lucro, costruiti da più di 70 anni) è
imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente
a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II
del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello
svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato
alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo.
4.6. In altre parole, tali beni, se appartenenti a soggetti pubblici, sono
da considerare beni culturali ope legis, fino a quando non intervenga
una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 5934/2014; TAR Salerno, Sez. I, sent. n.
517/2016)
5. Ciò premesso, osserva il Collegio che agli atti di causa è provato che i
lavori di costruzione dell’immobile de quo hanno avuto inizio nell’anno 1947
e sono stati completati nell’anno 1949; pertanto, alla data di presentazione
dell’istanza di riconoscimento del valore storico culturale del bene in
questione (ossia alla data del 30.04.2019), si era compiuto il periodo di 70
anni dalla data della sua edificazione, per come richiesto dalla normativa
sopra richiamata.
5.1. Infatti, nel documento “Elenco delle nuove costruzioni sorte a
Corigliano d’Otranto dal primo gennaio 1947 al 31.12.1949”, estratto
dall’Archivio Storico Comunale (Collocazione Fasc. 2414; Titolario X, 10°
Fasc. 2395-2426), è testualmente riportato nella pagina a destra, rigo 15: «Do.Gi. fu An. - inizio 1947-1949 vani 1 con antispettatoio piano T.
uso ‘Supercinema’ in via Madonnella”».
5.2. Si deve, quindi, convenire con gli esiti della relazione tecnica,
depositata dalla difesa ricorrente e redatta dal Prof. Ing. Fr.Ma., nel
senso che l’edificio denominato “Supercinema” di Corigliano d’Otranto
-realizzato negli anni della rinascita postbellica ed appositamente
progettato come sala cinematografica- “viene costruito tra il 1947 e il
1949 in via Madonnella (oggi via Francesco Saverio Nitti) per volere di
Gi.Do.”, per essere poi acquistato nel 1955 dalla famiglia De.Sa. e, infine, donato all’Amministrazione comunale di Corigliano d’Otranto
nel 2015 (cfr. paragrafi 1 e 2 relazione cit.).
6. Con il secondo ordine di doglianze, viene dedotto, invece, il
vizio di motivazione, non essendo compiutamente evincibile, dall’esame del
provvedimento impugnato, la ragione per cui è stata denegata l’apposizione
del vincolo, frutto di una valutazione non puntuale e, comunque, difettosa e
carente.
6.1. Secondo la prospettazione attorea, il parere reso dalla Soprintendenza
non ha distinto e adeguatamente motivato circa la rilevanza storica e
culturale del bene in questione, non essendovi traccia, nel diniego
impugnato, delle ragioni ostative volte al riconoscimento della rilevanza
storico-culturale, pur trattandosi di un “immobile particolarmente
identitario per la cultura coriglianese”.
6.2. Il Comune di Corigliano contesta la illegittimità del provvedimento
anche sotto il profilo della valutazione dell’interesse artistico ed
architettonico, in ragione degli elementi strutturali e decorativi
dell’edificio, adducendo a sostegno gli esiti della relazione tecnica di
parte, depositata in atti.
7. Tali doglianze sono in parte fondate.
7.1. Reputa il Collegio che sia meritevole di accoglimento il profilo del
difetto di motivazione in cui è incorsa l’Amministrazione, limitatamente
alla mancata valutazione del valore storico-culturale e identitario del bene
oggetto di verifica.
7.2. Ed invero, gli artt. 10 e seguenti del Codice dei beni culturali
legittimano l’adozione di provvedimenti di vincolo, che possono fondarsi
sulle varie tipologie d’interesse previste dal legislatore, qualificando
alternativamente un certo bene e conferendo ad esso, in via esclusiva o
concorrente, un interesse connotato ora in senso artistico, ora storico, ora
archeologico, ora etnoantropologico.
7.3. In particolare, l’art. 10, comma 3, lett. d), assoggetta a tutela cose
immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che “rivestono un interesse
particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia
politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della
tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali
testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche,
collettive o religiose”.
7.4. Con riferimento a questo aspetto, oggetto di specifica previsione
normativa, sussiste il denunciato difetto di motivazione, poiché la P.A. non
ha in alcun modo argomentato -neppure nel parere della Soprintendenza,
richiamato per relationem- circa la eventuale rilevanza
storico-culturale e identitaria del bene oggetto di verifica, per come
rimarcata dall’Ente richiedente, essendosi viceversa limitata ad
argomentare, negli atti gravati, unicamente sugli elementi di interesse
architettonico e storico-artistico dell’opera edilizia, in sé considerata.
7.5. Ed invero, con l’istanza di verifica dell’interesse culturale ex art.
12 D.Lgs. n. 42/2004, il Comune di Corigliano d’Otranto aveva puntualmente
segnalato la rilevanza storica del bene di cui si controverte, evidenziando
nella apposita sezione del modulo che la struttura “ha esercitato le
proprie normali funzioni, rappresentando spettacoli di prosa, spettacoli
musicali (opera, operetta, musical, concerti, balletto) e la proiezione di
film […]. Il “Super Cinema” è stato un contenitore architettonico e
artistico che si contraddistingueva per la sua vivacità culturale".
7.6. Il provvedimento de quo si limita, invece, a motivare che “non
è stata dimostrata la sussistenza del requisito dei 70 anni dalla sua
esecuzione, così come previsto dall’art. 12, co. 1, del D.Lgs. 42/2004 e
s.m.i. Inoltre, lo stesso immobile non presenta sufficienti elementi di
interesse architettonico e storico-artistico di particolare rilevanza
culturale, così come previsto dal succitato D.Lgs. trattandosi di edilizia
presumibilmente risalente alla metà degli anni ‘50 del Novecento priva di
particolari elementi di pregio”.
7.7. La circostanza assume rilevanza dirimente, nell’ottica di un possibile
valore storico dell’edificio -oggi di proprietà comunale- nella evoluzione
culturale della comunità coriglianese, ben evidenziata nella relazione
tecnica di parte, prodotta in giudizio, nei seguenti termini: “il
Supercinema di Corigliano d’Otranto rappresenta un luogo d’interesse
storico, artistico e architettonico nonché di pregio culturale e
testimoniale; l’edificio ha, infatti, un grande potere evocativo di
monumento nel senso pieno del termine, che perpetua con la sua presenza il
ricordo dell’istituzione che ha rappresentato, ovvero di luogo di cultura,
di arte, di spettacolo e di socialità [… ]. È l’unico cinema sopravvissuto a
Corigliano d’Otranto e la sua presenza ha rappresentato un ruolo
fondamentale per lo sviluppo culturale della comunità che in esso da sempre
si è identificata e che oggi lo riconosce come luogo di memoria collettiva”.
8. Non sono invece positivamente apprezzabili gli ulteriori profili di
censura, contenuti nel secondo motivo di ricorso, con cui si stigmatizza la
circostanza che la verifica operata dal Ministero, sulla base del parere
della Soprintendenza, non abbia tenuto conto delle caratteristiche peculiari
ed idonee a riconoscere la sussistenza della rilevanza artistica ed
architettonica dell’opera, anche in relazione alla Direttiva del Ministero
dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo concernente le sale
cinematografiche di interesse storico del 26.08.2014.
8.1. Infatti, il Comune ricorrente contesta in vario modo le valutazioni
della Soprintendenza, ma restando pur sempre nel perimetro della
disputabilità delle valutazioni artistiche e architettoniche, senza addurre
elementi che possano dimostrare che il giudizio di valore espresso
dall’Amministrazione sia scientificamente del tutto inaccettabile, oppure
che possano indurre a escludere in radice l’attendibilità della valutazione
tecnico-discrezionale operate dalla P.A.
8.2. Fino a quando si fronteggiano soltanto “opinioni” divergenti, al
Giudice Amministrativo è preclusa la sindacabilità della posizione espressa
dall’organo statale appositamente investito ex lege della competenza
ad operare siffatta valutazione, posta a base dell’esercizio del potere.
9. Per quanto innanzi, il ricorso va accolto ai sensi e nei termini in
precedenza indicati, con conseguente annullamento degli atti gravati e con
la precisazione che, in sede di riedizione del potere, l’Amministrazione
dovrà vagliare –previa idonea attività istruttoria, anche in rapporto alla
accertata risalenza ultra settantennale dell’epoca di costruzione del c.d. “Supercinema”–
l’eventuale rilevanza sotto il profilo storico-culturale dell’immobile de
quo agitur
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 24.05.2021 n. 786 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: parere in merito al procedimento concernente
l’approvazione di impianti di distribuzione di carburante in
aree sottoposte a vincoli paesaggistici – l.r. 8/2001(Regione
Lazio,
nota 22.04.2021 n. 362589 di prot.).
---------------
L’Area in indirizzo ha chiesto il parere di questa
Direzione Regionale in merito alle procedure da seguire per
l’approvazione in variante urbanistica semplificata di
impianti di distribuzione di carburante da realizzare in
aree soggette a vincolo paesaggistico. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Riscontro alla richiesta di parere dell’Ente
Regionale Parco di Veio trasmessa alla Direzione Tecnica del
Municipio XV con prot. CU/22096 del 10.03.2021, inviata a
questa Struttura con prot. CU/25495 del 19.03.2021,
pervenuta con prot. QI/54038 del 21.03.2021, inerente
l’applicabilità dell’intervento di Ristrutturazione Edilizia
inteso come Demolizione e Ricostruzione, previsto dall’art.
3, comma 1, lett. d), del DPR 380/2001 (come modificato ed
integrato dalla L. n. 120/2020), ai soli edifici vincolati
ai sensi del D.Lgs. 42/2004, ovvero anche a quelli non
vincolati ai sensi di quest’ultimo Decreto ma ricadenti
all’interno del Parco Naturale Regionale di Veio (Comune
di Roma,
nota 19.04.2021 n. 75658 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: parere in merito al regime autorizzatorio per la
realizzazione di campi da paddle tennis in aree
sottoposte a vincolo paesaggistico con riferimento
all’applicabilità del d.P.R. 31/2017 (Regione Lazio,
nota 16.04.2021 n. 343445 di prot.).
---------------
Con nota del 14.01.2021 prot. 2025 Roma Capitale ha
chiesto il parere di questa Direzione regionale in merito a
quanto riportato in oggetto.
In particolare, si chiede se la realizzazione di un campo da
paddle tennis possa rientrare tra gli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o in quelli sottoposti
alla procedura autorizzatoria semplificata elencati negli
Allegati A e B al Regolamento emanato con Decreto del
Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Qualificazione di un intervento di parziale
demolizione e ricostruzione di edificio in area
paesaggistica (Regione Emilia Romagna,
nota 01.04.2021 n. 296941 di prot. unitamente al
relativo allegato).
---------------
1. Si forniscono i chiarimenti richiesti con due e mail
del XXX e del XXX scorsi circa la qualificazione giuridica
da dare ad un intervento di parziale demolizione e
ricostruzione di un edificio ubicato:
- in ambito rurale dove la nuova costruzione è consentita
solo per l'esercizio dell'attività agricola;
- in area soggetta a vincolo paesaggistico, ai sensi
della parte terza del D.Lgs. n. 42 del 2004;
- in area parzialmente instabile
- all'interno della fascia di rispetto stradale.
L'intervento ipotizzato prevede il mantenimento della parte
accessoria del fabbricato esistente la demolizione del la
parte abitativa e la sua ricostruzione con un sedime diverso
ma sempre in aderenza alla parte conservata L edificio
verrebbe diversamente posizionato rispetto a quello attuale
in ragione dell'instabilità del terreno che non consente di
eseguire né un intervento conservativo dell'esistente né di
fedele ricostruzione.
Il quesito posto è volto dunque a conoscere la
qualificazione edilizia dell'intervento parzialmente
ricostruttivo ed in particolare se lo stesso possa essere
ricondotto nella ristrutturazione edilizia essendo preclusa
la possibilità di realizzare una nuova costruzione, in
quanto riservata dallo strumento urbanistico agli
imprenditori agricoli (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza
un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti
preoccupati:
«Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case
antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse
perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori
obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel
cappotto termico. Ma vai a capire.
La
circolare 04.03.2021 n. 4
del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli
immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945,
non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione
paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le
conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive
in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a
confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono
diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada
del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti
successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di
finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra
tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti
dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare
allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo
Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla
sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio
provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento
autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro
il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti -
coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande
preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La
burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni
di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il
nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e
soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E
la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è
stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di
richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono
infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono
sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche
tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata.
Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le
Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è
avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il
professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli
successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le
sovrintendenze di una massa di carta» (articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021). |
marzo 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Superbonus,
edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla
soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere
l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli
edifici costruiti prima del 1945.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4, del
Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi
di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della
soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto
dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a
condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le
specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per
edifici di edilizia storica così come definiti nella
circolare Mibact
42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la
soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere
“contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche
categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale
“patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione
dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che
(e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella
produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La
circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere
l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr
31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici
all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla
osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la
sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto”
(con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica
significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere
ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella
riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri
l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti”
o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della
facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non
compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui
realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà
essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva
nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima
entità»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl
cappotto. Stop al cappotto se non si passa
prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.
Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione
paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4
dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive,
definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche
significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica
prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento».
Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli
interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino
lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito
dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia
storica così come definiti nella
circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che
costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere
individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed
edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura
anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base
della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle
tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi
architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data
suddetta».
La
circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per
esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B
del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato
gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio
dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della
circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per
la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento
apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue
caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi
indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili
realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per
le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27
febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva
l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti
sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico
appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta
eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo
post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale»,
ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021)
la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo
Il Sole 24 Ore del 31.03.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza, ciò si sostanzia in un rapporto di
presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e
valutazioni urbanistiche.
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno
in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto,
l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia: essi, dunque,
operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che
sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il
necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici.
---------------
9. – Il motivo è fondato.
E’ incontestato che il progetto per la realizzazione dell’area di servizio
attrezzata in fregio alla S.S. 38 non sia stato mai approvato, pur avendo
ricevuto l’autorizzazione paesaggistica.
Per l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, ciò si sostanzia in un
rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni
paesistiche e valutazioni urbanistiche (ex aliis, C.d.S., sez. I,
18.01.2019, n. 232; C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2568; C.d.S., sez. IV,
09.02.2016, n. 521).
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno
in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto,
l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia (C.d.S., sez. IV,
27.11.2010, n. 8260): essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti
a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti (C.d.S.,
sez. VI, n. 2568/2016).
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il
necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici (C.d.S.,
sez. VI, n. 2568/2016).
Nel caso in esame, il progetto di realizzazione dell’area di servizio
comprensiva di impianti tecnologici e di pubblica utilità (servizio di
autolavaggio; officina, elettrauto, gommista; servizi igienici di uso
pubblico; area attrezzata per camper; impianto di distribuzione di
carburante; edificio per la somministrazione di alimenti e bevande e
ristorazione; aree a parcheggio pubblico; area destinata a parco
giochi–giardino di sosta; opere varie di sistemazione e compensazione
ambientale), di cui alle tavole progettuali prodotte agli atti del giudizio
(doc. 14 della produzione di primo grado di parte ricorrente), pur assentito
per il profilo paesaggistico, non era stato approvato sotto quello
urbanistico-edilizio.
Pertanto, alla base della richiesta di permesso di costruire per la «realizzazione
del rilevato al fine di adeguare le quote dell’area di intervento al piano
stradale esistente», mediante l’innalzamento del terreno per un’altezza
media di ml. 4,00 su una superficie di mq 11.750 e la costruzione di un muro
di contenimento delle terre all’interno della fascia di rispetto stradale,
difettava, sotto il profilo urbanistico-edilizio, l’approvazione del
progetto finale, senza il quale la trasformazione dello stato dei luoghi,
con la mera creazione di un terrapieno privo di uno scopo autonomo, non
rispondeva ad alcuna funzione, se non futura e sperata, e non poteva
certamente giovarsi delle previsioni specifiche dettate per la costruzione
di impianti di distribuzione di carburante, ragion per cui, già solo per
questo motivo, si palesava illegittimo.
Si tratta di un motivo di censura su cui, in effetti, il giudice di primo
grado ha omesso di pronunciarsi e che possiede portata assorbente di tutte
le altre censure relative alla impugnazione del titolo edilizio per vizi
propri: dunque, anche degli ulteriori profili fatti valere in questa sede
sia col primo motivo di appello (supra, § 8) che col secondo motivo
di appello (nel quale, come poc’anzi detto al § 5, parte appellante critica
la decisione di primo grado per non aver accolto le censure di inosservanza
delle norme e delle regole generali dell’azione amministrativa in materia
idrogeologica)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 26.03.2021 n. 2553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione
paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione
di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di
affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei
due titoli.
Nelle ipotesi in cui il titolo
edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità
di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma
inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe
sempre intervenire.
Invero, “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”.
---------------
Stante il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo
edilizio e titolo paesaggistico, in virtù di tale rapporto, la mancanza
dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato,
non è -di per sé, ossia se e
in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro
lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’),
ove non rientranti nelle categorie degli
‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione
trova appiglio per quanto statuito dal Consiglio di Stato. Invero:
«È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa
secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione
paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da
interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta
paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori
prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico.
L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di
specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di
censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che per
costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione
paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove
l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985;
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza
dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto
la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta
ambientale:
«la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica».
---------------
4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la
insufficiente, contraddittoria e carente motivazione dell’ordinanza
impugnata, nonché la violazione di una aspettativa giuridicamente
qualificata in capo alla ricorrente ritenuta, nel caso di specie, prevalente
rispetto all’interesse pubblico da tutelare.
In particolare si censura l’ordinanza con riferimento alla tardiva
contestazione dell’assenza di autorizzazione paesaggistica che, a fronte di
un permesso a costruire favorevole (il n. 5/2008) che avrebbe ingenerato una
aspettativa giuridicamente qualificata, condurrebbe l’amministrazione a
ledere il legittimo affidamento della ricorrente (del resto, sottolinea
sempre la ricorrente, il PDC non è mai stato annullato proprio in ragione
del tempo trascorso).
Il titolo abilitativo alla costruzione dell’immobile
sarebbe stato regolarmente emesso e l’attività di costruzione posta in
essere sarebbe stata svolta dalla ricorrente nel legittimo affidamento di
essere pienamente autorizzata ad operare in un’area priva di vincolo.
Anche
alla luce del tempo trascorso, la ricorrente sostiene infine che la
motivazione dell’ordinanza di demolizione avrebbe dovuto essere completa ed
esaustiva, oltre che in punto di affidamento, anche sull’interesse pubblico
alla demolizione.
Le doglianze non colgono nel segno.
In primo luogo il fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza
di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base
ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare
nessuna forma di affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei
due titoli. Nelle ipotesi, come nel caso di specie, in cui il titolo
edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità
di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma
inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe
sempre intervenire. “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”
(TAR Piemonte, 07/11/2012, sent. n. 1166; conformi Cons. Stato, sez. IV
14/12/2015, sent. n. 5663; TAR Campania, Salerno, 01/08/2020, sent. n. 973).
Su tale filone si è espressa recentissima giurisprudenza sostenendo che “7.
Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza
della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n.
40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la
legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub
n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il
rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati. In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex
art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e
in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro
lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’),
ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli
‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione
trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia
richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa
secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII,
05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione
paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico.
La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995,
n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da
interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta
paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori
prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico.
L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di
specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di
censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per
costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione
paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove
l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n.
6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952
…);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza
dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto
la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166,
«la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)» (TAR Campania, Salerno,
29/01/2021, sent. n. 266)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Disposizioni integrative alla Circolare n. 42 del 21.07.2017,
applicativa del DPR n. 31 del 2017. Linee di indirizzo "interventi
di coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica"
di cui alla voce A2 dell'allegato A, da effettuarsi su
edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio, parte III in applicazione della
Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (MiC,
circolare 04.03.2021 n. 4).
---------------
La suddetta circolare è l'epilogo (intermedio) di pregressa
corrispondenza finalizzata ad avere chiarimenti in materia.
Segnatamente, nell'ordine:
1 -
Oggetto: Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (superbonus 110%). Indicazioni
attuative (MiBACT,
circolare 23.10.2020 n. 45).
2 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici
sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali
Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e
documentale ai fini dell’applicazione della Legge
27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) (MiBACT,
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona,
nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.).
3 - Oggetto: Riscontro alla nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.
della
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona
(Federazione Regionale degli Architetti Pianificatori
Paesaggisti e Conservatori della Liguria,
nota 12.03.2021 n. 1248 di prot.).
4 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici
sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali
Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e
documentale ai fini dell’applicazione della Legge
27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) -
Precisazioni in merito alla nota 2310 del 17.02.2021 (MiC,
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona,
nota 15.03.2021).
---------------
Da ultimo, in argomento, si è aggiunta anche la
Soprintendenza di Brescia con una propria nota:
● Oggetto: Applicazione della Legge n. 160
del 27.12.2019 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del
17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) negli ambiti
tutelati ai sensi del D.lgs. 42/2004 e patrimonio edilizio
diffuso di valore storico architettonico, storico artistico
e storico-testimoniale. Linee di indirizzo (MiC,
Soprintendenza per le province di Bergamo e Brescia,
nota 07.05.2021 n. 8143 di prot.),
nella cui nota si menzionano due altri documenti e cioè:
► Oggetto: Linee Guida per la valutazione e
riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale
allineate alle nuove Norme tecniche per le costruzioni (d.m.
14.01.2008) (MiBAC,
circolare 02.12.2010 n. 26) ... per maggiori
informazioni consulta anche la
pagina web dedicata del MiBACT;
►
G.U. 26.02.2011 n. 47,
suppl. ord. n. 54, "Valutazione e riduzione del rischio
sismico del patrimonio culturale con riferimento alle Norme
tecniche per le costruzioni di cui al decreto del Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti del 14.01.2008" (Direttiva
P.C.M. 09.02.2011).
►
Linee di indirizzo per il miglioramento dell'efficienza
energetica nel patrimonio culturale -
Architettura, centri e nuclei storici ed urbani (MiBACT,
2015).
---------------
In origine (intermedia) si frappone anche un'ulteriore nota
del MiBACT in risposta ad un quesito della Regione Lazio:
— Oggetto: Inquadramento in senso al dpr
31/2017 degli interventi di efficientamento energetico
comportanti la realizzazione di un rivestimento "a cappotto"
sul fronte esterno degli edifici a fini di coibentazione
termica (MiBACT,
nota 24.12.2020 n. 37730 di prot.). |
febbraio 2021 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Quella
dell’art. 17-bis L. 241/1990, come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia
nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici”, è una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che
matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti
gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti
disegnati dalla specifica disposizione normativa.
Per tale motivo viene
definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno
del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in
quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non
involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento.
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della
decisione finale.
---------------
Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di applicazione
della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti amministrativi
generali ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni deputate alla
cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito dal comma
terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha
affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve
ritenersi che l'istituto del silenzio-assenso tra pubbliche Amministrazioni
di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a
prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai
procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti
su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali
complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in fattispecie
relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale generale al
piano paesaggistico territoriale).
---------------
La scelta della Soprintendenza di rinvio di ogni valutazione paesaggistica
sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si
è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die”
dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò
indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e
buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L.
241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato
all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i
soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni
dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in
modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una
legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza
di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le
modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento
d’ufficio) e al
potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio
all’inerzia della p.a..
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in
sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha
rilevato, con considerazioni di carattere generale, che:
- “il ‘fattore-tempo' assume un ‘valore ordinamentale fondamentale'
quale componente determinante per la vita e l'attività dei cittadini e delle
imprese, per i quali l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi
può costituire un costo che incide sulla libertà di iniziativa privata ex
art. 41 Cost.”;
- "Tale fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo
moderno, e si connette a principi fondamentali di rango costituzionale
(quali l'efficienza e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che
vanno declinati ‘in concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche
sovranazionale (cfr. in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, che riconosce al cittadino un diritto a
che le questioni che lo riguardano siano trattate dall'amministrazione
pubblica, oltre che con imparzialità ed equità, anche “entro un termine
ragionevole”)”.
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi
convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di
urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi
esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in
discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante,
se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame
nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
---------------
In sede di rilascio del parere prescritto dall’art. 16 L. 1150/1942 la
mancata adozione da parte della Soprintendenza di un tempestivo atto di
dissenso congruamente motivato comporta l’effetto tipico dell’assenso ai
sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990, non diversamente peraltro da quanto
previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in tema di
conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di assenso
delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e
ambientale, fatto qui salvo il rimedio dell’opposizione di cui all’art.
14-quinquies L. 241/1990.
---------------
1.- E’ materia del contendere la legittimità del parere espresso ai sensi
dell'art. 146, c. 5, del D.Lgs. n. 42/2004 dalla locale Soprintendenza
nell'ambito della Conferenza di servizi asincrona convocata dal Comune di
Casalecchio per il rilascio del titolo abilitativo relativo alle opere di
urbanizzazione relative all'attuazione del PUA “SA.”.
Si duole la società ricorrente dall’avere la Soprintendenza motivato il
proprio parere negativo con valutazioni proprie della fase urbanistica
attinente all’esame della variante al Piano particolareggiato, nel
convincimento -a suo dire del tutto erroneo- della mancata consumazione
del proprio potere consultivo in seguito al parere soprassessorio rilasciato
il 23.04.2018.
2.- Preliminarmente può prescindersi dall’eccezione di tardività ex art. 73
c.p.a. sollevata dalla difesa di parte ricorrente, avendovi essa rinunciato
all’udienza pubblica e avendo comunque diffusamente replicato a tutte le
argomentazioni difensive dell’Autorità tutoria.
3.- Venendo al merito il ricorso è fondato e va accolto.
3.1. - In punto di fatto, va evidenziato come con il parere 9250 del 23.04.2018 rilasciato ai sensi dell’art. 16 L. 1150/1942, sulla variante al
Piano Particolareggiato la Soprintendenza abbia affermato testualmente che
“Con riferimento agli aspetti di tutela paesaggistica si rinvia il parere
alla fase di ordinario procedimento ai sensi del Codice Beni Culturali e
Paesaggio”.
Ad avviso dell’Amministrazione tale asserzione non potrebbe avere alcun
valore legale tipico, valendo tuttalpiù come silenzio-rifiuto.
3.2. - Non ritiene il Collegio di poter condividere tale assunto.
Ai sensi dell’art. 17-bis L. 241/1990 come noto introdotto dalla legge 07.08.2015 n. 124 “Madia” “Effetti del silenzio e dell'inerzia
nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici”: “1. Nei casi in cui è prevista
l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di
amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per
l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti
comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal
ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa
documentazione, da parte dell'amministrazione procedente. Esclusi i casi di
cui al comma 3, quando per l'adozione di provvedimenti normativi e
amministrativi è prevista la proposta di una o più amministrazioni pubbliche
diverse da quella competente ad adottare l'atto, la proposta stessa è
trasmessa entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta da parte di
quest'ultima amministrazione. Il termine è interrotto qualora
l'amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto
o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica,
motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso,
l'assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni
dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento;
lo stesso termine si applica qualora dette esigenze istruttorie siano
rappresentate dall'amministrazione proponente nei casi di cui al secondo
periodo. Non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato
l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Esclusi i casi di cui al comma 3, qualora la proposta non sia trasmessa nei
termini di cui al comma 1, secondo periodo, l'amministrazione competente può
comunque procedere. In tal caso, lo schema di provvedimento, corredato della
relativa documentazione, è trasmesso all'amministrazione che avrebbe dovuto
formulare la proposta per acquisirne l'assenso ai sensi del presente
articolo. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali
coinvolte nei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Consiglio
dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle
modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è
prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque
denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini,
per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i
provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il
termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio
assenso, concerto o nulla osta e' di novanta giorni dal ricevimento della
richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti
termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla
osta, lo stesso si intende acquisito.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui
disposizioni del diritto dell'Unione europea richiedano l'adozione di
provvedimenti espressi.”
Trattasi di una fattispecie di silenzio con valore tipizzato di assenso, che
matura tra amministrazioni pubbliche, oppure tra amministrazioni e soggetti
gestori di beni o servizi pubblici, alle condizioni ed entro i limiti
disegnati dalla specifica disposizione normativa. Per tale motivo viene
definito come silenzio-assenso “interno”, ossia che interviene all'interno
del modulo procedimentale, oppure quale silenzio-assenso “orizzontale”, in
quanto concerne i rapporti tra più amministrazioni o enti pubblici e non
involge il rapporto “verticale” con il destinatario del provvedimento (ex
plurimis TAR Puglia Bari, sez. II, 06.02.2020, n. 194).
Pertanto, l'ambito di operatività di tale istituto di semplificazione
attiene ai procedimenti (e decisioni) pluristrutturati, quando
all'emanazione di un provvedimento finale partecipino più amministrazioni,
ciascuna portatrice di un peculiare interesse pubblico, che cura
nell'esercizio di proprie funzioni, ascritte dalla legge, in tal guisa che
l'avviso espresso, con parere, o altra formula di assenso, da una
amministrazione è parimenti vincolante, ai fini dell'emanazione della
decisione finale.
3.3. - Ciò premesso, non vi sono dubbi circa l’ambito oggettivo di
applicazione della norma anche agli atti di pianificazione, quali atti
amministrativi generali (ex plurimis Consiglio di Stato sez. VI, 08.06.2020, n. 3632) ed agli atti di assenso da parte di amministrazioni
deputate alla cura di interessi c.d. sensibili, come espressamente stabilito
dal comma terzo del richiamato art. 17-bis.
Come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente la giurisprudenza ha
affermato che per ragioni letterali, sistematiche e teleologiche, deve
ritenersi che l'istituto del silenzio assenso tra pubbliche Amministrazioni
di cui all'art. 17-bis l. n. 241 del 1990 abbia una portata generalizzata, a
prescindere dall'Amministrazione coinvolta o dalla natura del procedimento
pluristrutturato preso in esame, risultando applicabile anche ai
procedimenti diretti all'adozione di atti amministrativi generali, incidenti
su interessi pubblici sensibili e all'esito di valutazioni discrezionali
complesse (Consiglio di Stato sez. VI, 14.07.2020, n. 4559 in
fattispecie relativa a procedimento di adeguamento di un piano comunale
generale al piano paesaggistico territoriale).
3.4. - Tanto doverosamente premesso, la scelta della Soprintendenza espressa
con la nota del 23.04.2018 di rinvio di ogni valutazione paesaggistica
sul Piano attuativo al “procedimento ordinario (art. 146 D.lgs. 42/2004)” si
è risolta in un “non parere” ovvero in un vero e proprio rinvio "sine die”
dell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali, con ciò
indubbiamente frustrando le esigenze di semplificazione amministrativa e
buon andamento alla base dell’istituto di cui al richiamato art. 17-bis. L. 241/1990.
E ciò è particolarmente evidente nell’ambito di un procedimento preordinato
all’approvazione di un piano attuativo o di una sua variante laddove i
soggetti proponenti-attuatori debbono poter conoscere le valutazioni
dell’Amministrazione preposta alla tutela dei beni soggetti a vincolo, in
modo da poter per tempo programmare la propria attività, nel quadro di una
legge quale la n. 124/2015 "Madia” inequivocabilmente ispirata all’esigenza
di complessiva certezza dei rapporti di diritto pubblico (vedasi anche le
modifiche apportate all’art. 21-nonies L. 241/1990 in tema di annullamento
d’ufficio cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 14.10.2019, n. 6975) e al
potenziamento dell’operatività del silenzio-assenso quale generale rimedio
all’inerzia della p.a. (ex multis TAR Campania Napoli sez. I, 07.01.2016, n. 2).
E’ opportuno evidenziare che il Consiglio di Stato, intervenuto più volte in
sede consultiva sui testi normativi attuativi della c.d. Riforma Madia, ha
rilevato, con considerazioni di carattere generale, che “il ‘fattore-tempo'
assume un ‘valore ordinamentale fondamentale' quale componente determinante
per la vita e l'attività dei cittadini e delle imprese, per i quali
l'incertezza o la lunghezza dei tempi amministrativi può costituire un costo
che incide sulla libertà di iniziativa privata ex art. 41 Cost.”; “Tale
fattore assume un ruolo centrale nel diritto amministrativo moderno, e si
connette a principi fondamentali di rango costituzionale (quali l'efficienza
e il buon andamento della p.A. ex art. 97 Cost., che vanno declinati ‘in
concreto' con una efficace scadenza temporale), ma anche sovranazionale (cfr.
in particolare l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, che riconosce al cittadino un diritto a che le questioni che lo
riguardano siano trattate dall'amministrazione pubblica, oltre che con
imparzialità ed equità, anche “entro un termine ragionevole”)” (Consiglio di
Stato comm. spec., 15.04.2016, n. 929).
Ne consegue che la Soprintendenza, nell’ambito della Conferenza di servizi
convocata per il solo rilascio del titolo abilitativo per le opere di
urbanizzazione in attuazione del PUA, avrebbe dovuto pronunciarsi
esclusivamente con riferimento a tale intervento, non potendo rimettere in
discussione gli elementi planovolumetrici derivanti dall’approvata variante,
se non previo esercizio del potere di autotutela con funzione di riesame
nelle forme, termini e limiti di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990.
3.5. - E’ altrettanto condivisibile poi l’assunto della ricorrente di netta
distinzione tra le valutazioni paesaggistiche da effettuarsi in sede di
approvazione di piani urbanistici e quelle in sede di parere ex art. 146
d.lgs. 42/2004 sull’autorizzazione adottata dalla Regione o dall'Ente
locale subdelegato di compatibilità di un singolo intervento, non essendo
consentita una arbitraria commistione tra le due diverse fasi procedimentali
peraltro in evidente quanto immotivato pregiudizio degli interessi privati
coinvolti.
3.6. - Può semmai discutersi della legittimità, sotto un profilo
strettamente costituzionale, della scelta invero non episodica operata dal
legislatore statale di estendere forme di silenzio-assenso ad atti emanati
da amministrazioni deputate alla cura degli interessi c.d. sensibili.
In realtà la giurisprudenza costituzionale ha più volte escluso quanto al
parametro degli artt. 9 e 32 Cost. l’incostituzionalità del silenzio-assenso
in materia ambientale e di interessi sensibili, limitandosi invero ad
escludere l’introduzione di forme di assenso tacito da parte delle Regioni
per contrasto (art. 117 Cost.) con le competenze statali in materia
ambientale (Corte Costituzionale 01.07.1992, n. 306; Id. 12.02.1996, n. 26; Id. 27.04.1993 n. 194, Id.
08.11.2017, n. 232; Id. 18.07.2014, n. 209; Consiglio di Stato, Comm. spec., 13.07.2016, n.
1640; Id. Adunanza plen., 27.07.2016, n. 17).
La Consulta, pur qualificando gli interessi sensibili come “valori
costituzionali primari”, ha d’altronde chiarito che la “primarietà” non
legittima un primato assoluto, incondizionato e aprioristico in un'ipotetica
scala gerarchica dei valori costituzionali, ma, piuttosto, impone più
limitatamente che essi siano effettivamente presi in considerazione nei
concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche
amministrazioni (Corte Cost. 09.05.2013, n. 85 sul c.d. caso Ilva). Di
contro la semplificazione amministrativa, sempre secondo la giurisprudenza
costituzionale, è principio di diretta rilevanza costituzionale (C. Cost. sent. n. 81/2013) e comunitaria (C. Cost. sent. n. 164/2012).
3.7. - Va pertanto ribadito che in sede di rilascio del parere prescritto
dall’art. 16 L. 1150/1942 la mancata adozione da parte della Soprintendenza
di un tempestivo atto di dissenso congruamente motivato comporta l’effetto
tipico dell’assenso ai sensi dell’art 17-bis L. 241/1990, non diversamente
peraltro da quanto previsto dal vigente comma 3 dell’art. 14-bis L. 241/1990 in
tema di conferenza di servizi semplificata, applicabile anche agli atti di
assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale e ambientale, fatto qui salvo il rimedio
dell’opposizione di cui all’art. 14-quinquies L. 241/1990.
3.8. - Ne consegue la fondatezza del primo motivo di gravame, di
natura assorbente
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
I,
sentenza 27.02.2021 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Parere
della Soprintendenza sui piani attuativi.
L’art.
16, comma 3, della legge 1150/1942 prevede che sui piani particolareggiati
riguardanti zone sottoposte a vincolo paesistico sia acquisito il parere
della Soprintendenza. Essendo identico l’interesse pubblico tutelato, la
norma è applicabile a qualsiasi piano attuativo, indipendentemente dalla
qualificazione formale e dall’autorità competente all’approvazione.
In ogni caso, il potere della
Soprintendenza può essere consumato solo dalla Soprintendenza, rendendo
oppure omettendo di rendere il parere richiesto.
Se il parere non viene richiesto, non si determina automaticamente
l’illegittimità del piano attuativo, ma più semplicemente la concentrazione
dell’intera funzione di controllo sui provvedimenti a valle, ossia sui
titoli edilizi.
Se, dunque, la Soprintendenza non è stata coinvolta in
precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le
valutazioni sulle scelte pianificatorie che non sia stata messa in
condizione di formulare nei confronti del piano attuativo.
Per questa ragione, non è necessario annullare il piano attuativo allo scopo
di recuperare il parere della Soprintendenza. Il mancato coinvolgimento
della Soprintendenza rende infatti inopponibile alla stessa il piano
attuativo, e impedisce il consolidamento delle aspettative dei lottizzanti.
---------------
Sul parere della Soprintendenza
17. Secondo i ricorrenti, la circostanza che sul progetto di piano attuativo
non sia stato chiesto il parere della Soprintendenza dovrebbe condurre
all’annullamento tanto del piano attuativo quanto degli atti connessi. La
tesi non è però condivisibile.
18. L’art. 16, comma 3, della legge 1150/1942 prevede che sui piani
particolareggiati riguardanti zone sottoposte a vincolo paesistico sia
acquisito il parere della Soprintendenza. Essendo identico l’interesse
pubblico tutelato, la norma è applicabile a qualsiasi piano attuativo,
indipendentemente dalla qualificazione formale e dall’autorità competente
all’approvazione.
19. Tuttavia, è necessario inserire il contributo della Soprintendenza nel
mutato quadro regolatorio della pianificazione urbanistica. Il passaggio
dalla pianificazione generale a quella di dettaglio è infatti accompagnato
da nuovi strumenti di controllo dell’utilizzazione del territorio (VIA, VAS,
VIC), all’interno dei quali trova posto anche la valutazione degli interessi
pubblici di natura paesistica. Alla Soprintendenza è chiesto un
pronunciamento con un grado di dettaglio corrispondente alla scala della
previsione urbanistica oggetto di esame.
A questo proposito, occorre sottolineare che, secondo la più recente tecnica
di redazione dei piani urbanistici, sono inserite nello strumento
urbanistico generale, ossia nel PGT, anche le schede dei piani attuativi,
talvolta con previsioni estremamente puntuali. Quando si pronuncia sui
progetti di variante al PGT, la Soprintendenza deve quindi rendere un parere
esteso all’intero contenuto delle innovazioni, valutando anche le specifiche
previsioni sui diritti edificatori, senza potersi riservare l’esercizio del
medesimo potere per il successivo esame dei piani attuativi e dei titoli
edilizi.
20. Nello specifico, la Soprintendenza, partecipando alla verifica di
assoggettabilità alla VAS, ha espresso sulla variante al PGT un parere in
data 12.01.2017, concentrandosi prevalentemente sui profili archeologici
della tutela. Poiché la scheda dell’ambito AT10 era inserita nella variante,
con l’esatta indicazione dei diritti edificatori, si può ritenere che già in
quella fase alla Soprintendenza fosse stata data l’opportunità di
esprimersi, in via anticipata, su una parte essenziale del contenuto del
piano attuativo.
Non sembra quindi corretto affermare che il Comune abbia approvato la
trasformazione di un’area vincolata privandosi del tutto del contributo
della Soprintendenza.
21. In ogni caso, il potere della Soprintendenza può essere consumato solo
dalla Soprintendenza, rendendo oppure omettendo di rendere il parere
richiesto.
Se il parere non viene richiesto, non si determina automaticamente
l’illegittimità del piano attuativo, ma più semplicemente la concentrazione
dell’intera funzione di controllo sui provvedimenti a valle, ossia sui
titoli edilizi. Se dunque la Soprintendenza non è stata coinvolta in
precedenza, può svolgere, in relazione ai singoli titoli edilizi, anche le
valutazioni sulle scelte pianificatorie che non sia stata messa in
condizione di formulare nei confronti del piano attuativo.
Per questa ragione, non è necessario annullare il piano attuativo allo scopo
di recuperare il parere della Soprintendenza. Il mancato coinvolgimento
della Soprintendenza rende infatti inopponibile alla stessa il piano
attuativo, e impedisce il consolidamento delle aspettative dei lottizzanti
(v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2013 n. 443)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.02.2021 n. 150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: A
ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in
quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è,
d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di
rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum
infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a
dispetto di essa.
---------------
1. Col ricorso in epigrafe, la Ru. s.a.s. (in appresso, R.) impugnava,
chiedendone l’annullamento, la nota del 06.06.2019, prot. n. 13186, con la
quale la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province
di Salerno e Avellino (in appresso, Soprintendenza di Salerno e Avellino)
aveva espresso il proprio parere sfavorevole in merito all’istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica prot. n. 897 del 07.02.2019,
avente per oggetto il fabbricato ad uso abitativo-rurale, assentito giusta
permessi di costruire (PdC) n. 40 del 14.09.2007 e n. 3 dell’08.02.2012,
ubicato in Mugnano del Cardinale, via ..., censito in
catasto al foglio 8, particella 174, e ricadente in fascia di rispetto
fluviale ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004 dall’alveo
del Lagno di Sciminaro e Acqualonga.
2. L’impugnato diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica
risultava motivato in base al rilievo che il fabbricato anzidetto risultava
ab origine sprovvisto della propedeutica e necessaria autorizzazione
paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, cosicché esso non avrebbe
potuto essere legittimato ex post a norma del successivo art. 167, commi 4 e
5, non rientrando in alcuna delle fattispecie contemplate da quest’ultima
disposizione.
3. Nell’avversare siffatta determinazione declinatoria, la R. lamentava, in
estrema sintesi, che:
a) la costruzione controversa rinverrebbe comunque la propria fonte
abilitativa nei PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, la quale avrebbe ingenerato il
legittimo affidamento dell’interessata nella conformità dell’intervento non
solo sotto il profilo urbanistico-edilizio, ma anche sotto il profilo
paesaggistico;
b) tale legittimo affidamento sarebbe stato precipuamente
salvaguardabile attraverso lo strumento apprestato dall’art. 167, commi 4 e
5, del d.lgs. n. 42/2004, a fronte dell’incertezza circa la perdurante
sussistenza di un vincolo paesaggistico connesso ad un alveo ormai
abbandonato;
c) il parere del 06.06.2019, prot. n. 13186, difetterebbe di
adeguata motivazione, non avendo tenuto, segnatamente, conto delle concrete
caratteristiche del contesto territoriale tutelato.
...
7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la
sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita
dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole
circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr.
retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in
quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è,
d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di
rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum
infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella
specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a
dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis,
ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la
quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire
in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma
occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione
manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il
reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n.
431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente:
Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta
autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)».
7.2. Ora, la Soprintendenza di Salerno e Avellino risulta aver fatto, nel
caso in esame, buon governo delle direttive ermeneutico-applicative dianzi
declinate.
Ed invero, se l’intervento progettato dalla R., pur essendo assistito dai
PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, difettava ab origine della necessaria
autorizzazione paesaggistica, siccome giammai richiesta dall’interessata, e
se, ciononostante, lo stesso è stato comunque portato ad esecuzione, sulla
base di un titolo edilizio rimasto inefficace (per mancanza di quello
paesaggistico), la costruzione realizzata, per le relative caratteristiche
tipologiche e dimensionali, non avrebbe potuto, ictu oculi, fruire
della minisanatoria ambientale ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n.
42/2004.
7.3. Non vale a menomare il superiore approdo l’arresto sancito da Cons.
Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4759 e invocato da parte ricorrente a
suffragio della propria tesi.
La pronuncia in parola radica, infatti, in capo al soggetto beneficiario di
permesso di costruire non accompagnato da autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, il legittimo affidamento nella conformità anche
paesaggistica dell’edificazione posta in essere, con riferimento ad una
ipotesi in cui il titolo paesaggistico risultava prescritto non già –come,
appunto, nella specie– all’epoca della presentazione dell’istanza, bensì,
soltanto successivamente, all’epoca del rilascio di quello edilizio
(TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.01.2021 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Emergenza da COVID-19 –
Pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani nei
Centri Storici – Beni di interesse storico-artistico
qualificabili come beni culturali ope legis –
Esecuzione di opere e lavori d’installazione dehors –
Autorizzazione – Necessaria – Eccezione effetti del cd.
decreto rilancio – Fattispecie: installazione di strutture
amovibili esterne (dehors) – L. 17.07.2020, n. 77 – Artt.
10, 12, 13, 21, 45-47, 169, 172 d.lgs. 42/2004.
Le pubbliche piazze, vie, strade, e
altri spazi urbani, laddove rientranti nell’ambito dei
Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lett.
g), dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004,
sono qualificabili come beni culturali ope legis,
indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di
interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13
del Codice.
Sicché, ai sensi dell’art. 21, comma 4, del d.lgs. 42/2004,
l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su tali
beni culturali è subordinata ad autorizzazione del
soprintendente. L’esecuzione di opere di qualunque genere su
tali beni culturali, perché ricompresi nell’art. 10 d.lgs.
42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita ex
art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto
rilancio.
Nella specie, la diversità della struttura realizzata
rispetto a quelle descritte dalla norma per le sue
caratteristiche oggettive non rientrava tra quelle descritte
nell’art. 181, comma 3, del d.l. 34/2020 (l’art. 181, comma
3, del d.l. n. 34 del 2020 (cd. decreto rilancio) convertito
con modificazioni dalla L. 17.07.2020, n. 77, ha stabilito
che «Ai soli fini di assicurare il rispetto delle misure di
distanziamento connesse all’emergenza da COVID-19, e
comunque non oltre il 31.12.2020, la posa in opera
temporanea su vie, piazze, strade e altri spazi aperti di
interesse culturale o paesaggistico, da parte dei soggetti
di cui al comma 1, di strutture amovibili, quali dehors,
elementi di arredo urbano, attrezzature, pedane, tavolini,
sedute e ombrelloni, purché funzionali all’attività di cui
all’articolo 5 della legge n. 287 del 1991, non è
subordinata alle autorizzazioni di cui agli articoli 21 e
146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42») (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2021 n. 3583 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
1. Il primo motivo è infondato.
1.1. Va premesso che questa Corte si è già occupata dei
dehors realizzati nel centro storico di Benevento con
più sentenze, fra cui quelle richiamate dal ricorrente.
I ricorsi del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Benevento sono stati dichiarati inammissibili,
ma si è però rilevato che il principio di diritto, posto a
base delle ordinanze del Tribunale del riesame di Benevento
e richiamato nel ricorso, era errato.
1.2. Si è, infatti, affermato il principio per cui (cfr.
Sez. 3, n. 31760 del 21/10/2020, D’Aniello) le pubbliche
piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove
rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del
comma 1 e del comma 4, lettera g), dell’articolo 10 del
decreto legislativo n. 42 del 2004, sono qualificabili come
beni culturali indipendentemente dall’adozione di una
dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli
articoli 12 e 13 del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da
considerare beni culturali ope legis, rispetto ai
quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di
cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga
una espressa verifica di interesse in senso contrario ex
art. 12 (TAR Veneto Sez. III n, 927 del 08.10.2018; Cons.
Stato, VI, sent. 5934/2014; Cons. Stato, VI, sent. 482/2011;
id., VI, sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013).
1.3. È inconferente il richiamo a Sez. 3, n. 42899 del
24/10/2008, Valente, Rv. 24161801: tale sentenza ha
affermato, in tema di tutela penale delle cose di antichità
e d’arte, che ai fini della operatività della cosiddetta
tutela «diretta» sui beni immobili, qualificati come
beni culturali, appartenenti allo Stato ed agli altri Enti
pubblici, la cui violazione integra il reato di esecuzione
di opere illecite (artt. 3 10, 21 e 169, D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42), è necessario che siano soddisfatte tre condizioni:
a) che i predetti beni siano stati realizzati da oltre
cinquanta anni; b) che il loro autore non sia più vivente;
c) che abbia dato esito positivo la verifica dell’interesse
culturale secondo la procedura di cui all’art. 12 del D.Lgs.
citato.
Però tale principio di diritto si riferisce ad un immobile e
non alle strade del centro storico.
1.4. Va pertanto ribadito che, ai sensi dell’art. 21 comma
4, del d.lgs. 42/2004, l’esecuzione di opere e lavori di
qualunque genere su tali beni culturali è subordinata ad
autorizzazione del soprintendente. L’esecuzione di opere di
qualunque genere su tali beni culturali, perché ricompresi
nell’art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è
pertanto punita ex art. 169 d.lgs. 42/2004, salvi gli
effetti del cd. decreto rilancio.
1.5. Va altresì rilevato che effettivamente manca la
motivazione sul fumus del reato sub a) ex art. 172 in
relazione all’art. 45 del d.lgs. 42/2004; inoltre, il
riconoscimento della tutela diretta è in contrasto con la
contemporanea sussistenza della tutela indiretta, senza per
altro che sia specificato concretamente in cosa sarebbe
consistita la violazione.
Però, il ricorrente non ha interesse a dedurre tale
omissione, perché da essa non deriva alcun effetto
restitutorio, persistendo il fumus del reato ex art.
169 d.lgs. 42/2004. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
valore identitario non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile
o un’area al vincolo di tutela.
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Paesaggio – Tutela - Valore identitario – Insufficienza ex se.
Il solo valore identitario non è sufficiente per
assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art.
136, d.lgs. n. 42 del 2004, essendo richiesto anche lo specifico requisito
estetico della “bellezza naturale” dei luoghi (1).
---------------
(1) Ha ricordato la sentenza che la Sezione ha avuto modo di
inaugurare la giurisprudenza sul primo “vincolo vestito” costituito dal d.m.
25.01.2010, con cui è stato dichiarato bene paesaggistico, ai sensi
dell’art. 136 del Codice, l’Agro Romano tra la via Laurentina e Ardeatina
–atto con cui è stato avviato un processo di tutela dell’intera Campagna
Romana, proseguito con la dichiarazione delle Tenute Storiche di Torre
Maggiore con d.m. 27.10.2017 e di recente con il vincolo della parte tra Via
Nettunense e l’Agro Romano apposto con d.m. 11.03.2020– risolvendo le
numerose controversie intercorse tra il Comune, la Regione, le Associazioni
e privati proprietari con una serie di sentenze che hanno definito un quadro
di principi per l’interpretazione e l’applicazione delle novità codicistiche.
Ha aggiunto la sentenza che a distanza di dieci anni da quelle pronunce sono
intervenuti nuovi ed ulteriori elementi che meritano di essere considerati
con particolare attenzione.
Innanzitutto è stata meglio focalizzata la nozione di paesaggio a seguito
dell’analisi delle diverse versioni dell’art. 131 del Codice, in cui è stata
approfondita la distinzione tra paesaggio inteso come “forma del territorio”
(come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e
lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”,
che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e
presentano una loro identità”) ed i beni paesaggistici veri e propri (oggetto
di tutela del Codice), ulteriormente differenziando, nell’ambito di tale
ultima categoria, le “bellezze di natura” contemplate dall’art. 136, di cui
è stato di recente rivalutato il valore estetico-percettivo-storico-culturale, rispetto ai beni ambientali-culturali (cd. beni paesaggistici diffusi), tutelati
ex lege, per
l’appartenenza alle categorie indicate dall’art. 142 (con molti ripensamenti
per quanto riguarda l’eventuale “riassorbimento” delle zone di interesse
archeologico nell’ambito dei beni ex art. 136), a prescindere da qualunque
“pregio intrinseco”, solo in considerazione dell’essere “elementi
costitutivi del paesaggio” (di valore identitario in quanto ne determinano
la fisionomia).
In particolare quest’ultima distinzione, nell’ambito della composita ed
eterogenea nozione di beni paesaggistici, risulta ancora attuale, come si
evince dal fatto che l’art. 138 sancisce che “La proposta di vincolo è
formulata con riferimento ai valori storici, culturali, naturali,
morfologici, estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli
immobili o delle aree considerati ed alla loro valenza identitaria in
rapporto al territorio in cui ricadono”, in cui la congiunzione “e” ha
valore aggiuntivo e non avversativo.
Nel regolamento approvato con r.d. 03.06.1940, n. 1357 (da qui Regolamento) –le cui previsioni restano in
vigore, ai sensi dell’art. 158 del Codice, “fino all'emanazione di apposite
disposizioni regionali di attuazione”, “in quanto applicabili”- viene
altresì precisato, all’art. 9, che nella scelta se assoggettare o meno a
vincolo l’immobile o l’area, si deve tener presente.
“1) che fra le cose
immobili contemplate dall'art. 1, n. 1, della legge sono da ritenersi
compresi quegli aspetti e quelle conformazioni del terreno o delle acque o
della vegetazione che al cospicuo carattere di bellezza naturale uniscano il
pregio della rarità; 2) che la singolarità geologica è determinata
segnatamente dal suo interesse scientifico;
3) che a conferire non comune
bellezza alle ville, ai giardini, ai parchi concorrono sia il carattere e
l'importanza della flora sia l'ambiente, soprattutto se essi si trovino
entro il perimetro di una città e vi costituiscano una attraente zona verde;
4) che nota essenziale d'un complesso di cose immobili costituenti un
caratteristico aspetto di valore estetico e tradizionale è la spontanea
concordanza e fusione fra l'espressione della natura e quella del lavoro
umano;
5) che sono bellezze panoramiche da proteggere quelle che si possono
godere da un punto di vista o belvedere accessibile al pubblico, nel qual
caso sono da proteggere l'uno e le altre.”
Pertanto il solo valore identitario non è di per sé sufficiente per
assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art.
136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si
aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto,
del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale”
(nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette
delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della
natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata
“superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la
categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo
stesso paesaggio-territorio privo di qualità).
In tale prospettiva è stato opportunamente chiarito che “la eliminazione con
la lettera d) del comma 1 dell'art. 136 del riferimento alle bellezze
panoramiche "considerate come quadri naturali", dapprima previsto nell'art.
1 della legge 1497 del 1939 (poi limitato alla sola parola "quadri" nel d.lgs. n. 490 del 1999), non comporta, di per sé, effetti di limitazione
della proprietà privata equivalendo sempre la visione delle bellezze
panoramiche a quella di quadri naturali ed essendo perciò siffatta nozione,
in quanto ulteriormente esplicativa di un già chiaro contenuto estetico,
priva di valenza giuridica aggiuntiva, tanto più essendo rimasta identica la
restante parte della disposizione”.
È stato perciò ribadito che “il vincolo
paesaggistico relativo alle bellezze naturali (art. 136, comma 1, lett. d)
del D.Lgs. n. 42/2004) riguarda la bellezza estetica e panoramica offerta
dalla natura, il c.d. “quadro naturale”, salvaguarda il panorama e le
visuali e protegge “il paesaggio quale interesse pubblico alla tutela della
bellezza dei luoghi nel loro insieme, quindi rispetto alla sua fruibilità
visiva da parte della collettività” (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2013,
n. 1022).
E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza,
quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136
lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi
“valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito,
dovendo il giudizio sul notevole interesse paesaggistico soddisfare non solo
il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di
requisiti cumulativamente richiesti.
Si tratta di una precisazione che va tenuta in particolare considerazione
nel caso in esame, in cui, appunto, il compendio immobiliare dell’Università
ricorrente viene ad essere assoggettato a vincolo con il provvedimento in
esame proprio ai sensi all’art. 136, lett. c), del Codice, oltre che dell’art.
136, lett. d), come bellezza panoramica o punto di vista panoramico.
È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla
caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” -cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione
agricola”- nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che
presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del
“rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo,
scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR.
In conclusione, l’evoluzione recente delle riflessioni sul tema in esame ha
progressivamente messo a fuoco l’esigenza di differenziare la gravosità del
regime giuridico vincolistico in corrispondenza del grado di valore del bene
paesaggistico protetto -che deve rispondere alle ragioni dell’estetica,
quale “causa” del vincolo, non riducibili, pertanto, al mero valore identitario dei luoghi, che costituisce solo un motivo “aggiuntivo”,
incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni
meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale,
mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a
parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi,
ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato
oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro
valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini)- facendo
implicitamente richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (ad
esempio nello scegliere tra sottoporre a vincolo un fondo come bene
culturale di tipo archeologico oppure come mera zona di interesse
archeologico, oppure tra vincolare un sistema lacuale solo come bene
paesaggistico o come bene culturale, nel vincolo di destinazione di uno
studio di artista etc.), per evitare di incorrere in quegli “eccessi di
tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di
crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di
intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune
occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela
perseguite.
Tali principi hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame
a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto
meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136
ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso,
indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo
stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione
ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della
“valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo
interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui
l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro
grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) –cioè a
“verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento
del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di
valore” e non di “giudizio di fatto”)- e la successiva fase della “gestione
del vincolo” –che attiene propriamente alle “scelte d’azione”– in cui si
ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale”
anche di altri interessi co-primari concomitanti.
Anche se l’inclusione nel medesimo Codice tende a sfumare la differenza tra
i beni paesaggistici ed i beni culturali, accomunati nella prima fase
(quella dell’individuazione ed assoggettamento a vincolo) dall’utilizzo del
medesimo strumento giuridico (la cd. “dichiarazione” del loro valore),
occorre considerare che, nella seconda fase (quella della gestione del
vincolo), sono sottoposti a regimi differenti.
I primi, infatti, si
caratterizzano per essere costituti da beni che per loro stessa natura non
sono destinati esclusivamente ad un mera “fruizione contemplativa” (come nel
caso della maggior parte dei beni culturali, quelli mobili), ma per essere
sfruttati anche per altre utilità, ove interessino terreni (in primis per
attività produttive), che possono essere d’interesse anche generale (a
differenza dello sfruttamento edificatorio che risponde all’interesse
particolare del solo proprietario).
Analogie e differenze che li
caratterizzano rispetto ai beni ambientali culturali di cui all’art. 142,
che lo stesso legislatore del 1985 aveva considerato anche sotto il profilo
della loro naturale destinazione alla fruizione pubblica in quanto “beni
comuni”, la cui valorizzazione risponde ad un interesse generale, che viene
riproposta dallo stesso Codice.
L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita
nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del
“principio dello sviluppo sostenibile”, rischia di risultare
controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato
dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio –in
particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene
paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle
forze della natura– che finirebbero per essere addirittura danneggiati da
vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una
sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva
incolta dei relativi terreni.
Pertanto, se da un lato si valorizza
l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere
quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il
parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere
abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli
eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva,
imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno
dell’abbandono dei campi.
Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una
minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili
(esemplare la vicenda del vincolo sull’ex Cinema America) che confermano la
ragionevolezza della scelta del legislatore del 1939 di limitare la tutela
ai soli beni che presentano valore paesistico o culturale di grado eminente
(per cui non è sufficiente un interesse culturale o paesaggistico
“semplice”, ma questo deve essere ulteriormente qualificato in
considerazione del suo “grado”, che deve essere di rango eminente, come
precisato dal legislatore con vari aggettivi: “particolare,
rilevante/notevole/non comune” etc.), al fine di scongiurare il rischio di
“vincolare tutto per non tutelare nulla”.
In tale prospettiva, lo stesso
legislatore ha indicato la necessità di fare applicazione, nel procedimento
di vincolo, di criteri di valutazione che facessero riferimento al pregio,
alla rappresentatività ed alla rarità tenendo conto delle particolari
caratteristiche e tipologie del bene da proteggere (specificamente
individuati per i beni culturali sin dalla CM 1974 e desumibili per i beni
paesaggistici dalla legge 1939 e regolamento del 1940, applicabile fino
all’adozione delle norme attuative delle Regioni)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 27.01.2021 n. 1080 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2020 |
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dicembre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 42/2004, art. 49, comma 3. Utilizzo ai fini
pubblicitari per le coperture dei ponteggi predisposti per
l'esecuzione di interventi di conservazione - Indicazioni
operative (MiBACT,
circolare 07.12.2020 n. 49). |
EDILIZIA PRIVATA: Vincolo
paesaggistico ex lege per le aree boscate.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo paesaggistico – Aree boscate – Presupposto –
Individuazione.
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Urbanistica – Piano paesaggistico territoriale – Bosco – Individuazione.
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Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone a monte la
sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a
valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo
adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti, con
efficacia ex tunc, l'effettiva esistenza (1).
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E’ legittimo il Piano paesaggistico territoriale (PPTR) che
classifica una intera area come “bosco” includendo in tale classificazione
anche particelle sulle quali sono stati realizzati fabbricati, previo
rilascio del permesso di costruire, e ciò in quanto tali particelle non
possono essere considerate avulse dall’intero contesto; né la zonizzazione
come bosco è contraddetta dalla parziale assenza di vegetazione boschiva,
atteso che dal combinato disposto degli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34 del 2018 e
149, d.lgs. 42 del 2004 si evince l’assimilazione al bosco sia delle aree
forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva, sia delle
radure e di tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 mq che
interrompono la continuità del bosco (1).
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(1) La Sezione ha ricordato che sulla nozione di bosco vi è un
orientamento consolidato nella giurisprudenza nazionale. Infatti, ormai da
anni, si ritiene che la nozione di "bosco", richiamata ai fini della
tutela paesaggistica è, in principio, nozione normativa perché fa espresso
riferimento alla definizione oggi dettata dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34
del 2018, postulanti la presenza di un terreno di una certa estensione,
coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea e
-tendenzialmente almeno- da arbusti sottobosco ed erbe.
In particolare, il giudice amministrativo ha affermato che un bosco
rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in
grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l'idea che per bosco
debba intendersi l'insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla
produzione di legname (Cons.
Stato, sez. IV, 04.03.2019 n. 1462). Anche la giurisprudenza
della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. n. 201 del 2018) rammenta che
l'art. 149, d.lgs. 42 del 2004 ha escluso dall'ambito di applicazione
dell'autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio
colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione
ordinaria della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di
bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi (Cons.
Stato, sez. VI, 02.12.2019, n. 8242).
Sempre in tema di definizione di bosco, accanto alla nozione normativa di
bosco, la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la
finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il
rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale
finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole
interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente
caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità”
(Cons.
Stato, sez. V, 10.08.2016 n. 3574); il che equivale a dire che la
nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da
una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del
vincolo di tutela paesaggistica.
La Corte di Cassazione, in sede penale, con sentenza sez. III, 17.10.2019,
n. 9402, ha poi aggiunto che solo le Regioni possono, nell'ambito della
potestà legislativa concorrente in subiecta materia, integrare per
addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge
nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree;
conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il
vincolo paesaggistico derivante ex lege dall’art. 142, d.lgs. n. 42
del 2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni
ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone,
dunque, a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal
legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il
provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che
ne attesti con efficacia ex tunc l'effettiva esistenza (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 04.12.2020 n. 1962 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
3. La Sezione ritiene opportuno premettere brevemente il quadro
normativo e giurisprudenziale che viene in rilievo in questa materia.
3.1. A livello normativo la nozione di bosco può essere desunta dal
combinato disposto di alcune norme. Si ricordi che il d.lgs. 22.01.2004, n. 42 -“Codice dei beni culturali e del paesaggio”– all’articolo
134, relativo ai beni paesaggistici, al comma 1, lett. b), dispone che sono
beni paesaggistici, tra gli altri, anche le aree indicate all'articolo 142.
Quest’ultimo articolo, dedicato alle “aree tutelate per legge”, al primo
comma, lett. g), prevede che fino all'approvazione del piano paesaggistico
sono comunque sottoposti alle disposizioni per il loro interesse
paesaggistico “i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi
o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento,
come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18.05.2001, n. 227”.
L’articolo 142 rimanda, dunque, alla nozione recepita dal legislatore
nazionale con l’articolo 2 (“Definizione di bosco e di arboricoltura da
legno”) del d.lgs. n. 227/2001 che tuttavia è stato abrogato dal d.lgs. n.
34/2018.
Tale ultimo decreto, all’articolo 3, comma 3, definisce bosco “le superfici
coperte da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di sviluppo
ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza
media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore
del 20 per cento”. Al successivo articolo 4, “Aree assimilate a bosco”, il
legislatore assimila a bosco, tra l’altro, “le radure e tutte le altre
superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la
continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o
come prati o pascoli arborati” (comma 1 lett. e).
L’articolo 143 del codice dei beni culturali e del paesaggio si occupa,
infine, del piano paesaggistico e dispone al comma 1, per quanto di
interesse, che l'elaborazione del piano paesaggistico comprende almeno: a)
ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l'analisi
delle sue caratteristiche paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla
storia e dalle loro interrelazioni, ai sensi degli articoli 131 e 135; b)
ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse
pubblico ai sensi dell' articolo 136; c) ricognizione delle aree di cui al
comma 1 dell' articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala
idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d'uso
intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree
e, compatibilmente con essi, la valorizzazione; d) eventuale individuazione
di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini
dell' articolo 134 , comma 1, lettera c); e) individuazione di eventuali,
ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all'articolo 134 , da
sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione; f)
analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio; g) individuazione
degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree; h)
individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel
contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio;
i) individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità, a
termini dell' articolo 135 , comma 3.
3.2.
Sulla nozione di bosco vi è un orientamento consolidato nella
giurisprudenza nazionale. Infatti, ormai da anni, si ritiene che la nozione
di "bosco", richiamata ai fini della tutela paesaggistica è, in principio,
nozione normativa perché fa espresso riferimento alla definizione oggi
dettata dagli articoli 3 e 4 del d.lgs. n. 34/2018, postulanti la presenza
di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da
vegetazione forestale arborea e -tendenzialmente almeno- da arbusti
sottobosco ed erbe.
In particolare, il giudice amministrativo ha affermato che un bosco
rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in
grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l'idea che per bosco
debba intendersi l'insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla
produzione di legname
(Cons. Stato, sez. IV, 04.03.2019 n. 1462).
Anche la
giurisprudenza della Corte costituzionale
(cfr. Corte cost., n. 201/2018)
rammenta che l'art. 149 d.lgs. 42/2004 ha escluso dall'ambito di
applicazione dell'autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il
taglio colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione
ordinaria della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di
bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi
(così
Consiglio di Stato, sez. VI, 02.12.2019, n. 8242).
Sempre in tema di definizione di bosco, accanto alla nozione normativa di
bosco, la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la
finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il
rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale
finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole
interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente
caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità”
(Cons.
Stato, sez. V, 10.08.2016 n. 3574);
il che equivale a dire che la
nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da
una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del
vincolo di tutela paesaggistica.
La Corte di Cassazione, in sede penale, con sentenza sez. III, 17.10.2019, n. 9402,
ha poi aggiunto che solo le Regioni possono, nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia, integrare per
addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge
nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree;
conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il
vincolo paesaggistico derivante ex lege dal d.lgs. n. 42 del 2004, art. 142,
produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa
date dagli strumenti urbanistici comunali.
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone, dunque, a
monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal
legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il
provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che
ne attesti con efficacia ex tunc l'effettiva esistenza.
4. Venendo all’esame delle doglianze di parte ricorrente, con un unico
motivo di ricorso, sostanzialmente si deduce che nella cartografia del PPTR
“la classificazione del compendio immobiliare de quo come "bosco" e come
"area di rispetto dei boschi" e in stridente contrasto con la realtà fattuale dei luoghi. Ed infatti, non soltanto il bosco normativamente inteso
non esiste, ma addirittura l'intera area è, da sempre, priva di coperture
vegetali, ad eccezione di sporadiche essenze spontanee molto rade e
distanziate tra loro. E non potrebbe essere diversamente atteso che il
terreno ha natura in parte pietrosa e in parte sabbiosa e tufacea, non
presentando quindi, le condizioni basilari per l'attecchimento e la
riproduzione di specie vegetali” (pagina 8 del ricorso).
Il motivo è infondato.
Sul punto, la regione Puglia, nelle controdeduzioni, ha chiarito che “i
rilievi per verificare la non rispondenza del bosco ai criteri previsti
dalla normativa vigente in materia avrebbero dovuto riguardare l'intera area
a bosco e non singole particelle”.
In sostanza, parte ricorrente ha contestato la mancata corrispondenza delle
aree alla definizione normativa di bosco con esclusivo riferimento alle
particelle di sua proprietà e non all’intera area individuata dal PPTRP e
qualificata come bosco; le particelle, infatti, farebbero parte di una più
vasta area a bosco che si sviluppa lungo la costa ed è caratterizzata da
formazioni a macchia mediterranea.
Prosegue l’Amministrazione spiegando che
“l'analisi del ricorrente incentrata esclusivamente sulle particelle di suo
interesse sortirebbe l'effetto di suddividere le aree a bosco in tante
piccole porzioni sulle quali effettuare rilievi finalizzati alla loro
esclusione dal bene paesaggistica Bosco individuato nelle cartografie del PPTR, eludendo il vincolo forestale complessivo relativo all'area estesa 21
ha”.
La Regione infine chiarisce che nell’area interessata vi è “la presenza di
diffusa formazione a macchia mediterranea dominata da cespugli di lentisco (Pistacia
lentiscus) dalla tipica forma rotondeggiante accompagnati da altre specie
tipiche della macchia mediterranea ben superiori al 20% di copertura della
superficie” e smentisce, sulla base dei rilievi fotografici, la circostanza
dedotta dalla ricorrente che anche i fabbricati sono stati individuati come
bosco.
Osserva la Sezione che le particelle di proprietà della società ricorrente
non possono essere considerate avulse dall’intero contesto e che la
zonizzazione come bosco o come area di rispetto dei boschi non è
contraddetta dalla parziale assenza di vegetazione boschiva. La definizione
normativa contenuta nelle norme sopra riportate assimila al bosco sia le
aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva, sia
le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 mq che
interrompono la continuità del bosco.
Attesa anche la natura discrezionale della scelta compiuta
dall’amministrazione con conseguente sindacato solo per macroscopici vizi di
irrazionalità o irragionevolezza, si può quindi ritenere che la decisione
adottata sia esente da illegittimità.
Sul piano materiale, è accertata la presenza della macchia mediterranea che
il legislatore include nella nozione di bosco e sul piano logico-giuridico è
necessario assimilare al bosco anche le aree vicine, per ricostituire e
salvaguardare la continuità delle aree boscate.
Pertanto, è del tutto coerente che, come provato dall'amministrazione
regionale, l'area in questione sia gravata da un vincolo boschivo.
5. Conclusivamente, per le considerazioni sino a qui espresse, il Consiglio
esprime parere nel senso che il ricorso vada respinto
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 04.12.2020 n. 1962 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il
costante orientamento della giustizia amministrativa, che la Corte condivide, le pubbliche piazze, vie, strade, e
altri spazi
urbani, laddove rientranti nell'ambito dei Centri Storici, ai sensi del
comma 1 e del
comma 4, lett. g), dell'articolo 10 del d.lgs. n. 42 del
2004, sono
qualificabili come beni culturali indipendentemente dall'adozione di una
dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13
del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni
culturali
ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di
tutela di cui
alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica
di
interesse in senso contrario ex art. 12.
Ai sensi dell'art. 21, comma 4, l'esecuzione di opere e lavori di
qualunque
genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del
soprintendente.
L'esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché
ricompresi
nell'art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita
ex art.
169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio.
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1. L'impugnazione del pubblico ministero è limitata alla ritenuta
insussistenza
del fumus del reato ex art. 169 d.lgs. 74/2000.
1.1. In estrema sintesi, il Tribunale del riesame di Benevento ha annullato
il
decreto genetico di sequestro preventivo ritenendo insussistente il fumus
dei reati
contestati ex art. 172, in relazione all'art. 45 del d.lgs. 42/2004 e 169,
in relazione
all'art. 21 del d.lgs. 42/2004, in base a due presupposti normativi.
1.2. Ha ritenuto il Tribunale del riesame che, poiché la struttura è stata
realizzata in una strada del centro storico, la strada stessa non sarebbe
bene
culturale in sé ma richiederebbe la definizione del procedimento
amministrativo di
verifica dell'interesse pubblico ed il provvedimento di dichiarazione
dell'interesse
culturale ex art. 12 e 13 d.lgs. 42/2004. Tali provvedimenti non sarebbero
stati
emessi, sicché le strade del centro storico di Benevento non potrebbero
essere
qualificate bene culturale.
1.3. Su tale punto della decisione il ricorso è fondato perché secondo il
costante orientamento della giustizia amministrativa, che la Corte condivide
(richiamato per altro nel ricorso), le pubbliche piazze, vie, strade, e
altri spazi
urbani, laddove rientranti nell'ambito dei Centri Storici, ai sensi del
comma 1 e del
comma 4, lett. g), dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del
2004, sono
qualificabili come beni culturali indipendentemente dall'adozione di una
dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13
del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni
culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di
tutela di cui
alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica
di
interesse in senso contrario ex art. 12 (TAR Veneto Sez. III n, 927 del 08.10.2018; Cons. Stato, VI, sent. 5934/2014; Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id.,
VI,
sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013).
1.4. Ai sensi dell'art. 21, comma 4, l'esecuzione di opere e lavori di
qualunque
genere su tali beni culturali è subordinata ad autorizzazione del
soprintendente.
L'esecuzione di opere di qualunque genere su tali beni culturali, perché
ricompresi
nell'art. 10 d.lgs. 42/2004, in assenza di autorizzazione, è pertanto punita
ex art.
169 d.lgs. 42/2004, salvi gli effetti del cd. decreto rilancio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.11.2020 n. 31763). |
ottobre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il parere
favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di
demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere
di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto
di assentimento del titolo edilizio.
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a
vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a
fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può
realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli
abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi,
essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente
coincidenti.
Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso
non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”.
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto
avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un
atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta
trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004-
atto presupposto del titolo edilizio”.
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V.3.
Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente si duole
dell’eccesso di potere per contrasto con i precedenti atti amministrativi
adottati.
Evidenzia, in particolare, che già nel 2011 e, poi, nel 2013 aveva
presentato progetti identici a quello attuale per la realizzazione del
distributore di carburanti in questione, per i quali aveva ottenuto il
parere favorevole della Soprintendenza “considerato che l’intervento in
oggetto è da considerarsi ammissibile perché compatibile con i valori
paesaggistici riconosciuti dal vincolo e che opere non apportano modifiche
significative al contesto, si esprime parere favorevole al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica per le opere in oggetto” (provvedimento prot. n. 5019 del 03.03.2014).
A tale parere era seguita l’autorizzazione paesaggistica n. 2901 del
18.03.2014, rilasciata dal medesimo Comune di Sant’Anastasia, nell’ambito
della quale dovrebbe ritenersi accertata anche la regolarità urbanistica
dell’intervento.
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Come correttamente controdedotto dall’Amministrazione comunale,
l’avere acquisito il parere favorevole dal punto di vista ambientale non
equivale all’accertamento della corrispondenza anche alla conformità
urbanistica del progetto presentato, nel caso, dalla Soc. La Pr. S.r.l.,
attuale ricorrente.
Secondo principi applicabili anche al caso di specie, infatti, “il parere
favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di
demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere
di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto
di assentimento del titolo edilizio” (TAR Toscana, Firenze, sez. III,
08/03/2013, n. 396).
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a
vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a
fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può
realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli
abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi,
essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente
coincidenti. Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso
non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 16/06/2016, n. 2658).
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto
avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un
atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta
trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004-
atto presupposto del titolo edilizio” (TAR Campania, Napoli, sez. III,
04/07/2018, n. 4422; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 12/09/2018, n.
2058).
Non vi è allora alcuna irragionevolezza nel comportamento dell’Ente che, in
presenza di un'autorizzazione paesaggistica riferita, peraltro, ad altra
pratica urbanistica, abbia respinto dal punto di vista urbanistico l’istanza
in esame, in quanto il predetto nulla osta paesaggistico non si estende
anche all’asserito rilascio di un titolo abilitativo edilizio, per il quale
valgono, invece, le regole sancite dal D.P.R. n 380 del 2001 e dalla
strumentazione urbanistica (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 14.10.2020 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2020 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: La natura “artificiale” del bosco, infatti, non esclude a priori la
speciale tutela accordata dal d.lgs. 42/2004, con possibilità per
l'Amministrazione, in sede di pianificazione, di dare rilievo alle superfici
boschive oramai esistenti in loco.
L'art. 142, lett. g), comma 1, del Codice Urbani, invero, nel prevedere
genericamente quali beni paesaggistici "i territori coperti da foreste e da
boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a
vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del
decreto legislativo 18.05.2001, n. 227", di fatto non limita
l'operatività del relativo regime normativo alla vegetazione spontanea.
Ai sensi della norma da ultimo citata, infatti, "Nelle more dell'emanazione
delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito
dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione
forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o
artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e
la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le
alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli
impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi
comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su
terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse
nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta
scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali
di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o
artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni
vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non
inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri
e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla
base esterna dei fusti".
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Il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce con efficacia
vincolante i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le
prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio (sia contenute in un atto
di pianificazione, sia espresse in atti autorizzativi puntuali) secondo un
modello di prevalenza delle prime sulle seconde.
La natura sovraordinata del PPTR rispetto alla pianificazione
urbanistica discende, infatti, dalla piana interpretazione del codice Urbani
secondo cui "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143
e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali
o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti
urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono
immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente
contenute negli strumenti urbanistici stabiliscono norme di salvaguardia
applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono
altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla
tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque
prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad
incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi
quelli degli enti gestori delle aree naturali protette” (art. 145, comma 3, Dlgs 42/2004).
Di qui gli obblighi conformativi posti a carico dei Comuni degli strumenti
di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani
paesaggistici entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non
oltre due anni dalla loro approvazione (art. 145, comma 4, Dlgs 42/2004).
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12. Ciò posto, è oggetto di contestazione non già l’esistenza in
rerum natura del bosco ma solo la natura non spontanea dello stesso che,
nella prospettazione di parte ricorrente, non consentirebbe l’imposizione
del vincolo.
12.1.La tesi, tuttavia, non può essere condivisa.
12.2. La natura “artificiale” del bosco, infatti, non esclude a priori la
speciale tutela accordata dal d.lgs. 42/2004, con possibilità per
l'Amministrazione, in sede di pianificazione, di dare rilievo alle superfici
boschive oramai esistenti in loco (Tar Bari, sez. III, n. 03.01.2019 n. 7, Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2013 n. 1815; Id., sez. IV, 18.11.2013
n. 5452).
12.3. L'art. 142, lett. g), comma 1, del Codice Urbani, invero, nel prevedere
genericamente quali beni paesaggistici "i territori coperti da foreste e da
boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a
vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del
decreto legislativo 18.05.2001, n. 227", di fatto non limita
l'operatività del relativo regime normativo alla vegetazione spontanea.
Ai sensi della norma da ultimo citata, infatti, "Nelle more dell'emanazione
delle norme regionali di cui al comma 2 e ove non diversamente già definito
dalle regioni stesse si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione
forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o
artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e
la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le
alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli
impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi
comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su
terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse
nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta
scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali
di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o
artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni
vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non
inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri
e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla
base esterna dei fusti".
12.4. Tale essendo il contenuto della disciplina applicabile alla
fattispecie, non risultano, nel caso in esame, né errate né irragionevoli le
determinazioni regionali adottate a seguito della ricognizione delle aree
boscate in questione, tenuto conto delle specifiche censure e dell’impianto
complessivo del ricorso introduttivo.
12.5. In primo luogo, infatti, va evidenziato che le ricorrenti non hanno
specificamente contestato le dimensioni della superficie boscata come
rilevata dalla Regione (ai fini della rispondenza dell’area ai relativi
parametri normativi).
12.5. Se è vero, poi, che l’area in questione (che dai rilievi fotografici
di parte appare come una folta ed alta pineta) è coperta prevalentemente
dalle piante di pino d’Aleppo, è altrettanto provata in atti (cfr.
consulenza tecnica di parte) la presenza di ulteriori formazioni arboree
(piante di cipresso ed eucalipto).
12.6. Lo stesso consulente di parte ricorrente, poi, qualifica il pino di
Aleppo come specie indigena presente comunque nel territorio della Puglia
(pag. 9), nonché pianta a rapido accrescimento e “pioniera”, cioè in grado
di adattarsi anche a fattori ambientali estremi, sì da non potersi escludere
–contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente- la capacità di
rinnovamento spontaneo e, quindi, il carattere permanente del bosco, ancorché di origine non spontanea (in senso conforme con riferimento alla
presenza del Pino di Aleppo nel territorio salentino, cfr: TAR Lecce sez.
I, 04/05/2017, n. 670).
12.7. Ora, è proprio il consulente di parte ricorrente a chiarire che l’area
boscata in questione non è inidonea in sé a produrre sottobosco in quanto
l’assenza dello stesso è imputabile a sistematiche operazioni di sarchiatura
praticate annualmente, ancorché non sia stata provata in giudizio la
legittima destinazione ad arboricoltura.
13. Posto, quanto sopra, non rileva l’asserita vocazione edificatoria e
l’operatività del Piano di rigenerazione urbana con riferimento ai suoli
oggetto di causa (aspetti, peraltro, entrambi rimasti comunque non
sufficientemente provati nel presente giudizio), in quanto il Codice dei
beni culturali e del paesaggio definisce con efficacia vincolante i rapporti
tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere
urbanistico ed edilizio (sia contenute in un atto di pianificazione, sia
espresse in atti autorizzativi puntuali) secondo un modello di prevalenza
delle prime sulle seconde (ex multis, TAR Napoli, sez. VII, 24/12/2018, n. 7322).
13.1 La natura sovraordinata del PPTR rispetto alla pianificazione
urbanistica discende, infatti, dalla piana interpretazione del codice Urbani
secondo cui "Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143
e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali
o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti
urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono
immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente
contenute negli strumenti urbanistici stabiliscono norme di salvaguardia
applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono
altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla
tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque
prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad
incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi
quelli degli enti gestori delle aree naturali protette” (art. 145, comma 3, Dlgs 42/2004).
Di qui gli obblighi conformativi posti a carico dei Comuni degli strumenti
di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani
paesaggistici entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non
oltre due anni dalla loro approvazione (art. 145, comma 4, Dlgs 42/2004).
14. Per quanto concerne, infine, la dedotta deroga dei c.d. "Territori
costruiti" di cui all'art. 1.03, comma 5, del PUTT/P, in disparte la
genericità e astrattezza della censura formulata, la circostanza risulta del
tutto irrilevante in sede di pianificazione regionale, potendo eventualmente
incidere solo sulle future autorizzazioni edilizie e paesaggistiche (in
termini TAR Lecce, sez. I, 04/11/2019, n. 1683).
15. Alla luce delle superiori considerazioni il ricorso deve essere respinto
siccome infondato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.08.2020 n. 1073 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in
virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia
se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo
edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere
inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto
di essa.
Invero,
«È ben nota al Collegio la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia
strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura
per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del
procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme".
---------------
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione
potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto
l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è
in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica.
---------------
Osserva, al riguardo, il Collegio che la contestazione formulata con
l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 ha espressamente per oggetto
l’esecuzione di una nuova costruzione, all’indomani dell’introduzione del
vincolo paesaggistico ex art. 82, comma 5, lett. c), del d.p.r. n. 616/1977,
in assenza dell’autorizzazione all’uopo prevista.
E’ evidente, dunque, che l’adottata misura repressivo-ripristinatoria non è
venuta ad incidere sul perimetro abilitativo della rilasciata concessione
edilizia n. 17 del 07.08.1990, ma concerne il distinto profilo dell’illecito
paesaggistico, autonomamente sanzionabile ai sensi e per gli effetti
dell’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 («1. In caso di
violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte
terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie
spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4. 2. Con l'ordine di rimessione
in pristino è assegnato al trasgressore un termine per provvedere. 3. In
caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica provvede d'ufficio per mezzo del prefetto e rende esecutoria
la nota delle spese. Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale competente, su
richiesta della medesima autorità amministrativa ovvero, decorsi centottanta
giorni dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla suddetta
autorità competente a provvedervi nei successivi trenta giorni, procede alla
demolizione avvalendosi dell'apposito servizio tecnico-operativo del
Ministero, ovvero delle modalità previste dall' articolo 41 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a seguito di apposita
convenzione che può essere stipulata d'intesa tra il Ministero e il
Ministero della difesa»).
In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in
virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia
se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo
edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere
inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto
di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis,
ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia
strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura
per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del
procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da
tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III,
23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente
l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e
che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto
inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n.
47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n.
1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III,
07.10.2014, n. 952 …);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo
all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n.
12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del
titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio
attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione
potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto
l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è
in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori",
ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto
fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815).
I superiori approdi non restano, infine, menomati dalla circostanza che
l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 menzioni l’art. 27, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001, anziché l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Ciò, in quanto gli atti amministrativi vanno interpretati risalendo al
relativo contenuto e al potere in concreto esercitato dall’autorità
promanante, dovendosi prescindere dall’appropriato utilizzo o meno del
nomen iuris o dei formali richiami normativi (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
27.07.2010, n. 4902; TAR Lazio, Roma, sez. III, 17.06.2008, n. 5916; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4977). E in quanto, appunto,
nella specie, la gravata misura repressivo-ripristinatoria figura
incontrovertibilmente motivata in base all’esclusivo ed assorbente rilievo
dell’esecuzione di opere «in assenza del prescritto nulla osta
paesaggistico» in area vincolata ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett.
c), della l. n. 431/1985 (ora art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n.
42/2004), senza alcun riferimento ad ipotetici profili di illiceità
edilizia, ossia, all’evidenza, irrogata nell’esercizio del potere
sanzionatorio di cui all’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.08.2020 n. 973 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Realizzazione abusiva di
un’opera – Qualificazione del fatto reato – Configurabilità
del delitto paesaggistico – Disciplina applicabile – Art.
181, d.lgs. n. 42/2004.
Integra il delitto contemplato dall’art.
181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2006, per gli immobili
preesistenti la realizzazione abusiva dell’opera che abbia
comportato: a) un aumento volumetrico superiore al trenta
per cento rispetto alla volumetria della costruzione
originaria, ovvero b) un ampliamento della volumetria
superiore a settecentocinquanta metri cubi; con riferimento
alle nuove opere, l’aumento di volumetria superiore ai mille
metri cubi.
Inoltre, ai fini della qualificazione del fatto reato come
contravvenzione, ai sensi dell’art. 181, comma 1, d.lgs.
22.01.2004, n. 42, o come delitto, ai sensi dell’art. 181,
comma 1-bis, dello stesso decreto, la nozione di
“volumetria” deve essere individuata prescindendo dai
criteri applicabili per la disciplina urbanistica e
considerando l’impatto dell’intervento sull’originario
assetto paesaggistico del territorio.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela paesaggistica –
Ipotesi delittuose alternative – Opere preesistenti e nuove
costruzioni- Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In materia di tutela paesaggistica, le
ipotesi delittuose alternativamente previste dall’art. 181,
d.lgs. n. 42/2004 sono tre, le prime due si riferiscono alle
opere preesistenti, la terza alle nuove costruzioni; il
superamento volumetrico è delineato, nel primo caso, in via
alternativa, ossia in percentuale superiore al 30% oppure in
termini assoluti (oltre 750 mc.), mentre nel secondo caso
solo in termini assoluti (oltre i 1.000 mc.).
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – DIRITTO PROCESSUALE PENALE –
Sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità
dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 – Istanza di
revoca della sentenza definitiva di condanna – Poteri e
limiti del giudice dell’esecuzione.
In tema di esecuzione, il giudice, adito
con istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna
a seguito della sopravvenuta dichiarazione di parziale
incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42
del 2004, deve dichiarare l’estinzione per prescrizione del
reato oggetto della predetta sentenza, riqualificato come
contravvenzione, ai sensi del comma 1 della norma citata,
qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del
procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai
esauriti.
Ciò comporta che, in tal caso, il giudice dell’esecuzione
deve verificare se il fatto, per il quale è intervenuta
sentenza definitiva di condanna, sia qualificabile come
contravvenzione con conseguente declaratoria di prescrizione
del reato “ora per allora”, ovvero se sia sussumibile in una
delle tre ipotesi delittuose alternativamente considerate
dall’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, nel quale
caso non può ovviamente trovare applicazione il termine di
prescrizione più favorevole previsto per le contravvenzioni.
Per operare tale accertamento, il giudice dell’esecuzione
deve valutare tutti gli elementi di fatto accertati con la
sentenza definitiva di condanna, oltre a quelli
eventualmente acquisiti, nel contraddittorio tra le parti,
nel procedimento di esecuzione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2020 n. 23028 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Inefficace la DIA (ora SCIA) in assenza dell'autorizzazione
paesaggistica.
Come evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela, richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)».
Sicché, l’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori realizzati e, quindi,
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune.
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La qualificazione del provvedimento amministrativo deve
essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e
degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante.
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Non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
---------------
2. Con le prime tre doglianze proposte dalle parti ricorrenti, da trattare
contestualmente in quanto strettamente e logicamente
connesse, si assume l’illegittimità dei provvedimenti
comunali impugnati, poiché la d.i.a. in base alla quale è
stato realizzato, in maniera del tutto conforme al titolo,
il box sarebbe assolutamente legittima, come sarebbe
dimostrato anche dalle plurime verifiche effettuate
dall’Ufficio tecnico comunale nel corso del tempo e dalla
circostanza che nel termine previsto dalla normativa non
sarebbe stata effettuata alcuna attività di autotutela nel
rispetto dei presupposti individuati dall’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, non potendo assumere rilevanza,
in senso contrario, il tardivo sollecito dei poteri di
controllo del Comune da parte dei vicini controinteressati;
infine, non sarebbe giustificata la circostanza assunta a
fondamento degli atti impugnati, in origine nemmeno presa in
considerazione dallo stesso tecnico comunale, ovvero che
l’autorimessa dei ricorrenti rientri tra i beni di cui agli
art. 10-13 del D.Lgs. n. 42 del 2004 o tra quelli di cui
all’art. 134 del medesimo Decreto (rientrando nel perimetro
del Parco Agricolo Sud Milano).
2.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che, in data 06.05.2019, in esecuzione
dell’ordinanza n. 428/2019, il Comune di Lacchiarella ha
depositato in giudizio una Relazione attraverso la quale ha
segnalato la sussistenza di un vincolo indiretto gravante
sugli immobili limitrofi alla Chiesa di San Martino ed
imposto dal P.G.T. entrato in vigore il 01.01.2013.
Nello specifico, nel paragrafo “3.4 Vincoli gravanti sul
territorio comunale” dell’elaborato “Piano delle regole- RP.03-
Relazione”, si è evidenziato che, “per effetto del DLgs
42/2004 (codice Urbani), oltre al territorio compreso nel
Parco regionale: - uno specifico vincolo di rispetto della
chiesa di San Martino è in vigore per effetto dell’art. 10 e
riguarda le modalità di intervento negli isolati al contorno
della chiesa”.
L’art. 28.1 (“Immobili assoggettati a
tutela”) delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano delle
Regole prescrive che “sono assoggettati alla tutela prevista
dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42: - ai sensi
degli artt. 10-13, gli immobili identificati nella tav. DA.
02, nonché gli immobili di proprietà pubblica nonché di ogni
altro ente ed istituto pubblico e di persone giuridiche
private senza fine di lucro, anche in assenza della
dichiarazione di sussistenza di specifico interesse”.
La
Tavola “DA. 02- Vincoli gravanti sul territorio comunale”
inserisce i fondi di proprietà dei ricorrenti Tr./Ta.
(e delle controinteressate Bo. e Ri.) tra gli “Isolati
interessati dal vincolo ex art. 136 del d.lgs. 42/2004”.
Anche la tavola “RP 01-bis Carta di sintesi dei contenuti
del PGT” inserisce le residenze dei ricorrenti e delle
controinteressate all’interno degli isolati soggetti al
vincolo ex art. 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (“Vincoli
ambientali e monumentali”).
Pertanto, si è al cospetto di un
vicolo diretto (assoluto) sulla Chiesa di San Martino e
indiretto (relativo) sugli isolati posti nell’intorno, in
cui è collocata anche l’area di proprietà dei ricorrenti su
cui è stato realizzato il box oggetto del presente
contenzioso. Ne discende che, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, in presenza di un intervento che altera
lo stato dei luoghi dei fondi interessati dal vincolo, si
impone il previo ottenimento dell’autorizzazione
paesaggistica.
2.2. Trattandosi di intervento effettuato con d.i.a. n.
26/2013 del 15.04.2013, lo stesso è assoggettato alla
disciplina urbanistica vigente a quella data e quindi al
richiamato P.G.T., entrato in vigore il 01.01.2013. È
altrettanto pacifico tra le parti di causa che nessuna
autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e ottenuta
per la realizzazione del box.
Tuttavia, le parti ricorrenti ritengono che la mancanza
della predetta autorizzazione non abbia alcuna conseguenza
sulla validità ed efficacia della d.i.a. n. 26/2013 (e sulla
successiva variante, n. 50/2013), poiché lo stesso Tecnico
comunale, all’atto della presentazione del titolo edilizio,
ne aveva escluso la indispensabilità, e in ogni caso sarebbe
maturato un affidamento legittimo in capo ai ricorrenti in
ordine alla regolarità dell’intervento edilizio posto in
essere, anche in relazione al lungo lasso di tempo trascorso
tra la sua realizzazione e la conclusione dell’attività
sanzionatoria comunale, avvenuta nel mese di febbraio 2019.
I predetti rilievi non appaiono persuasivi, atteso che, come
evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione. Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)» (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2013,
n. 5513; altresì, IV, 11.10.2018, n. 5841; VI, 24.03.2014, n. 1413).
L’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori di realizzazione del box e quindi
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune. La circostanza che nel provvedimento di chiusura del
procedimento impugnato sia stata eccepita la “carenza di un
requisito di legittimità” e non sia invece stata prospettata
l’inefficacia della d.i.a. non appare invalidante, atteso
che comunque era evidente e nettamente percepibile il
riferimento alla carenza dell’autorizzazione paesaggistica
(punto 1 del provvedimento); del resto, la qualificazione
del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla
base del suo effettivo contenuto e degli effetti
concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante (Consiglio di Stato, IV,
13.04.2017, n. 1718; TAR Lombardia, Milano, IV, 18.03.2019, n. 567).
Infine, non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990; Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019; Consiglio
di Stato, II, 12.03.2020, n. 1795; TAR Lombardia,
Milano, II, 26.06.2020, n. 1205) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo, come
evidenziato in precedenza) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” (sulla prevalenza della disciplina
paesaggistica su quella edilizia, cfr. Consiglio di Stato,
IV, 08.07.2019, n. 4778; anche, TAR Lombardia, Milano, II, 11.03.2020, n. 471; 21.01.2019, n. 118).
2.3. Ciò determina il rigetto delle scrutinate censure (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.07.2020 n. 1303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2020 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Deroga
all’annullamento ex tunc dell’atto impugnato: il Piano antincendio
della Toscana.
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Processo amministrativo – Decisione – Di accoglimento – Effetti ex tunc –
Deroga – Possibilità.
La regola dell'annullamento con effetti ex tunc
dell'atto impugnato può essere derogata allorché, nel caso di atti normativi
o generali, l’annullamento dell’atto possa generare una condizione
amministrativa di vuoto regolatorio, tale da determinare effetti
peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di
pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato
aspira a conseguire o mantenere (1).
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(1) La Sezione ha accolto il ricorso nella parte in cui si
considerano paesaggisticamente irrilevanti -e perciò sottratti alla
preventiva autorizzazione- tutti gli interventi previsti, omettendo
un'adeguata analisi e valutazione dell'impatto paesaggistico, e nella parte
in cui la valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000
interessati dalle misure è carente nell'istruttoria e nelle motivazioni,
oltre che corredata da semplici raccomandazioni di buona esecuzione degli
interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
La Sezione però -nel particolare caso in esame- consapevole dell'importanza
del piano antincendi predisposto dalla Regione e dell'inizio della stagione
estiva, innovando la giurisprudenza sul punto, ha differito l'annullamento
di 180 giorni per consentire alle amministrazioni l'adozione di un nuovo
Piano senza rinunciare alla lotta agli incendi nel periodo estivo.
In particolare dovranno essere adottate tutte le misure per mettere in
sicurezza il sito e dovranno essere posti in essere gli interventi
improcrastinabili e indifferibili relativi ad aree -soprattutto vicine ad
insediamenti antropici- che presentano rischi elevati
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 30.06.2020 n. 1233 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
1. Il ricorso è in parte fondato e deve pertanto essere accolto, nei limiti
di seguito precisati.
2. È incontroverso tra le parti che la Pineta del Tombolo, oggetto del piano
specifico di prevenzione AIB per il comprensorio territoriale delle pinete
litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, oggetto di lite, previsto
nella delibera di giunta della Regione Toscana n. 355 del 18.03.2019, è
sottoposta a vincolo paesaggistico di tipo provvedimentale (ai sensi
dell'articolo 136 del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al
d.lgs. n. 42 del 2004, giusta sei decreti ministeriali degli anni dal 1958
al 1967), è inserita nel piano di indirizzo territoriale con valenza di
piano paesaggistico della Regione Toscana e ricade nella rete ecologica
europea denominata “Natura 2000” [ZSC/ZPS Tombolo da Marina di Grosseto a
Castiglione della Pescaia (IT51A0012), ZSC/ZPS Diaccia Botrona (IT51A0011) e
ZSC punta Ala e Isolotto dello Sparviero (IT51A0007)].
3. È altresì incontroverso in atti che il piano specifico di prevenzione AIB
oggetto di lite prevede, in sintesi, come denunciato dalle associazioni
ricorrenti e riferito nella relazione ministeriale, il taglio di circa il
70% dei pini esistenti e di circa l’80% della vegetazione arbustiva del
sottobosco.
Nella memoria difensiva regionale (pag. 7) si afferma che “È da
sottolineare che le aree soggette agli interventi strategici, contrariamente
a quanto riportato nel presente ricorso, non arrivano nemmeno al 15% della
superficie totale complessiva dell'area considerata, da trattarsi nei 10
anni di validità del Piano ed impossibile che si verifichi la lamentata
scomparsa delle aree di Rete Natura 2000”. Ma tale rilievo non contesta
tuttavia quanto affermato in ricorso, riguardo alle percentuali di pini e di
sottobosco destinati al taglio, sia pur limitatamente alle aree interessate
dagli interventi programmati.
Il piano, inoltre, qualifica espressamente gli interventi previsti come “non
soggetti ad autorizzazione paesaggistica”, ai sensi dell’articolo 149 del
citato d.lgs. n. 42 del 2004, la cui lettera b) del comma 1 esclude la
necessità dell’autorizzazione paesaggistica per gli “interventi inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed
altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non
alterino l'assetto idrogeologico del territorio”.
4. Il piano specifico di prevenzione AIB oggetto di lite costituisce uno
strumento introdotto dalla legge regionale della Toscana 20.03.2018, n.
11, pubblicata nel B.U. Toscana 26.03.2018, in vigore dal 10.04.2018,
che, con l’articolo 12, aggiunge nella legge regionale forestale della
Toscana 21.03.2000, n. 39 un nuovo articolo 74-bis del seguente tenore:
“Piani specifici di prevenzione AIB. 1. Nelle aree individuate dal piano AIB
sono approvati dalla Giunta regionale i piani specifici di prevenzione AIB
riferiti a un periodo minimo di dieci anni. Il piano specifico di
prevenzione può essere aggiornato nell'arco temporale della sua validità. Il
regolamento forestale disciplina le modalità per la realizzazione dei piani
specifici di prevenzione AIB”.
Nella relazione ministeriale si riferisce che questo “piano specifico di
prevenzione AIB” costituisce un piano operativo di prevenzione, riferito
alle aree “ritenute ad alto rischio per l'intensificarsi di fenomeni dovuti
agli incendi boschivi, stante le mutate condizioni climatiche e l'acuirsi di
fenomeni estremi che negli ultimi anni hanno colpito anche il territorio
toscano”, basato sul regime storico degli incendi boschivi ricorrenti in un
determinato comprensorio territoriale, al fine di individuare e gestire i
punti strategici dove realizzare adeguati interventi di prevenzione per
contenere gli incendi boschivi, entro la capacità di estinzione del sistema
e per salvaguardare l'incolumità pubblica e l'ambiente naturale.
In questa
prima fase sono stati individuati venti comprensori territoriali -soggetti
ad alto rischio incendi boschivi, espressi in termini di frequenza,
vulnerabilità e pericolosità potenziale- per i quali la Regione ha ritenuto
opportuno procedere prioritariamente con la predisposizione, entro la fine
del 2020, di altrettanti piani specifici di prevenzione AIB.
5. Quasi contemporaneamente alla emanazione della legge regionale n. 11 del
2018 è intervenuto a livello di legislazione statale il nuovo d.lgs. 03.04.2018, n. 34, recante il Testo unico in materia di foreste e filiere
forestali, pubblicato nella Gazz. Uff. 20.04.2018, n. 92 ed entrato in
vigore il 05.05.2018.
È indispensabile ai fini dell’esame dei motivi di ricorso svolgere una breve
descrizione del quadro normativo come ridefinito dal suddetto d.lgs. n. 34
del 2018.
5.1. È ormai un dato acquisito nella dottrina e nella giurisprudenza che il
patrimonio forestale nazionale reca in sé ed esprime una pluralità di
valori, interessi, beni, che chiamano in causa plurimi campi di materia e
titoli di potestà legislativa, essendo ormai superata la tradizionale
visione che relegava questo settore al solo campo dell’agricoltura
(silvicoltura).
È dunque pacifico che, oggi, il patrimonio forestale
nazionale intreccia titoli di competenza statale [in particolare, quelli di
cui alla lettera s) del comma 2 dell’articolo 117, Cost.: tutela
dell’ambiente e del paesaggio, in quanto componente del patrimonio
culturale] e di competenza concorrente Stato-regioni, in particolare le
politiche agricole contemplate dal comma 3 del citato articolo 117, Cost.
Lo
stesso articolo 1 del d.lgs. n. 34 del 2018 (“Principi”)
non manca di
esplicitare che “La Repubblica riconosce il patrimonio forestale nazionale
come parte del capitale naturale nazionale e come bene di rilevante
interesse pubblico da tutelare e valorizzare per la stabilità e il benessere
delle generazioni presenti e future” (comma 1)
e che lo Stato e le regioni,
nell'ambito delle rispettive competenze, perseguono il “fine di riconoscere
il ruolo sociale e culturale delle foreste, di tutelare e valorizzare il
patrimonio forestale, il territorio e il paesaggio nazionale, rafforzando le
filiere forestali e garantendo, nel tempo, la multifunzionalità e la
diversità delle risorse forestali, la salvaguardia ambientale, la lotta e
l'adattamento al cambiamento climatico, lo sviluppo socio-economico delle
aree montane e interne del Paese” (comma 3).
Coerentemente, nell’articolo 2
(“Finalità”) sono enumerati scopi sia di tipo conservativo-ambientale
([lettera a) del comma 1: “garantire la salvaguardia delle foreste nella
loro estensione, distribuzione, ripartizione geografica, diversità ecologica
e bio-culturale”], sia di tipo economico-produttivo [ad es., le lett. b) e
c): “promuovere la gestione attiva e razionale del patrimonio forestale
nazionale al fine di garantire le funzioni ambientali, economiche e
socio-culturali; promuovere e tutelare l'economia forestale, l'economia
montana e le rispettive filiere produttive ... etc.”].
5.2. Conseguentemente, nella premessa al testo dell’articolato vi è un
generico richiamo all’articolo 117 della Costituzione, ma sono
significativamente richiamati sia il d.lgs. 22.01.2004, n. 42, recante
codice dei beni culturali e del paesaggio, sia il decreto d.lgs. 03.04.2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, ed è stata acquisita
l'intesa della Conferenza unificata, espressa nella seduta dell'11.01.2018.
Non può pertanto condividersi la tesi svolta nella memoria difensiva
regionale, secondo la quale “il d.lgs. n. 34 del 2018 (Testo Unico in
materia di foreste e filiere forestali) non ha altresì innovato la legge n.
353 del 2000 (Legge quadro sugli incendi boschivi) in quanto tratta di
materie diverse”, poiché “il d.lgs. n. 34 del 2018 ha carattere di norma di
orientamento facendo salve le competenze esclusive della Regione sancite
dalla Costituzione”.
In realtà, il nuovo testo unico, aggiornando la
normativa nazionale al mutato quadro interpretativo e alle più recenti
acquisizioni sulle valenze ambientali e paesaggistiche del patrimonio
forestale, ha largamente superato la vecchia impostazione (risalente alla
seconda metà del secolo scorso, il cui precipitato giuridico conclusivo si
era depositato nel d.lgs. 31.03.1998, n. 112), che configurava il bosco
come una mera risorsa agricola in un’ottica di sfruttamento economico, cui
era legata la competenza legislativa regionale concorrente nella
tradizionale materia della “agricoltura e foreste” dell’originario testo
dell’articolo 117 della Costituzione (materia da intendersi nella sua
proiezione esclusivamente economica, oggi rifluita nella potestà legislativa
residuale regionale, di cui al comma 4 dell’articolo 117 della Costituzione,
nel testo novellato con la riforma del 2001).
5.3. Il d.lgs. n. 34 del 2018, in considerazione di questo inestricabile
intreccio di valori-beni-interessi espressi dal patrimonio forestale e delle
annesse e conseguenti competenze normative e amministrative, ha avuto cura
di costruire un sistema volto ad assicurare che tutti i diversi (e a volte
confliggenti) interessi generali-pubblici messi in gioco dal tema della
gestione del patrimonio forestale fossero adeguatamente rappresentati,
acquisiti e valutati nei procedimenti attuativi, al fine di garantire, per
quanto possibile, un ragionevole equilibrio tra le esigenze gestionali,
anche di tipo economico-produttivo, e quelle di tutela ambientale e
paesaggistica.
5.4. In particolare, come bene illustrato anche negli scritti difensivi
delle parti, il decreto legislativo prevede un complesso percorso attuativo
che si snoda attraverso i seguenti passaggi essenziali:
a) l’adozione, da
parte del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali,
d'intesa con la Conferenza unificata ed in coordinamento, per quanto di
rispettiva competenza, con il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare e con il Ministero dei beni e delle attività culturali
e del turismo, di appositi atti di indirizzo e coordinamento delle attività
necessarie a garantire il perseguimento unitario e su tutto il territorio
nazionale delle finalità enunciate nel decreto legislativo;
b) l’adozione,
con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali,
adottato di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del
turismo e il Ministro dello sviluppo economico e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, di una “Strategia forestale nazionale” (art. 6,
Programmazione e pianificazione forestale), che definisce, con validità
ventennale soggetta a revisione e aggiornamento quinquennale, gli indirizzi
nazionali per la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva del
patrimonio forestale nazionale e per lo sviluppo del settore e delle sue
filiere produttive, ambientali e socio-culturali;
c) l’adozione da parte
delle Regioni, in coerenza con la Strategia forestale nazionale, di
Programmi forestali regionali per individuare i propri obiettivi e definire
le relative linee d'azione;
d) la predisposizione da parte delle Regioni,
nell'ambito di comprensori territoriali omogenei, di piani forestali di
indirizzo territoriale, che “concorrono alla redazione dei piani
paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 del d.lgs. 22.01.2004, n.
42, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 145 del medesimo decreto
legislativo”;
e) la promozione, da parte delle Regioni, della redazione di
piani di gestione forestale o di strumenti equivalenti, riferiti ad un
ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, quali strumenti
indispensabili a garantire la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva
delle risorse forestali (per i quali è richiesto il parere del
Soprintendente, salvo che per la parte inerente la realizzazione o
l'adeguamento della viabilità forestale di cui al punto A.20 dell'Allegato A
del d.P.R. 13.02.2017, n. 31, ove i piani di gestione forestale siano
conformi ai piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3
dell’art. 6).
5.5. I commi 6 e 7 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 34 del 2018 prevedono che
gli strumenti pianificatori sopra indicati (i piani forestali di indirizzo
territoriale di cui al comma 3 e i piani di gestione forestale, o strumenti
equivalenti, di cui al comma 6) debbano essere conformi ai “criteri minimi
nazionali di elaborazione” da adottarsi con decreto del Ministro delle
politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei
beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, al fine di armonizzare le informazioni e permetterne una
informatizzazione su scala nazionale, con previsione dell’obbligo delle
regioni di adeguarsi alle suddette disposizioni entro 180 giorni dalla data
di entrata in vigore del decreto.
Il comma 8 dell’articolo 6 del d.lgs. n.
34 del 2018 prevede, inoltre, che le regioni, in conformità a quanto
statuito al comma 7, definiscono i criteri di elaborazione, attuazione e
controllo dei piani forestali di indirizzo territoriale di cui al comma 3 e
dei piani di gestione forestale o strumenti equivalenti di cui al comma 6,
definiscono, altresì, i tempi minimi di validità degli stessi e i termini
per il loro periodico riesame, garantendo che la loro redazione e attuazione
venga affidata a soggetti di comprovata competenza professionale, nel
rispetto delle norme relative ai titoli professionali richiesti per
l'espletamento di tali attività.
6. Di particolare rilievo, ai fini della decisione della controversia in
esame, sono infine le previsioni contenute nei commi 12 e 13 dell’articolo 7
(“Disciplina delle attività di gestione forestale”) del d.lgs. n. 34 del
2018: “12. Con i piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi
di collaborazione stipulati tra le regioni e i competenti organi
territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, vengono
concordati gli interventi previsti ed autorizzati dalla normativa in
materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la
riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, da
eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi dell'articolo 136 del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente
compatibili con i valori espressi nel provvedimento di vincolo. Gli
interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel rispetto delle
linee guida nazionali di individuazione e di gestione forestale delle aree
ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto del Ministro delle
politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dei
beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano.
13. Le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli
selvicolturali di cui all'articolo 3, comma 2, lettera c), eseguiti in
conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali,
sono equiparati ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera
c), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”.
7. Così definito e chiarito il quadro giuridico di riferimento, è ora
possibile procedere alla trattazione dei singoli motivi di ricorso.
8. Con il primo motivo le associazioni ricorrenti assumono che i piani AIB
impugnati si porrebbero in violazione della legge nazionale e del riparto di
competenze stabilito dalla Costituzione in materia di antincendio boschivo
per i vari profili ambientali, paesaggistici, sanitari, di protezione civile
oltre che forestali in esso coinvolti. La Regione Toscana non avrebbe quindi
potuto adottare un piano antincendio boschivo specifico prima del
completamento del quadro normativo attuativo nazionale, come previsto dal
d.lgs. n. 34 del 2018.
In ogni caso, il piano specifico in oggetto sarebbe
stato approvato in violazione della stessa legge regionale forestale n. 39
del 2000 (come modificata dalla legge regionale 20.03.2018, n. 11, che
per la prima volta ha introdotto lo strumento dei piani specifici), il cui
articolo 74-bis prevede che un piano specifico di prevenzione AIB può essere
approvato solo se esista un presupposto vigente piano AIB che ne abbia
individuato l’area, piano generale che, al momento dell’approvazione del
piano specifico, non era in vigore.
La tesi di parte ricorrente non è condivisibile, poiché lo stesso articolo
17 del decreto legislativo da essa invocato, recante le disposizioni
applicative e transitorie, nel prevedere che “nelle more dell'adozione dei
decreti ministeriali e delle disposizioni di indirizzo elaborate ai sensi
del presente decreto restano valide le eventuali normative di dettaglio
nazionali e regionali vigenti” (comma 2), fa salva, contrariamente
all’assunto delle associazioni ricorrenti, la previsione della legge
regionale n. 11 del 2018 e i piani specifici di prevenzione AIB in forza di
tale nuova legge adottati (tra i quali vi è quello qui oggetto di lite).
Parimenti non condivisibile deve giudicarsi la tesi secondo la quale il
piano specifico di prevenzione AIB relativo alla Pineta del Tombolo sarebbe
illegittimo in quanto adottato prima del piano AIB pluriennale generale
2019-2021, che doveva costituire il suo presupposto, approvato dalla giunta
regionale solo successivamente, in data 23.04.2019.
In senso contrario
persuade la tesi difensiva secondo la quale il piano AIB “generale”
preesisteva, nel sistema normativo regionale, alla novella introdotta dalla
legge regionale n. 11 del 2018, poiché già la legge forestale della Toscana
n. 39 del 2000 prevedeva, nell’articolo 74, la “Pianificazione dell'AIB”.
Era dunque già vigente, all’atto dell’adozione della delibera di giunta n.
355 del 18.03.2019, il precedente piano AIB 2014-2016 approvato con
delibera di giunta n. 50 del 28.01.2014, variamente prorogato fino al
2019. Inoltre, come evidenziato nelle difese regionali, il nuovo piano AIB è
intervenuto dopo pochi giorni rispetto al piano specifico relativo alla
Pineta del Tombolo e lo ha sostanzialmente recepito, con un indiretto
effetto, ove necessario, di sanatoria.
La stessa delibera n. 355 del 18.03.2020 dà inoltre conto, nelle premesse, “che sono in corso le attività
di redazione del testo definitivo del nuovo piano AIB che, come previsto
all’articolo 74-bis, comma 1, individua le aree soggette ad alto rischio
incendi boschivi, espresso in termini di frequenza, vulnerabilità e
pericolosità potenziale”, ed ha espressamente valutato, in modo non
irragionevole, “la necessità di dover procedere, nelle more
dell’approvazione del suddetto piano AIB, alla realizzazione di uno
specifico piano di prevenzione del rischio incendi boschivi per il
comprensorio territoriale delle pinete litoranee di Grosseto e Castiglione
della Pescaia che presenta un’alta incidenza e pericolosità relativa al
fenomeno degli incendi boschivi”.
9. Il secondo motivo di ricorso introduce due distinte censure: la mancata
sottoposizione a VAS e la ritenuta non necessità di controllo paesaggistico
degli interventi. Tali censure devono essere partitamente esaminate, essendo
infondata la prima e in parte fondata la seconda.
10. Sotto un primo profilo, le associazioni ricorrenti, con il secondo
motivo in esame, hanno censurato gli atti gravati per la omessa valutazione
ambientale strategica (VAS, ai sensi degli articoli 5, 11 e 15 del d.lgs. n.
152 del 2006), a loro dire necessaria (in luogo del mero studio di incidenza
con valutazioni relative ai SIC/ZPS ai sensi delle direttive Natura 2000
“habitat” e “uccelli” esperito dalla Regione) giusta la previsione
dell’articolo 5, comma 2, lett. a), della legge regionale della Toscana 12.02.2010, n. 10.
La norma, riproducendo peraltro il testo della legge
nazionale [art. 6, comma 2, lettera a) del d.lgs. n. 152 del 2006], impone
la sottoposizione a VAS, tra gli altri, dei piani e dei programmi elaborati
per i settori agricolo e forestale e prevede la VAS obbligatoria [lett. b)]
anche per “i piani e i programmi per i quali, in considerazione dei
possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come
zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e
di quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione
degli habitat naturali, della flora e della fauna selvatica, si ritiene
necessaria una valutazione di incidenza, ai sensi dell'art. 5 del decreto
del Presidente della Repubblica 08.09.1997, n. 357”, come invero
avvenuto nel caso di specie.
L’assunto non è condiviso dalla Sezione.
Deve infatti ritenersi fondata la
replica regionale, che invoca l’eccezione costituita dalla previsione della
lettera c-bis) del comma 4 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152 del 2006,
[“Sono comunque esclusi dal campo di applicazione del presente decreto:…
c-bis) i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un
ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i
criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o
dagli organismi dalle stesse individuati”] ed evidenzia come il piano
specifico di prevenzione AIB costituisce uno strumento equivalente al piano
di gestione forestale, in quanto contiene gli interventi selvicolturali e le
opere necessarie alla prevenzione AIB, ed è redatto secondo i criteri della
gestione forestale sostenibile.
10.1. Aggiunge al riguardo il Ministero che, per i siti compresi nella rete
ecologica europea denominata “Natura 2000” [Siti di Importanza Comunitaria
(SIC) e Zone speciali di Conservazione (ZSC), di cui alla direttiva
92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche (“Direttiva
Habitat”); Zone di Protezione Speciale (ZPS) previste dalla direttiva
79/409/CEE, ora 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici (“Direttiva Uccelli”)], disciplinati, a livello di normativa
nazionale, dal d.P.R. 08.09.1997, n. 357, dalla legge 11.02.1992, n. 157, dai decreti ministeriali
03.09.2002 (recante “Linee guida
per la gestione dei siti Natura 2000”) e 17.10.2007 (relativo ai
criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione
relative di detti siti), qualsiasi piano o progetto che possa pregiudicare
significativamente il sito non può essere autorizzato senza una preventiva
valutazione della sua incidenza (articolo 6, comma 3, della direttiva
habitat).
Nel caso di specie risulta formalmente svolto uno studio di
incidenza per la realizzazione del piano oggetto di lite, ciò che -in
disparte la questione della sufficienza di tale studio di incidenza, che
costituisce l’oggetto di una separata e autonoma censura di parte ricorrente- consentirebbe di giudicare rispettati i canoni normativi invocati a
parametro di legittimità dalle associazioni ricorrenti.
10.2. Benché lo stesso disposto normativo dell’articolo 6 del d.lgs. n. 152
del 2006 rechi in sé un elemento di interna contraddittorietà tra il comma 2
e la lettera c-bis) del comma 4 (aggiunta, senza un adeguato coordinamento,
dall'art. 4-undecies, comma 1, del d.l. 03.11.2008, n. 171, convertito,
con modificazioni, dalla legge 30.12.2008, n. 205), tuttavia, seguendo
in ciò l’impostazione sottesa alla relazione ministeriale che privilegia il
profilo di conformità comunitaria, può pervenirsi alla soluzione negativa
della necessità nella fattispecie della previa VAS.
Ed invero l’articolo 6
del d.lgs. n. 152 del 2006 da un lato afferma che è necessaria la VAS “per
tutti i piani e i programmi che sono elaborati ... per i settori agricolo,
forestale, ... etc.” [comma 2, lett. a)] e che tale valutazione è altresì
necessaria per i piani e i programmi che presentano “possibili impatti sulle
finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione
speciale per la conservazione degli uccelli selvatici ... etc.” [lett.
b)]; dall’altro lato, afferma che sono comunque esclusi dalla VAS “i piani
di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito
aziendale o sovraziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della
gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o dagli organismi
dalle stesse individuati” (comma 4, lettera c-bis).
Onde l’evidente
contraddizione con il combinato disposto delle lettere a) e b) del comma 2,
poiché pressoché tutti i siti della rete “Natura 2000” sono “di livello
locale” e dunque, dovendo prevalere la ora detta lettera c-bis) in quanto
disposizione speciale-derogatoria, nessun piano o programma di gestione
forestale o strumento equivalente, ancorché molto impattante su uno di tali
siti, essendo inevitabilmente di livello locale, potrà mai essere sottoposto
a VAS [il che svuota di senso, in una parte consistente, il disposto della
lettera b) del comma 2].
Nondimeno, come anticipato sopra e come in qualche
modo prospettato nella relazione ministeriale, ciò che soprattutto rileva è
il dettato della direttiva europea, che non richiede la VAS, ma la
valutazione di incidenza ambientale. In questo senso può confermarsi la non
fondatezza della censura in esame, pur, deve darsene atto, a fronte di un
quadro normativo al riguardo non privo di elementi di contraddittorietà.
11. Fondato e meritevole di accoglimento viene invece giudicato dalla
Sezione il secondo profilo di censura articolato dalle ricorrenti nel motivo
di ricorso in esame, riguardo alla insufficiente considerazione dei vincoli
paesaggistici gravanti sulla Pineta del Tombolo.
La contestazione in esame
fa emergere due distinti (anche se connessi e conseguenziali) elementi di
illegittimità riguardo al trattamento dei suddetti vincoli paesaggistici:
l’erronea presupposizione (poi esplicitata in puntuali note del dirigente
del settore regionale competente) della piena riconducibilità di tutti gli
interventi previsti nel piano nell’esclusione dalla previa autorizzazione
paesaggistica ai sensi delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149
del codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004; la (connessa e
conseguente) assenza, negli atti istruttori, di una analisi e valutazione
adeguate degli impatti paesaggistici dei medesimi interventi sui beni
vincolati (analisi e valutazione che, per quanto si dirà, avrebbero dovuto
comunque coinvolgere i competenti uffici territoriali del Ministero di
settore).
11.1. È in particolare illegittima la previsione, implicita nel piano
specifico di prevenzione AIB impugnato, della esclusione della previa
autorizzazione paesaggistica per tutti indistintamente gli interventi
programmati, secondo la tesi per cui tali interventi si configurerebbero
come pratiche selvicolturali, in quanto tali rientranti tutti nell’ambito
delle misure non soggette ad autorizzazione ai sensi dell’articolo 149,
comma 1, lettera c) del d.lgs. n. 42 del 2004.
11.1.2. È vero che né la delibera di giunta n. 355 del 2019, né l’allegato
piano specifico di prevenzione AIB con essa approvato contengono un’espressa
affermazione in questo senso. Ma che questa tesi sia acquisita
implicitamente negli atti impugnati e ne costituisca il presupposto
logico-giuridico fondamentale, per quanto attiene al profilo paesaggistico,
è dimostrato e reso esplicito dalle note a firma del dirigente della
Direzione agricoltura e sviluppo rurale - settore forestazione - usi civici
- agroambiente della Regione Toscana, di riscontro (rispettivamente) delle
domande di accesso agli atti del 4 e del 17.04.2019 presentate dal
Tavolo permanente di amministrazione e di governo della Pineta da Castiglione della Pescaia ai Monti dell'Uccellina (allegati nn. 19 e 21
della produzione di parte ricorrente), nelle quali si precisa che “gli
interventi previsti dal Piano Specifico di prevenzione AIB si configurano
come pratiche selvicolturali e in quanto tali rientranti nell’ambito degli
interventi non soggetti ad autorizzazione, ai sensi dell’articolo 149, comma
1, lettera c) del Codice dei beni culturali e del paesaggio. (d.lgs. n. 42
del 2004)” e, inoltre, che “ai sensi del Regolamento Forestale, articolo
61-bis, comma 4, l'attuazione dei singoli interventi previsti dal Piano è
soggetta a una dichiarazione, quale forma semplificata di autorizzazione.
Pertanto, al momento della realizzazione dei singoli interventi, resta a
carico dell’ente competente rilasciare le relative autorizzazioni”.
Che la costruzione del piano si fondi su questo errato presupposto
interpretativo è infine dimostrato ulteriormente dalle stesse difese
regionali, dove si sostiene (pag. 9-10 della memoria difensiva) che “lo
stesso articolo 7, comma 13, prevede per le tipologie di interventi di cui
all'articolo 3, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 34 del 2018 (tra i quali
rientrano anche gli interventi volti alla prevenzione incendi)
l'equiparazione ai tagli colturali di cui all'articolo 149, comma 1, lettera
c) del d.lgs. n. 42 del 2004 (interventi non soggetti ad autorizzazione
paesaggistica” (tesi poi ribadita nella pag. 16 della memoria, con
riferimento alla legge regionale n. 39 del 2000).
11.1.3. La tesi regionale non ha pregio e non può essere condivisa, e ciò
sia per ragioni legate alla lettera delle disposizioni normative di
riferimento sia per ragioni discendenti dall’interpretazione sistematica e
finalistica del complesso normativo in cui tali disposizioni si inquadrano,
come tratteggiato nel precedente par. 5 di questa motivazione.
In estrema
sintesi, l’errore interpretativo che inficia la posizione regionale consiste
nell’aver esteso ai boschi e foreste sottoposti a vincolo provvedimentale
(articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, già legge 29.06.1939, n. 1497)
il regime (meno severo) previsto per i boschi e le foreste sottoposti a
vincolo ex lege [articolo 142, comma 1, lettera g) del predetto d.lgs. n. 42
del 2004, già legge 08.08.1985, n. 431].
11.1.4. Sul piano letterale, occorre considerare che l’articolo 149 del
codice dei beni culturali e del paesaggio, a proposito dell’esclusione della
preventiva autorizzazione paesaggistica, distingue chiaramente, nelle
lettere b) e c) del comma 1, il regime proprio degli interventi “inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed
altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non
alterino l'assetto idrogeologico del territorio” rispetto a quello degli
interventi consistenti nel taglio colturale, nella forestazione,
riforestazione, in opere di bonifica, antincendio e di conservazione “da
eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1,
lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in
materia” (lett. c).
Questo diverso regime deriva dalla distinzione (articolo
134 del medesimo codice del 2004) tra i boschi e le foreste vincolati sulla
base di un apposito provvedimento amministrativo, che ne abbia acclarato il
notevole interesse pubblico paesaggistico (articolo 136 dello stesso
codice), e i boschi e le foreste vincolati indistintamente
ex lege, come
categoria geografica, in base alla cosiddetta legge “Galasso” [d.l. 27.06.1985, n. 312, convertito, con modificazioni, nella legge
08.08.1985, n. 431, oggi rifluita nell’articolo 142, comma 1, lett. g) del
codice].
Il combinato disposto delle sopra riportate lettere b) e c)
dell’articolo 149 dimostra in tutta evidenza che per la prima tipologia di
boschi e foreste (vincolati con apposito provvedimento amministrativo)
l’esclusione della necessaria autorizzazione paesaggistica preventiva
prevista dalla lettera b) dell’articolo 149 per gli interventi “inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale” vale solo per gli interventi
“minori”, che non si traducano nel “taglio colturale, [nel]la forestazione,
[nel]la riforestazione, [nel]le opere di bonifica, antincendio e di
conservazione”, i quali sono sottratti all’obbligo della previa
autorizzazione paesaggistica solo ed esclusivamente quando siano “da
eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1,
lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in
materia” [articolo 149, lettera c)].
Con la conseguenza che le ora dette
tipologie di interventi -tra i quali rientra senz’altro la maggior parte di
quelli previsti dal piano oggetto di lite- riguardando un bosco vincolato
con apposito provvedimento amministrativo, ai sensi dell’articolo 136 del d.lgs. n. 42 del 2004, qual è pacificamente la pineta del Tombolo, non
possono in alcun modo considerarsi senz’altro e a priori sottratti
all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica preventiva prevista
dall’articolo 146 del decreto legislativo da ultimo citato.
Il che trova una sua evidente spiegazione razionale nel fatto che sia il
taglio colturale, sia quello antincendio, nella modalità prevista nel piano
in esame, se può presumersi compatibile con la nozione generica di
territorio coperto da foreste e da boschi, considerati in astratto, come
tipologia generale, senza alcuno specifico accertamento
tecnico-discrezionale in loco, non può logicamente ammettersi, senza un
previo controllo puntuale di compatibilità esercitato in concreto dagli
organi a ciò preposti, nel caso di boschi e foreste dichiarati di notevole
interesse pubblico e paesaggistico con apposito provvedimento motivato, nel
qual caso è coessenziale al vincolo il controllo preventivo
tecnico-discrezionale di compatibilità dei tagli proposti rispetto alla
consistenza e alla fisionomia paesaggisticamente percepibile del bene
protetto, come accertata e dichiarata nel provvedimento di vincolo.
Coerente con questo sistema normativo e con le sue finalità logiche si pone
altresì il Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria
semplificata, di cui al d.P.R. n. 31 del 2017, nel cui allegato A (di cui
all'art. 2, comma 1 - Interventi ed opere in aree vincolate esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica), non a caso e significativamente, sono
bene distinti e graduati, nelle voci A.19 e A.20, rispettivamente, gli
interventi sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell’ambito degli
interventi di cui all'art. 149, comma 1, lettera b) del codice” e quelli
sottratti all’autorizzazione paesaggistica “nell'ambito degli interventi di
cui all'art. 149, comma 1, lettera c) del Codice”.
Al riguardo le difese
regionali propongono, invece, un’erronea lettura di tale previsione
regolamentare, lì dove (pag. 17) si pretende di riferire anche ai boschi
vincolati con apposito provvedimento la voce A.20, che è invece testualmente
riferita solo ai boschi e alle foreste vincolati ex lege.
Il regime di tutela “rafforzato” che, limitatamente a certi aspetti, assiste
i beni paesaggistici dichiarati con apposito provvedimento motivato,
rispetto a quelli tutelati ex lege “Galasso”, trova ulteriori espressioni
nel diverso trattamento previsto nell’ambito della pianificazione
paesaggistica [articolo 143, comma 4, lettera a) del codice di settore del
2004].
11.1.5. In questo senso torna ad acquistare rilievo l’ampia premessa sopra
svolta (sub par. 5) -sull’abbrivio delle specifiche censure pure
prospettate dalle ricorrenti- riguardo all’inestricabile intreccio di
competenze che caratterizza la disciplina della gestione del patrimonio
forestale nazionale, che implica (sul piano sistematico e teleologico
dell’interpretazione) l’esigenza di garantire comunque il coinvolgimento
degli organi tecnico-scientifici statali ai quali la legge riserva, nella
cooperazione delle regioni e degli altri enti territoriali (articolo 5 e
Parte III del d.lgs. n. 42 del 2004), l’esercizio delle funzioni di tutela
paesaggistica.
Significativamente e non a caso, anche il nuovo Testo unico in materia di
foreste e filiere forestali del 2018 stabilisce che le regioni e i
competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo, “con i piani paesaggistici regionali, ovvero con
specifici accordi di collaborazione stipulati ai sensi dell'articolo 15
della legge 07.08.1990, n. 241”, concordino “gli interventi previsti ed
autorizzati dalla normativa in materia, riguardanti le pratiche selvicolturali, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica,
antincendio e di conservazione, da eseguirsi nei boschi tutelati ai sensi
dell'articolo 136 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e ritenuti paesaggisticamente compatibili con i valori espressi nel provvedimento di
vincolo” (articolo 7, comma 12).
Per completezza di esame della fattispecie, deve inoltre evidenziarsi che la
previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 12 ora esaminato (secondo
la quale “Gli interventi di cui al periodo precedente, vengono definiti nel
rispetto delle linee guida nazionali di individuazione e di gestione
forestale delle aree ritenute meritevoli di tutela, da adottarsi con decreto
del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto
con il Ministro dei beni delle attività culturali e del turismo, il Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e d'intesa con la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano”), contrariamente alla tesi regionale
(secondo la quale non sarebbe “vigente in quanto collegato al D.M. non
ancora promulgato”), non introduce un vincolo impeditivo della possibilità
di stipula, già prima dell’emanazione delle suddette linee guida, di
appositi accordi tra l’amministrazione regionale e quella ministeriale,
atteso che l’articolo 15 della legge n. 241 del 1990 costituisce un potere
implicito di carattere generale delle amministrazioni, attivabile anche
indipendentemente da specifiche norme autorizzative, ed esistendo ed essendo
già operanti, inoltre, anche sulla base della nuova pianificazione
paesaggistica regionale e della relativa legislazione regionale della
Toscana, diversi organismi a partecipazione mista che curano la gestione e
l’attuazione del piano paesaggistico e delle problematiche di comune
interesse inerenti la tutela dei paesaggi, in seno alle quali ben sarebbe
stato possibile ricercare forme di concordamento in attuazione della
previsione della norma del decreto del 2018 sopra richiamata.
11.1.6. Diventa recessiva, al cospetto di questo coerente sistema, la tesi
interpretativa proposta dalle difese regionali, secondo la quale l’articolo
7, comma 13 del d.lgs. n. 34 del 2018, nel prevedere che “le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all'articolo
3, comma 2, lettera c), eseguiti in conformità alle disposizioni del
presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali
di cui all'articolo 149, comma 1, lettera c), del d.lgs. 22.01.2004, n.
42”, avrebbe escluso la previa autorizzazione paesaggistica anche per gli
interventi sui boschi e le foreste vincolati ai sensi dell’art. 136 del
codice di settore del 2004.
Proprio alla luce di quanto osservato e
considerato nel precedente paragrafo 11.1.4, risulta chiaro, invece, che
questa previsione si riferisce solo ed esclusivamente ai boschi e alle
foreste vincolati ex lege (art. 142, comma 1, lett. g) del codice del 2004),
come è del resto reso evidente dal puntuale richiamo in essa contenuto alla
lettera c) del comma 1 dell’art. 149 che, come si è visto sopra, riguarda
esclusivamente i boschi e le foreste ex lege Galasso.
Questa lettura, oltre
che dalla coerenza del sistema, è imposta anche dal dato topografico del
testo dell’articolo 7 del d.lgs. n. 34 del 2018, che antepone la norma
speciale prevista dal comma 12 (relativo ai boschi e alle foreste tutelati
in base a un vincolo di tipo provvedimentale) a quella generale di cui al
seguente comma 13, erroneamente invocato dalle difese regionali.
Una diversa e più ampliativa interpretazione del d.lgs. n. 34 del 2018,
quale quella che sembra essere ipotizzata dalla Regione Toscana, tale da
derogare alle più stringenti norme di tutela prevista dal codice dei beni
culturali e del paesaggio del 2004, renderebbe inoltre incostituzionale per
eccesso di delega il decreto del 2018, nella cui delega di legge non vi era
in alcun modo il potere di incidere in senso riduttivo sui livelli di tutela
del paesaggio.
11.2. La diversa –ma non condivisa dalla Sezione– lettura del combinato
disposto delle lettere b) e c) del comma 1 dell’articolo 149 del d.lgs. n.
42 del 2004 (e del d.lgs. n. 34 del 2018), con conseguente confusione tra il
regime di tutela paesaggistica del patrimonio forestale vincolato con
apposito provvedimento rispetto a quello proprio del patrimonio forestale
vincolato ex lege Galasso, ha ingenerato, come prima anticipato, un secondo
elemento di illegittimità del piano impugnato, nella parte in cui ha
condotto a una sottovalutazione degli aspetti paesaggistici, con conseguente
carenza istruttoria e motivazionale sul punto.
11.2.1. È da notare che nulla è detto nella delibera di giunta n. 355 del
2019, né nell’allegato piano specifico di prevenzione AIB con essa
approvato, in tema di valutazione paesaggistica degli interventi. Nelle
premesse della delibera compare solo la seguente considerazione: “Preso atto
che sono stati acquisiti con esito favorevole tutti gli atti e pareri
previsti dalla normativa vigente in relazione alla tipologia degli
interventi colturali straordinari e delle opere destinati alla prevenzione e
lotta agli incendi boschivi”.
Di tali atti e pareri non è tuttavia fornita alcuna indicazione specifica.
Nella parte finale del piano, alla voce “Quadro normativo e bibliografia”
(pag. 138), figura solo un generico richiamo dei vincoli paesaggistici provvedimentali imposti sulle aree interessate dal piano, nonché al codice
di tutela del 2004 (e al regolamento di semplificazione di cui al d.P.R. n.
31 del 2017).
Inoltre, nello studio di incidenza presentato ai sensi
dell’articolo 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, si afferma “gli interventi per
cui viene valutata l’incidenza vertono perlopiù sull’attività di ordinaria
coltivazione di soprassuoli boschivi all’interno del sito di interesse
comunitario” (pag. 5).
Nel medesimo studio di incidenza risultano solo
citate le misure di conservazione contenute nel piano paesaggistico della
Regione Toscana, in particolare rispetto all’Ambito di Paesaggio 18 ovvero
“Maremma Grossetana” (pagg. 49 -53), ma -in disparte la considerazione che
ogni valutazione di tutela paesaggistica avrebbe dovuto essere acquisita
presso gli organi competenti e nell’ambito delle procedure appropriate e non
avrebbe potuto comunque essere utilmente svolta nello studio di incidenza-
il suddetto documento si è limitato in proposito a una mera riproduzione
testuale della relativa scheda di piano paesaggistico, con annesse
“Criticità” e “Obiettivi di qualità e direttive - Obiettivo 4”, senza alcuna
aggiunta o considerazione sulla compatibilità degli interventi.
Nella pag.
149 vi è poi un breve paragrafo intitolato “Incidenza degli interventi
proposti rispetto al piano paesaggistico” del seguente tenore: “Nella parte
inerente gli Obiettivi di qualità e direttive si legge al punto 4:
Salvaguardare e valorizzare i rilievi dell’entroterra e l’alto valore
iconografico e naturalistico dei ripiani tufacei, reintegrare le relazioni ecosistemiche, morfologiche, funzionali e visuali con le piane costiere 1.13
- tutelare l’elevato grado di panoramicità del sistema costiero e le
relazioni visuali con il mare e con le aree retrostanti. Gli interventi
previsti sono volti alla conservazione dell’ambiente pineta così come appare
oggi, grazie ad azioni selvicolturali volte alla lotta contro gli incendi
boschivi. Incidenza Positiva”.
La disamina ora compiuta del modo in cui i
profili paesaggistici sono stati presi in considerazione nei documenti di
piano dimostra, ad avviso della Sezione, la fondatezza della censura di
insufficienza istruttoria e motivazionale su tali, pur essenziali, profili
di tutela.
12. Con il terzo motivo di ricorso le associazioni ricorrenti hanno
lamentato che la Regione Toscana avrebbe condotto l’istruttoria in modo
carente, ostacolando la partecipazione delle associazioni e dei cittadini
interessati alla tutela delle aree in questione, comprimendo i tempi procedimentali per consentire l’accesso ai finanziamenti comunitari e
trascurando l’istruttoria relativa ai vincoli ambientale, paesaggistico e
idrogeologico.
Sarebbero state sottovalutate la reale consistenza del
monumento naturale in questione, l’insistenza sul medesimo di domini
collettivi ai sensi della legge n. 168 del 2017 e l’eventuale presenza di
piante monumentali previste dall’articolo 7 della legge n. 10 del 2013 per
il rilascio di esemplari vetusti e di ricovero.
In sostanza, con il mezzo di
censura in esame, corroborato e integrato con i numerosi rilievi puntuali
svolti nel paragrafo del ricorso introduttivo denominato “Conclusioni
tecnico-scientifiche”, le associazioni ricorrenti denunciano una complessiva
carenza istruttoria, che si sarebbe tradotta in una sostanziale
sottovalutazione e non adeguata considerazione dei vincoli ambientali e
paesaggistici esistenti sulla pineta del Tombolo.
Rinviando ai paragrafi precedenti per gli aspetti paesaggistici, già ivi
trattati, occorre qui esaminare l’adeguatezza istruttoria e motivazionale
del piano specifico impugnato relativamente ai profili di tutela ambientale,
segnatamente quelli legati alla inclusione di parti delle aree interessate
dal piano AIB in ambiti ricomprese nel sistema Natura 2000.
12.1. Fermo restando che, come chiarito supra al par. 10, nella fattispecie
non era necessaria la VAS, risultano tuttavia dagli atti significativi
elementi che depongono nel senso dell’inadeguatezza istruttoria e
motivazionale della valutazione d’incidenza svolta dalla Regione Toscana.
Ed invero dall’esame dell’atto di autorizzazione regionale emerge che si
risolve in un riscontro piuttosto formalistico di corrispondenza degli
interventi, singolarmente considerati, ad alcune voci tipologiche desunte
dalla modulistica di settore, senza un’adeguata valutazione d’insieme –con
conseguente difetto di motivazione– della reale dimensione degli impatti
del piano.
12.2. Nello studio di incidenza, nel capitolo intitolato “Fase 2.
Valutazione "appropriata": Stima degli effetti degli interventi proposti”,
compaiono alcune indicazioni di “incidenza negativa” (evidenziate in rosso)
e numerose indicazioni di “incidenza non significativa” (in verde) o
“positiva” (in colore scuro).
Nella parte dedicata alla incidenza sulla
fauna (pagg. 150 ss.) figura una sola ipotesi di incidenza negativa sugli
insetti (per la specie Chalcophora detrita, pag. 151) e nessuna incidenza
negativa sugli uccelli (riguardo ai quali ricorre, invece, sistematicamente,
la valutazione di incidenza positiva degli interventi, con la ripetitiva
motivazione per cui “Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie
troverà beneficio, in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno
salvaguardati dalla distruzione - Incidenza Positiva”). Per i mammiferi
ricorre una sola incidenza negativa (pag. 160, per il topo quercino).
In senso opposto le associazioni ricorrenti hanno sottolineato come la
previsione del taglio del 70% dei pini (con eliminazione progressiva dei
pini marittimi, molti dei quali molto vetusti e di ricovero per molte specie
animali) e dell’80% del sottobosco (habitat elettivo di numerose specie di
insetti, di rettili, di uccelli e di mammiferi), nonché l’ampio ricorso al
cosiddetto “fuoco prescritto”, non possono realisticamente essere valutati
pressoché tutti e interamente con “incidenza non significativa” o
“positiva”, con pochissime eccezioni di “incidenza negativa”, come si è
visto sopra.
Ritiene il Collegio che, escluso in questa sede ogni inammissibile giudizio
di merito che spetta all’amministrazione effettuare e che non può essere qui
compiuto, la valutazione svolta, in ragione dell’entità degli interventi
programmati, non sia adeguatamente motivata.
Ad esempio la frase ricorrente
–“Con la lotta agli incendi boschivi anche questa specie troverà beneficio,
in quanto molti degli habitat a cui si lega saranno salvaguardati dalla
distruzione - Incidenza Positiva"– avrebbe meritato un maggiore
approfondimento perché, per un verso, è certo che con la lotta agli incendi
boschivi la fauna ne ricaverà beneficio ma, fermo tale punto, per altro
verso, non è chiarito se ciò rimane vero –ed eventualmente in che termini–
anche a seguito del diradamento degli alberi e delle altre misure
contemplate.
12.3. Conseguenziale e specularmente aderente alla prospettazione molto
favorevole contenuta nello studio di incidenza si rivela la trattazione
fattane dall’amministrazione regionale in sede di “autorizzazione VINCA”
(doc. n. 4 allegato alla produzione regionale).
Questo provvedimento,
riscontrando “l'istanza in oggetto, acclarata con Prot. n. 31847 del
23.01.2019, per la quale lo scrivente Settore ha ricevuto dagli Uffici
Regionali la modulistica e lo studio di incidenza per la realizzazione di un
Piano di prevenzione AIB dei punti strategici nelle pinete litoranee dei
comuni di Grosseto e Castiglione della Pescaia”, prende atto “dello Studio
di incidenza e della modulistica presentata, in cui si analizza
compiutamente l’opera proponendo misure di mitigazione” e, viste le misure
di conservazione mediante interventi selvicolturali individuate per
l’habitat “2270 - Dune con foreste di Pinus pinea e Pinus pinaster” dalla
delibera regionale n. 1223/2015, ritenuto che “gli interventi risultano
coerenti con le misure di conservazione vigenti e le incidenze negative
rilevate risultano essere non significative per la loro transitorietà ed
estensione”, che, anzi, “gli interventi previsti determineranno anche
incidenze positive per la conservazione attiva dell'habitat 2270 a medio
termine e quindi delle specie di interesse conservazionistico che utilizzano
tale habitat”, che “la realizzazione degli interventi previsti seguendo le
prescrizioni indicate nella parte dispositiva del presente provvedimento non
determinerà effetti negativi sugli obiettivi di conservazione, sulla
disponibilità di siti per la nidificazione e/o il rifugio della fauna, sulla
complessità delle reti alimentari ivi presenti, sulla struttura e funzioni
necessarie alla conservazione a lungo termine degli habitat e delle specie
tutelati presenti nei siti Natura 2000 in oggetto”, ha espresso una
valutazione positiva “in base alle informazioni fornite”.
È mancata dunque la necessaria considerazione e valutazione unitaria
dell’impatto delle attività proposte sugli habitat oggetto di protezione
che, si ripete ancora una volta, spettava all’amministrazione compiere e non
certo a questo Decidente
12.3.3. Anche le prescrizioni —riassumibili in sintesi nei seguenti quattro
punti:
1) salvaguardare i periodi di nidificazione (eseguire dunque gli
interventi possibilmente tra il 1 ottobre ed il 28 febbraio di ogni anno,
salvo estensioni e deroghe motivate, con alcuni accorgimenti);
2) evitare la
perdita di lubrificanti e carburante e limitare l’emissione di gas di
scarico e di rumori durante l’esecuzione dei lavori;
3) avvisare il Servizio
regionale competente qualora siano rinvenuti, durante l’esecuzione
dell'intervento, nidi o cavità sulle piante da abbattere;
4) verificare la
sussistenza sull’area delle condizioni indicate dal progetto per applicare
la tecnica del “fuoco prescritto”, facendo attenzione a monitorare durante
l’esecuzione i parametri più importanti per l’utilizzo di questa tecnica,
quali il vento, la temperatura, l’umidità, etc.— avrebbero meritato
maggiore attenzione, e comunque migliore motivazione, perché, lungi dal
costituire “specifiche prescrizioni” come affermato nella memoria difensiva
regionale, non sembrano avere alcun contenuto prescrittivo autonomo rispetto
a quelle che sono le comuni buone regole tecniche minimali già implicite
negli interventi antincendio boschivo presi in considerazione.
Si tratta,
quindi, di mere raccomandazioni generiche di eseguire a regola d’arte i
lavori che non aggiungono e non tolgono alcunché a quanto già previsto nel
piano. Anche sotto tale aspetto è necessario che, coerentemente alla regola
generale, sia fornita una migliore motivazione della scelta fatta.
13. L’enucleazione, svolta nei precedenti paragrafi, dei rilevati vizi di
carenza istruttoria e motivazionale, tradottisi in una sostanziale
sottovalutazione dei profili paesaggistici e ambientali degli interventi
antincendio programmati, fa emergere anche un ulteriore profilo,
diffusamente proposto nel ricorso introduttivo, concernente la mancata
partecipazione al percorso elaborativo delle associazioni di tutela
ambientale, le quali pure avevano più volte chiesto di essere ascoltate e di
poter contribuire al procedimento.
Se è vero che non si rinvengono nel panorama normativo (nazionale e
regionale) specifiche previsioni che impongano tale partecipazione -sicché
deve escludersi la sussistenza di puntuali vizi di violazione di legge sotto
questo profilo- è altrettanto vero che non è conforme a criteri generali di
buona amministrazione non prendere in considerazione i possibili contributi
delle associazioni ambientaliste che abbiano chiesto di essere sentite o che
abbiano prodotto memorie e documenti.
Si ricordi, a tale riguardo che, ai sensi dell’articolo 9 l. 07.08.1990,
n. 241, qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati,
nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o
comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà
di intervenire nel procedimento e che è loro riconosciuto, giusta il
disposto del successivo articolo 10, il diritto di presentare memorie
scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove
siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Ciò peraltro risponde ai canoni di buona amministrazione sanciti
dall’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
che, come è noto, ai sensi dell’articolo 6 TUE, ha lo stesso valore
giuridico dei trattati.
Fermo restando che l’amministrazione ha il dovere di procedere, anche
celermente quando necessario, in vicende come queste sarebbe stato utile
garantire la possibilità di ascolto e di presa in considerazione dei punti
di vista diversi da quelli dell’amministrazione quando ciò non si traduce
esclusivamente in ostacoli al compimento del procedimento amministrativo.
14. In conclusione, per tutte le esposte ragioni il ricorso deve giudicarsi
fondato e merita pertanto accoglimento, con conseguente annullamento della
delibera di giunta regionale n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso “Piano
Specifico di Prevenzione AIB” per il comprensorio territoriale delle pinete
litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia, nella parte in cui
considera erroneamente come paesaggisticamente irrilevanti -e perciò
sottratti alla preventiva autorizzazione paesaggistica- tutti gli
interventi previsti nel piano, omettendo un’adeguata analisi e valutazione
dell’impatto paesaggistico di tali interventi, nonché nella parte in cui si
fonda su una valutazione di incidenza sui siti della rete Natura 2000
interessati dalle misure rivelatasi carente nell’istruttoria e nelle
motivazioni, oltre che corredata da mere raccomandazioni di buona esecuzione
degli interventi prive della consistenza di prescrizioni integrative.
15. L’annullamento della delibera n. 355 del 18.03.2019 e dell’annesso
piano si riverbera sulla delibera n. 564 del 23.04.2019 (di approvazione
del piano AIB 2019-2021) nella sola parte in cui tale ultima delibera
recepisca, approvi, ratifichi o comunque faccia propri i contenuti della
delibera n. 355 del 2019 e dell’annesso piano specifico AIB.
16. La Regione Toscana ha più volte sottolineato, nella sua memoria
difensiva, l’estrema urgenza di eseguire interventi AIB a tutela della
pubblica incolumità e della sicurezza di persone e cose seriamente
minacciate dal rischio sempre più urgente e pressante di devastanti incendi
boschivi, molto probabili (se non, pare di capire, inevitabili) a causa del
mutamento climatico, non senza evocare scenari tragici, quali quelli di
recente verificatisi in Grecia, in Spagna e in Portogallo (per guardare solo
alle aree mediterranee e per non parlare della California o dell’Australia).
Scrive, ad esempio, la Regione Toscana (pag. 6 della memoria in data 29.11.2019): “È evidente che in tali condizioni, eventuali decisioni di
rinuncia agli interventi di prevenzione comportano l'assunzione di
responsabilità in merito alle conseguenze di eventi che dovessero accadere”
e, ancora (ivi): “Nel corso del 2017 un incendio ad alta intensità e di
limitata superficie (3,5 ha) ha danneggiato case e veicoli in località
Marina di Grosseto, mentre a Castiglione della Pescaia si è verificato un
incendio boschivo di 75,9 ettari che ha raggiunto una velocità di
propagazione di 20 metri/minuto”, sicché le delibere impugnate e il piano
specifico di prevenzione AIB delle pinete litoranee di Grosseto e
Castiglione della Pescaia “sono volti ad assicurare la salvaguardia
dell'incolumità di residenti e turisti; una loro mancata attuazione
esporrebbe al permanere delle condizioni di rischio come sopra evidenziate”
(pag. 7).
16.1. A fronte di tali impegnative affermazioni dell’Amministrazione
regionale, il Collegio deve porsi la questione di come poter in qualche modo
bilanciare le contrapposte esigenze di tutela giurisdizionale degli
interessi dei ricorrenti (e di ripristino della legittimità dell’azione
amministrativa) con quelle di tutela della pubblica incolumità e della
sicurezza delle persone e dei beni patrimoniali delle concentrazioni
antropiche che insistono nella (o in prossimità della) pineta oggetto del
piano AIB impugnato.
In particolare, il Collegio non può sottrarsi alla responsabilità di
esplorare a fondo la possibilità, per le suddette finalità, di graduare
l’effetto caducatorio degli atti impugnati discendente dal disposto
annullamento, in modo da scongiurare effetti di paralisi, che potrebbero
rivelarsi dannosi per gli stessi interessi ambientali fatti valere dalle
Associazioni ricorrenti.
Soccorre all’uopo, ad avviso del Collegio,
la possibilità di calibrare
l’effetto di annullamento, al fine di consentire alla Regione Toscana di
disporre di un congruo lasso di tempo per rivedere ed emendare, in linea con
i precetti regolativi desumibili dalla presente decisione, il piano
specifico AIB oggetto della presente pronuncia di annullamento,
consentendone, nelle more, interventi di messa in sicurezza o che si
presentino come particolarmente urgenti e ineludibili.
16.2. Com’è noto, la facoltà di modulare gli effetti demolitori delle
sentenze di annullamento è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato con la
sentenza 10.05.2011, n. 2755. In quella sede, la Sezione VI, accertata
l’illegittimità del piano faunistico venatorio della regione Puglia a
cagione dell’omesso svolgimento del procedimento di valutazione ambientale
strategica (VAS), accoglieva il ricorso e dichiarava la perdurante efficacia
dell’atto impugnato nelle more dell’adozione di un nuovo provvedimento
programmatorio sostitutivo.
A tali conclusioni il Collegio giudicante perveniva non soltanto sul rilievo
della potenziale compromissione degli equilibri ambientali derivante
dall’eliminazione degli effetti del piano originariamente approvato, ma
anche in ragione del contenuto delle pretese fatte valere dalla parte
ricorrente. In quella sede si sosteneva infatti che il principio di
effettività della tutela giurisdizionale, nella declinazione desumibile
tanto dalle fonti sovranazionali (articoli 6 e 13 della CEDU), quanto da
quelle interne (articoli 24 e 113 della Costituzione), imponeva una
modulazione temporale dell’efficacia tipica del dictum giudiziale, in vista
della necessità di assicurare una soddisfazione non meramente formale
dell’interesse fatto valere con la domanda.
La Sezione VI osservava altresì che il riconoscimento di deroghe alla
naturale retroattività degli effetti caducatori non incontrerebbe alcuna
preclusione nelle norme sostanziali e processuali, laddove rispettivamente
disciplinano l’annullamento in autotutela degli atti amministrativi
(articolo 21-nonies, legge n. 241 del 1990) ed i contenuti delle sentenze
che dispongono l’eliminazione dalla realtà giuridica del provvedimento
impugnato (articolo 34, comma 1, lettera a), c.p.a.).
Parimenti, i poteri
valutativi esercitabili dal giudice in ordine all’efficacia del contratto
stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima (articoli 121-122,
c.p.a.) costituirebbero un ulteriore indice normativo a sostegno della
compatibilità sistematica di pronunce che, accertata la difformità dell’atto
a contenuto generale rispetto al parametro legale, escludono la produzione
di effetti caducatori sino all’adozione del nuovo provvedimento da parte
dell’Amministrazione.
In virtù dell’ascrivibilità della disciplina ambientale al novero delle
competenze concorrenti fra gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione
europea, questo Consiglio affermava inoltre che gli interessi fatti valere
in tale ambito materiale dovessero essere tutelati dai giudici nazionali
secondo livelli di garanzia non inferiori rispetto a quelli assicurati dal
diritto eurounitario. In tal senso, le disposizioni di cui all’articolo 264
del TFUE, specie nella parte in cui affidano alla Corte di giustizia la
facoltà di precisare “gli effetti dell'atto annullato che devono essere
considerati definitivi” (paragrafo 2), troverebbero ingresso
nell’ordinamento interno in qualità di principi idonei a garantire una
“tutela piena ed effettiva” delle situazioni giuridiche soggettive dedotte
in giudizio (articolo 1, c.p.a.).
16.3. Giova osservare come, sulla base degli argomenti posti a fondamento
della sentenza 10.05.2011, n. 2755, l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato abbia ammesso la configurabilità di deroghe all’efficacia retroattiva
delle pronunce con cui il giudice della nomofilachia modifica orientamenti
giurisprudenziali consolidati (Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Se il contenuto di un siffatto richiamo vale indubbiamente a rafforzare
l’apparato argomentativo della citata decisione del 2017, non può tuttavia
omettersi di precisare come il cosiddetto prospective overruling non
condivida con la graduazione della portata caducatoria delle sentenze di
annullamento null’altro che la comune riconducibilità alle tecniche di
governo dell’efficacia delle pronunce giurisdizionali.
L’elaborazione di principi di diritto innovativi rispetto all’orientamento
precedentemente consolidato, in quanto formulati in sentenze dichiarative di
interpretazione intese a rendere manifesto il significato dell’originario
dato normativo, esprime una naturale tendenza alla retroazione dei nuovi
canoni esegetici. Tuttavia, a fronte della potenziale lesione di
controinteressi di rango costituzionale, l’operatività del revirement
giurisprudenziale può essere limitata alle sole fattispecie che vengano in
rilievo posteriormente alla pubblicazione della nuova decisione.
Muovendo dalla risalente tradizione pretoria della Corte suprema
statunitense, la giurisprudenza non ha tuttavia mancato di delimitare
puntualmente le condizioni di praticabilità del prospective overruling. Sin
dalla sentenza 11.07.2011, n. 15144, il Giudice di legittimità ha
costantemente sostenuto che l’ammissibilità di interventi nomofilattici con
efficacia ex nunc sia subordinata alla cumulativa presenza dei seguenti
requisiti:
a) la nuova interpretazione incida su norme processuali;
b) il mutamento giurisprudenziale sia stato imprevedibile e sopravvenga ad
un distinto orientamento consolidato nel tempo, in modo da indurre la parte
ad un ragionevole affidamento sulla perdurante validità dell’indirizzo
anteriore;
c) l’overruling precluda l’esercizio del diritto di azione o di difesa delle
parti (da ultimo, cfr. Cass. civ., Sez. II, ordinanza 10.05.2018, n.
11300; Cass. civ., Sez. un., sentenza 03.10.2018, n. 24133; Cass. civ.,
Sez. un., sentenza 12.02.2019, n. 4135; Cass. civ., Sez. lav.,
ordinanza 13.01.2020, n. 403).
Ad analoga definizione dei presupposti fondativi dell’istituto in esame è
pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Ad. plen., 02.11.2015, n. 9; Cons. St., Sez. III, ordinanza
07.11.2017, n.
5138). E in applicazione delle medesime condizioni questo Consiglio ha
recentemente escluso la differibilità nel tempo dei principi di diritto
enunciati in tema di riapertura delle graduatorie ad esaurimento (Cons. St.,
Ad. plen., 27.02.2019, n. 4; Cons. St., Sez. VI, sentenza 08.04.2019, n. 2266), nonché di superamento della pregiudiziale amministrativa
nella domanda di risarcimento del danno (Cons. St., Sez. III, sentenza 22.02.2019, n. 1230; Cons. St., Sez. IV, sentenza 28.06.2018, n.
3977).
Rispetto a tale assetto giurisprudenziale si distingue invece la citata
sentenza n. 13 del 2017, con la quale l’Adunanza plenaria, accogliendo la
tesi della cosiddetta “discontinuità” dell’efficacia del vincolo preliminare
nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico
anteriori all’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, giunge ad
estendere la portata del prospective overruling anche all’esegesi di norme a
contenuto sostanziale.
Conoscendo di una fattispecie rientrante nella sfera
di vincolatività dei principi di diritto formulati dall’Adunanza plenaria n.
13 del 2017, la Sezione VI del Consiglio di Stato, con sentenza 03.12.2018, n. 6858, ha parimenti sostenuto che “anche nell’ambito del
procedimento amministrativo (nel caso in esame, di conclusione del
procedimento di vincolo), come in ambito processuale, la modifica del
precedente orientamento non può che comportare che la parte (nella specie,
l’Amministrazione) incorra in decadenze fino allora non prevedibili”.
In altri termini, giova in questa sede evidenziare con forza che
il potere
di disporre la decorrenza ex nunc degli effetti delle sentenze a contenuto
interpretativo non possa assimilarsi alle tecniche di modulazione della
portata caducatoria delle pronunce costitutive di annullamento degli atti
illegittimi. Queste ultime, lungi dall’incidere sulla stabilità di
precedenti giurisprudenziali consolidati, contengono indefettibilmente un
accertamento circa la legittimità/illegittimità del provvedimento
amministrativo impugnato in vista della soddisfazione di un interesse
protetto dall’ordinamento sostanziale. Le prime, invece, individuano il
momento a partire dal quale il nuovo orientamento interpretativo deve essere
applicato.
Deve in conclusione ritenersi che l’indagine sulla graduazione degli effetti
dell’annullamento non possa che essere condotta sulla base di criteri
distinti rispetto a quelli cui la giurisprudenza ordinaria e amministrativa
ricorre per giustificare la praticabilità del prospective overruling.
16.4. La Sezione è consapevole dei rilievi critici mossi da una parte della
dottrina avverso la graduazione degli effetti caducatori delle sentenze di
annullamento.
Si è osservato, in primo luogo, come nel sistema della giustizia
amministrativa il contenuto tipico dell’azione di annullamento, consistente
nell’eliminazione del provvedimento illegittimo dalla realtà giuridica,
sarebbe violato dalle decisioni con cui il giudice dispone il mantenimento
dell’efficacia dell’atto impugnato nelle more dell’ulteriore esercizio del
potere. Le conseguenze caducatorie dell’accoglimento della domanda, benché
non puntualmente desumibili dalla disciplina processuale, sarebbero imposte
dalla natura costitutiva della sentenza di annullamento, dei cui effetti
demolitori dovrebbe dunque predicarsi la radicale indisponibilità.
Con un secondo argomento critico si è inoltre ritenuto che le tesi sostenute
dalla Sezione VI del Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 2755 del
2011 presenterebbero profili di contrasto con l’articolo 113, comma 3 della
Costituzione, ai sensi del quale “la legge determina quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei
casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. La necessaria
intermediazione legislativa nella definizione dei poteri di annullamento
osterebbe infatti all’autonoma gestione giudiziaria dell’efficacia delle
pronunce costitutive, dal momento che la produzione del risultato demolitorio potrebbe essere legittimamente escluso nelle sole ipotesi
predeterminate dalla fonte primaria.
Una terza censura di matrice dottrinale è stata avanzata in relazione alla
pretesa violazione del carattere dispositivo del processo amministrativo. Il
principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112,
c.p.c.) non consentirebbe al giudice di modulare il contenuto del decisum in
senso difforme rispetto alla pretesa annullatoria fatta valere con la
domanda di parte.
Anche gli argomenti di diritto positivo posti a fondamento del percorso
motivazionale della sentenza n. 2755 del 2011 non hanno mancato di suscitare
la disapprovazione di alcuni esponenti della dottrina.
Non persuasivo è ritenuto il riferimento ai poteri esercitabili della Corte
di giustizia nel giudizio sulla legittimità degli atti delle istituzioni
eurounitarie (articolo 264, paragrafo 2, TFUE). Né il richiamo ai principi
di derivazione europea, previsto dall’articolo 1 del codice del processo
amministrativo, consentirebbe per ciò solo di trasporre nell’ordinamento
interno gli istituti tipici di un distinto sistema processuale. Sulla base
delle norme di matrice eurounitaria non potrebbe infatti imporsi ai giudici
nazionali la temporanea conservazione dell’efficacia di atti illegittimi in
vista della necessaria protezione di controinteressi meritevoli di tutela.
Quanto alla disciplina speciale di cui agli articoli 121-122 del codice del
processo amministrativo, la previsione di una deroga espressa
all’inefficacia retroattiva del contratto stipulato sulla base di
un’aggiudicazione illegittima costituirebbe un significativo indice
dell’eccezionalità del rimedio pretorio in esame, non invece la
esplicitazione settoriale di un generale potere di valutazione circa la
perduranza o meno degli effetti del provvedimento annullato.
Da ultimo, la radicale distinzione tra le funzioni giurisdizionali e quelle
di amministrazione attiva precluderebbe l’assimilazione tra la rimozione in
autotutela degli atti illegittimi (articolo 21-nonies, legge n. 241 del
1990) e le sentenza costitutive di annullamento.
16.5. La Sezione ritiene che tali rilievi critici non debbano essere
condivisi.
16.5.1 Con riguardo alla pretesa violazione del contenuto tipico delle
pronunce costitutive di annullamento, occorre osservare quanto segue.
In esito al complesso percorso evolutivo che ha visto la pretesa alla
soddisfazione del bene della vita progressivamente acquisire una valenza
centrale entro la struttura dell’interesse legittimo, la disciplina
processuale delle azioni esperibili a fronte dell’esercizio del potere
richiede un costante adeguamento interpretativo alle esigenze di effettività
imposte dalla cognizione di una posizione giuridica soggettiva sostanziale.
È noto che il modello rimediale pluralistico originariamente accolto dalla
bozza del codice del processo amministrativo licenziata l’08.02.2010
dalla Commissione insediata presso il Consiglio di Stato sia stato solo
parzialmente recepito nella versione definitiva del testo legislativo. Ove
tuttavia si ritenesse che il riferimento alle azioni di annullamento
(articolo 29, c.p.a.) e di condanna (articolo 30, c.p.a.), nonché a quelle
in materia di silenzio-inadempimento (articolo 31, commi 1-3, c.p.a.) e di
nullità (articolo 31, comma 4, c.p.a.), sia espressivo di un sistema di
tutela tipico e conchiuso, dovrebbe al contempo ammettersi la validità di
una configurazione meramente processuale dell’interesse legittimo.
Per converso, e in modo più condivisibile, la considerazione del moderno
schema dei rapporti di diritto pubblico, nel quale il bene della vita inciso
dall’esercizio del potere diviene l’elemento costitutivo di una situazione
giuridica soggettiva sostanziale, esige la costruzione di un apparato
rimediale idoneo ad assicurare a quest’ultima una protezione adeguata alla
sua intrinseca natura.
In forza dei criteri direttivi di cui all’articolo 44 della legge 18.06.2009, n. 69, nonché del richiamo ai principi costituzionali e comunitari
previsto dall’articolo 1 del codice del processo amministrativo, deve dunque
ritenersi che il canone di effettività della tutela giurisdizionale si ponga
a fondamento di un sistema atipico di azioni, la cui esperibilità garantisce
la soddisfazione di interessi giuridicamente rilevanti mediante strumenti
processuali non necessariamente coincidenti con quelli espressamente
previsti dalla legge.
Con specifico riguardo all’azione generale di accertamento, l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 29.07.2011, n. 15, ha
infatti autorevolmente sostenuto che “nell’ambito di un quadro normativo
sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse
legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la
mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’azione
generale di accertamento non preclude la praticabilità di una tecnica di
tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al
fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in
modo adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme
immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di
garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo (articoli
24, 103 e 113).
Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel
processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone
di riconoscere l'esperibilità dell'azione di accertamento autonomo, con
particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da
impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione
concreta della pretesa sostanziale del ricorrente”.
Così delineato il quadro dei mezzi di tutela esperibili nell’attuale sistema
di giustizia amministrativa, deve ulteriormente osservarsi come l’atipicità
dell’apparato rimediale possa presentare anche una declinazione di tipo
contenutistico, nella misura in cui la decisione del giudice esprime una
sintesi degli interessi in conflitto non astrattamente predeterminabile dal
legislatore.
Ed in specie, l’estensione dell’oggetto della cognizione al rapporto
giuridico controverso, al di là dei confini imposti dal mero scrutinio di
legittimità dell’atto impugnato, può giustificare il riconoscimento di
poteri valutativi in ordine alla perduranza degli effetti dell’atto
illegittimo, nell’ottica del bilanciamento fra le esigenze di tutela fatte
valere dalla parte ricorrente ed i controinteressi generali e particolari
rilevanti nel caso concreto.
Il governo degli effetti delle sentenze costitutive di annullamento appare
dunque ammissibile nel quadro di atipicità rimediale e contenutistica che
permea la moderna struttura del processo amministrativo.
Del resto -come è stato notato- sotto il profilo dell’azione proposta, la
domanda di annullamento contiene sempre il quid minus della domanda di mero
accertamento dell'illegittimità con effetti non retroattivi o non
eliminatori e, sotto il profilo dei poteri del giudice, l'attribuzione del
potere di decidere quando annullare l'atto illegittimo implica (rectius: può
implicare) anche il potere, meno incisivo, di stabilire da quando far
decorrere la portata della sentenza di annullamento dell'atto.
16.5.2 Con il secondo degli esaminati rilievi critici si sostiene che i
poteri di modulazione riconosciuti dalla sentenza n. 2755 del 2011
configurerebbero una violazione della riserva di legge prevista
dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, nella parte in cui affida
all’intermediazione legislativa la determinazione dei casi e degli effetti
dell’annullamento giurisdizionale.
Anche la suddetta censura di matrice dottrinale non appare persuasiva.
Deve in primo luogo osservarsi che nessuna norma di diritto sostanziale o
processuale espressamente preclude l’individuazione di deroghe alla portata
retroattiva delle pronunce a contenuto demolitorio.
In secondo luogo il vigente assetto processuale, oltre a rimettere al
giudice la valutazione circa la necessità dell’annullamento dell’atto
illegittimo (articolo 34, comma 3, c.p.a.), accentua il carattere
conformativo delle decisioni adottabili. A questo proposito giova infatti
ricordare che il combinato disposto dell’articolo 30, comma 1 e
dell’articolo 34, comma 1, lettera c), primo periodo del codice del processo
amministrativo consente la proposizione di domande atipiche di condanna, le
quali, se formulate contestualmente ad altra azione, possono condurre alla
pronuncia di sentenze di accoglimento che obbligano l’Amministrazione
“all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica
soggettiva dedotta in giudizio”.
Lungi dall’integrare una violazione della riserva di legge prevista
dall’articolo 113, comma 3, della Costituzione, la dichiarazione di efficacia
dell’atto illegittimo sino al nuovo esercizio del potere da parte
dell’Amministrazione rinviene quindi nella disciplina processuale di rango
primario un fondamento normativo.
16.5.3 Il terzo profilo di criticità interpretativa contestato da una parte
della dottrina attiene all’asserita incompatibilità fra le tecniche di
modulazione degli effetti demolitori e il principio di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato (articolo 112, c.p.c.).
Anche tale argomento va superato.
L’oggetto dell’azione di annullamento comprende indefettibilmente la domanda
di accertamento circa l’illegittimità dell’atto impugnato. La pronuncia con
cui il giudice, pur dichiarando la sussistenza di profili di contrasto
rispetto al parametro legale, sospende provvisoriamente la produzione
dell’effetto eliminatorio della sentenza, o stabilisce che l’atto
illegittimo sia annullato senza far retroagire gli effetti della caducazione,
non può ritenersi difforme rispetto ai contenuti del petitum.
Né, in senso diverso, possono ricavarsi argomenti da una sentenza
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che –statuendo in ordine ad
una controversia nella quale si discuteva della possibilità di sostituire
l’annullamento degli atti di una procedura concorsuale con il “semplice”
risarcimento dei danni– è giunta a formulare il seguente principio di
diritto: “sulla base del principio della domanda che regola il processo
amministrativo, il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del
ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’Amministrazione al
risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché
procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda
dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la
pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il
lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il
mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita” (Cons. St., Ad.
plen., sentenza 13.04.2015, n. 4).
Proprio dalle motivazioni della citata sentenza del giudice della
nomofilachia si desume peraltro che la condivisibile preclusione alla
sostituzione officiosa delle forme di tutela richieste dalla parte
ricorrente (risarcimento al posto dell’annullamento) non può in alcun modo
estendersi alla modulazione degli effetti caducatori delle pronunce di
annullamento, con la quale il giudice amministrativo assicura una protezione
effettiva alle pretese dedotte in giudizio, senza travalicare i limiti
imposti dall’oggetto e dalle ragioni della domanda (cfr. paragrafo n. 7
delle motivazioni in diritto).
In chiave sistematica, poi, le deroghe alla retroattività delle sentenze di
annullamento del contratto, previste dagli articoli 1443 e 1445 del codice
civile rispettivamente a tutela dell’incapace e del terzo subacquirente,
confermano la validità dell’orientamento che ammette la modulazione degli
effetti delle pronunce demolitorie, ove tale soluzione sia imposta dalla
necessità di proteggere adeguatamente gli interessi dedotti in giudizio.
Per
il giudice ordinario, infatti, in materia di annullamento del contratto,
l'art. 1445 c.c., escludendo gli effetti dell'annullamento nei confronti dei
terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso, sancisce
implicitamente l'efficacia dell'annullamento nei confronti degli acquirenti
rispetto ai quali non ricorra tale requisito soggettivo (Cass. civile, sez.
II, 10.09.2019, n. 22585), così confermando che gli effetti possono
essere calibrati in ragione degli interessi coinvolti.
Si tratta, peraltro,
di soluzione immanente all’ordinamento giuridico, come confermato da una non
recente decisione: "La disposizione dell'articolo 2652, n. 6, c.c.,
riguardante l'onere della trascrizione delle domande dirette a far
dichiarare la nullità o far pronunziare l'annullamento di atti soggetti a
trascrizione, ha lo scopo di limitare l'efficacia retroattiva e l'opponibilità
della pronuncia dichiarativa della nullità, in quanto fa salvi i diritti che
i terzi di buona fede abbiano acquistato in base ad un atto trascritto
anteriormente alla trascrizione della domanda di nullità, qualora quest'ultima
sia stata trascritta dopo decorsi cinque anni dalla trascrizione dell'atto
impugnato. Il verificarsi del duplice presupposto della trascrizione del
titolo di acquisto e dell'omissione della trascrizione della domanda di
dichiarazione di nullità entro il quinquennio attribuisce pertanto sia al
primo acquirente sia ad ogni altro successivo avente causa una posizione di
piena tutela nei confronti della pretesa di invalidità del titolo del dante
causa" (Cass. civ., Sez. I, sentenza 20.05.1967, n. 1095).
16.6. La soluzione inaugurata dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n.
2755/2011, con tutta evidenza, trae fondamento nell'evoluzione del sindacato
del giudice che si è trasformato da giudizio di mera conformità dell’atto ad
un determinato parametro normativo a giudizio sul legittimo esercizio della
funzione amministrativa con riferimento al rapporto.
Nella prospettiva tradizionale –e ormai superata perché incentrata
esclusivamente sulla legittimità/illegittimità dell’atto– la posizione di sovraordinazione, propria dell’amministrazione, impediva di individuare
vincoli in capo all’ente nel rapporto con il privato (prima suddito e poi
cittadino) e conseguentemente nessuno spazio vi era per una “relazione
giuridica in senso proprio”. Come affermato dalla dottrina, “l’ordinamento
giuridico poteva anche disciplinare il potere dell’amministrazione con norme
volte ad orientare l’attività della medesima nell’interesse della stessa
amministrazione (norme d’azione), ma senza che si instaurasse una relazione
giuridica in senso proprio”.
Con l’affermarsi dello Stato di diritto –e poi con alcune rilevanti
modifiche normative (possibilità di risarcire i danni cagionati da lesioni
agli interessi legittimi, impugnazione di atti connessi con l’istituto dei
motivi aggiunti, possibilità di valutare la fondatezza della pretesa e non
annullabilità degli atti illegittimi che non potevano avere un contenuto
diverso da quello in concreto adottato)– l’interesse legittimo ha assunto
un’indiscutibile valenza sostanziale consentendo di ricostruire “i termini
dialettici … di una relazione giuridica bilaterale” in cui è essenziale
penetrare nel rapporto tra amministrazione e cittadino per saggiarne la
reale consistenza. Emblematico in tal senso è la disposizione che esclude
l’annullamento dell’atto illegittimo quando il contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Altra dottrina –dopo aver distinto il “rapporto dinamico (procedimento) e
quello statico (provvedimento), poiché nella dinamica procedimentale il
privato, parte del rapporto, interagisce col responsabile del procedimento,
mentre nel provvedimento è solo destinatario rispetto all'assetto degli
interessi”– ha insistito per la costruzione di un più maturo quadro di
tutele che, ad avviso della Sezione, non può che passare per un ampliamento
degli schemi consolidati.
Anche la giurisprudenza ha rilevato che “l'interesse legittimo non rileva
come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione
per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in
un mero interesse alla legittimità dell'azione amministrativa in sé intesa,
ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo
e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della
vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a
seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può
concretizzare un pregiudizio”; conseguentemente si aprono le porte ad un
“giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la
fondatezza della pretesa sostanziale azionata” (Cons. St., a.p., 23.03.2011, n. 3).
È bene precisare però che quanto sino ad ora affermato non deve mai
travalicare i confini del merito amministrativo, se non nei rari casi
previsti dalla legge (articolo 134 c.p.a).
16.7. Non può inoltre omettersi di osservare come l’impostazione accolta in
questa sede si ponga in continuità con l’indirizzo accolto dalla
giurisprudenza eurounitaria.
La Corte di Giustizia, prima in applicazione dell’articolo 231 Trattato CE,
poi in ossequio a quanto stabilito dall’articolo 264 TFUE, ritiene di poter
decidere, di volta in volta, sugli effetti dell’annullamento nel caso di
riscontrata invalidità di un regolamento e “anche nei casi di impugnazione
delle decisioni, delle direttive e di ogni altro atto generale”.
A tale riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 264 TFUE, se il
ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo
e non avvenuto l'atto impugnato. Viene altresì precisato che, ove lo reputi
necessario, la Corte precisa gli effetti dell'atto annullato che devono
essere considerati definitivi.
Con la sentenza 10.01.2006, in causa C-178/03, la Corte, richiamando
l’articolo 231, secondo comma, allora vigente, ha mantenuto gli effetti
dell’atto annullato “sino all’adozione, entro un termine ragionevole, di un
nuovo regolamento basato su fondamenti normativi adeguati”.
Con altra sentenza, sempre la Corte di Giustizia, ha mantenuto gli effetti
dell’atto impugnato “per un periodo non eccedente i tre mesi”, a decorrere
dalla data di pronuncia della sentenza, sul presupposto che l'annullamento
con effetto immediato avrebbe potuto “arrecare un pregiudizio grave ed
irreversibile all'efficacia delle misure” imposte dall’atto caducato (Corte
di giustizia, sentenza 03.09.2008, in cause riunite C‑402/05 P e
C‑415/05 P).
Di particolare interesse è altra pronuncia con la quale la Corte di
Giustizia, dopo aver riscontrato l’illegittimità di una decisione, ha
sospeso “gli effetti della constatazione d’invalidità”, per un periodo non
superiore a due mesi, stabilendo altresì alcune eccezioni in considerazione
della particolare posizione di determinati ricorrenti (Corte di giustizia,
sentenza 22.12.2008, in causa C-333/07).
Parimenti, l’analisi delle tradizioni giurisprudenziali straniere (in specie
francese) dimostra il diffuso riconoscimento di deroghe alla retroattività
delle sentenze di annullamento.
In particolare, il Conseil d'Etat, in data 11.05.2004, Association Ac ed
Autres, ha ritenuto che “Se l'annullamento di un atto amministrativo implica
in linea di principio che tale atto non si considera mai avvenuto, quando le
conseguenze di un annullamento retroattivo sarebbero manifestamente
eccessive per gli interessi pubblici e privati coinvolti, il giudice può, in
via eccezionale, modulare nel tempo gli effetti dell’annullamento che
pronuncia”.
16.8. La Sezione non ignora che le tesi sostenute con la citata sentenza n.
2755 del 2011 siano state solo occasionalmente accolte dalla giurisprudenza
amministrativa di primo grado (cfr. TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.12.2011, n. 700; TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza
09.04.2014, n. 3838; TAR Molise, sentenza 21.11.2014, n. 637).
E ciò ancorché ancora recentemente la Sezione VI del Consiglio di Stato, con
sentenza 06.04.2018, n. 2133, ha affermato che “il giudice amministrativo
-anche in sede di cognizione- può comunque determinare se, nel caso di
fondatezza delle censure poste a base di una domanda di annullamento,
sussistano i presupposti per applicare il principio generale per il quale
l’atto illegittimo vada rimosso con effetti ex tunc, oppure vada rimosso con
effetti ex nunc, ovvero l’atto stesso non vada rimosso, ma debba o possa
essere sostituito, con un ulteriore provvedimento, a sua volta se del caso
avente effetti ex nunc (cfr. Cons. St., Sez. VI, sentenza 10.05.2011, n.
2755; Cons. St., Ad. plen., sentenza 22.12.2017, n. 13).
Anche in considerazione del principio di effettività della tutela del
ricorrente vittorioso (richiamato dall’articolo 1 del codice del processo
amministrativo), in rapporto alla consistenza dei poteri comunque
esercitabili dall’Amministrazione a seguito della rilevata illegittimità del
suo provvedimento, il giudice amministrativo -con la sentenza di cognizione
o d’ottemperanza- nell’esercizio dei propri poteri conformativi e se del
caso di merito può determinare quale sia la regola più giusta, che regoli il
caso concreto.
Tale ampio potere del giudice amministrativo deve però tenere conto della
normativa applicabile nella materia in questione e non deve condurre a
conseguenze incongrue o asistematiche”.
In effetti il giudice amministrativo fa un uso molto avveduto del potere in
esame, limitandolo alle sole ipotesi in cui un temperamento alla regola
della caducazione retroattiva degli atti illegittimi si renda strettamente
necessario per la tutela degli interessi rilevanti nel caso concreto, così
come s’è visto accade oltralpe.
16.9.
In conclusione reputa la Sezione che risponda meglio al principio
dell’effettività della tutela giurisdizionale la possibilità di “modulare”
gli effetti dell’annullamento.
Tale potere, tuttavia, dovrà essere utilizzato in modo accorto e solo nelle
ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi
fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati
coinvolti.
E ciò anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della tutela
trasmodino
–com’è stato giustamente paventato-
in situazioni di incertezza
giuridica o amministrativa.
In particolare
tale possibilità soccorrerà allorché
-come nel caso in esame-
occorre evitare che l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa
generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio (in caso di
annullamento di atti normativi o generali), tale da determinare effetti
peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di
pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato
aspira a conseguire o mantenere.
Sotto questo profilo, il caso qui all’odierno esame della Sezione appare
paradigmatico: l’annullamento del piano specifico AIB potrebbe indurre
indirettamente un effetto di paralisi dell’azione amministrativa di
prevenzione incendi, impedire dunque anche quegli interventi urgenti,
necessari a mitigare il rischio di incendi boschivi e, con l’approssimarsi
della stagione estiva, aumentare di fatto ancor di più il rischio di
devastanti incendi, difficilmente controllabili, con il risultato
paradossale che l’accoglimento del ricorso proposto dalle associazioni
ambientaliste per garantire più elevati livelli di tutela del paesaggio
tutelato e delle aree naturali protette che ospitano specie vegetali e
animali nel sistema Rete Natura 2000 potrebbe finire per (con)causare
indirettamente la distruzione definitiva di quei paesaggi e di quegli
habitat naturali.
16.10. Per le considerazioni sino a qui espresse, quindi,
il Consiglio
esprime parere nel senso che il ricorso vada accolto, disponendo
l'annullamento degli atti impugnati, nei limiti delle censure accolte e solo
a decorrere dall'approvazione del nuovo piano AIB, approvazione che dovrà
avvenire nel rispetto dei principi affermati con la presente decisione nel
termine di 180 giorni dalla comunicazione del decreto che decide il ricorso.
Per garantire la piena tutela degli interessi fatti valere col ricorso e
degli interessi pubblici coinvolti, dunque, il piano qui annullato rimane in
vigore durante il predetto periodo di 180 giorni. Resta chiaro che le
Autorità competenti, in tale lasso temporale, hanno l’obbligo di adottare
tutte le misure e le azioni, eventualmente anche in attuazione parziale del
piano qui annullato, per mettere in sicurezza il sito nonché per
fronteggiare gli interventi improcrastinabili e indifferibili relativi ad
aree -soprattutto vicine ad insediamenti antropici- che presentano rischi
elevati secondo la prudente e responsabile valutazione delle amministrazioni
che certamente non compete a questo Decidente.
Decorso il predetto termine, il piano oggetto del ricorso rimane
definitivamente annullato e privo di effetti con la conseguenza che, qualora
l’amministrazione non dovesse ottemperare alla decisione, parte ricorrente
potrà agire in sede di ottemperanza secondo il costante orientamento della
giurisprudenza (ex multis, Cons. St., ad. plen., 05.06.2012, n. 18; Cons.
St., ad. plen., 06.05.2013, n. 9; Cons. St., ad. plen., 14.07.2015,
n. 7).
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto esclusivamente nei
limiti e con le prescrizioni indicati in motivazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici –
Sanatoria degli interventi definibili “minori” – Speciale
causa di non punibilità – Rilascio della valutazione
paesaggistica – Effetti – Accertamento del giudice dei
presupposti di fatto e di diritto – Operatività automatica –
Esclusione – Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il rilascio della valutazione
paesaggistica, all’esito della specifica procedura,
disciplinata dall’art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. n.
42/2004, non determina sic et simpliciter l’operatività
della speciale causa di non punibilità per la
contravvenzione addebitata, dovendo essere sempre accertata
dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di
diritto legittimanti la “sanatoria” quale, ad esempio, la
riconducibilità dell’opera contestata alla categoria degli
interventi definibili “minori”.
Pertanto, anche il rilascio della valutazione di
compatibilità paesaggistica all’esito della procedura
prescritta, non determina automaticamente la non punibilità
del reato paesaggistico.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi edilizi realizzati
in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica –
Inapplicabilità della sanzione penale – Presupposti.
L’art. 181, co. 1-ter, esclude
l’applicabilità del co. 1 dell’art. 181, d.Lgs.. n. 42 del
2004, qualora l’autorità amministrativa competente accerti
la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui
al comma 1-quater” alle seguenti opere;
a) per i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in
difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i
lavori configurabili quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380″.
Ne consegue che, ove si accerti in fatto che l’intervento
edilizio rientri in una delle ipotesi indicate dal predetto
co. 1-ter, ne discenderebbe l’inapplicabilità della relativa
sanzione penale.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Parere di compatibilità
paesaggistica rilasciato nelle more del giudizio di
Cassazione – Effetti – Non punibilità dell’autore del reato.
In materia edilizia, con argomentazione
adattabile perfettamente a quella paesaggistica,
nell’ipotesi in cui il parere di compatibilità
paesaggistica, rilasciato nelle more del giudizio di
Cassazione, venga quivi depositato, occorre annullare la
sentenza impugnata e trasmettere gli atti al giudice del
merito, perché espleti le opportune indagini di fatto
(corrispondenza tra il bene oggetto dell’imputazione e
quello di cui al parere di compatibilità paesaggistica;
accertamento della legittimità del provvedimento) e
dichiari, ove ne sussistano gli estremi, la non punibilità
dell’autore del reato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.06.2020 n. 19363 - link a www.ambientediritto.it). |
maggio 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
parere in merito alla normativa da applicare alla domanda di condono
edilizio in caso di vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto
all’abuso – G.d.F., Tenenza di Ponza (Regione Lazio,
nota 06.05.2020 n. 401878 di prot.). |
marzo 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
giustificazione della esistenza di una disciplina speciale si spiega non
tanto per i caratteri che contraddistinguono la materia naturalistica da quella
paesaggistica (che effettivamente presentano molti
tratti in comune) quanto per la circostanza che ricadendo l’abuso commesso
in area protetta (Parco Nazionale del Vesuvio) esso resta soggetta alla
disciplina della L. 394/1991 sulle aree protette che, d’altronde, non è incompatibile con l’autorizzazione di cui all’art. 7 L. n. 1497 del 1939, in presenza della quale, nel caso di aree di
particolare interesse ambientale, può derogarsi alla immodificabilità delle
suddette aree.
Deve conseguentemente ritenersi che sono del tutto autonomi e non
sovrapponibili i relativi procedimenti, essendo le diverse autorità chiamate
a compiere autonome valutazioni: mentre l'ente Parco deve valutare la
compatibilità dell'intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia,
fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di
zona, l'autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina
della compatibilità dell'intervento proposto, che ha come parametro i valori
paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene
paesaggistico;
E' indubbio, quindi, che il titolo naturalistico è autonomo dal titolo
edilizio come da quello paesaggistico e non vi è alcuna correlazione
automatica tra gli interventi edilizi liberi, interventi assoggettati ad
autorizzazione paesaggistica semplificata e interventi soggetti al
preventivo nulla-osta dell'ente Parco.
---------------
Ciò precisato, parte ricorrente lamenta, nello specifico, la
violazione del D.P.R. n. 31/2017, in particolare art. 3, all. B e art. 17,
nonché la violazione dell'art. 167 D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali
e del paesaggio), ritenendo che le opere oggetto di ordinanza di demolizione
rientrerebbero in quelle indicate al punto B.14 dell'Allegato B del D.P.R.
citato e quindi non sarebbero soggette al preventivo nulla osta dell'Ente
Parco.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
In punto di diritto vi osta l'art. 146 del D.Lgs. 22.04.2004, n. 42, in
materia di tutela paesistica, che ha posto la regola generale secondo cui
ogni intervento che comporti modificazioni o rechi pregiudizio all'aspetto
esteriore delle aree vincolate è assoggettato al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, prevedendo, poi, al comma 9, che <<sono
stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in
relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e
concentrazione dei procedimenti>>.
In attuazione di detta norma è stato emanato il D.P.R. 09.07.2010, n. 139
al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità,
operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le
tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.
Orbene, in attuazione di detta nuova disciplina, è stato emanato il D.P.R.
13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata”), che ha individuato gli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica ovvero sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
Da quanto si è andato esponendo ultroneo e non conferente è il richiamo di
parte ricorrente alla disciplina regolamentare dettata dal citato DPR 31/2017,
essendo del tutto diversi i presupposti, le finalità e gli ambiti di
operatività di detta disciplina rispetto a quella dettata per la tutela dei
parchi nazionali ex L. 341/1991 e s.m.i, oltre che distinte le autorità
(Regione/Ente delegato/Soprintendenza ed Ente Parco, rispettivamente)
preposte all'esercizio dei relativi poteri.
Osserva il Collegio che parte ricorrente si duole per la mancata
applicazione di una ipotetica e generica normativa in tema di tutela del
paesaggio che, però non trova alcun riscontro nel provvedimento impugnato,
ma non censura la motivazione posta puntualmente a fondamento dell’ordinanza
impugnata .
In tal modo resta incontestata la disciplina, sopra riferita, in base alla
quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, racchiusa nella legge speciale
sulle aree protette n. 394/1991, che, a differenza della normativa di
diritto comune, è volta a salvaguardare le prerogative ed i poteri conferiti
all’Ente Parco in ragione della gestione del vincolo di tutela dell’area
protetta ad esso affidata.
Ancora, nella memoria finale di replica la ricorrente asserisce che, attesa
la contiguità della materia naturalistica a quella paesaggistica, non si
giustificherebbe una diversità di disciplina basata unicamente su tale dato
sostanziale
Tuttavia la giustificazione della esistenza di una disciplina speciale si
spiega non tanto per i caratteri che contraddistinguono la materia
naturalistica da quella paesaggistica (che effettivamente presentano molti
tratti in comune) quanto per la circostanza che ricadendo l’abuso commesso
in area protetta (Parco Nazionale del Vesuvio) esso resta soggetta alla
disciplina della L. 394/1991 sulle aree protette, che, d’altronde –come
sopra rilevato– non è incompatibile con l’autorizzazione di cui all’art. 7 L. n. 1497 del 1939, in presenza della quale, nel caso di aree di
particolare interesse ambientale, può derogarsi alla immodificabilità delle
suddette aree.
Deve conseguentemente ritenersi che sono del tutto autonomi e non
sovrapponibili i relativi procedimenti, essendo le diverse autorità chiamate
a compiere autonome valutazioni: mentre l'ente Parco deve valutare la
compatibilità dell'intervento limitatamente alle esigenze di salvaguardia,
fruizione e valorizzazione del Parco e con le sue specifiche destinazioni di
zona, l'autorità paesaggistica è chiamata a svolgere una diversa disamina
della compatibilità dell'intervento proposto, che ha come parametro i valori
paesaggistici riconosciuti dei luoghi, in funzione della tutela del bene
paesaggistico (Cons. Stato Sez. VI Sent. 06/05/2013, n. 2410); è indubbio,
quindi, che il titolo naturalistico è autonomo dal titolo edilizio come da
quello paesaggistico e non vi è alcuna correlazione automatica tra gli
interventi edilizi liberi, interventi assoggettati ad autorizzazione
paesaggistica semplificata e interventi soggetti al preventivo nulla-osta
dell'ente Parco (cfr. Tar Lombardia, Brescia, Sez. II, 11.06.2013, n. 557)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.03.2020 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Area boschiva e vincolo
paesaggistico – BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Intervento
edilizio su zona vincolata – Disboscamento del terreno –
Piano paesaggistico – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA –
Realizzazione dei capannoni in un’area boscata – Permesso di
costruire – Fattispecie – Artt. 146, 153, 154, 159 e 181,
d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 5 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela dei beni culturali e
ambientali, i proprietari, possessori o detentori a
qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, dell’articolo
146 d.lgs. 42/2004, hanno l’obbligo di sottoporre alle
amministrazioni competenti i progetti delle opere che
intendano eseguire, corredati della documentazione prevista,
preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse
paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di
ottenere la preventiva autorizzazione, ne deriva che
costituisce onere dell’interessato rappresentare, nel
richiedere il permesso di costruire, che l’intervento
progettato insiste su una zona vincolata sul piano
paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il
titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia
congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè
alla specifica zona in cui l’intervento deve essere
realizzato.
Nella specie, il ricorrente non poteva sottrarsi agli
obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei
capannoni in un’area boscata trincerandosi dietro
un’insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché
si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell’autorizzazione paesaggistica che del permesso di
costruire, quando era lui stesso ad aver taciuto quale fosse
l’effettivo stato dei luoghi al momento della domanda.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Funzioni e limiti dello Sportello
Unico per l’Edilizia – Cura dei rapporti fra il privato,
l’amministrazione e le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi – VIA VAS AIA – Taglio di un’area boscata –
Impatto sul contesto ambientale – Fattispecie: preventiva
modifica abusiva dello stato dei luoghi a fini edilizi
(taglio di un bosco senza richiedere l’autorizzazione).
Lo Sportello Unico per l’Edilizia, in
conformità a quanto previsto dall’art. 5 d.P.R. 380/2001,
assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il
privato, l’amministrazione e, ove occorra, le altre
amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine
all’intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso
o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di
semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da
tramite tra il privato e l’amministrazione per il rilascio
dei titoli abilitativi, ma certamente non può sostituirsi
alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da
parte dell’interessato.
Nella specie, invece, l’interessato era ben consapevole
dell’esistenza di un bosco sull’area destinata ad intervento
edilizio essendo stato lui stesso ad averne eseguito
preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in
tale occasione l’autorizzazione.
Diversamente opinando, verrebbe con un sol colpo annullato
lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura
la valutazione dell’impatto sul contesto ambientale
circostante dell’opera realizzanda, rimettendo allo stesso
interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non
preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica
dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso:
conseguenza questa all’evidenza paradossale, tenuto conto
che nello specifico l’imputato non aveva mai chiesto,
neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i
giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla
successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano
paesaggistico essendosi munito soltanto del parere
favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che
attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di
un’area boschiva, così come la consapevolezza in capo al
medesimo di operare in area vincolata.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Area boscata – Vincolo
paesaggistico – T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n.
34 – Art. 142 d.Lgs. 42/2004 – DIRITTO URBANISTICO –
EDILIZIA – Altra definizione contenuta nei PRG e strumenti
urbanistici comunali – Irrilevanza.
Il vincolo paesaggistico sussiste per il
solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il
previgente l’art. 2 d.Lgs. 227/2001, come un “terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a
quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in
qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione
non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non
inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento”, definizione questa non
modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in
materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null’altro
evincendosi dall’art. 142 d.Lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia
forestale.
Pertanto, ne consegue che nessuna rilevanza possa
attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al
riguardo o da eventuali diverse definizioni ad essa date
dagli strumenti urbanistici comunali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Titoli abilitativi ai fini
urbanistici e paesaggistici – Differenza – PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO – Provvedimenti abilitativi – Procedimento di
rilascio – Rapporto di autonomia e non di interdipendenza –
Natura dell’autorizzazione paesaggistica – Atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire – Responsabile
del procedimento – Individuazione.
Il procedimento di rilascio del permesso
di costruire ha un rapporto di autonomia e non di
interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale,
secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge
(articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146,
Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che
l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per
un altro che i lavori non possono essere iniziati in difetto
di essa.
Del resto, nella fattispecie, che la procedura per il
rilascio del permesso di costruire sia ontologicamente
diversa e comunque autonoma rispetto a quella per
l’autorizzazione paesaggistica, trova conferma nella stessa
legge regionale della Toscana 1/2015 che all’art. 88, terzo
comma, prevede espressamente che “il responsabile del
procedimento amministrativo in materia urbanistico-edilizia
non può essere responsabile del procedimento amministrativo
in materia di autorizzazione paesaggistica” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco,
inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente
normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34
null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione
recepita dal legislatore nazionale in materia forestale.
Invero, sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà
legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione
o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge
nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni
caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005,
all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata:
conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il
vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce
effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date
dagli strumenti urbanistici comunali.
---------------
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso
incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata
trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol
perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è
lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al
momento della domanda.
Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la
costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico
per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001
al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve
alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione
e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine
all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di
inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed
organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il
rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep.
17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla
carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato
che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in
questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il
taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il
conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome
determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa
difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento
dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione
paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale
dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il
precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si
consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso
vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione
dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda,
rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente
autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di
aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale,
tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure
in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono
logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione
sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai
fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la
preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in
capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza
di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla
vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018
n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue
che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal
Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter
integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva
assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate
aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale
toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale
testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di
un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142
d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse
definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di
Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui
l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo
l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare
all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo
paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver
determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in
quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in
violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo
reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla
sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la
rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di
disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice
penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico,
consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma
semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da
parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire e vincolo paesaggistico.
L'autorizzazione
paesaggistica è un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi
compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi
invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli
interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno
alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio
paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in
conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di
sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio
del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di
interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto
risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina
transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un
verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i
lavori non possono essere iniziati in difetto di essa.
Muovendo dalla disposizione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale
“i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i
progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione
prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse
paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la
preventiva autorizzazione”, ne deriva che costituisce onere dell’interessato
rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l’intervento
progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come
verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici,
se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita
cioè alla specifica zona in cui l’intervento deve essere realizzato.
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L'autorizzazione
paesaggistica si configura quale presupposto di efficacia del permesso di
costruire.
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Il ricorso non può essere ritenuto ammissibile.
L'assunto della difesa, secondo il quale la delega da parte della Regione
della funzione autorizzatoria di cui agli articoli 146, 153 e 154 del Codice
dei beni culturali e del paesaggio ai comuni imporrebbe di individuare
nell'ente locale, proprio in quanto preposto al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica, il soggetto chiamato a valutare in primis la necessità
o meno del suddetto titolo abilitativo e in caso affermativo ad attivarsi
motu proprio per acquisire il parere della competente Soprintendenza,
risulta manifestamente infondato.
Quand'anche all'epoca del commesso reato competesse al Comune, e non già
alla Regione, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica secondo la legge
regionale toscana n. 1 del 2005, ciò non toglie che trattasi di un titolo
che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due
procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati
dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità
dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e
l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli
strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di
sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio
del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di
interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto
risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina
transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un
verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i
lavori non possono essere iniziati in difetto di essa (cfr. in termini la
pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5016/2017, nonché Consiglio
di Stato, Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4234 del 21.08.2013).
Del resto che la procedura per il rilascio del permesso di costruire sia
ontologicamente diversa e comunque autonoma rispetto a quella per
l'autorizzazione paesaggistica, del resto trova conferma nella stessa legge
regionale della Toscana 1/2015 che all'art. 88, terzo comma prevede
espressamente che "il responsabile del procedimento amministrativo in
materia urbanistico-edilizia non può essere responsabile del procedimento
amministrativo in materia di autorizzazione paesaggistica".
Muovendo infatti dalla disposizione dell'art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la
quale "i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni
indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni
competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della
documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra
interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di
ottenere la preventiva autorizzazione", ne deriva che costituisce onere
dell'interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che
l'intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano
paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo
abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla
situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l'intervento
deve essere realizzato.
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso
incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata
trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol
perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è
lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al
momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata
può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello
Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5
d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il
quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato,
l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di
permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di
semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il
privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3,
n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma
certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei
luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole
dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso
ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure
in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il
conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome
determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa
difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento
dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione
paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale
dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il
precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si
consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso
vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione
dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda,
rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente
autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di
aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale,
tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure
in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono
logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione
sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai
fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la
preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in
capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza
di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla
vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018
n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue
che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal
Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter
integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva
assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate
aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale
toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale
testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di
un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142
d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse
definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali. Deve perciò
ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in
risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame
non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in
capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la
sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del
bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver
determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in
quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in
violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo
reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla
sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la
rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di
disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice
penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico,
consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma
semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da
parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
paesaggistica costituisce un atto autonomo rispetto al permesso di
costruire: si tratta, infatti, di due procedimenti distinti in ragione della
diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali,
finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad
incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto
urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
---------------
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso
incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata
trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol
perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è
lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al
momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata
può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello
Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5
d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il
quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato,
l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di
permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di
semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il
privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3,
n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma
certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei
luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole
dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso
ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure
in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il
conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome
determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa
difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento
dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione
paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale
dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il
precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si
consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso
vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione
dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda,
rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente
autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di
aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale,
tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure
in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono
logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione
sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai
fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la
preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in
capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza
di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla
vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018
n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue
che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal
Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter
integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva
assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate
aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale
toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale
testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di
un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142
d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse
definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò
ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in
risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame
non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in
capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la
sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del
bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver
determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in
quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in
violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo
reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla
sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la
rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di
disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice
penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico,
consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma
semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da
parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402). |
febbraio 2020 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
richiesta di accesso all'elenco delle autorizzazioni paesaggistiche
rilasciate ex art. 146, comma 13, d.lgs. n. 42/2004 – Richiesta di accesso
formulata in modo poco chiaro – Sostanziale esercizio del diritto di cui
all’art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013 – Obbligo, a carico dell’amministrazione,
di interpretazione quale istanza di accesso civico generalizzato.
Nel caso di istanza di accesso formulata dal in modo poco
chiaro (nella fattispecie non recante riferimenti all’accesso civico
generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma
13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative
all’accesso documentale) il comune deve interpretare l’istanza, tenuto conto
che il cittadino può anche non possedere particolari conoscenze giuridiche e
che sussiste un dovere di soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una
istanza di accesso civico generalizzato.
Questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal rilievo che
appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare interesse alla
conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne la
qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e
facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13,
d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di
istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile
a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto
dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto
dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere
i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”;
In questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire
prontamente al ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una
propria inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico
aggiornamento dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia
affermato da un lato l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e
dall’altro affermato che il ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso
civico ai documenti (in pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non per il mero riferimento formale
all’accesso civico generalizzato a quella già presentata);
Questo modo di operare appare espressione di una concezione
burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in
chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono
l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo
economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento
amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la
rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in
questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe
stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in
realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la
legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e
che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza
necessità di farne esplicita richiesta al comune).
---------------
Espone il ricorrente di aver presentato al comune di Solopaca in data
17.09.2019 una istanza di accesso con cui chiedeva –avendo notato la
realizzazione di lavori edili su un immobile appartenente alla
controinteressata– l’accesso all’autorizzazione paesaggistica, se esistente,
e all’elenco delle autorizzazioni paesaggistiche previsto dall’articolo 146,
comma 13, d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il successivo 23.10.2019 il responsabile dell’ufficio tecnica dava riscontro
all’istanza con una nota in cui faceva presente che: a) “per i
provvedimenti finali di autorizzazione e concessione …. non sussiste un
obbligo di pubblicazione trattandosi di atti già soggetti ad accesso civico”;
b) che “resta ferma la possibilità di esercitare il diritto di accesso
civico generalizzato …. ai sensi degli articoli 5, co. 2 e 5-bis del d.lgs.
33/2013”; c) sarebbe comunque stato in “corso di predisposizione”
la pubblicazione sul sito web comunale dell’elenco nella sezione dedicata
alla trasparenza.
Di qui il ricorso all’esame, notificato il 19.11.2019 e depositato il
26.11.2019 con cui il ricorrente denuncia che la nota in questione è
illegittima per violazione dell’articolo 146, comma 13, d.lgs. 22.01.2004,
n. 42, dell’articolo 5 d.lgs. 14.03.2013, n. 33 e degli articoli 22, 24 e 25
della legge 07.08.1990, n. 241.
Né il comune di Solopaca né la controinteressata si sono costituiti in
giudizio.
Il ricorso è fondato e va accolto, ritenendo il collegio che sussista la
violazione della normativa in materia di accesso civico generalizzato.
Va premesso che l’istanza di accesso è stata formulata dal ricorrente in
modo poco chiaro, dato che essa non reca riferimenti all’accesso civico
generalizzato limitandosi a menzionare la normativa dell’articolo 146, comma
13, d.lgs. n. 42 e le disposizioni della legge 07.08.1990, n. 241 relative
all’accesso documentale.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, il comune avrebbe potuto e dovuto
interpretare l’istanza, tenuto conto che il cittadino può anche non
possedere particolari conoscenze giuridiche e che sussiste un dovere di
soccorso delle amministrazioni pubbliche, come una istanza di accesso civico
generalizzato; questa conclusione è del resto ampiamente giustificata dal
rilievo che appare evidente che, non menzionando l’istanza un particolare
interesse alla conoscenza dell’atto richiesto (il che permette di escluderne
la qualificabilità come ordinaria istanza di “accesso documentale”) e
facendo riferimento la medesima all’elenco dell’articolo 146, comma 13,
d.lgs. n. 42 che è un elenco che le amministrazioni hanno l’obbligo di
istituire (aggiornandolo mensilmente) e di rendere liberamente consultabile
a tutti anche in via telematica, il ricorrente stava esercitando il diritto
dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. n. 33 secondo cui “l'obbligo previsto
dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere
i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”; in
questo senso è illegittimo che il comune –anziché esibire prontamente al
ricorrente la documentazione richiesta ponendo rimedio a una propria
inadempienza a obblighi di legge (istituzione e periodico aggiornamento
dell’elenco ex articolo 146, comma 13, citato)- abbia affermato da un lato
l’insussistenza di un obbligo di pubblicazione e dall’altro affermato che il
ricorrente avrebbe potuto richiedere l’accesso civico ai documenti (in
pratica proponendo una nuova istanza, contenutisticamente identica se non
per il mero riferimento formale all’accesso civico generalizzato a quella
già presentata); questo modo di operare appare espressione di una concezione
burocratica e formalistica dell’operare dell’amministrazione che si pone in
chiaro contrasto non solo coi principi generali, che viceversa pongono
l’amministrazione al servizio dei cittadini imponendole di operare in modo
economico ed efficiente, ma anche con la legge generale sul procedimento
amministrativo che impone all’amministrazione anche di sollecitare la
rettifica di istanze erronee non chiare o incomplete (fermo restando che in
questo caso non sarebbe stata necessaria alcuna rettifica dato che sarebbe
stato sufficiente qualificare l’istanza del ricorrente per quello che in
realtà essa era, cioè una richiesta di accesso civico a un elenco di cui la
legge prescrive la pubblicazione e il costante aggiornamento da dieci anni e
che quindi il ricorrente avrebbe dovuto poter consultare liberamente senza
necessità di farne esplicita richiesta al comune).
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente ordine al comune di
Solopaca di fornire al ricorrente la documentazione che ha richiesto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 28.02.2020 n. 928 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
richiesta di chiarimenti in merito all'applicazione del c.d. "bonus
facciate"
(MIBACT, Ufficio di Gabinetto,
nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale
dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio
dell’autorizzazione definitiva.
---------------
Secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le
sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere
dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati,
poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione
delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la
cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello
stesso.
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal
suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di
degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio
riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del
relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori
modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento
della situazione ed a perseguirne il possibile recupero.
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché
sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie,
alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente
l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della
permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione
del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela
del bene compendiato nel vincolo.
---------------
Secondo la consolidata
giurisprudenza, in presenza di provvedimenti con
motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli
profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il
conseguente effetto annullatorio dei medesimi.
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui
il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il
giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei
motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne
ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso
sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte
avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui
i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto
implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre
doglianze.
---------------
1. La società ricorrente ha impugnato, assieme a tutti gli atti inerenti e
presupposti, la determina dirigenziale specificata in epigrafe, con la quale
l’amministrazione comunale ha concluso negativamente la conferenza di
servizi indetta in relazione al procedimento di rilascio dell’autorizzazione
ex art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006.
La determinazione conclusiva della conferenza ha fondato il diniego sulla
ritenuta assenza dei requisiti urbanistici e ambientali previsti per la
realizzazione degli impianti di autodemolizione dalla normativa vigente e,
in particolare, dal citato art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006 e dal D.Lgs. n.
209/2003.
In fatto, ha dedotto la ricorrente di svolgere attività di autodemolizione
da circa trent’anni in virtù di una serie di autorizzazioni provvisorie,
sempre di volta in volta rinnovate, e di aver presentato vari progetti di
adeguamento in linea con le normative succedutesi nel tempo e a seguito
delle relative richieste da parte dell’amministrazione.
Ha altresì affermato di aver accettato la prefigurata delocalizzazione degli
impianti di autodemolizione, così come era stato previsto nell’ambito
dell’accordo di programma intervenuto tra Comune e Regione, ratificato con
delibera del Consiglio comunale n. 263 del 02.10.1997.
Ha pure sostenuto di aver presentato nel 2004 un apposito progetto di
adeguamento dell’attuale impianto ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n.
209/2003, impianto che risulterebbe idoneo ad ottenere l’autorizzazione
definitiva, titolo che tuttavia non è stato mai rilasciato; che anzi Roma
Capitale, sin dal 2016, ha continuato a pretendere le garanzie fideiussorie
e ha imposto anche la presentazione di un progetto definitivo (la ricorrente
ha presentato un progetto per la delocalizzazione di Casal Selce, località
indicata dal Comune e mai effettivamente assegnata).
Nelle more, l’istante ha svolto la propria attività, come detto, sulla base
di titoli provvisori, rilasciati dapprima dal Commissario Straordinario per
l’emergenza rifiuti a Roma e dalla Provincia e quindi da Roma Capitale (una
volta cessato il regime commissariale del 2013).
Inopinatamente e inaspettatamente -deduce la società esponente in ricorso-
il Dipartimento Tutela Ambientale Direzione Rifiuti Risanamenti e
Inquinamenti – U.O. Rifiuti e Risanamenti ha adottato la determina n.
QL315/2018 dell’01.03.2018, con la quale ha richiesto in tempi brevi la
presentazione di un progetto definitivo di impianto per l’area attuale, ai
fini dell’approvazione ai sensi dell’art. 208 D.Lgs. 152/2006.
...
2. Il ricorso non può essere accolto.
3. Il Collegio ritiene utile, in primo luogo, riepilogare la normativa
applicabile alla fattispecie in esame.
Il più volte citato art. 208 del D.lgs. n. 152/2006, al primo comma, recita
che “I soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di
smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare
apposita domanda alla regione competente per territorio, allegando il
progetto definitivo dell'impianto e la documentazione tecnica prevista per
la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia
urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di
igiene pubblica. Ove l'impianto debba essere sottoposto alla procedura di
valutazione di impatto ambientale ai sensi della normativa vigente, alla
domanda è altresì allegata la comunicazione del progetto all'autorità
competente ai predetti fini (...)”.
Al comma quarto il medesimo articolo stabilisce che “Entro novanta giorni
dalla sua convocazione, la Conferenza di servizi: a) procede alla
valutazione dei progetti; b) acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi
alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall'articolo 177, comma
4; c) acquisisce, ove previsto dalla normativa vigente, la valutazione di
compatibilità ambientale; d) trasmette le proprie conclusioni con i relativi
atti alla regione”.
Con l’art. 6, comma 2, lettere b) e c), della L.R. n. 27/1998 la Regione
Lazio ha delegato ai Comuni “b) l'approvazione dei progetti degli
impianti per lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti provenienti dalla
demolizione degli autoveicoli a motore e rimorchi, dalla rottamazione dei
macchinari e delle apparecchiature deteriorati ed obsoleti e la relativa
autorizzazione alla realizzazione degli impianti, nonché l'approvazione dei
progetti di varianti sostanziali in corso di esercizio e la relativa
autorizzazione alla realizzazione;” e “c) l'autorizzazione
all'esercizio delle attività di smaltimento e recupero dei rifiuti di cui
alle lettere a) e b)”.
Ne discende, pertanto, che nel caso di specie l’amministrazione procedente è
correttamente Roma Capitale.
Occorre, infine, rammentare l’art. 177, comma 4, del D.lgs. n. 152/2006,
richiamato dal su citato art. 208, ai sensi del quale “I rifiuti sono
gestiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o
metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare: a)
senza determinare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, nonché per la fauna
e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori o odori; c) senza
danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse, tutelati in base
alla normativa vigente”.
4. Secondo la disciplina contenuta nel più volte menzionato art. 208 del
D.Lgs. n. 152/2006, la compatibilità urbanistica e quella ambientale
dell’impianto sono presupposti imprescindibili per procedere al rilascio
dell’autorizzazione definitiva.
Nella specie, come emerge dalla parte motiva della determina impugnata,
nell’ambito della conferenza sono stati valutati gli aspetti urbanistici ed
ambientali, le cui risultanze non potevano che condurre ad un esito negativo
per assenza dei predetti requisiti.
4.1. In detto provvedimento viene riportato il parere del Dipartimento PAU,
il quale ha rilevato che il sito ricade in un’area con la seguente
destinazione di PRG: Sistema Insediativo, Citta della Trasformazione, Ambiti
a Pianificazione Particolareggiata definita, di all’art. 62 delle N.T.A. di
P.R.G. vigente, in quanto risulta inserita nel Piano Particolareggiato di
Zona “O” P.P. n. 12- Casalotti Mazzalupo, approvato con Deliberazione di
Giunta Regionale n. 536 del 04/08/2006.
Nell’elaborato Tav. B del P.T.P.R. – Beni paesaggistici del Piano
territoriale Paesistico Regionale, l’area presenta il seguente Bene
Paesaggistico: Protezione dei corsi delle acque pubbliche, di cui all’art.
35 delle N.T.A. di P.T.P.R., denominato “Fosso della Magliana di
Maglianella, di S. Spirito e della Palmarola”. Pertanto, considerata
l’inclusione dell’area nel perimetro del Piano Particolareggiato denominato
“Casalotti Mazzalupo”, avente destinazione a Zona di Conservazione,
Completamento e nuova Edificazione residenziale, non residenziale e Mista, e
minima parte destinata a Verde Pubblico e il contesto edilizio circostante,
si è ritenuto che la localizzazione di un impianto di autodemolizione
risultasse non compatibile.
Il Dipartimento PAU, inoltre, ha evidenziato che non risultava dimostrata la
legittimità della preesistenza dell’impianto.
4.2. Inoltre, l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere ha elaborato un’analisi
di dettaglio, dalla quale si desume che l’impianto ricade all’interno di un
“corridoio ambientale”, per cui viene dichiarato non compatibile con
la pianificazione di bacino, “poiché per la sua tipologia non persegue le
finalità PS5 Piano di Bacino del fiume Tevere – Piano stralcio per il tratto
metropolitano del Tevere da Castel Giubileo alla foce”.
4.3. Quanto agli aspetti ambientali, ARPA Lazio ha evidenziato che il
progetto risulta incompleto degli elementi necessari rispetto a quanto
previsto dalla normativa vigente e, in particolare, dall’art. 208 del D.Lgs.
152/2006 e dal D.Lgs. 209/2003, specificando il dettaglio delle carenze
riscontrate nella documentazione progettuale.
4.4. La Regione Lazio, nel parere relativo alla Valutazione di Impatto
Ambientale ha rilevato la necessità che la documentazione fosse integrata
con elementi fondamentali a valutare l’assoggettabilità a VIA.
4.5. La Città Metropolitana di Roma Capitale ha poi sostenuto che devono
essere sottoposte a trattamento depurativo non soltanto le acque di prima
pioggia, ma tutte le acque meteoriche di dilavamento, così come previsto
dalla Circolare del Ministero dell’Ambiente prot. 4084 del 15/03/2018,
recante “Linee Guida per la gestione Operativa degli Stoccaggi negli
impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”, qualora
vi siano depositi di rifiuti sui piazzali scoperti, concludendo che
l’autorizzazione allo scarico in copro idrico delle sole acque di prima
pioggia rilasciata a favore della Società con D.D. R.U. 4249 del 06/10/2017
non potesse più ritenersi esaustiva.
Per quanto concerne le emissioni in atmosfera, essa ha rilevato la carenza
della documentazione integrativa richiesta alla Società.
5. Deve considerarsi che, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di
proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché
l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'adozione delle
cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la
cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello
stesso (cfr. Consiglio di Stato, VI, 11.06.2012, n. 3401; Consiglio di
Stato, VI, 15.06.2011, n. 3644).
La qualificazione di rilevanza ambientale di un sito non è determinata dal
suo grado di degrado o di inquinamento, perché, allora, in tutti i casi di
degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio
riconosciuto meritevole di tutela; ne consegue che l'imposizione del
relativo vincolo, ovvero l'emanazione di atti preclusivi di ulteriori
modifiche dello stato dei luoghi, serve piuttosto a prevenire l'aggravamento
della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (cfr. TAR Lazio,
Roma, II-quater, 30.10.2018, n. 10466).
Pertanto, qualora venga apposto su un’area un vincolo ambientale, ancorché
sopravvenuto rispetto all'intervento edilizio o, come nel caso di specie,
alla localizzazione di un impianto, lo stesso non può restare senza effetti
sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente
l'onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo in ordine alla compatibilità della
permanenza definitiva dell’impianto, a prescindere dall'epoca d'introduzione
del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all'esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità dell’insediamento con lo speciale regime di tutela
del bene compendiato nel vincolo.
5.1. Il parere nel caso in esame è di segno negativo.
6. In ogni caso occorre evidenziare che il provvedimento gravato è un atto
plurimotivato in quanto basato su molteplici ragioni.
Secondo la consolidata
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, in presenza di provvedimenti con
motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli
profili su cui essi risultano incentrati può comportare l’illegittimità e il
conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr. Cons. St., V, 10.03.2009
n. 1383; Cons. St., V, 28.12.2007, n. 6732; Tar Campania, Napoli, VII,
28.07.2014, n. 4349; Tar Campania, Napoli, VII, 09.12.2013 n. 5632).
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui
il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il
giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei
motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne
ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso
sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte
avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall’ordine con cui
i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto
implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre
doglianze (cfr. Cons. St., IV, 05.02.2013, n. 694; Cons. St., IV, 08.06.2007
n. 3020; Tar Campania, Napoli, III, 09.02.2013, n. 844; Tar Campania,
Napoli, II, 15.01.2013, n. 304).
6.1. Fatte queste premesse, deve considerarsi che, come si è evidenziato in
precedenza, il diniego di autorizzazione definitiva relativo all’impianto
gestito dalla ditta ricorrente, in cui si sostanzia la conclusione negativa
del procedimento di autorizzazione ai sensi dell'art. 208 del dlgs 152/2006
e ss.mm.ii. di cui alla determina qui impugnata, si fonda in primo luogo
sull’incompatibilità urbanistica dell’impianto stesso, profilo, che,
all’esito dello scrutinio eseguito in questa sede, è risultato esente da
vizi.
7. Deve poi sottolinearsi che non può ritenersi sussistente alcun tipo di
affidamento in capo alla ricorrente circa la localizzazione dell’impianto,
proprio in quanto la stessa ha sempre operato in forza unicamente di
autorizzazioni provvisorie che non sono idonee a legittimarne l’ubicazione.
Dal che la piena legittimità del provvedimento impugnato.
8. Né può ritenersi un’invalidità dell’atto per effetto dell’inerzia
palesata dalle amministrazioni comunale e regionale nel provvedere alla
delocalizzazione.
8.1. Al riguardo, sotto un primo profilo, deve evidenziarsi come gli stessi
titolari degli impianti di autodemolizione potevano attivarsi al fine di
ottenere l’adempimento dell’accordo di programma e dunque sollecitare nelle
dovute sedi e con gli opportuni strumenti (anche giudiziali) gli enti che
rimanevano inerti.
8.2. Sotto altro profilo, una eventuale responsabilità potrà essere fatta
valere, se del caso e laddove sussistente in tutti i suoi elementi
costitutivi, in altra e separata sede, non potendo tuttavia ridondare
l’inadempimento dell’amministrazione quale motivo di illegittimità
dell’odierno provvedimento.
9. Resta fermo come sia auspicabile la doverosa conclusione del procedimento
di delocalizzazione degli impianti che risultino ubicati in aree
incompatibili, perché aventi una diversa destinazione urbanistica o perché
gravati da vincoli statali di natura paesaggistica o archeologica.
Sia il D.Lgs. 209/2003, sia l’art. 6-bis introdotto dalla LR n. 13/2018
nella LR n. 27/1998, sollecitano una rilocalizzazione degli impianti in
quanto solo in questo modo si può addivenire ad una disciplina di settore
che contemperi le esigenze pubbliche con quelle economiche e produttive
delle attività.
E del resto i principi di efficienza, buon andamento ed efficacia
dell’azione amministrativa inducono ad una celere definizione della annosa
vicenda de qua, la quale paralizza sine die le attività di
trattamento dei veicoli fuori uso e/o di trattamento dei rifiuti metallici
ferrosi e non ferrosi che, seppure private e con finalità di lucro sono
comunque funzionali anche ad esigenze di smaltimento di rifiuti e sanitarie
del territorio metropolitano.
10. Né possono accogliersi le doglianze mosse dal ricorrente, segnatamente
sotto il profilo procedimentale.
11. Quanto alla dedotta violazione del contraddittorio procedimentale (art.
10-bis e 14 ss. Legge 241/1990), si tratta, con tutta evidenza, di mere
irregolarità emendabili ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 2, Legge
241/1990, che non possono condurre a ritenere il contenuto sostanziale
dell’atto illegittimo.
11.1. Peraltro il privato aveva partecipato agli sviluppi della conferenza;
ergo non si può dire che la determina finale sia un sorta di atto “a
sorpresa”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 10.02.2020 n. 1780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 27.01.2020, "Primo
aggiornamento 2020 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 21.01.2020 n. 574). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.01.2020 n. 16 "Regolamento di organizzazione del
Ministero per i beni e le attività culturali e per il
turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro
e dell’Organismo indipendente di valutazione della
performance" (D.P.C.M.
02.12.2019 n. 169). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo in area vincolata – Sbancamento e
livellamento del terreno per uso non agricolo –
Autorizzazione paesaggistica – Permesso di costruire –
Necessità – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – Artt. 3, 10 44,
D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, le opere
di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno,
finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto
incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono
assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Così come per la realizzazione di una stradina di accesso al
fondo, è del pari evidente la necessità del permesso di
costruire, essendo la costruzione di reti viarie, sia pur in
terra battuta, riconducibile agli interventi di
urbanizzazione (art. 3, comma 1, lett. e.2, T.U.E.) ovvero
infrastrutturali che comportano la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato (art. 3, comma 1, lett. e.3,
T.U.E.), come pure si è ritenuto nel caso di interventi
finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di
terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e
livellamento del terreno, in quanto tale attività determina
una modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli è proprio.
Del resto, il permesso di costruire (come pure
l’autorizzazione paesaggistica, se si tratti di area
vincolata) è necessario anche nel caso di mera modificazione
o allargamento di una strada preesistente
(Cass. Sez. 3, n. 26193 del 28/03/2019, Vullo).
...
Interventi in zone protette e/o vincolate – Titoli
abilitativi – Autonomia dei profili paesaggistici ed
ambientali da quelli urbanistici – Interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata – Individuazione – Evidente
insignificante impatto paesaggistico – D.P.R. n. 31/2017 –
Art. 149 d.lgs. n. 42/2004.
Le previsioni contenute nel d.P.R.
13.02.2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), avendo
natura regolamentare rispetto alle disposizione di legge di
cui al d.lgs. 42/2004, individuano, tra l’altro, interventi
che non richiedono la necessità dell’autorizzazione
paesaggistica, o per loro riconducibilità alle tre categorie
delineate dall’art. 149 d.lgs. 42/2004, ovvero perché, già
in astratto, ne è evidente l’insignificante impatto
paesaggistico.
Tenendo, comunque, presente che la realizzazione di
interventi in zone protette e/o vincolate deve di regola
essere sottoposta al preventivo rilascio di distinti
provvedimenti, ciascuno dei quali segue regole proprie, vale
a dire il permesso di costruire (o altro titolo edilizio)
disciplinato dal T.U. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, d.P.R. 06.06.2001 n. 380
e l’autorizzazione paesaggistica di cui al d.lgs. 22.01.2004
n. 42 (eventualmente, se ne ricorrano le condizioni, il
nulla osta dell’ente parco, di cui alla L. 06.12.1991 n.
394), stante l’autonomia dei profili paesaggistici ed
ambientali da quelli urbanistici (Corte
di Cassazione, Sez. III poenale,
sentenza 14.01.2020 n. 1053 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte
a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non
esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate –
Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22,
37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n.
42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte
a vincolo, ai fini della configurabilità del reato
paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una
possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al
suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del
rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra
elementi ambientali ed antropici che caratterizza il
paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla
disciplina di settore, con la conseguenza che anche
interventi non esternamente visibili, quali quelli
interrati, possono determinare una alterazione
dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di
valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione
di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla
disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza
di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica,
nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio
tecnico regionale.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo
paesaggistico – Interventi “precari”, opere
facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il
bene protetto – Causazione di un danno – Necessità –
Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e
incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando
il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata
motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo
l’interesse protetto, il principio di offensività opera in
relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura
di reato di pericolo della violazione non richiede la
causazione di un danno e la incidenza della condotta
medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure
qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la
sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi
“precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili
interrati.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate
– Incidenza del principio di offensività – Natura di reato
di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno
ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività
della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di
offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti
alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od
astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale
l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della
singola condotta, dal momento che, ove questa sia
assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della
fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di
reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere
considerato non tanto sulla base di un concreto
apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per
l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene
protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della
offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume
di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente
realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il
porre in essere interventi in zone vincolate senza il
controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si
è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti alla tutela del vincolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi,
il Tar traccia i confini tra accertamento di conformità
paesaggistica e urbanistica. I due procedimenti hanno
effetti diversi sulle ordinanze di demolizione.
A volte si crea confusione tra l'istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica -disciplinata dall'art. 167 del
DLgs n. 42/2004- e l'istanza di accertamento di conformità
-ex art. 31 comma 3, del d.P.R. 380/2001.
Con la sentenza in commento (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34) il giudice
amministrativo interviene sull'argomento fornendo alcuni
utili chiarimenti.
Tutto nasce con l'ispezione dei Vigili
A seguito di un sopralluogo, il Comando della Polizia
Municipale accerta la realizzazione abusiva di un manufatto,
da parte del conduttore del fondo, che aveva realizzato un
manufatto di circa 45 mq adibito a residenza del custode
dell'area.
Il Comune ordina la demolizione delle opere abusivamente
realizzate ed il ripristino dello stato dei luoghi entro 90
giorni dalla notifica dell'ordinanza, avvertendo che, in
caso di non ottemperanza, avrebbe provveduto
all'acquisizione dell'area ai sensi dell'art. 31, co. 3, del
d.P.R. 380/2001.
Il destinatario del provvedimento presenta richiesta di
accertamento di conformità della compatibilità paesaggistica
ed impugna l'ordinanza comunale dinanzi al Tar.
La tesi del ricorrente
Il conduttore del fondo ritiene che l'istanza di
accertamento della compatibilità paesaggistica (ex art. 167,
DLgs n. 42/2004) produca gli stessi effetti della domanda di
accertamento di conformità (ex art. 36 Dpr 380/2001)
rendendo inefficace l'ordinanza di demolizione.
Di conseguenza, a suo parere, l'amministrazione avrebbe
dovuto rigettare con un atto formale l'istanza di
compatibilità paesaggistica, emettere una nuova ordinanza di
demolizione, a cui il cittadino avrebbe potuto uniformarsi
senza incorrere nella ulteriore (e più grave) sanzione
dell'acquisizione.
Il Tar rigetta il ricorso Il Tar Campania ritiene che la
tesi del ricorrente sia priva di fondamento.
In primo luogo, il giudice amministrativo sottolinea che la
parte non ha provato di aver presentato l'istanza di
sanatoria ex art. 36, Dpr n. 380 del 2001. Risulta invece
presentata (solo) l'istanza di accertamento di compatibilità
paesaggistica (ex art. 167, DLgs n. 42/2004).
Il giudice amministrativo ricorda che le due procedure hanno
effetti diversi e che l'istanza di compatibilità
paesaggistica non produce alcun effetto rispetto
all'ordinanza di demolizione.
L'istanza di sanatoria sospende l'ordinanza
Il Tar ricorda che la domanda di sanatoria (art. 36 del Dpr
n. 380/2001) si limita a sospendere l'ordinanza di
demolizione per un periodo di tempo di 60 giorni; decorso
tale termine, sull'istanza si considera formato il
silenzio-rigetto che la parte può decidere di impugnare.
Tale tesi troverebbe il proprio fondamento in alcuni
precedenti dello stesso giudice amministrativo (Tar Napoli
sez. III, 02.04.2015, n. 1982; Consiglio di Stato, sez. V,
16.04.2014, n. 1951; Tar Napoli sez. III, 02.12.2014, n.
6302).
L'accertamento di compatibilità
paesaggistica
L'art. 167, comma 4, del DLgs n. 42/2004 prevede che possa
essere accertata la compatibilità paesaggistica:
(a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
(b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
(c) per i lavori comunque configurabili quali interventi
di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art.
3 del Dpr n. 380/2001.
L'art. 167, comma 5, prevede che, a fronte di una istanza
del richiedente, l'autorità competente (la stessa titolare
della competenza al rilascio di autorizzazione
paesaggistica) si determini entro 180 giorni acquisendo il
parere favorevole della Commissione Paesaggio ed il parere
vincolante della Soprintendenza (reso entro 90 giorni
perentori). Ove l'accertamento sia favorevole, si applica
una sanzione amministrativa; ove l'accertamento sia
negativo, si applica la rimessione in pristino.
La presentazione dell'istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica non incide sull'efficacia o
sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione
precedentemente emanata, determinando soltanto la temporanea
sospensione della sua esecuzione.
Si tratta di nuova opera
Sostanzialmente il cittadino ha realizzato un intervento
edilizio rientrante nel quadro delle "nuove opere",
disciplinato dall'art. 3, comma 1, lett. e), Dpr 380/2001;
tale intervento deve essere considerato abusivo in quanto
realizzato in assenza del preventivo ottenimento di un
permesso di costruire. L'abuso, di conseguenza, è stato
legittimamente sanzionato dal comune con una ordinanza di
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi
dell'art. 31 del Testo Unico.
Occorre evidenziale che opera, ricadente in area sottoposta
a vincolo, non solo è stata realizzata in assenza del
prescritto PdC, ma anche in assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo sotto il profilo paesaggistico.
Irrilevante il trascorrere del tempo
Il ricorrente sfodera il proprio asso nella manica: a suo
avviso l'opera sarebbe stata realizzata da oltre un decennio
senza alcuna contestazione da parte dell'amministrazione. Il
trascorrere del tempo, accompagnato all'inerzia
dell'amministrazione, avrebbe ingenerato nel privato la
convinzione della legittimità dell'intervento.
In tale circostanza, secondo il ricorrente, il Comune
avrebbe potuto disporre la demolizione delle opere solo
comparando l'interesse del privato al mantenimento
dell'opera con l'interesse pubblico alla sua demolizione.
L'ordine di demolizione, inoltre, avrebbe dovuto specificare
la prevalenza dell'interesse pubblico rispetto a quello del
privato cittadino.
Anche questo profilo viene respinto dal giudice
amministrativo. L'ordine di demolizione è un atto vincolato
che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati; non sarebbe configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto (Tar Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016;
Tar Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; Tar
Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
Il Tar ricorda che l'Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato,
A.P., 17.10.2017, n. 9; Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2017 n.
908) ha chiarito che il decorso del tempo non priva la Pa
del potere di adottare l'ordinanza di demolizione, ma, al
massimo, determina la responsabilità del dirigente (articolo
Edilizia e Territorio del 13.01.2020).
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SENTENZA
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi
ritiene che la presentazione della domanda di permesso in
sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a
differenza di quanto avviene per la domanda di condono in
senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività
di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60
giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge
espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento
di rigetto, che è onere della parte tempestivamente
impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera
presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli
effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione
resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la
sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la
quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n.
42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo
spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art.
36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del
silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi
giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed
attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art.
36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47
del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di
tipizzazione legale del silenzio serbato
dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di
accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un
atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico
dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di
legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la
conseguenza che la presentazione della domanda di
accertamento di conformità, successiva all'ordine di
demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela
del governo del territorio. In sostanza, la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o
caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire
ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di
temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri
il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia
formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una
volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione
giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione
di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III,
02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n.
6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte
ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un
provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione
dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione
di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il
silenzio rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si
consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente,
relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti
sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla
presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria
straordinaria in senso stretto), la cui presentazione
comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi
provvedimenti sanzionatori.
...
Orbene, in disparte i profili di inammissibilità della
censura che appare più propriamente da riferire al
silenzio-rifiuto formatosi sulle istanze di accertamento di
compatibilità paesaggistica e di conformità urbanistica,
silenzio tuttavia rimasto inoppugnato, decisivo è il rilievo
che parte ricorrente non ha offerto adeguata prova (come era
suo onere) della c.d. doppia conformità urbanistica, sia al
momento della realizzazione dello stesso, che al momento
della presentazione dell’istanza per la sua sanatoria, (non
avendo, certo, l’Autorità urbanistica alcun obbligo di
verificare d’ufficio l’astratta sanabilità dell’opera
abusiva, prima di ingiungerne la demolizione), né la natura
pertinenziale dell’intervento realizzato (abitazione del
custode), dovendo, senz’altro, escludersi a priori che nel
nostro ordinamento positivo vi sia posto per un c.d. abuso
di necessità.
Trattasi, all’evidenza, di intervento di nuova costruzione
ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. e), d.P.R. 380/2001,
realizzato in assenza di permesso di costruire previsto
dall’art. 22, da sanzionarsi unicamente con la demolizione
ed il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi del
successivo art. 31.
Inoltre le argomentazioni dei ricorrenti non tengono conto
che essi hanno realizzato una nuova opera (“manufatto in
muratura delle dimensioni di circa m. 7 x mt. 6,40 ed
altezza variabile da mt. 3,20 a mt. 2,85 (……..)”,
completo di intonaci, infissi ed impianti), in assenza di
qualsivoglia titolo abilitativo sotto il profilo
paesaggistico, in zona interessata da una pluralità d
vincoli puntualmente elencati nell’ordinanza impugnata alla
quale si rinvia, sul punto richiamandosi la giurisprudenza
di questa Sezione per la quale; <<I provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica
e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio
riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e
analitico richiamo di tutti i vincoli,
paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del
fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un
permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli, sez. III,
22/10/2015, n. 4968).
...
Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua
realizzazione risulta non databile, nulla al riguardo, i
ricorrenti avendo provato, decisivo è il rilievo che, in
materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta
comunque un atto vincolato il quale non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex
multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR
Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è
intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo
dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di
adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art.
31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal
comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n.
133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del
commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del
potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando
piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario
responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di
un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del
tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n.
9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando
l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere
motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di
esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a
distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che
l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è
legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione
(se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera)
indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni
legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza
dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da
Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La
repressione degli abusi edilizi è espressione di attività
strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza
o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire
in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della
commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha
carattere permanente, che si protrae e che conserva nel
tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al
mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo
rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della
normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del
territorio>>. |
EDILIZIA PRIVATA: L’istanza
di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004, quanto alle conseguenze della
mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente
previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato:
in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di
accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione, con indirizzo ormai consolidatosi, ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per
la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47
del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione.
Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio.
In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego.
Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma
senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida
riprendendo piena efficacia.
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori.
---------------
Ciò posto con la prima censura si deduce l’illegittimità o
l’inefficacia dell’impugnata ordinanza di demolizione stante l’intervenuta
proposizione nei termini di legge dell’istanza di accertamento ex art. 167,
D.L.vo 42/2004, con sospensione del procedimento amministrativo sanzionatorio fino alla decisione dell’istanza in sanatoria, al riguardo
rilevandosi che, per costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, la proposizione nei termini della richiesta ex art. 36
D.P.R. 380/2001 come anche quella di quella ex art. 167 su citato, hanno come
conseguenza giuridica implicita, di spostare l'interesse del soggetto
colpito da ordinanza di demolizione, dal provvedimento stesso alla decisione
della P.A. sull'istanza avanzata.
Secondo parte ricorrente, corollario di
tale condivisibile assunto è che viene fatto carico alla P.A., dopo
l'eventuale diniego di sanatoria, di procedere nuovamente all'irrogazione
della primigenia sanzione, onde consentire alla parte di ottemperare
all'ingiunzione senza incorrere nell' acquisizione.
Nella specie, essendo
intervenuta nei termini un'istanza di accertamento, l'ordine di demolizione
irrogato con il provvedimento impugnato, dovrebbe essere considerato sospeso
di diritto fino alla decisione del Comune sull'istanza avanzata dalla parte,
e comunque sarebbe divenuto inefficace.
La censura è priva di fondatezza.
Al riguardo, in disparte che non risulta provata da parti ricorrenti la
presentazione e la pendenza dell’istanza di sanatoria ex art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001, l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex
art. 167 D.L.vo 42/2004 allegata al ricorso, quanto alle conseguenze della
mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente
previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato:
in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di
accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per
la formazione del silenzio - rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47
del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III,
02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in
proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla
rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun
provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio rifiuto, senza che,
però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di
demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali
<<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985)
configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio
serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i
richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si
forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a
carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge,
anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione
dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della
domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli
abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune,
preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero
invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato
di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché
perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato
l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine
e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito,
l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma
senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida
riprendendo piena efficacia.
---------------
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n.
47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>
(TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014,
n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in
proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla
rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun
provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che
-però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di
demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
anno 2019 |
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ottobre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia
stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione
costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio
necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione
di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
---------------
1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito
dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo
edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di
proprietà dei ricorrenti.
...
16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo,
contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione
del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo
142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non
creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui
fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul
suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso.
Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico,
tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico,
ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere
da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche
ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n.
2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di
demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la
giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
settembre 2019 |
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Conferenza
di servizi, il Comune non può opporsi davanti la presidenza
del Consiglio dei Ministri.
È esclusa la legittimazione dei Comuni, che abbiano
manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a
sollevare dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri
opposizione in base all'articolo 14-quinquies, della legge
241/1990 a tutela di interessi cosiddetti «sensibili»
(tutela dell'ambiente, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali, della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini) in quanto la norma si riferisce a pareri di
amministrazioni «preposte» esclusivamente alla tutela di
detti interessi.
Tuttavia, poiché non può escludersi l'ipotesi che siffatta
legittimazione sia attribuita da norme speciali, statali o
regionali, è necessario che la presidenza del Consiglio dei
ministri, ogni qual volta pervenga un'opposizione comunale,
«dovrà effettuare […] una verifica puntuale, da condursi
caso per caso, della insussistenza di dette norme».
Questi i termini in cui il Consiglio di Stato -Sez. I- ha
risposto, con il
parere 30.09.2019 n. 2534, a due quesiti proposti
da palazzo Chigi in ordine alla possibilità per le
amministrazioni comunali di attivare lo strumento
dell'opposizione previsto dall'articolo 14-quinquies,
introdotto dal Dlgs 127/2016 «Norme per il riordino della
disciplina in materia di conferenza di servizi».
Possibilità che i magistrati di palazzo Spada hanno escluso
perché ciò «finirebbe per complicare il quadro
regolatorio di riferimento e per rallentare, anziché
snellire i procedimenti, in evidente contraddizione con la
ratio sottesa alla riforma», che persegue «la
deflazione del carico gravante sul consiglio dei ministri».
Fermo restando che a sfavore di questa possibilità militano
le previsioni della disciplina di settore (codice
dell'ambiente, testo unico degli enti locali, testo unico in
materia edilizia e urbanistica, codice dei beni culturali e
del paesaggio e testo unico delle leggi sanitarie) da cui si
evince che l'ente locale non possiede né gli strumenti, né
le competenze per svolgere «in proprio» le funzioni
oggetto di questa disciplina (Consiglio di Stato, sentenza
15.12.2011, n. 6612).
Senza considerare che la legittimazione ad agire «non
implica affatto il riconoscimento di una corrispondente
competenza di amministrazione attiva comunale in quelle
materie e su quegli interessi».
Cornice normativa
L'articolo 14-quinquies prevede:
• l'inversione del potere di opposizione: se prima della
riforma del 2016 spettava all'amministrazione procedente il
ricorso al consiglio dei ministri per superare i dissensi
proposti in sede di conferenza di servizi dai titolari degli
interessi sensibili, attualmente questo potere spetta alle
amministrazioni dissenzienti;
• la proposizione dell'opposizione sospende l'efficacia
della determinazione conclusiva della conferenza;
• l'opposizione deve essere proposta entro dieci giorni
dalla comunicazione della determinazione conclusiva, sempre
che il dissenso sia stato espresso «in modo inequivoco
prima della conclusione dei lavori della conferenza»;
• qualora le amministrazioni giungano ad un accordo, non
è più necessaria la presa d'atto del Consiglio dei ministri,
ma i contenuti dell'accordo sono trasmessi
all'amministrazione procedente, che li assume nel nuovo
provvedimento di conclusione della conferenza.
Il parere di palazzo Spada
Il Consiglio di Stato ha invitato il Governo ad accertare
che la norma invocata dai Comuni «a supporto»
dell'opposizione attribuisca agli stessi il potere di
pronunciare «pareri o atti di assenso comunque denominati
in conferenze di servizi per progetti, interventi o attività
da approvare o autorizzare».
Non a caso l'alto Collegio ha segnalato, a titolo
esemplificativo, la legge della Regione Piemonte 42/2020,
che ha delegato ai Comuni le funzioni in materia di bonifica
dei siti inquinati, di approvazione del progetto e di
autorizzare degli interventi previsti, nonché in tema di
realizzazione degli interventi di messa in sicurezza,
bonifica e ripristino ambientale.
Legge che non appare «rilevante e risolutiva» ai fini
della proponibilità dell'opposizione in base all'articolo
14-quinquies in quanto pone il Comune delegato nella
posizione di «autorità procedente» e non di autorità
titolare di questa funzione (articolo Quotidiano Enti
Locali & Pa del 27.11.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Opposizione
alla decisione assunta in sede di conferenza di servizi dalle
Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
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Conferenza di servizi – Dissenso - Amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità - Individuazione.
Le Amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in
sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241
del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli
artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990- in quelle
amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza
diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad
esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela
dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si
rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui
all’art. 13, d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario
demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di
cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie
o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica
puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali,
statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte
funzioni all’ente comunale (1).
---------------
(1) La Sezione ha affermato la tesi che esclude la “legittimazione”
dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di
servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241
del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili”.
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo
adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale
ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare”
tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si
evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”,
con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente
tecnico-scientifiche (art. 17, comma 2, l. n. 241 del 1990), di tutela di
quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni,
di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla
allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost..
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie
nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla
legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e,
in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare
in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per
tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un
siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece
ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale
di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato
talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza
dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art.
14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione
comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta
analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle
coordinate ermeneutiche qui elaborate.
Ha poi affermato la sezione che la “preposizione” di un ente pubblico
(o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello
specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici
richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di
settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta
per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente
preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale
“rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili
alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale,
rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente
in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa
dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni
di competenze settoriali fondate su norme speciali.
Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può
rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17, l. n. 241 del 1990, che
distingue e qualifica in termini “forti”,
rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di
organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o
di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate
dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel
caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di
amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo,
un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art.
14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque
denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi.
Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art.
14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal
comma 2 dell’art. 17 della stessa l. n. 241 del 1990, “preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”,
le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora
citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure
essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento
del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.)
utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma
(di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di
delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste
funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano
esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente
ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati
potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in
conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella
sentenza di questo Consiglio (sez.
VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha
riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di
siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta
Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere
riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente
deputate alla cura di determinati interessi sensibili (Consiglio di Stato,
Sez. I,
parere 30.09.2019 n. 2534 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrartiva.it).
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parere
OGGETTO: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per il
coordinamento amministrativo. Richiesta di parere sulla “Legittimazione
del comune dissenziente a proporre opposizione avverso la determinazione
conclusiva della conferenza di servizi, ai sensi dell'articolo 14-quinquies,
della legge 07.08.1990, n. 241, come introdotto dall'articolo 7 del decreto
legislativo 30.06.2016, n. 127”.
...
Premesso:
1. Riferisce l’Amministrazione richiedente che le pervengono numerose
opposizioni, ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990,
formulate da amministrazioni comunali a vario titolo chiamate ad esprimersi
in seno a conferenze di servizi aventi ad oggetto impianti od opere da
autorizzare da parte di amministrazioni prevalentemente regionali (ad es.,
impianti di smaltimento di rifiuti, impianti di produzione di energia da
fonte rinnovabile, opere di mitigazione del rischio idrogeologico, etc.),
sicché è emersa la questione della possibilità, per le amministrazioni
comunali che hanno manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi
di primo livello, di attivare lo strumento dell’opposizione davanti al
Consiglio dei ministri previsto dall’art. 14-quinquies della legge n. 241
del 1990, come introdotto dal decreto legislativo n. 127 del 2016.
2. Dopo aver raffrontato il nuovo regime introdotto dalla riforma del 2016
con quello previgente e dopo aver illustrato le opposte tesi che sono state
al riguardo prospettate –dichiarando di optare per la tesi negativa– la
Presidenza del Consiglio dei Ministri ha posto i seguenti due quesiti:
2.a. In linea generale, se le amministrazioni comunali possano a pieno
titolo rientrare tra i soggetti deputati alla cura di taluni interessi
sensibili e, dunque, risultare conseguentemente legittimate a sollevare
opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990;
2.b. con particolare riguardo al procedimento AIA, se valgano le eventuali
stesse limitazioni di cui al punto A oppure se, fermo restando il ricorrere
di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente
ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo
di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento
amministrativo.
Considerato:
1. Anticipando (in estrema sintesi) il risultato dell’indagine, è parere
della Sezione -riguardo al primo quesito, di carattere generale- che sia
sostanzialmente da condividersi la tesi, sostenuta da codesta Presidenza del
Consiglio, che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano
manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare
opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 a
tutela di interessi così detti “sensibili” (ossia, secondo il testo
qui pertinente del medesimo art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990,
gli interessi di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini”).
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo
adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale
ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare”
tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si
evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”,
con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente
tecnico-scientifiche (cfr. art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del
1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che,
riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore
che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi
dell’art. 118 della Costituzione.
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie
nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla
legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e,
in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare
in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per
tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un
siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece
ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale
di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato
talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza
dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art.
14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione
comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta
analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle
coordinate ermeneutiche qui elaborate.
2. Fatta questa premessa chiarificatrice e precisante, ritiene la Sezione,
come anticipato, che un primo criterio orientativo per la soluzione del
quesito si rinvenga nella stessa lettera della disposizione oggi recata dal
testo dell’art. 14-quinquies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, che
attribuisce il potere di proporre opposizione dinanzi al Consiglio dei
Ministri avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza
alle “amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini” (a condizione che abbiano
espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della
conclusione dei lavori della conferenza).
Il participio “preposte”, infatti, riveste un suo significato
proprio, idoneo a designare non già una generica e generale rappresentanza
di interessi riconoscibile sul piano politico all’ente territoriale, ma una
specifica e puntuale attribuzione normativa di competenza amministrativa, di
solito caratterizzata da una netta connotazione tecnica, in favore di
determinati enti e plessi amministrativi, che presentano sotto questo
profilo un’apposita specializzazione nella cura di determinati interessi
“sensibili” (tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini).
3. In prima approssimazione e in sintesi, può ritenersi che la “preposizione”
di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla
cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati
beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza
mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla
generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai
Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento
costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale
di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel
rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque,
non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae
origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di
fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme
speciali.
4. Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può
rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17 della legge n. 241 del
1990, che distingue e qualifica in termini “forti”, rispetto
all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti
appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento
per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge
(comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui
debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di
amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo,
un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art.
14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque
denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi.
Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art.
14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal
comma 2 dell’art. 17 della stessa legge n. 241 del 1990, “preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”,
le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora
citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure
essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento
del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.)
utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma
(di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di
delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste
funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano
esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente
ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati
potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in
conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella
sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata
nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente
preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla
rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta
Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere
riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente
deputate alla cura di determinati interessi sensibili.
5. Conforta la tesi negativa anche la considerazione della “storia”
recente della disciplina della conferenza di servizi, anteriormente alla
riforma del 2016, che aiuta altresì a penetrare la ratio dell’istituto: come
bene evidenziato anche nella richiesta di parere, nel regime anteriore alla
riforma del 2016 (si veda l’antevigente art. 14-quater, comma 3), era
inconfigurabile un potere del Comune di provocare l’esame dell’affare da
parte del Consiglio dei Ministri facendo valere un interesse “sensibile”
oppositivo alla realizzazione del progetto.
Il “ricorso” a questo rimedio era infatti riservato, in termini
speculari rispetto al regime attuale, non già all’amministrazione contraria
alla conclusione positiva della conferenza, bensì all’amministrazione
procedente che intendesse superare il parere negativo di un’amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini, parere negativo che determinava un effetto ostativo alla
conclusione positiva della conferenza e impeditivo dell’approvazione del
progetto, dinanzi al quale l’amministrazione procedente, interessata invece
alla conclusione positiva della conferenza, non aveva altro rimedio se non
la rimessione dell’affare alla sede “politica” del Consiglio dei
Ministri.
6. La competenza del Consiglio dei Ministri (che si esprime in un atto di
alta amministrazione connotato da discrezionalità amministrativa, in veste
quasi sostitutiva della ordinaria sede tecnico-discrezionale: cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 23.05.2012, n. 3039: Id., 15.01.2013, n. 220; sez. IV,
12.06.2014, n. 2999; sez. VI, 04.02.2014, n. 505, sez. IV, 24.08.2017, n.
4062; Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 12.07.2019, n.
18829) “scattava” dunque solo a fronte di un parere negativo
vincolante, non ordinariamente superabile, opposto da un’amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini. E dunque, nel sistema della conferenza di servizi antevigente
alla riforma introdotta dal decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 in
attuazione dell’articolo 2 della legge di delega 07.08.2015, n. 124, la
competenza sussidiaria del Consiglio dei Ministri poteva attivarsi solo se “innescata”
(indirettamente) da un’amministrazione titolare di un siffatto potere di “veto”,
ossia di pronuncia di un parere (o di un diniego di un atto di assenso)
vincolante (in senso negativo) l’esito del procedimento.
Orbene, in quel sistema ai Comuni non sembra sia stato mai riconosciuto un
siffatto potere di veto tramite un parere negativo vincolante a tutela dei
ripetuti interessi “sensibili” (l’art. 14-quater, comma 3, della
legge n. 241 del 1990 nel testo antevigente alla riforma del 2016 prevedeva
che “ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la
questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale
collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa
dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei
Ministri, che ha natura di atto di alta amministrazione”; la norma
peraltro contemplava espressamente il caso del dissenso motivato “espresso
da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza”, ma non considerava il caso di dissenso manifestato da un
Comune).
7. La ratio della riforma di cui al d.lgs. n. 127 del 2016 -che ha
ribaltato quel sistema, privilegiando l’esito positivo della conferenza di
servizi e onerando della rimessione dell’affare al Consiglio dei Ministri
non più l’amministrazione procedente, ma quella preposta alla tutela di
interessi sensibili il cui parere negativo sia stato giudicato superabile
nel meccanismo di prevalenza quali-quantitativa che caratterizza il modulo
decisionale della conferenza di servizi– risiede nello snellimento e
nell’accelerazione dei procedimenti, con deflazione del carico gravante sul
Consiglio dei Ministri, anche in considerazione del fatto che la rimessione
dell’affare amministrativo alla suddetta sede “politica” (di alta
amministrazione connotata da discrezionalità amministrativa e non più
tecnica) dovrebbe costituire l’eccezione e non la regola, trattandosi pur
sempre di una deroga alla regola generale di riserva del provvedimento di
gestione agli organi amministrativi ordinari e non al vertice dell’indirizzo
politico-amministrativo.
Sarebbe dunque paradossale una soluzione interpretativa che, ammettendo per
la prima volta una tale competenza comunale di “veto” ostativo alla
conclusione della conferenza di servizi per profili di tutela di interessi “sensibili”
e la conseguente legittimazione a opporsi alla decisione favorevole dinanzi
al Consiglio dei Ministri, finirebbe per complicare il quadro regolatorio di
riferimento e per rallentare, anziché snellire i procedimenti, in evidente
contraddizione con la ratio sottesa alla riforma.
8. Così fissate le linee argomentative generali che definiscono la logica di
base del presente parere, occorre ora indagare più nel dettaglio l’ambito e
la natura delle possibili competenze riconoscibili in capo ai Comuni nelle
materie di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini: ed
invero, come già preannunciato nel par. 1, la vastità e l’eterogeneità delle
fonti di possibili attribuzioni di competenze comunali non consentono di
enunciare in termini assoluti in questa sede una regola di necessaria
esclusione della legittimazione comunale a proporre opposizione; una tale
conclusione, come tratteggiata nei precedenti paragrafi, vale sicuramente in
linea di massima, ma non esime dalla necessità di effettuare un
approfondimento analitico caso per caso alla luce anche della specifica
legislazione regionale applicabile.
La Sezione potrà, dunque, in questa sede solo dettare l’impostazione
generale di tale indagine, ma essa, per la sua ampiezza, non potrà certo
concludersi in termini esaustivi, residuando comunque uno spazio di
ulteriore verifica caso per caso che dovrà necessariamente essere compiuta
da codesta Presidenza nel singolo procedimento concreto.
8.1 Occorre in primo luogo operare una fondamentale distinzione, nell’ambito
delle competenze degli enti locali, tra le funzioni così dette storiche, “proprie”
e/o “fondamentali” [art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.; Corte
cost., sentenze n. 179 del 2019, n. 160 del 2016, n. 378 del 2000, nn. 83
del 1997 e 286 del 1997], nonché le funzioni speciali attribuite da
particolari norme, e la generale competenza di rappresentanza degli
interessi della popolazione locale.
Al riguardo, come condivisibilmente annotato dalla Presidenza nella
richiesta di parere, non va confuso l’ambito della legittimazione
procedimentale e anche processuale (sotto il profilo della legittimazione a
ricorrere dinanzi al Giudice amministrativo), riconosciuta al Comune in
termini molto ampi a “tutela” di tutte le situazioni soggettive di
carattere collettivo e di interesse generale locale facenti capo alla
comunità territoriale rappresentata, con l’attribuzione specifica
(preposizione) di competenze “tecniche” di tutela di particolari
beni-interessi pubblici.
È noto e incontroverso che è consentito, ad esempio, ai Comuni di impugnare
dinanzi al Giudice amministrativo provvedimenti dell’autorità statale o
regionale che, operando una riorganizzazione territoriale degli uffici,
possano determinare una riduzione della prestazione dei servizi offerti a
livello comunale (si pensi ai noti e numerosi casi di chiusura di strutture
sanitarie pubbliche, di posti di polizia, di uffici postali, di uffici
giudiziari, di plessi scolastici, etc.), ma non si è mai per questo
sostenuto che i Comuni fossero titolari di una corrispondente funzione
amministrativa propria di tutela (sanitaria, di pubblica sicurezza, in
materia postale, giudiziaria, scolastica, etc.).
La legittimazione dei Comuni a impugnare atti e provvedimenti di altre
amministrazioni (soprattutto statali) storicamente è stata sempre ammessa
sulla base della previsione generale (poi rifluita nell’art. 26 del testo
unico delle leggi sul Consiglio di Stato di cui al regio decreto n. 1054 del
1924) che accordava il ricorso a tutti gli “individui o enti morali
giuridici” titolari di un interesse che fosse oggetto di atti e
provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo
deliberante.
Su questa base è stata sempre ripetuta in giurisprudenza la massima secondo
cui al Comune, quale ente territoriale esponenziale di una determinata
collettività di cittadini, istituzionalmente legittimato a curarne e a
difenderne gli interessi e a promuoverne lo sviluppo, deve riconoscersi la
legittimazione ad agire contro tutti gli atti ritenuti in qualche modo
lesivi di quegli interessi.
Ma tale legittimazione ad agire non implica affatto, evidentemente, il
riconoscimento di una corrispondente competenza di amministrazione attiva
comunale in quelle materie e su quegli interessi.
8.2. Operata questa fondamentale chiarificazione, occorre adesso richiamare
il quadro costituzionale di riferimento per l’attribuzione delle funzioni
agli enti locali territoriali.
L’art. 114, secondo comma della Costituzione, nel testo risultante dalla
riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede che “I
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi
con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione”. L’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione
riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle materie
“legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”. L’art. 118, nei commi primo e
secondo, stabilisce che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai
Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le
Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di
quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze”.
8.3. A livello di legge ordinaria deve essere menzionato, benché
sostanzialmente superato dalla riforma costituzionale del 2001, il decreto
legislativo n. 112 del 1998 (Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione
del capo I della legge 15.03.1997, n. 59), che, all’art. 3 (Conferimenti
alle regioni e agli enti locali e strumenti di raccordo), commi 1 e 2,
anticipando per certi aspetti la riforma del titolo V della Costituzione,
stabiliva che “Ciascuna regione, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 5,
della legge 15.03.1997, n. 59, entro sei mesi dall'emanazione del presente
decreto legislativo, determina, in conformità al proprio ordinamento, le
funzioni amministrative che richiedono l'unitario esercizio a livello
regionale, provvedendo contestualmente a conferire tutte le altre agli enti
locali, in conformità ai principi stabiliti dall'articolo 4, comma 3, della
stessa legge n. 59 del 1997, nonché a quanto previsto dall'articolo 3 della
legge 08.06.1990, n. 142” e che “2. La generalità dei compiti e delle
funzioni amministrative è attribuita ai comuni, alle province e alle
comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo 4, comma 3, della
legge 15.03.1997, n. 59, secondo le loro dimensioni territoriali,
associative ed organizzative, con esclusione delle sole funzioni che
richiedono l'unitario esercizio a livello regionale”.
8.4. Viene dunque in rilievo soprattutto il decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, il quale stabilisce, all’art. 3, commi 2 e 5, che “2. Il comune è
l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e
ne promuove lo sviluppo” e che “5. I comuni e le province sono
titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello
Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”.
L’art. 13 (Funzioni) prevede che “1. Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
L’art. 50, comma 5, prevede poi il potere del sindaco, quale rappresentante
della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso
di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale (o in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare
situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del
patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana,
con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del
riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita,
anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche).
L’art. 112 (Servizi pubblici locali) prevede che “1. Gli enti locali,
nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei
servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività
rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e
civile delle comunità locali”.
8.5. L’art. 11 della legge 05.05.2009, n. 42 (recante Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della
Costituzione) prevedeva, tra i princìpi e criteri direttivi concernenti il
finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, che
i decreti legislativi attuativi del federalismo fiscale dovessero
classificare le spese relative alle funzioni di comuni, province e città
metropolitane, in: “1) spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai
sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, come
individuate dalla legislazione statale; 2) spese relative alle altre
funzioni”.
8.6. Il decreto legislativo 26.11.2010, n. 216 (Disposizioni in materia di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città
metropolitane e Province), all’art. 3, ha previsto che “fino alla data di
entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni
fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province, le funzioni
fondamentali ed i relativi servizi presi in considerazione in via
provvisoria, ai sensi dell'articolo 21 della legge 05.05.2009, n. 42, sono:
a) per i Comuni: 1) le funzioni generali di amministrazione, di gestione e
di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come
certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata
in vigore della legge 05.05.2009, n. 42; 2) le funzioni di polizia locale;
3) le funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili
nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l'edilizia
scolastica; 4) le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; 5) le
funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell'ambiente, fatta
eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani
di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; 6) le funzioni del
settore sociale”, mentre le “funzioni nel campo della tutela
ambientale” sono attribuite dal n. 5) della lettera b) del comma 1 alle
Province.
8.7. Il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 122 del 2010, all’art. 14 (Patto di stabilità interno ed altre
disposizioni sugli enti territoriali), comma 27 (come modificato dall’art.
19 del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 135 del 2012), stabilisce che “sono funzioni fondamentali dei
comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici
di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di
trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni
mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione
urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito
comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei
primi soccorsi; f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta,
avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei
relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi
sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo
quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h)
edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle
province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia
municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato
civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in
materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza
statale; l-bis) i servizi in materia statistica”.
9. Le norme, costituzionali e di legge ordinaria, sopra passate in rassegna,
dimostrano che i Comuni in generale non sono preposti –nel senso tecnico e
specifico del termine– ad alcuna delle funzioni di “tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini” di cui all’art. 14-quinquies
della legge n. 241 del 1990.
Naturalmente, secondo il disegno istituzionale chiaramente delineato
nell’art. 118 Cost., la legge nazionale e la legge regionale, ciascuna per
le materie rientranti nella rispettiva competenza legislativa, possono
attribuire le funzioni amministrative, per assicurarne l'esercizio unitario,
alle Regioni, alle Province, alle Città metropolitane, in attuazione dei
principi di differenziazione e adeguatezza (che bilanciano e fanno da
contrappeso al principio di sussidiarietà verticale).
Ne consegue, come già avvertito nei paragrafi 1 e 8, che la seguente
disamina, che non può evidentemente spingersi fino alla verifica delle leggi
regionali di tutte le Regioni, non può escludere del tutto il caso –per il
quale si deve dunque lasciare aperto uno spazio ipotetico residuale– in cui
le leggi regionali, nelle materie di competenza legislativa regionale (o in
caso di delega delle funzioni di tutela prevista nella legge statale),
possano aver attribuito talune competenze di tutela ai Comuni.
Si segnala, a mero titolo di esempio, la legge della Regione Piemonte n. 42
del 2000, che ha delegato ai Comuni le funzioni, in materia di bonifica dei
siti inquinati, di approvazione del progetto e di autorizzare degli
interventi previsti, nonché in tema di realizzazione degli interventi di
messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, che costituiscono
sicuramente competenze di tutela ambientale.
E tuttavia, anche in un caso del genere, in cui si assiste a una delega
regionale di funzioni di tutela ambientale in favore dei Comuni, occorre
rilevare –come già chiarito nel par. 4, ultimo periodo- che una siffatta
attribuzione non pare rilevante e risolutiva ai fini della proponibilità
dell’opposizione al Consiglio dei Ministri ex art. 14-quinquies della legge
n. 241 del 1990, poiché, a tal fine, si deve trattare non già di competenze
“qualsiasi”, purché in materia di tutela ambientale, ma occorre che
si tratti, evidentemente, di competenze a pronunciare pareri o atti di
assenso comunque denominati in conferenze di servizi per progetti,
interventi o attività da approvare o autorizzare. Nell’esempio proposto
della legge regionale del Piemonte, invero, la tutela delegata in materia di
bonifica dei siti inquinati pone il Comune delegato nella posizione di
autorità procedente e non di autorità chiamata a rendere un parere o un atto
di assenso comunque denominato, e dunque non rileva ai fini del presente
quesito.
10. Fatte queste ulteriori considerazioni di carattere generale, che
avvertono (nuovamente) della necessità che sia condotta caso per caso una
verifica puntuale circa l’eventuale sussistenza di attribuzioni comunali,
anche delegate, di funzioni di tutela di “interessi sensibili”, che
si traducano nel potere di rendere pareri o atti di assenso comunque
denominati (ma a particolare connotazione tecnica), occorre ora procedere a
una disamina più di dettaglio con riguardo alla principale legislazione di
settore nelle materie della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità
dei cittadini.
10.1. Guardando alla “tutela ambientale”, occorre fare riferimento
soprattutto al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante Norme in
materia ambientale.
10.1.a. Volendo svolgere una rapida disamina dei principali istituti di
tutela disciplinati in detto decreto legislativo, seguendo l’ordine del suo
indice sommario, emerge in primo luogo che, in materia di V.I.A., di V.A.S.
e di A.I.A., l’art. 7 prevede (comma 6) che “In sede regionale,
l'autorità competente ai fini della VAS e dell'AIA è la pubblica
amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione
ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle
Province autonome” e che (comma 7) “Le Regioni e le Province autonome
di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le
competenze proprie e quelle degli altri enti locali in materia di VAS e di
AIA”; l’art. 7-bis, analogamente, stabilisce per la V.I.A. (comma 5) che
“In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione
con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata
secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome”
e che (comma 8) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
disciplinano con proprie leggi o regolamenti l'organizzazione e le modalità
di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di
VIA, nonché l'eventuale conferimento di tali funzioni o di compiti specifici
agli altri enti territoriali sub-regionali”.
Ai fini che qui interessano le eventuali attribuzioni ai Comuni di talune
delle ora dette funzioni non parrebbero rilevanti sotto il profilo della
legittimazione a proporre l'opposizione ex art. 14-quinquies, poiché si
tratterebbe di funzioni di autorità precedente e non di autorità titolare di
poteri di rendere atti di assenso comunque denominati. Tuttavia, nel caso in
cui il Comune fosse delegato alla conclusione di un procedimento di
valutazione di impatto ambientale, che si conclude con un atto che diviene
presupposto per l’autorizzazione dell’intervento, non potrebbe evidentemente
negarsi la legittimazione comunale ad opporsi nel caso in cui l’autorità che
ha indetto la conferenza di servizi (ad es., la Provincia o la Regione)
ritenga di poter superare la V.I.A. negativa e di poter comunque pervenire
(non interessa qui se legittimamente o illegittimamente) a una conclusione
favorevole della conferenza.
10.1.b. In materia di difesa del suolo l’art. 62 (Competenze degli enti
locali e di altri soggetti) prevede che “1. I comuni, le province, i loro
consorzi o associazioni, le comunità montane, i consorzi di bonifica e di
irrigazione, i consorzi di bacino imbrifero montano e gli altri enti
pubblici e di diritto pubblico con sede nel distretto idrografico
partecipano all'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del
suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle regioni singolarmente o
d'intesa tra loro, nell'ambito delle competenze del sistema delle autonomie
locali”.
Sembra tuttavia che si tratti di competenze di tutela di regola concentrate
in capo alle apposite Autorità di bacino distrettuale istituite per ciascun
distretto idrografico.
10.1.c. In materia di tutela delle acque dall’inquinamento l’art. 75
(Competenze), comma 1, lettera b), stabilisce che “le regioni e gli enti
locali esercitano le funzioni e i compiti ad essi spettanti nel quadro delle
competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni
statali”.
In tema di autorizzazione agli scarichi è dunque possibile che sussistano,
in base alle pertinenti leggi regionali, attribuzioni comunali. Ma non
sembra che tali funzioni autorizzatorie possano assumere la consistenza
specifica e tecnica che è necessaria agli effetti del meccanismo della
conferenza di servizi. L’eventuale diniego comunale sembra superabile con
gli ordinari mezzi decisionali della conferenza di servizi e non può,
dunque, dare ingresso a un potere comunale di opposizione dinanzi alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
10.1.d. In materia di servizio idrico integrato e di gestione dei rifiuti il
“codice ambiente” prevede sostanzialmente compiti gestionali dei
relativi servizi, non compiti di tutela.
10.1.e. Neppure in materia di tutela dell’aria si rinvengono in capo ai
Comuni specifici compiti di tutela, al di là del monitoraggio, di solito
svolto in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione
dell’ambiente o con le Aziende sanitarie locali, in disparte i poteri di
ordinanza
10.1.f. Le funzioni di tutela ambientale a livello locale sono state del
resto tradizionalmente attribuite alle Province, enti territoriali di area
vasta: il TUEL (d.lgs. n. 267 del 2000), all’art. 19, attribuisce alla
provincia “le funzioni amministrative di interesse provinciale che
riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei
seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente
e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse
idriche ed energetiche; ... e) protezione della flora e della fauna parchi e
riserve naturali; ... g) ... disciplina e controllo degli scarichi delle
acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; h) servizi sanitari, di
igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e
regionale”. Tali attribuzioni non risultano peraltro escluse dalla legge
07.04.2014, n. 56 (recante Disposizioni sulle città metropolitane, sulle
province, sulle unioni e fusioni di comuni).
10.2. Guardando alla “tutela paesaggistico-territoriale”, essa,
riferita [pur nell’improprietà lessicale della disposizione) alla tutela
paesaggistica e non alla ordinaria “tutela” (recte: “vigilanza”)
in materia edilizia e urbanistica (di cui al capo I del titolo IV -
Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001), sicuramente spettante ai Comuni, ma irrilevante
agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 qui in
esame], deve osservarsi, come già rilevato, che, nel testo normativo
speciale di riferimento, costituito dal codice dei beni culturali e del
paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, le “funzioni amministrative di
tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni
secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice”
(art. 5, comma 6) e (art. 146, comma 6) “La regione esercita la funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati
di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali.
Può tuttavia delegarne l'esercizio, per i rispettivi territori, a province,
a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle
vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco,
ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di
strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di
tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia, in modo che sia sempre assicurato un livello di
governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite”.
In ogni caso, nel procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica è tuttora previsto il parere vincolante degli organi
periferici ministeriali. Deve dunque escludersi che, tecnicamente, il Comune
possa dirsi “preposto” alla tutela dei beni paesaggistici e del
paesaggio, agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
10.3. Analoghe conclusioni devono a fortiori valere per le funzioni
di tutela dei beni culturali, pacificamente riservate agli organi statali
(art. 5 cit. e parte seconda, titolo primo, del codice di settore)
10.4. Riguardo alle funzioni di tutela della salute ritiene la Sezione che
analoghe considerazioni debbano valere in relazione alle funzioni in materia
di igiene e sanità riconosciute al Sindaco dagli artt. 216 e 217 del testo
unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, in tema di
lavorazioni insalubri, e al Comune dagli artt. 218 ss. stesso testo unico,
in tema di igiene degli abitati urbani e rurali e delle abitazioni.
Come si chiarirà anche nei paragrafi 13 ss., a proposito del secondo quesito
proposto da codesta Presidenza, tali poteri sindacali e comunali devono
infatti essere correttamente inquadrati nel più ampio contesto normativo di
riferimento, come si è evoluto ed è oggi vigente; essi, in particolare, in
presenza di competenze statali e regionali fondate su titoli speciali di
attribuzione normativa di tutela ambientale, devono ritenersi recessivi
rispetto ai pareri e agli atti di assenso o di diniego provenienti dalle
autorità tecniche, e ciò anche in relazione alle già richiamate previsioni
dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che rendono non superabili (e
imprescindibili) le valutazioni tecniche di organi od enti appositi
richieste per l'adozione di un provvedimento allorquando tali valutazioni
debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini, nonché in base al
già richiamato (par. 8.4) art. 13 del TUEL (ove si precisa che spettano al
comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e
dello sviluppo economico, “salvo quanto non sia espressamente attribuito
ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze”).
10.5. Sempre in materia sanitaria, non costituisce idonea preposizione ai
fini dell’art. 14-quinquies in esame la norma, richiamata anche nella
relazione della Presidenza del Consiglio, contenuta nell’art. 50, comma 5,
del TUEL: essa prevede infatti un potere straordinario del sindaco, quale
rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e
urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, potere però,
come detto, straordinario e come tale inidoneo a fondare un titolo di
preposizione specifica alla tutela ordinaria di quegli interessi; il potere
sindacale de quo, invero, si pone ed opera “a valle” dell’ordinaria
funzione di tutela sanitaria ed ambientale, quale rimedio “di chiusura”
del sistema, per il caso in cui debba farsi fronte ad eventuali situazioni
imprevedibili che, eccedendo il quadro dell’ordinarietà della gestione e
cura di quegli interessi, richiedano interventi contingibili e urgenti per
porre rimedio a eventi che li minaccino o pregiudichino; si tratta, dunque,
di un potere che non riguarda il momento (ex ante) della valutazione
e dell’approvazione dei progetti degli interventi e delle attività
potenzialmente idonee a incidere sui suddetti profili sanitari e ambientali.
10.6. Riguardo alle funzioni di tutela della pubblica incolumità dei
cittadini, in disparte le funzioni di ordinanza contingibile e urgente del
Sindaco, non rilevanti, per quanto detto sopra, ai fini della questione
all’esame del Collegio, occorre domandarsi se le numerose funzioni comunali
che direttamente o indirettamente attengono alla tutela della pubblica
incolumità dei cittadini siano tali da poter fondare la legittimazione
comunale a proporre l’opposizione contemplata dall’art. 14-quinquies della
legge n. 241 del 1990.
A giudizio della Sezione la risposta deve al riguardo essere negativa,
poiché, in particolar modo in questo campo, emerge e viene in rilievo quella
particolare connotazione tecnica e specialistica delle funzioni di tutela
–presa in considerazione dal ripetuto art. 14-quinquies– di cui si è già
detto sopra nei paragrafi 4, ultimo periodo, e 9, ultimo periodo,
connotazione che sembra mancare affatto nelle competenze comunali in esame,
appartenendo, invece, a speciali corpi e complessi organizzativi statali (ad
es., Vigili del fuoco) e di altre amministrazioni (si pensi alla Protezione
civile).
Non v’è dubbio sul fatto che anche i Comuni partecipino, e con compiti di
indubbio rilievo, alla “filiera” territoriale del sistema di
protezione civile, ma con compiti e funzioni di primo intervento, oltre che
di monitoraggio e di allerta, gestionali e organizzativi, ma mai tecnici in
quel senso proprio di cui agli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della legge
n. 241 del 1990.
11. Concludendo sul primo quesito, la Sezione ritiene che in linea di
massima debba escludersi una competenza comunale idonea a legittimare la
proposizione dell’opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n.
241 del 1990, ma che tale possibilità non possa essere esclusa a priori con
assoluta certezza, residuando comunque la possibilità che essa possa trovare
il suo fondamento in attribuzioni o deleghe di funzioni di tutela ad opera
di leggi statali o regionali settoriali. Con l’ulteriore corollario
conclusivo per cui codesta Presidenza, pur nell’ambito delle coordinate
interpretative generali qui fornite, tendenzialmente negative di una
siffatta competenza comunale, dovrà in ogni caso, riguardo al singolo affare
concreto, svolgere una puntuale disamina sulla legislazione settoriale e
regionale applicabile alla fattispecie.
12. Con il secondo quesito specifico codesta Presidenza ha domandato, con
particolare riguardo al procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione
integrata ambientale (A.I.A.), se valgano le eventuali stesse limitazioni
sopra dette oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le
amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa
ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata
disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
13. Più nel dettaglio codesta Presidenza ha osservato che, ai sensi
dell’art. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice
dell'ambiente), nel combinato disposto con gli artt. 216 e 217 del testo
unico delle leggi sanitarie, la posizione del Comune in seno alla conferenza
preordinata al rilascio della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.)
appare “connotata da elementi di una certa particolarità”, poiché è
previsto (comma 6 dell’art. 29-quater) che siano acquisite nell'ambito della
conferenza dei servizi “le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216
e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265” e che (comma 7) “In presenza
di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione
di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario
nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato
provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da
puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all’autorità
competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo
29-octies”.
14. Anche rispetto a questa tematica specifica, come riferisce la
Presidenza, si sarebbero proposte due soluzioni alternative, l’una
affermativa della piena legittimazione delle amministrazioni comunali a
sollevare, sempre e comunque, il ridetto strumento dell’opposizione ai sensi
dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, dal momento che il
Sindaco agirebbe come autorità sanitaria ai sensi e per gli effetti di cui
ai citati artt. 216 e 217 del testo unico leggi sanitarie del 1934, l’altra,
invece, tendente a configurare questa ipotesi come eccezionale e comunque
limitata al potere di richiedere “determinate cautele”, senza il
potere di “preventiva inibitoria”, limitata dunque a un parere sul
quomodo, mediante l’indicazione di specifiche modalità o misure ritenute
necessarie per la tutela della salute dei residenti, con esclusione del
dissenso sull’an, ossia del potere di opporre veti assoluti sulla
fattibilità in sé del singolo impianto.
15. Osserva al riguardo la Sezione che il caso specifico sottoposto a parere
con il secondo quesito rappresenta un esempio applicativo degli indirizzi
sopra formulati e può agevolmente risolversi alla stregua di tali criteri
interpretativi: ai fini della “legittimazione” a proporre
l’opposizione non basta una qualsiasi attribuzione di funzioni di tutela
ambientale e sanitaria, ma occorre una particolare attribuzione di
competenza, caratterizzata altresì da quelle connotazioni tecniche e
specialistiche evincibili dal parallelo tra il testo dell’art. 14-quinquies
e quello dell’art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990.
L’esame delle norme recate dagli artt. 29-quater del decreto legislativo n.
152 del 2006 e 216-217 del testo unico delle leggi sanitarie dimostra, alla
luce della condivisibile prospettazione operata da codesta Presidenza delle
modifiche normative successivamente intervenute, che le competenze
attribuite dalle suddette disposizioni al Sindaco del Comune nel cui
territorio ricade l’insediamento di un’industria insalubre non presentano
più le suddette caratterizzazioni di specificità e tecnicità, tali da
renderle idonee a legittimare all’opposizione ex art. 14-quinquies in esame.
Rispetto ad esse, infatti, da un lato opera la prevalenza della competenza
tecnica rimessa dalla norma speciale all’autorità decidente o ad altre
autorità tecniche chiamate ad esprimersi in sede di conferenza di servizi
(ARPA, ASL, Vigili del fuoco, etc.), dall’altro lato opera la delimitazione
introdotta dalla disciplina speciale della procedura di A.I.A. contenuta nel
così detto “codice ambiente” del 2006, che comporta necessariamente
l’esclusione che la conclusione favorevole della conferenza di servizi,
basata sui pareri tecnici favorevoli, possa essere impedita dal dissenso del
Sindaco, espresso in base all’art. 216 del ripetuto testo unico del 1934.
16. Vengono in rilievo, sotto questo profilo, da un lato il già
citato art. 19 del TUEL, nella parte in cui, come si è visto ai par. 8.4 e
10.4, chiarisce che le funzioni amministrative generali spettanti al Comune
sono da valere salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze;
dall’altro lato l’art. 14-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, che non
consente logicamente di ipotizzare come ancora applicabile un potere
inibitorio del Sindaco, ammettendo solo eventuali poteri di richiedere
prescrizioni e il riesame successivo dell’A.I.A. in caso di sopravvenienze e
di emissioni ritenute insalubri che si discostino dai valori e dai parametri
approvati.
17. I commi 6 e 7 del citato art. 14-quater prevedono, rispettivamente, che
“Nell'ambito della Conferenza dei servizi di cui al comma 5, vengono
acquisite le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del
regio decreto 27.07.1934, n. 1265, etc.” e che “In presenza di
circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di
cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario
nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato
provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da
puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all'autorità
competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo
29-octies”.
Appare dunque evidente che, sotto il primo profilo (comma 6), la
partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi non può assumere
carattere ostativo della (eventuale) conclusione favorevole (che deve
fondarsi evidentemente sui pareri e sugli altri atti di assenso tecnici
delle amministrazioni preposte in modo specifico e ordinario alla tutela
ambientale e sanitaria), ma deve limitarsi a richiedere le prescrizioni di
cui agli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie; e che, sotto
il secondo profilo (comma 7), il Sindaco non ha più il potere di inibire
successivamente la prosecuzione dell’attività, ma può solo, a fronte di
circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione,
chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione.
18. In tal senso paiono condivisibili le conclusioni prospettate da codesta
Presidenza, che mostra di aderire alla tesi restrittiva, secondo la quale “non
sembra essere ulteriormente consentita neppure la "successiva inibitoria" ex
art. 217, primo comma, TULS, ma soltanto la "richiesta di riesame" del
provvedimento AIA già rilasciato”, poiché il potere del Sindaco di cui agli
artt. 216 e 217 del r.d. n. 1254 del 1934 “sembra essere stato ridisegnato o
meglio fortemente ridimensionato dalla stessa normativa in tema di AIA”,
essendo passato “da un potere misto di "preventiva inibitoria" e
"determinate cautele" da impartire (art. 216, sesto comma, TULS, cit.) ... a
sole prescrizioni (ossia quelle che prima erano considerate le "determinate
cautele")”, nonché da un potere di "successiva inibitoria" ex
art. 217, primo comma, TULS, a un potere di "richiesta di riesame"
del provvedimento AIA già rilasciato.
Risultano condivisibili le indicazioni in tal senso provenienti dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamate nella richiesta di
parere (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612), secondo le quali il
Comune non possiede né strumenti, né competenze per accertare “in proprio”
le condizioni sanitarie di una industria insalubre ed è tenuto ad attenersi
alle prescrizioni dell'autorità sanitaria, pena lo stravolgimento
dell'ordine delle competenze.
19. Non sembra, invece, condivisibile la proposta conclusiva prospettata da
codesta Presidenza, riguardo alla tipologia di affari in esame, secondo la
quale “l'eventuale valutazione (negativa) espressa dalla amministrazione
comunale in difformità rispetto al parere (positivo) della ASL dovrebbe
essere analiticamente istruita e motivata, ai fini del riconoscimento della
legittimazione di cui in questa sede si discute, soprattutto in termini di
sicura inattendibilità della posizione manifestata dalla amministrazione
istituzionalmente competente alla tutela della salute”.
Una tale soluzione, oltre che di complessa e incerta applicazione pratica,
non pare persuasiva poiché anticipa al procedimento amministrativo quel
giudizio di legittimità, sotto il profilo del non eccesso di potere per
inattendibilità manifesta dell’esercizio della discrezionalità tecnica
dell’organo specialistico (nell’esempio, la ASL), che appartiene in realtà
al processo e al sindacato giurisdizionale sull’esercizio della funzione
dell’organo tecnico.
In sostanza, in un caso del genere, il Comune potrà se del caso agire
dinanzi al Tar, in forza della sua ampia legittimazione ad agire (di cui qui
si è detto nel par. 8.1), avverso la conclusione favorevole della conferenza
di servizi e il provvedimento di A.I.A. nella parte in cui abbiano acquisito
e condiviso un parere tecnico (nell’esempio, della ASL) in realtà affetto da
illegittimità per eccesso di potere per erroneo uso della discrezionalità
tecnica, ma non potrà logicamente per tali motivi essere ammesso a proporre
l’opposizione ex art. 14-quinquies di cui si discute. Un siffatto giudizio
di inattendibilità delle conclusioni cui è pervenuto l’organo tecnico,
dunque, non può essere rimesso a codesta Presidenza per essere usato come
criterio per decidere in sede amministrativa dell’ammissibilità o della
inammissibilità dell’opposizione comunale.
20. In conclusione, le amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla
tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è
riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art.
14-quinquies della legge n. 241 del 1990, devono identificarsi
–anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma
2, della stessa legge n. 241 del 1990- in quelle
amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza
diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad
esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela
dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione
non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di
cui all’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo
sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi
sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni
fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la
necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della
insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di
delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Qualificazione giuridica di
bosco – Nozione di bosco ai fini penali – AGRICOLTURA –
Lavori di bonifica agraria in area boschiva – BENI CULTURALI
ED AMBIENTALI – Trasformazione bosco a prato – Assenza della
autorizzazione paesaggistica – Rimessione in pristino dello
stato dei luoghi – D.lgs. n. 227/2001 – Art. 181 d.lgs. n.
42/2004.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs.
18.05.2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco –meritevole
di protezione ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004,
n. 42– ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea
associata o meno a quella arbustiva, da castagneti,
sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi
un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza
media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore
al 20 per cento (Sez.
3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 1874 del
16/11/2006, dep. 2007, Monni).
Le leggi regionali possono dettare una
diversa disciplina ai fini dell’individuazione delle zone
assoggettate a vincolo paesaggistico e classificate “bosco”
e, ai fini penali, tale nozione deve intendersi in senso
normativo e non naturalistico, in quanto finalizzata ad
evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive.
La disposizione normativa prende in considerazione le
caratteristiche di tutte le aree omogenee limitrofe a quelle
interessate dalla opere, e non solo queste ultime, giacché
in tal caso si potrebbero realizzare senza autorizzazione
interventi di modifica di territori aventi estensione
inferiore ai 2000 metri quadrati, ancorché limitrofi a più
ampie aree omogenee ed aventi copertura boschiva, ciò che la
normativa citata ha appunto voluto vietare
(Cass. Sez. 3, n. 28135 del 11/01/2012, Galluccio; Sez. 3,
n. 28928 del 18/05/2011, Sardu) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1.- Edilizia ed Urbanistica – “volume utile” – nozione – rilievo ai fini
edilizi e paesaggistici – differenza.
La nozione di superficie e volume utile rilevante a fini
urbanistici deve considerarsi esclusivamente in relazione all’estensione dei
diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume
percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile
nell'insieme paesistico: ne consegue che un volume irrilevante ai fini
urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale,
classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene
data protezione al vincolo paesistico.
Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi
di qualsiasi natura, in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro
alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da
arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio
(massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
14. Nel merito il ricorso è infondato.
15. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente stante la
loro evidente connessione logica.
16. Il gravato provvedimento della Soprintendenza, cui correttamente si è
adeguata l’Amministrazione civica, come anticipato, ha ritenuto
insussistenti le condizioni di legge per procedere alla richiesta di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria limitatamente al pergolo ligneo a
giorno, al relativo pavimento, al muretto a parziale contorno e, infine, ai
telai in anticorodal.
17. Parte ricorrente, viceversa, ritiene in primis, che le opere in
questione non sarebbero soggette alla tutela paesaggistica, non costituendo
una nuova superficie utile ai sensi del DPR 31/2017, All. A) -lettere A19,
A10 e A12.
La Soprintendenza, poi, non solo non avrebbe rispettato l’obbligo
di comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990
espressamente richiamato dall’art. 146, comma 8, del D.lgs 42/2004, ma avrebbe
violato l’obbligo di puntuale istruttoria e motivazione del provvedimento.
Il parere della Soprintendenza, infine, risulterebbe in contrasto con le
valutazioni della Commissione Paesaggistica.
18. Le censure in questione non meritano favorevole apprezzamento.
19. Premesso che risulta incontestato che le opere insistano su area
sottoposta a vincolo paesaggistico (ex D.M del 01.08.1985, ex lett. a), comma
1, art. 142, del dlgs 42/2004 ed ex art. 38, comma 3, delle NTA del PPTR),
l'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede il possibile
accertamento postumo della compatibilità paesaggistica solo nei seguenti
tassativi casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria (art. 3 D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
T.U. Edilizia).
19.1. In tali ipotesi non rientrano le opere realizzate dal ricorrente dato
che la creazione della zona d’ombra a giorno realizzata con materiale ligneo
e sovrastante cannucciato, delimitata da un muretto e realizzata lungo il
lato sud del lotto di intervento, in adiacenza al trullo in uno alla
relativa pavimentazione, attesa l’effettiva e non irrilevante percettibilità
visiva –anche a distanza- dell’intervento e, soprattutto, la modifica
dell’originarie caratteristiche morfologiche dell’area (cfr. la
documentazione fotografica in atti), integrano certamente aumento di
superficie utile con conseguente obbligo di rimozione ex art. 167 Dlgs
42/2004.
20. Al riguardo, infatti, non rileva la circostanza che l’intervento
predetto non sia stato considerato dall’Autorità comunale preposta ai fini
urbanistici quale aumento di superficie.
20.1. La nozione di superficie e volume utile, infatti, rilevante a fini
urbanistici viene considerata esclusivamente in relazione all’estensione dei
diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume
percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile
nell'insieme paesistico (conforme, TAR Firenze, sez. III, 22/02/2019, n. 276)
Ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un
ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in
base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo
paesistico. Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le
superfici e i volumi di qualsiasi natura, “in quanto rileva la loro
percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà
preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di
tutela del paesaggio” (ex multis, TAR Friuli Venezia Giulia, 31/05/2019 n.
239).
21. D’altra parte, l’Amministrazione ha correttamente e dettagliatamente
motivato in ordine all’incidenza dell’intervento progettato dal punto di
vista paesistico, precisando che la zona d’ombra a giorno va a modificare
l’originaria conformazione morfotipologica del trullo in pietra,
“identificato nella sua preesistenza come elemento isolato e ben
percettibile esternamente su tutti i lati e pertanto tipologicamente
compromesso dalla presenza della suddetta struttura lignea, che, tra l’altro
non risulta essere allineata né orizzontalmente né verticalmente ai
preesistenti gradoni lapidei conformanti la costruzione originaria”.
22. In riferimento, invece, alla realizzazione del pavimento in gres
(ceramica), al muretto di calcestruzzo sagomato e ai telai in anticorodal
(alluminio), a dispetto delle valutazioni effettuate dalla Commissione
locale per il paesaggio (il cui parere, tuttavia, è consultivo e non esplica
alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, cfr.
TAR Campania, Napoli sez. III, 03/09/2018 n. 5317), dalla documentazione
fotografica versata in atti se ne desume l’immediata percettività e la
natura paesaggisticamente impattante degli stessi perché composti da
materiali non tradizionali e diversi rispetto a quelli tipici dei luoghi.
23. Per quanto sopra, non può trovare applicazione alla fattispecie in esame
l’Allegato A del DPR 31/2017 ove sono indicati gli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica.
23.1. Quanto al pavimento in gres, la lettera A10 dell’Allegato A al dpr
31/2017, sebbene riguardi opere di manutenzione ed adeguamento di spazi
esterni, limita, tuttavia, l’esclusione dall’autorizzazione paesaggistica ad
opere diverse da quelle realizzate nel caso in esame (manufatti esistenti,
quali marciapiedi, banchine stradali, aiuole, componenti di arredo urbano),
e in ogni caso eseguite “nel rispetto delle caratteristiche morfo-tipologiche, dei materiali e delle rifiniture preesistenti e dei
caratteri tipici del contesto locale”, che l’utilizzo del gres (più
precisamente ceramica, come indicato nella relazione allegata all’istanza di
accertamento di conformità), non è idoneo a garantire.
23.2. Inconferente è poi il richiamo alla disposizione contenuta nella
lettera A12 in considerazione della modifica non insignificante degli
assetti planimetrici e vegetazionali esistenti in precedenza.
23.3. Neppure il pergolato, delimitato da un muretto (ove in sede di
sopralluogo disposto dal Comune di Manfredonia è stata riscontrata la
presenza di un piano di lavoro su cui sono posizionati un lavello e una
cucina) può farsi rientrare nella disciplina della lettera A 19 dell’allegato A al dpr 31/2017, riferendosi tale ultima disposizione
esclusivamente ai pergolati realizzati in legno per il ricovero di attrezzi
agricoli (là dove, al contrario, il ricorrente ha dichiarato l’utilizzazione
dello stesso per la preparazione del cibo) e ancorati al suolo senza opere
di fondazione o opere murarie (mentre nel caso in esame, è stato realizzato
un muretto con anima di calcestruzzo in funzione di chiusura del pergolato).
23.4. Le connotazioni strutturali del muretto, peraltro, determinano
l’inapplicabilità del procedimento autorizzatorio semplificato previsto per
gli interventi di lieve entità di cui Allegato B, lettera B21, del citato dpr
31/2017, che si riferisce, invece, precipuamente alla diversa ipotesi dei
muri di cinta o di contenimento del terreno.
23.5. In ogni caso, le singole opere realizzate non possono essere
isolatamente considerate, ma deve effettuarsi una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione ai fini della
corretta tutela del paesaggio (conforme, TAR Napoli, sez. VI, 12/05/2016,
n. 2433).
Il che conduce ad escludere che la zona d’ombra (pergolato e opere
connesse) possa essere ritenuta irrilevante sul piano della tutela
paesaggistica e della modifica dell'assetto del territorio ovvero che possa
essere ricompreso sotto lo scudo degli interventi di minima importanza di
cui all’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, proprio nella considerazione
delle significative modifiche all’originario assetto del territorio che
l’intervento oggetto di causa ha effettivamente prodotto (TAR Napoli,
sez. II, 16/07/2019, n. 3917).
24. Ne deriva l'infondatezza di ogni ulteriore doglianza articolata in
ricorso, non potendosi ritenere, per le ragioni anzidette, il provvedimento
della Soprintendenza impugnato ed il conseguenziale atto comunale, affetti
da illogicità o da insufficienza motivazionale. Sicché, la carica ostativa
prodotta dal richiamato art. 167, comma 4 rende del tutto ininfluente
l’indicazione da parte del ricorrente della possibile parziale utilizzazione
di materiali diversi rispetto a quelli originariamente previsti in progetto
(rimozione dei telai in anticorodal e rivestimento del muretto con materiale
diverso dal cemento).
25. Né coglie nel segno la lamentata violazione da parte della
Soprintendenza delle garanzie partecipative: trattandosi, infatti, di
attività vincolata, in quanto le opere realizzate non rientrano nelle
ipotesi dei commi 4 e 5 dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 il provvedimento emanato
non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto
adottato, con conseguente operatività dell’art. 21-octies L. 241/1990
(Consiglio di Stato sez. IV, 03/09/2019, n. 6073).
Tanto più che l’art. 167 dlgs 42/2004, sulla cui base è stato richiesto dal ricorrente l’accertamento
ex post di conformità paesaggistica, -a differenza della diversa ipotesi
disciplinata dall’art. 146, comma 8, Dlgs 42/2004- non prevede a carico della
Soprintendenza la comunicazione di preavviso di rigetto, che, invece,
spetta, piuttosto, al termine del procedimento, all’autorità competente alla
gestione del vincolo paesaggistico ai fini accertamento della compatibilità
paesaggistica (ex art. 167, comma 5, dlgs 42/2004), e la cui violazione non è
stata lamentata nel caso in esame.
26. Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 15.09.2019 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
luglio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza
paesistica dell’opera.
Ad escludere la
rilevanza paesistica dell’opera non può
considerarsi sufficiente il requisito della
poca visibilità dalla strada pubblica a
fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di
compatibilità la nozione di “visibilità”
dell'opera nel contesto paesaggistico
tutelato non può ritenersi limitata a
particolari punti di osservazione, ma deve
riguardare l'apprezzamento puntuale e
concreto dell'effettiva compatibilità
dell'intervento e di tutti gli elementi che
ne determinano l’impatto paesaggistico, con
i valori ambientali propri del sito
vincolato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
9. Venendo al terzo motivo del
ricorso per motivi aggiunti, deve escludersi
l’affidamento, per le motivazioni già
indicate in precedenza: irrilevanza
dell’assenso espresso nell’esame paesistico
del progetto perché è un procedimento
diverso dall’autorizzazione paesistica ed
irrilevanza del tempo trascorso perché la
DIA non ha mai prodotto effetto in mancanza
della richiesta dell’autorizzazione
paesistica.
10. Per quanto riguarda la supposta
irrilevanza paesistica dell’opera, in quanto
il sottotetto non sarebbe visibile dalla
strada (oggetto del terzo motivo di ricorso
principale e del quarto per motivi
aggiunti), la giurisprudenza ha chiarito che
ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente
il requisito della poca visibilità dalla
strada pubblica a fronte del principio,
ormai consolidato, secondo cui ai fini della
valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità”
dell'opera nel contesto paesaggistico
tutelato non può ritenersi limitata a
particolari punti di osservazione, ma deve
riguardare l'apprezzamento puntuale e
concreto dell'effettiva compatibilità
dell'intervento, e di tutti gli elementi che
ne determinano l’impatto paesaggistico, con
i valori ambientali propri del sito
vincolato (cfr. TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 1819; Cons. Stato,
sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id.,
10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002,
n. 5881).
Nel caso di specie è chiaro il fatto che
l’innalzamento della copertura per una sua
parte ha alterato l’aspetto esteriore
dell’edificio e che tale modifica, incidendo
sulla facciata del fabbricato, è visibile
quanto meno dagli edifici posti di fronte e
sui lati, quindi si presenta idonea a
modificare il paesaggio.
Né, evidentemente, la similarità della
copertura a quella di altre costruzioni
della zona di per sé determina il corretto
inserimento ambientale del manufatto, in
quanto –una volta accertato che la
variazione c’è stata– il giudizio di
compatibilità è poi in concreto rimesso
all’Autorità amministrativa a ciò
competente, sempre chE sussistano i
requisiti espressamente previsti dalla legge
per l’avvio del procedimento di sanatoria. |
EDILIZIA PRIVATA:
La richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il
giudizio positivo espresso dalla Commissione
urbanistica comunale integrata non sono
equipollenti dell’autorizzazione paesistica
in quanto attengono ad immobili che non sono
soggetti a vincolo paesistico.
---------------
La
giurisprudenza amministrativa ha affermato
che, in presenza di zona vincolata, si
impone la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica e che
l’assenza della stessa rende doverosa
l’applicazione della sanzione demolitoria,
tenuto conto che non può attribuirsi alcun
rilievo all’inoltro di una previa DIA,
poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela
del vincolo, è da ritenersi priva di effetti
ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U.
Edilizia.
Né tanto meno deve ritenersi necessario che,
in presenza di un vincolo paesistico,
l’amministrazione debba motivare l’ordine di
demolizione con riferimento alla mancanza di
autorizzazione, dando compiutamente conto
delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei
luoghi.
Infatti la giurisprudenza, alla
quale il Collegio si conforma, afferma che
in presenza di un illecito paesaggistico,
l’ordine di demolizione di un’opera edilizia
abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né infine una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale
alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.
Come è stato
ulteriormente precisato, il fatto che
l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico identifica per ciò solo un
preminente interesse pubblico,
costituzionalmente rilevante ex art. 9,
comma 2, Cost., rispetto al quale
l'interesse privato è necessariamente
recessivo.
---------------
2. Venendo al secondo motivo di
ricorso esso è infondato in quanto risulta
dagli atti che la DIA presentata dal
ricorrente Pe. su delega del
proprietario Sc. non reca alcuna
indicazione dell'esistenza del vincolo
paesistico gravante sull’immobile.
In merito occorre precisare che la richiesta
dell’esame dell'impatto paesistico ed il
giudizio positivo espresso dalla Commissione
urbanistica comunale integrata non sono
equipollenti dell’autorizzazione paesistica
in quanto attengono ad immobili che non sono
soggetti a vincolo paesistico. Infatti ai
sensi dell’art. 35 delle Norme di Attuazione
del Piano Territoriale Paesistico Regionale
(P.T.P.R.) approvato con d.C.R. 06.03.2001,
n. 43749 nelle aree assoggettate a specifica
tutela paesaggistica di legge, la procedura
preordinata al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica di cui all’articolo 146 del
d.lgs. 42/2004, e succ. mod. ed int.,
sostituisce l’esame paesistico.
Ne consegue che tale atti non sono idonei a
fondare l’affidamento del privato nella
formazione di un titolo paesistico per la
differenza di oggetto e di procedura.
Né tanto meno può ritenersi formato un
affidamento fondato sul mancato controllo
della DIA per diversi anni, non essendo, il
titolo edilizio, mai divenuto efficace.
Infatti più volte la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che, in presenza
di zona vincolata, si impone la previa
acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica e che l’assenza della stessa
rende doverosa l’applicazione della sanzione
demolitoria, tenuto conto che non può
attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
previa DIA, poiché essa, in mancanza del
prescritto parere dell’autorità preposta
alla tutela del vincolo, è da ritenersi
priva di effetti ai sensi dell’art. 23,
comma 3, T.U. Edilizia (ex plurimis
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza
04/01/2019 n. 56).
Né tanto meno deve ritenersi necessario che,
in presenza di un vincolo paesistico,
l’amministrazione debba motivare l’ordine di
demolizione con riferimento alla mancanza di
autorizzazione, dando compiutamente conto
delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei
luoghi.
Infatti la giurisprudenza (TAR Piemonte,
Sez. II, sentenza 17.04.2014 n. 642) alla
quale il Collegio si conforma, afferma che
in presenza di un illecito paesaggistico,
l’ordine di demolizione di un’opera edilizia
abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né infine una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale
alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.
Come è stato
ulteriormente precisato, il fatto che
l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico identifica per ciò solo un
preminente interesse pubblico,
costituzionalmente rilevante ex art. 9,
comma 2, Cost., rispetto al quale
l'interesse privato è necessariamente
recessivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 -
link a www.giustizia-amministrativa). |
giugno 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
E’ principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per
cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione
della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo
edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe
necessario per la realizzazione delle stesse.
Ciò in quanto le opere realizzate in aree
vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in
totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali.
---------------
6.
Per ragioni di ordine logico il Collegio ritiene di dover procedere
preliminarmente all’esame del terzo motivo del ricorso n. 363/2017, con cui
la ricorrente impugna il diniego di autorizzazione paesaggistica. Tale
censura ha carattere assorbente rispetto a quelle formulate nel primo e nel
secondo motivo di ricorso, entrambe rivolte a contestare l’applicabilità
della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 DPR 380/2001, in ragione della
natura della opere realizzate.
E’, infatti, principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per
cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione
della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo
edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe
necessario per la realizzazione delle stesse (ex multis Cons. Stato
Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874). Ciò in quanto le opere realizzate in aree
vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in
totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio,
prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica,
i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
---------------
Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che seguono.
Come esposto in fatto l’oggetto del presente giudizio verte sulla
legittimità, contestata sotto più profili dal ricorrente, del provvedimento
di diniego ad istanza di condono assunto dal Comune di Colognola ai Colli, a
fronte della realizzazione, in assenza di alcun titolo, dell’intervento
edilizio sopra meglio descritto.
Con le prime censure, il ricorrente deduce il vizio di violazione dell’art.
32, co. 27, lett. d), legge 326/2003 e della legge regionale Veneto 21/2004,
contestando la circostanza che il diniego non ha tenuto in debito conto il
nulla osta paesaggistico previsto dall’art. 7 della L. n. 1497/1939,
rilasciato dalla Provincia di Verona.
Il Collegio ritiene priva di fondamento tale asserzione, in quanto tale atto
di per sé non è sufficiente ad abilitare alla realizzazione di opere,
essendo contestualmente necessario un titolo edilizio.
Il sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio,
prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica,
i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino. Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori
non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo
paesaggistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001.
---------------
5) Con il terzo motivo e il quarto motivo, il ricorrente sostiene che la DIA
03/09/2012 si sarebbe consolidata per effetto del mancato esercizio del potere
inibitorio comunale.
In ogni caso, la mancanza del titolo paesaggistico non avrebbe comportato
l’inefficacia della DIA, ma soltanto la sua “annullabilità” e non risulta
che sia stato adottato alcun provvedimento in autotutela da parte del Comune
di Loano.
L’esponente dubita anche dell’effettiva esistenza di un vincolo gravante
sull’area di intervento, la cui natura non è stata individuata nel contesto
dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Tali rilievi non colgono nel segno.
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo
paesaggistico, infatti, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001 (cfr., fra le ultime, TAR Campania, Napoli,
sez. III, 28.11.2018, n. 6897).
L’intervento indicato nella DIA inefficace, pertanto, è stato correttamente
sanzionato con la demolizione in quanto realizzato in mancanza del titolo
abilitativo obbligatorio.
Gli ulteriori rilievi inerenti all’effettiva sussistenza del vincolo hanno
carattere congetturale e perseguono finalità essenzialmente esplorative: in
quanto tali, essi non possono trovare ingresso nel presente giudizio.
Ha chiarito la difesa comunale, comunque, che l’area oggetto di intervento è
assoggettata a vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. c), del
d.lgs. n. 42 del 2004, poiché compresa nella fascia di 150 metri dall’alveo
del torrente Nimbalto, iscritto nell’elenco delle acque pubbliche della
Provincia di Savona
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Soprintendenza è onerata, alla luce dei canoni di leale collaborazione e
proporzionalità, a proporre soluzioni alternative per l'esecuzione
dell'intervento edilizio richiesto dal cittadino.
A quest’ultimo riguardo:
(b) gli errori edificatori del passato non possono essere
bilanciati mediante una sorta di compensazione intertemporale, bloccando
tutte le innovazioni dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile
presumere che qualsiasi edificazione abbia un impatto negativo sul
territorio, come se l’esistente trattenesse valori paesistici che sarebbero
irrimediabilmente perduti per il solo fatto che vengano realizzate nuove
opere. Ogni nuovo progetto deve invece essere valutato in concreto per
stabilirne la compatibilità con il vincolo paesistico, utilizzando la
prospettiva ideale di un osservatore che descrive uno scenario dove sono
percepibili molti elementi connessi tra loro in modo coerente;
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili
criticità o dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la
valutazione paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio
giudizio attraverso prescrizioni limitative o mitigative. È infatti
prioritario stabilire se, con differenti modalità costruttive o con una
diversa scelta di materiali e colori, ovvero con schermature vegetali o
interventi di ingegneria naturalistica, sia possibile diluire e confondere
il significato delle nuove opere nella visione d’insieme. Un giudizio
completamente negativo può essere espresso solo dopo aver scartato queste
ipotesi intermedie.
---------------
I ricorrenti censurano i provvedimenti della Soprintendenza e della Comunità
montana, che hanno rigettato l’istanza per la realizzazione di una nuova
rimessa interrata.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Sotto il primo profilo, la relazione paesaggistica attesta che sul
versante la vegetazione non è particolarmente fitta, e che la percettibilità
da Via Coste è limitata e marginale (cfr. materiale fotografico doc. 11,
individuato nella narrazione in fatto).
La foto-simulazione delle pagine 13 e 14 restituisce in effetti un’incidenza
sullo stato dei luoghi di non particolare rilievo, tenuto conto dei muri di
contenimento già esistenti lungo via Coste, cosicché il giudizio negativo
per “perdita materica e testimoniale” della storia del piccolo ambito
non appare allineato con l’effettiva interferenza (anche visiva) dell’opera
rispetto al contesto in cui si inserirebbe.
Sul punto, la Soprintendenza non produce alcun documento (fotografia o altra
rappresentazione utile alla scopo), né chiarisce in concreto come possono
evincersi l’impatto del manufatto in progetto e la sua seria percettibilità
dalle strade all’intorno (in particolare da Via Coste).
Ferma la potestà attribuita dal legislatore all’autorità preposta alla
tutela del vincolo, si rivela indispensabile una riedizione del potere che
prenda in considerazione, in modo puntuale, lo stato dei luoghi e le
caratteristiche dell’intervento quale rappresentato nel progetto e
illustrato con il materiale fotografico, salvi ulteriori approfondimenti.
2. Acquista altresì rilevanza, ai fini di un giudizio d’insieme, il contesto
circostante, caratterizzato da un limitrofo complesso residenziale edificato
alla fine degli anni 80 del secolo scorso e da un’area in costruzione a fini
residenziali, come da rappresentazione fotografica del 22/05/2014 (doc. 15)
e del 09/01/2015 (doc. 16).
E’ ben vero che una situazione paesaggistica compromessa o seriamente incisa
non giustifica ulteriori interventi dannosi per l’ambiente, e pur tuttavia
l’autorità preposta deve illustrare in modo esauriente i connotati dei
luoghi e motivare una decisione sfavorevole malgrado la presenza di
un’edificazione diffusa.
3. Se la parte ricorrente ha offerto solide argomentazioni (ed elementi
probatori) a sostegno della scarsa visibilità e incidenza dell’intervento,
l’amministrazione non ha suggerito (pur essendone onerata alla luce dei
canoni di leale collaborazione e proporzionalità) soluzioni alternative per
la sua esecuzione.
A quest’ultimo riguardo, può essere richiamata la recente sentenza di questa
Sezione 08/06/2018 n. 552, che a sua volta ha evocato il precedente
09/02/2016 n. 228 (che risulta oggetto di appello), secondo il quale <<(b)
gli errori edificatori del passato non possono essere bilanciati mediante
una sorta di compensazione intertemporale, bloccando tutte le innovazioni
dello stato dei luoghi. Parimenti, non è possibile presumere che qualsiasi
edificazione abbia un impatto negativo sul territorio, come se l’esistente
trattenesse valori paesistici che sarebbero irrimediabilmente perduti per il
solo fatto che vengano realizzate nuove opere. Ogni nuovo progetto deve
invece essere valutato in concreto per stabilirne la compatibilità con il
vincolo paesistico, utilizzando la prospettiva ideale di un osservatore che
descrive uno scenario dove sono percepibili molti elementi connessi tra loro
in modo coerente (v. TAR Brescia Sez. I 08.01.2015 n. 14);
(c) qualora in un progetto siano effettivamente ravvisabili criticità o
dettagli potenzialmente dissonanti, l’autorità che effettua la valutazione
paesistica è tenuta in primo luogo a graduare il proprio giudizio attraverso
prescrizioni limitative o mitigative. È infatti prioritario stabilire se,
con differenti modalità costruttive o con una diversa scelta di materiali e
colori, ovvero con schermature vegetali o interventi di ingegneria
naturalistica, sia possibile diluire e confondere il significato delle nuove
opere nella visione d’insieme. Un giudizio completamente negativo può essere
espresso solo dopo aver scartato queste ipotesi intermedie>>.
4. In conclusione, la pretesa avanzata merita apprezzamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente come
un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile si
rivolge verso il paesaggio circostante.
L’estensione del vincolo monumentale alle aree esterne deve essere
espressamente disposta da un provvedimento che crei un vincolo indiretto ex
art. 45 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul
paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando
l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale.
Un simile diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della
fruizione del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a
carico di tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento
successivo.
---------------
Sulle conseguenze paesistiche del progetto di ampliamento
23. Passando al progetto di ampliamento del porto turistico, la tesi del
ricorrente è in sostanza che le nuove opere inciderebbero negativamente sia
sul vincolo paesistico relativo alla sponda bresciana del lago di Iseo sia
sul pregio monumentale di Villa Mazzucchi. Gli argomenti proposti non sono
però condivisibili.
24. In primo luogo, è necessario evitare equivoci e sovrapposizioni tra la
tutela paesistica e la tutela monumentale.
Il vincolo monumentale su uno specifico immobile non opera automaticamente
come un vincolo paesistico a beneficio della vista che dal suddetto immobile
si rivolge verso il paesaggio circostante. L’estensione del vincolo
monumentale alle aree esterne deve essere espressamente disposta da un
provvedimento che crei un vincolo indiretto ex art. 45 del Dlgs. 22.01.2004
n. 42.
Al di fuori di questa ipotesi, non esiste alcun diritto di prevenzione sul
paesaggio a favore di chi ha edificato per primo, neppure quando
l’edificazione abbia prodotto un bene di interesse culturale. Un simile
diritto di prevenzione privatizzerebbe di fatto una parte della fruizione
del paesaggio, trasformandosi in un divieto di edificazione a carico di
tutti coloro che chiedono un titolo edilizio in un momento successivo.
25. A favore di Villa Mazzucchi non è stato disposto un vincolo indiretto
sulla sponda del lago, e tanto meno sul lago stesso, e dunque il
proprietario dell’immobile non ha un’aspettativa a opporsi con successo, per
un interesse proprio, agli strumenti urbanistici e alle concessioni
demaniali che consentono l’occupazione di una maggiore superficie lacuale
per l’ampliamento del porto turistico.
Una tutela è invece possibile entro limiti più ristretti, ossia qualora
venga fornita la dimostrazione che le nuove opere potrebbero alterare in
modo rilevante, non per un singolo proprietario ma per tutti gli osservatori
collocati in punti accessibili al pubblico, lo scenario sottoposto a vincolo
paesistico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 467 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.
Severini,
L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio
(13.05.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Zona paesaggisticamente vincolata - Interventi che incidono
sull'aspetto esteriore degli edifici - Natura di reato di
pericolo - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione
Art. 181 d.lgs. 42/2004.
Il reato di pericolo previsto dall'art.
181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della
sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato
(Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299
del 15/01/2013, Simeon e a.), tali
certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto
esteriore degli edifici
(Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it). |
gennaio 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi
in zona vincolata - Permesso di costruire e autorizzazione
paesaggistica - Necessità - Art. 167 e 181 D.Lgs. n.
42/2004.
La realizzazione di una piscina
interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano
il previo rilascio del permesso di costruire nonché
dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di
accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi
dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 in quanto hanno
determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare
la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi
come intervento di nuova costruzione non suscettibile di
accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del
D.Lgs. n. 42/2004).
...
Intervento edilizio - Piscina interrata e pertinenze -
Valutazione unitaria delle opere - Artt. 3, 10, 11, 44,
d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze
(Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini
generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363).
Nella fattispecie, anche per una piscina
interrata e i locali annessi dal momento che modifica in
modo permanente il suolo, è necessario il permesso di
costruire (Cass.
pen. sez. III 27.01.2004, n. 6930) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere
che comportano la trasformazione permanente del suolo inedificato
necessitano del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380
del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi
di nuova costruzione".
Tali interventi, come è noto,
sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera
e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano
la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è
annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso
nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e),
la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo
dell'avverbio "comunque").
---------------
E' pacifico che la realizzazione di una piscina crea un
aumento di volumetria. Invero, la realizzazione
di una piscina interrata e di locali annessi in zona
vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di
costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non
sono suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004
in quanto hanno determinato la creazione di nuova
volumetria.
In particolare la realizzazione di una piscina
interrata deve qualificarsi come intervento di nuova
costruzione non suscettibile di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n.
42/2004).
---------------
7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa,
peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le
ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le
identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per
cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione
del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al
comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici
di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma
primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della
Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola
sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda
dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come
oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non
si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta
in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità
degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come
inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della
Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze
processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini
della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia
necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus
anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è
necessaria per le opere interne, che non sono neppure
astrattamente idonee a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di
destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede
ricordare come non è prospettabile una valutazione
atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi
facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di
realizzazione di una determinata complessiva opera,
risultante priva di titolo
(cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza
29.05.2018 n. 3545: "Ne consegue che non
è ammissibile una loro considerazione astratta ed
atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una
valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità"; detto principio è
enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa
Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze:
Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini
generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali
contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo,
consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq
costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del
fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura
di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina
interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del
fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una
valutazione unitaria, è evidente che dette opere
comportassero la trasformazione permanente del suolo
inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380
del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi
di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto,
sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera
e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano
la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è
annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso
nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e),
la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo
dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di
tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un
superamento della "soglia" indicata dall'art. 181,
comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della
qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante
nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di
incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione
degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non
certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita
alla piscina (che, considerate le sue dimensioni,
determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è
assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che
sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la
piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con
superficie tutt'altro che modesta), conducevano
necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di
appello, essendo pacifico che anche la
realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria
(v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep.
22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza
amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n.
1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che
espressamente afferma come la realizzazione
di una piscina interrata e di locali annessi in zona
vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di
costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non
sono suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004
in quanto hanno determinato la creazione di nuova
volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina
interrata deve qualificarsi come intervento di nuova
costruzione non suscettibile di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n.
42/2004) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913). |
anno 2018 |
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dicembre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso in cui il permesso di costruire è
rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non
necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la
stessa è necessaria, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l'intervento.
In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo.
---------------
Nulla di tutto ciò, evidentemente, è dato ravvisare
nell'ordinanza di demolizione gravata nel presente processo,
sicché si ritiene fondata la censura articolata da parte
ricorrente.
A conferma di quanto appena affermato può riportarsi un
precedente del TAR Veneto, Sez. II, 07/11/2018, n. 1033,
che, in un caso simile, ha disposto che “Nel caso in cui
il permesso di costruire è rilasciato dal Comune
sull'erroneo convincimento della non necessità
dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è
necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma
illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto
dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda
pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in
essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio
che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l'intervento. In un tale contesto l'Amministrazione non può
pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione
senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in
ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità
paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata
scriminante relativamente all'attività edilizia posta in
essere in senso conforme al titolo” (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.12.2018 n. 1799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2018 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'applicazione del punto A.31. dell'Allegato
A del d.P.R. 31/2017. Traslazione dell'area di sedime - Comune di Marino
(Regione Lazio,
nota 09.11.2018 n. 705371 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per ragioni di carattere
testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è
stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione
dell’assenza di un vincolo paesaggistico, l’autorizzazione
paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia–
condizione di validità del permesso di costruire.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie
difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica il permesso di costruire rilasciato
antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si
riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato
rilasciato nella consapevolezza della necessità
dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di
affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a
che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo
paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs.
22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati
debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando
non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art.
159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto
legislativo per il quale, “i lavori non possono essere
iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è
stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un
titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a
legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad
affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato
radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa
previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria
per poter affermare la nullità degli atti amministrativi), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza, non è
accettabile perché “l'estensione della sanzione della
nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative
ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990
equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di
certezza del diritto pubblico.
Tranne queste ipotesi
tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave,
determina la annullabilità del provvedimento, con la
conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto
amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga
l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo
atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta
alla sua esecuzione”.
---------------
Con permesso di costruire n. 56 del 17.10.2009, la
ricorrente è stata autorizzata a realizzare un fabbricato
residenziale con annesso deposito agricolo nel territorio
del comune di Gazzo Veronese.
Il comune con ordinanza n. 4 del 16.03.2017, ha ingiunto la
demolizione e la riduzione in pristino dello stato dei
luoghi perché l’immobile è stato realizzato in area soggetta
a vincolo paesaggistico in assenza della necessaria
autorizzazione paesaggistica.
La sussistenza del vincolo paesaggistico è ricondotta
all’esistenza in prossimità dell’immobile di un corso
d’acqua denominato “Dugal Zimel” che ricade negli
appositi elenchi dei corsi d’acqua tutelati ai sensi
dell’art. 142, comma 1, lett. c), del Dlgs. 22.01.2004, n.
42, originariamente non rilevato dal Comune.
Tale provvedimento è impugnato per le seguenti censure:
...
III) violazione degli artt. 5, 20, 27 e 31 del DPR
06.06.2001, n. 380, e dell’art. 146 del Dlgs. 22.01.2004, n.
42, sotto altro profilo, perché non è corretta
l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica rende ex se da
sempre irreversibilmente inefficace il permesso di
costruire; il Comune pertanto avrebbe dovuto agire in
autotutela per rimuovere la validità del permesso di
costruire in base al quale è stato realizzato l’immobile;
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure,
che hanno carattere assorbente, di cui al terzo motivo.
Infatti la tesi del Comune secondo la quale il permesso di
costruire rilasciato senza autorizzazione paesaggistica
sarebbe nullo o inefficace non è condivisibile.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie
difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica il permesso di costruire rilasciato
antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si
riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato
rilasciato nella consapevolezza della necessità
dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di
affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a
che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo
paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs.
22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati
debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando
non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art.
159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto
legislativo per il quale, “i lavori non possono essere
iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è
stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un
titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a
legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo.
Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo
edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione
paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo
nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in
tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la
nullità degli atti amministrativi; cfr. ad esempio quanto
previsto dall’art. 5, comma 4, del testo originario del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, il quale, relativamente alla valutazione
di impatto ambientale, disponeva che “i provvedimenti di
autorizzazione o approvazione adottati senza la previa
valutazione di impatto ambientale, ove prescritta, sono
nulli”), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167), non è
accettabile perché “l'estensione della sanzione della
nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative
ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990
equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di
certezza del diritto pubblico. Tranne queste ipotesi
tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave,
determina la annullabilità del provvedimento, con la
conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto
amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga
l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo
atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta
alla sua esecuzione”.
Sotto tale profilo il Collegio, per ragioni di carattere
testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è
stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione
dell’assenza di un vincolo paesaggistico, aderisce pertanto
all’orientamento giurisprudenziale per il quale,
l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando
la sua autonomia– condizione di validità del permesso di
costruire (sul punto cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II,
17.12.2014, n. 3062 e i numerosi riferimenti
giurisprudenziali ivi richiamati).
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione adottata senza il
previo esercizio dei poteri di autotutela, nei confronti del
titolo edilizio in base al quale è stato realizzato
l’immobile rilasciato sul presupposto che quella determinata
porzione di territorio non fosse sottoposta ad alcun
vincolo, deve essere annullata per le assorbenti censure di
cui al terzo motivo (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2018 n. 1033 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004, al comma 4, statuisce che
“L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso
collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e
permesso di costruire) mediante un rapporto di
stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto
presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto
o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di
osservare che l'autorizzazione paesaggistica
costituisce requisito di efficacia del permesso di
costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica
si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento
di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua
efficacia”.
---------------
... per l'annullamento della determinazione n. 305 del
Funzionario del Settore 4 – Sviluppo del Territorio,
Urbanistica, Ambiente-Edilizia e Innovazione – del Comune di
Gallipoli datata 15/02/2018, notificata il 06.03.2018,
avente ad oggetto “Annullamento Autorizzazione
Paesaggistica n. 18/2010 del 05/01/2012 in esecuzione della
sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 – Spiaggia
Libera Attrezzata denominata “Sp.Cl.” in loc. “S. Giovanni
alla Pedata” – ditta C.R. legale rappresentante della
società Sp.Cl. srl” e contestuale ordinanza di rimozione
della struttura balneare nonché di tutti gli atti
preordinati, connessi e consequenziali a quello oggi
impugnato.
...
1. I fatti oggetto della odierna controversia sono i
seguenti.
La società Sp.Cl. S.r.l. è titolare di Concessione Demaniale
Marittima n. 12/2008 rilasciata dalla Capitaneria di Porto
di Gallipoli in data 10.04.2008 (rinnovo della precedente
concessione n. 19/2006) ed avente scadenza il 31.12.2013,
termine prorogato ex lege sino al 31.12.2020 in forza
del disposto di cui all’art. 1, comma 18, del D.L. n.
194/2009, convertito con legge n. 25/2010.
Con istanza del 05.10.2007, l’esponente ha chiesto al Comune
di Gallipoli il rilascio del titolo edilizio necessario per
il mantenimento, per l’intera durata della concessione
demaniale marittima, delle strutture funzionali all’attività
balneare, comunicando altresì di non avere apportato alcuna
variazione ai progetti già presentati al Comune di Gallipoli
e regolarmente autorizzati. Il tutto in forza del disposto
di cui all’art. 11, comma 4-quater e 4-quinques, della L.R.
Puglia n. 17/2006.
Con successiva istanza del 12.08.2009, ha chiesto il
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’uopo
necessaria.
Con nota del 20.01.2011 la S.B.A.P. delle Province di Lecce,
Brindisi e Taranto ha espresso parere contrario motivando
che: “[...] le opere di progetto consistenti nel
mantenimento annuale di strutture balneari, per dimensioni
planovolumetriche alterano il contesto naturalistico e
paesistico caratterizzato da litorale sabbioso con
vegetazione autoctona ostacolandone le visuali”.
Quindi, con provvedimento n. 18/2010 del 09.03.2011 il
Comune di Gallipoli ha negato l’autorizzazione
paesaggistica, condividendo il citato parere della
Soprintendenza.
Avverso il predetto provvedimento la Sp.Cl. s.r.l. ha
presentato ricorso innanzi al TAR di Lecce (RG n. 902/2011),
conclusosi con sentenza di accoglimento n. 1284/2011,
successivamente appellata dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per le Province di Lecce
Brindisi e Taranto.
Nelle more del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, il
Comune di Gallipoli, al fine di dare attuazione alla
sentenza del Tar di Lecce, in data 05.01.2012 ha emesso
nuova autorizzazione paesaggistica n. 18/2010, finalizzata
al mantenimento annuale delle struttura balneare ubicata su
area in concessione alla ricorrente.
Con sentenza n. 4762/2012, pubblicata il 07.09.2012, il
Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR di
Lecce, ha accolto l’appello proposto dalla Soprintendenza.
In attuazione di tale ultimo provvedimento giurisdizionale,
ormai definitivo, con la determinazione n. 305 del
15.02.2018, notificata in data 06.03.2018, il Comune di
Gallipoli ha annullato l’autorizzazione paesaggistica n.
18/2010 del 05.01.2012 per il mantenimento annuale della
struttura balneare denominata Sp.Cl. e, per l’effetto, ne ha
ordinato la rimozione.
Di qui l’odierna impugnativa con la quale Sp.Cl. s.r.l. ha
chiesto, previa sospensione dell’efficacia, l’annullamento
di detta determinazione, articolando i seguenti motivi di
diritto: ...
...
In estrema sintesi, la ricorrente asserisce innanzitutto che
la
sentenza del TAR Lecce n. 1284/2011 sarebbe
divenuta definitiva nei confronti dell’Amministrazione
Comunale “poiché da quest’ultima mai appellata”.
Quindi censura il provvedimento oggetto di gravame in quanto
in contrasto con la previsione dell’art. 21-octies e nonies
della legge 241/1990: l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica sarebbe stato disposto senza che ricorressero
i vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere,
né ragioni di interesse pubblico.
Sarebbe stato leso, altresì, il legittimo affidamento della
ricorrente, in quanto il provvedimento autorizzatorio non
avrebbe contenuto alcun espresso riferimento al giudizio
pendente innanzi al Consiglio di Stato.
Ancora, il Comune avrebbe dovuto chiedere un nuovo parere
alla Soprintendenza e avrebbe dovuto tenere conto del fatto
che, nelle more, la nuova Legge Regionale Puglia n. 17/2015
ha previsto che “le strutture funzionali all’attività
balneare, purché di facile amovibilità, possono essere
mantenute per l’intero anno solare”. Nello stesso senso,
sarebbe la previsione di cui all’intesa interistituzionale
sulle problematiche degli stabilimenti balneari del
27.10.2014.
Non si è costituito in giudizio il Comune di Gallipoli.
Con
Decreto monocratico n. 160/2018 del 27.03.2018,
il Presidente di questo Tribunale ha accolto l’istanza di
sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati,
limitatamente all’ordine di rimozione delle strutture di cui
trattasi, rilevando che esse “risultano supportate da
provvedimenti ulteriori, che sembrerebbero non incisi
dall’annullamento disposto in sede giurisdizionale”.
Alla camera di consiglio del 18 aprile, la ricorrente ha
rinunciato alla domanda cautelare, chiedendo una fissazione
a breve per la trattazione del merito e, nella pubblica
udienza del 26.09.2018, la causa è stata introitata per la
decisione.
2. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni che si
vengono ad evidenziare.
2.1 Del tutto infondata è la tesi a dire della quale la
sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 non
avrebbe portata giuridicamente rilevante per il Comune di
Gallipoli, stante la mancata impugnativa della sentenza di
primo grado da parte di quest’ultimo.
Invero, l’art. 2909 c.c. dispone che “L’accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a
ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”,
ed il Comune di Gallipoli è parte processuale della sentenza
citata pur non essendosi costituito in giudizio e non avendo
proposto appello.
Peraltro, anche a voler sottacere tale circostanza, deve
ricordarsi che la decisione del Consiglio di Stato citata ha
comportato la reviviscenza del diniego espresso dalla
Soprintendenza, a cui il Comune era ed è vincolato alla
presa d’atto.
In ogni caso, risulta del tutto sfornita di riscontri
probatori la circostanza che l’autorizzazione paesaggistica
n. 18/2010 del 05.01.2012 e l’appendice al permesso di
costruire n. 27190/2007, datata 12.03.2012, siano stati
rilasciati senza specificare alcuna condizione legata al
giudizio d’appello, non essendo stata prodotta nel giudizio
in esame detta autorizzazione.
Risulta quindi evidente che l’atto in questione sia stato
emesso al mero fine di dare attuazione al decisum
giurisdizionale di primo grado, provvisoriamente esecutivo e
cogente.
In ogni caso, la reviviscenza dell’autorizzazione
paesaggistica negativa (ad opera della sentenza del
Consiglio di Stato), vincolante per l’amministrazione
comunale, obbligava comunque la stessa al doveroso
ripristino della legalità, dato che l'art. 146 del D.lgs. n.
42/2004 al comma 4, statuisce “L’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso
collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e
permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta
presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto
presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto
o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di
osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce
requisito di efficacia del permesso di costruire affermando
che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come
elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della
concessione in modo da incidere sulla sua efficacia”
(Cass. sent. n. 6671/1998) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.10.2018 n. 1555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' necessaria
l’autorizzazione paesaggistica per la demolizione di
immobili vincolati?
La mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica, in ordine all’intervento di demolizione di un
immobile vincolato, determina l’illegittimità derivata di
quella adottata con riferimento all’intervento di
ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto
rilasciato sulla base di un presupposto errato.
---------------
Con motivi aggiunti, i ricorrenti impugnavano altresì il
permesso di costruire, conclusivo del procedimento,
deducendo, oltre le censure già proposte nell’originaria
impugnazione, la violazione degli artt. 142, 146 e 167
d.lgs. 22.01.2004 n. 42, argomentata sull’assunto che non
era stato richiesto e ottenuto il nulla osta necessario per
demolire la preesistente costruzione, insistente su area
gravata da vincolo paesaggistico.
L’area interessata dall’intervento si colloca infatti ad una
distanza inferiore a 150 mt. dal corso dei Torrenti Piscio e
Chiappe senza che, ratione temporis, possa trovare
applicazione l’esclusione dal vincolo per le zone
territoriali omogenee A e B di cui al d.m. 02.04.1968 n.
1444.
...
18. Nel merito, ai fini del decidere, riveste carattere
logicamente pregiudiziale, come del resto messo in luce
dallo stesso TAR per la Liguria nella sentenza n. 1002 del
25.06.2014, la questione relativa alla necessità
dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento
di demolizione.
La mancanza di quest’ultima, ove effettivamente necessaria,
appare infatti idonea a determinare l’illegittimità
dell’intervento nel suo complesso, sia sotto il profilo
edilizio che paesaggistico.
Al riguardo, le doglianze svolte dagli appellanti, appaiono
manifestamente fondate.
18.1. Come noto, ai sensi dell’art. 1 del 27.06.1985, n.
312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1
della l. n. 431 del 1985 (che ha aggiunto 9 commi all’art.
82 del d.P.R. n. 616 del 1977) «Sono sottoposti a vincolo
paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497»,
tra gli altri, «c) i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua
iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici,
approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le
relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150
metri ciascuna».
Tuttavia «Il vincolo di cui al precedente comma non si
applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti
ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre
zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi
del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni
sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati
perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n.
865».
Tali disposizioni sono state poi riprodotte nell’art. 146
del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs.
n. 42/2004 (così come sostituito dall'art. 12, comma 1,
d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e
modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008), in particolare nel
comma 2, secondo cui, «La disposizione di cui al comma 1,
lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica
alle aree che alla data del 06.09.1985:
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone
territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone
territoriali omogenee diverse dalle zone A e B,
limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani
pluriennali di attuazione, a condizione che le relative
previsioni siano state concretamente realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri
edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge
22.10.1971, n. 865».
Le specificazioni contenute in tali disposizioni, come noto,
rappresentano la trasposizione dell’interpretazione delle
norme originariamente contenute nella legge Galasso, quale
consolidatasi nell’elaborazione giurisprudenziale.
La tesi sostenuta dalle parti resistenti in primo grado e
avallata dal TAR è che ai fini dello sgravio dal vincolo,
rileverebbe anche solo il piano adottato in quanto, da un
lato, la delimitazione delle zone A e B avrebbe natura
meramente “accertativa” delle zone antropiche ed
urbanizzate, dall’altro «l’approvazione del PRG
–oltretutto confermativa […] delle opzioni contenute nella
delibera di adozione– nulla aggiunge in termini di
delimitazione delle aree urbanizzate sottratte (per loro
intrinseca caratteristica) al vincolo. In ogni caso,
trattandosi d’accertamento dichiarativo, la delimitazione
opera ex tunc: ossia, fin dall’adozione del P.R.G. cui
faccia seguito l’approvazione».
E’ tuttavia destituita di fondamento, in primo luogo,
l’argomentazione secondo cui, sia pure ai soli fini di cui
trattasi, l’approvazione del P.R.G. abbia efficacia
retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto pacifica quella
secondo cui il piano regolatore (oggi variamente denominato
nelle legislazioni regionali) è un atto complesso, il cui
procedimento si conclude solo con l’approvazione da parte
della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano adottato dal
Consiglio comunale concernono le misure di salvaguardia le
quali giustificano il diniego di concessioni difformi (cfr.
Cons. St., Adunanza plenaria, n. 1 del 09.03.1983; cfr.
anche cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226,
relativa a vicenda per certi versi speculare a quella qui in
esame).
In secondo luogo, le previsioni del Piano regolatore
non possono avere effetti “dichiarativi”,
semplicemente perché la loro funzione è quella di
disciplinare e ordinare gli usi e le trasformazioni del
territorio.
Come, ancora da ultimo, ricordato da questo Consiglio, anche
«la c.d. “zonizzazione” non postula e non presuppone solo
l’individuazione di un territorio -ossia una operazione
puramente ricognitiva- bensì la qualificazione di esso, e
pertanto una valutazione, alla stregua delle categorie
offerte dal legislatore» (Cons. Stato, Sez. IV,
28.06.2018, n. 3987).
Per quanto poi specificamente concerne i vincoli paesistici
ex lege, si è già accennato al fatto che, secondo la
giurisprudenza amministrativa formatasi in merito alla legge
Galasso, «la possibilità di deroga al vincolo
paesaggistico riguarda soltanto le aree comprese in
previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata
in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi
atti programmatori» (Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n.
2015, che richiama Sez. VI, 04.12.1996, n. 1679; id.,
22.04.2004, n. 2332, secondo cui la disciplina statale
ancora l’esclusione dal vincolo paesaggistico predisposto
per legge alla delimitazione dei terreni negli strumenti
urbanistici come zone A e B ad una data determinata, e cioè
al 06.09.1985, epoca di entrata in vigore della l. n. 431
del 1985).
Non appare poi inutile ricordare quale fosse la ragione
della deroga ivi introdotta al regime ordinario di tutela
paesistica.
Essa aveva infatti lo scopo di consentire la realizzazione
di opere già avviate in esecuzione dei piani vigenti
all’entrata in vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI,
02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai piani pluriennali di
attuazione) nonché in relazione ad aree già urbanizzate o
comunque «oggetto di una pianificazione che ha ritenuto
maturo il tempo dell’esecuzione di interventi sul territorio»
(Cass. pen., Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche
30.03.1999, n. 5923).
Va ancora soggiunto, nel caso di specie, che -anche a volere
operare una comparazione tra la disciplina del piano vigente
nel Comune di Rapallo all’epoca per cui è causa e le
classificazioni contenute nel d.m. 02.04.1968 relativamente
alle zone territoriali omogenee- non vi è alcuna prova, in
atti, che il borgo di Case di Noè, all’epoca di entrata in
vigore della legge Galasso, fosse una zona già urbanizzata
ovvero matura per l’edificazione (nei sensi cui di cui al
suddetto d.m., alla stregua del quale le zone B sono «le
parti del territorio totalmente o parzialmente edificate,
diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate
le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti
non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie
fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale
sia superiore ad 1,5 mc/mq»).
Semmai, vi è prova del contrario.
Dalla nota dell’Ufficio Gestione del Territorio del Comune
di Rapallo in data 17.06.2016, prodotta dagli appellanti, si
evince infatti che, alla stregua del P.R.G. approvato nel
1961, l’immobile oggetto dell’intervento all’odierno esame
era «ricompreso in zona “G rurale”.
Al riguardo, è poi significativo che, ancora in una delibera
comunale dell’anno 2009 (n. 188 del 29.12.2009) e quindi, in
epoca ben successiva all’entrata in vigore della Legge
Galasso, il borgo di Case di Noé venga descritto come un
insediamento «di particolare pregio e valore storico»
nonché rappresentativo «di un modello aggregativo del
sistema insediativo agricolo rurale nella cui strutturazione
formale e d'immagine, episodi di accorpamento ed
integrazione volumetrica potrebbero inserire elementi di
incongruità e discontinuità tali da comprometterne
l'unitarietà percettiva».
Tali espressioni, invero, mal si attagliano ad una zona
urbanizzata, quale ipotizzata dalle decisioni impugnate.
19. I rilievi che precedono appaiono invero assorbenti ai fini
dell’accoglimento degli appelli, poiché la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento
di demolizione determina l’illegittimità derivata di quella
adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione,
nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla
base di un presupposto errato (cfr., per una compiuta analisi
del rapporto tra i due titoli abilitativi Cons. St., Sez. IV,
14.12.2015, n. 5663) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.10.2018 n. 5945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Comune di Civitavecchia - rapporto tra le disposizioni di cui agli articoli
14-ter della l. n. 241 del 1990 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 - effetti
della mancata partecipazione del rappresentante del Ministero alle riunioni
della conferenza di servizi o della mancata espressione della relativa
posizione di competenza all'esito della ultima riunione - parere
(MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 27.09.2018 n. 23231
di prot.).
---------------
Si riscontra la nota di codesto Comune prot. 49442 del 05.06.2018, con la
quale si chiede se la mancata partecipazione del Ministero alle conferenze
di servizi, qualificandosi quale "assenza-assenso", possa comportare il
superamento dell'avviso negativo al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ex art. 146 del codice di settore da parte dell'autorità
preposta (regione o comune subdelegato) in ragione della mancata conformità
dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nel Piano
paesaggistico regionale e se la determinazione favorevole della conferenza
di servizi possa sostituire l'autorizzazione paesaggistica, ove
l'amministrazione procedente si sia espressa negativamente e il Ministero
non abbia partecipato alla riunione e non abbia espresso alcun parere.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
In primo luogo, onde evitare equivoci interpretativi, si precisa che
l'operatività dell'istituto del "silenzio-assenso", di cui all'art. 17-bis
della 1. n. 241 del 1990, all'interno del procedimento di autorizzazione
paesaggistica di cui all'art. 146 del codice di settore, è limitata alla
sola ipotesi di proposta positiva da parte dell'amministrazione procedente.
Infatti, il procedimento delineato dall'art. 146 del codice di settore, come
è noto, prevede ... (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto:
decreto interministeriale n. 154 del 22.08.2017 recante: "Regolamento
concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali
tutelati ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42" — art. 22 —
restauratori - direzione dei lavori (MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 19.09.2018 n. 22280 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota, qui pervenuta in data 30 maggio u.s., con la quale
codesta Federazione evidenzia l'insorgere di dubbi interpretativi relativi
all'art. 22, comma 2, del regolamento in oggetto. Nello specifico in detta
nota si rappresenta che "risulta non chiaro ad alcune Stazioni Appaltanti se
il Restauratore possa assumere o meno la funzione di Direttore dei Lavori".
Al riguardo si osserva quanto segue.
L'art. 22, comma 2 cit. recita: "La direzione dei lavori, il supporto
tecnico alle attività del responsabile unico del procedimento e del
dirigente competente alla formazione del programma triennale comprendono un
restauratore di beni culturali qualificato ai sensi della normativa vigente,
ovvero, secondo la tipologia dei lavori, altro professionista di cui
all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio. In ambedue
i casi sono richiesti un'esperienza almeno quinquennale e il possesso di
specifiche competenze coerenti con l'intervento" ... (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di manufatti
precari e facilmente amovibili su area vincolata -
Intervento eseguito in assenza di titolo abilitativo.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Nozione di precarietà di un
intervento - Nozione di opera precaria - Art. 181, c. 1-bis,
d.lgs. 42/2004 e 30, co. 1, e 8 legge 394/1991 - AREE PROTETTE
- Parco naturale regionale - Disciplina per le opere
precarie - Artt. 44, lett. e), 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R.
380/2001.
Il reato di pericolo previsto dall'art.
181 d.lgs. n. 42/2004 è comunque integrato anche dalla
realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili,
essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni intervento
modificativo, con esclusione delle condotte che si palesino
inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del
paesaggio.
Inoltre, la precarietà di un intervento non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore e che sono
irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali
impiegati e l'agevole rimovibilità, in quanto è richiesta
una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente
precario per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo e l'opera deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione dell'uso (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2018 n. 39429 - link a www.ambientediritto.it). |
agosto 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio
(abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi
dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi
esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta
di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui
all’articolo 29 della legge 394/1991.
---------------
La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla-osta
ed istanza di accertamento in sanatoria affermando
che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun
termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito
adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi
per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento
espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è
smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n.
380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla
presentazione la domanda si intende respinta, delineando in
tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto,
suscettibile di essere impugnato mediante esercizio
dell’ordinaria azione impugnatoria”.
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente
Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente
locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari:
l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della
richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente
locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale
delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella
generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone
della specialità a quello della temporalità. Accertata la
violazione, in assenza di nulla osta, all’ente Parco è
conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare
la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in
pristino.
Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive
realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la
competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto
il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di
tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa
istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in
virtù della legislazione statale in materia
naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e
finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da
attività edilizia non conforme alla normativa”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla
osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che l'istanza di accertamento in sanatoria
sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione
paesaggistica in osservanza del requisito della doppia
conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò
venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge
e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R.
380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167
D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso
di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di
operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di
disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito
della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del
tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante
(astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non
vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10,
lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale
“l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi”.
---------------
Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la
demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del
Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza
all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere
abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed
autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune
di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione
dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle
opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio
provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del
05.09 2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco
Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente
depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il
ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco
comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA
del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative
dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in
sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che
il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego,
intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso,
non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso
contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza
di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a
ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
Giova premettere che l’intervento è avvenuto nel territorio
del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge
quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi
dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi
esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta
di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui
all’articolo 29 della legge 394/1991.
Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di
legge con riferimento all’art. 36 d.p.r. 380/2001;
violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. 241/1990,
eccesso e sviamento di potere. Con ricorso straordinario
vengono impugnate sia l’ordinanza di demolizione e riduzione
in pristino sia il silenzio provvedimentale relativo
all’istanza di accertamento in sanatoria su cui si era
formato silenzio-rigetto.
Il ricorrente afferma che avrebbero errato il Comune di
Terzigno e l’Ente Parco Vesuvio ad ordinare la demolizione
delle opera abusive dovendo attendere la richiesta di
istanza di nulla osta ai sensi dell’art. 13. Il motivo di
gravame non è fondato.
La giurisprudenza distingue tra
istanza di nulla osta ed istanza di accertamento in
sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991
non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso
non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel
mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione
di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di
conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2,
D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni
dalla presentazione la domanda si intende respinta,
delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio
rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio
dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania
3166/2018).
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente
Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente
locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari:
l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della
richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente
locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale
delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale
di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della
specialità a quello della temporalità. Accertata la
violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è
conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare
la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in
pristino. Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di
opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali,
sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare
provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei
luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle
specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento
della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un
potere incardinato in virtù della legislazione statale in
materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n.
394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a
vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa (cfr.
Cons. Stato, Parere sez. II, 23.02.2015, n. 449)”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla
osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che secondo la giurisprudenza del Consiglio
di Stato la istanza di accertamento in sanatoria sarebbe
possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica
in osservanza del requisito della doppia conformità.
“Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile
nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito
si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento
ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6,
8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004,
consistente nell’adozione di un permesso di costruire in
sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art
36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile
solo per opere dotate del requisito della “doppia
conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e
comunque, trattandosi di disposizione operante
(astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non
vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett.
c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione
paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi” (Cons. di stato, Parere sez. II, 1568/2011.)
...
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che
il ricorso vada considerato in parte improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio
rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai
vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della
nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio
di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio
(abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree
protette.
Ai sensi di tale normativa gli interventi edilizi
richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla
osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta
l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della
medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri
dell’Ente.
La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991
deve precedere la richiesta delle concessioni ed
autorizzazioni necessarie agli interventi. L’accertamento di
compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non
previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte
dell’ente parco.
---------------
La richiesta di accertamento della compatibilità
paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e
l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né
sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più
a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino
all’emanazione del provvedimento o alla formazione del
silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo
Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non
incide sulla validità o efficacia del provvedimento
sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo
dell’esecutività delle misure ripristinatorie che
riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale
diniego della sanatoria”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali
istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e
controdeduzioni da parte del ricorrente.
---------------
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda
legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n.
394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia
in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta,
dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali
violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva
autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
---------------
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della
L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima
del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti
repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe
necessaria l’adozione di un provvedimento espresso
sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla
lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede
che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda
si intende respinta, delineando in tal modo una tipica
fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere
impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione
impugnatoria”.
L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione
demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree
protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco
nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la
disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio
dalla norma attribuitogli.
Invero, “nell’ipotesi di opere abusive realizzate
all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza
dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e
ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di
ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela
ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione,
tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della
legislazione statale in materia naturalistico-ambientale
(menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le
aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme
alla normativa”.
---------------
Giova premettere che l’intervento edilizio è
avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree
protette. Ai sensi di tale normativa interventi edilizi
richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla
osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta
l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della
medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri
dell’Ente. La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991
deve precedere la richiesta delle concessioni ed
autorizzazioni necessarie agli interventi. Precisa
correttamente l’amministrazione che l’accertamento di
compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non
previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte
dell’ente parco.
Tutto ciò premesso il ricorrente non aveva richiesto il
nulla osta ai sensi dell’articolo 13 e neppure acquisito
l’accertamento di compatibilità paesaggistica prima di
promuovere l’istanza di accertamento in sanatoria ai sensi
dell’art. 36. Come puntualizzato dall’amministrazione la
richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica
ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di
accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono
l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più
a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino
all’emanazione del provvedimento o alla formazione del
silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo
Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non
incide sulla validità o efficacia del provvedimento
sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo
dell’esecutività delle misure ripristinatorie che
riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale
diniego della sanatoria (v. sul punto, ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203 e n. 1204)”.
Nella
relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali
istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda
legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n.
394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia
in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta,
dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali
violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva
autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
Lamenta il ricorrente che l’Ente Parco avrebbe dovuto
attendere il risultato dell’accertamento dell’istanza di
costruire in sanatoria prima di emanare l’ordine di
demolizione.
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine
dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare
provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui
sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso
sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla
lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede
che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda
si intende respinta, delineando in tal modo una tipica
fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere
impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione
impugnatoria” (TAR Campania, 3166/2018).
Si duole il ricorrente che la sanzione prescelta sia quella
ripristinatoria e non quella pecuniaria. La doglianza è
priva di fondamento. L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro
riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel
caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla
osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha
correttamente applicato la disposizione di legge esercitando
il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Come si
afferma nella giurisprudenza di questo Consiglio: “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di
Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad
adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda
sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a
fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio
di un potere incardinato in virtù della legislazione statale
in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n.
394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a
vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa” (Cons.
Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449).
Sussistevano
dunque i presupposti di fatto e di diritto per l’emanazione
dell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato
dei luoghi.
...
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2059 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel
contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che,
al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del
Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto
meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente
abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità,
danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n.
380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di
cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di
demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli
interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in
totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di
tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs.
n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la
normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
---------------
L’intervento posto in essere, come
detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in
nuova volumetria) -diversa da quella originaria che
costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente
abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
---------------
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali non poteva essere
distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico
da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi
totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria,
sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo
della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni
culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume
completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente
inapplicabilità della norma che consente l’accertamento
della compatibilità paesaggistica.
---------------
L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
---------------
... per la
riforma della
sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez.
II.
...
Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali
dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è
compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli
appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo
(Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico
ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“protezione
delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del
Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali –
insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali
ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la
zona] “è costituita dalle parti del territorio
interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti
aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che
rivestono carattere storico-artistico o di particolare
pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali
ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto,
secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite
ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga
alle norme della zona territoriale omogenea della quale
fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la
parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse
demolizioni con successive ricostruzioni, se non
specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli
appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione
dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza
del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri.
Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in
continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà
dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona
paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non
contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere
interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata
dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto
i lavori di ristrutturazione con ampliamento e
sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po.,
con esecuzione delle opere come richieste secondo gli
allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno
parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto
delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e
prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e
negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione
prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e
nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo
e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato
che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era
stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d.
del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica
del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o
consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella
sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante
rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi
dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica,
come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti
difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del
tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così
come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per
effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun
dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con
edificio attiguo) non potessero essere demolite e
ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione
edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di
governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela
paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico
della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle
NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e
manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di
particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata
dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per
demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come
materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto-
non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non
ammessa dal piano regolatore generale per il valore
paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone
che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai
regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici,
il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le
autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro
parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche,
integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi
eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a
cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività
ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili
e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa
degli interessati. Nello stesso senso va inteso il
riferimento alla fattispecie della “distruzione”
dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne
rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente
distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della
inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e
non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro.,
in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è
indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così
come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una
ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove
progressivamente è stata sostituita la parte povera di
parametro murario senza alcun elemento di pregio … e
successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo
rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione
e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure
originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento
al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei
lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe.,
asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante
le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità
dell’intera struttura, non risultava proponibile né
realizzabile, in concreto, un intervento di recupero
conservativo delle parti di muratura non previste da
demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei
lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile-
l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto
come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la
vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto
senza avere preventivamente avanzato istanza di variante
(istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto
trovare accoglimento in applicazione degli strumenti
urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione
e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con
sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è
stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con
nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento
imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata
demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza,
tale decisione, sia pure supportata da considerazioni
tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo
l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione
Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore
scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia
della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della
situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la
prospettazione di parte, alla base della decisione di far
abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha
indicato che “la situazione di crollo parziale e di non
recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato
perché non potessero essere attivate procedure di
salvaguardia e di restauro, certo costoso più della
demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del
recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che
materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno
detto circa pericoli od altro; hanno riferito della
condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di
demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che
imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per
l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della
L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce
al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e
non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza”
nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale
del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del
nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di
ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza
sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto
totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende
quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove
eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale
difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33
d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione
pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché
all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo
unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia
di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel
d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004),
la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV,
07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano
l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati
avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha
respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso
introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base
dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella
presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con
cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento
contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto
che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego
dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo
potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata
variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto
con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa
applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con
l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha
respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto
n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001,
l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia
presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato
presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il
Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria
espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame
presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata
in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della
censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto
l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente
diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto
l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto,
si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova
volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva
oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva,
essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex
multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017,
n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons.
Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie
in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli
appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego
contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta-
era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva,
alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia
perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria
memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di
approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del
07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della
sentenza con cui sono state respinte le censure proposte
avverso il diniego di accertamento di compatibilità
paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una
volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva
dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di
avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto
a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le
autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non
poteva essere distrutto in quanto bene di valore
ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto
deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente
nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal
perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel
codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un
volume completamente nuovo in zona vincolata, con
conseguente inapplicabilità della norma che consente
l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle
statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto
l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi
aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono
edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente
richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a
differenza di quanto prospettato dagli appellanti,
l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere
riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente (ndr:
installazione di una tettoia con copertura
retrattile -cd. “pergotenda”- della superficie di 16 mq)
impedisce solo che questa debba essere assoggettata a
provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a
valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del
manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da
collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta
potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da
quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione
del fatto che l’intera area comunale è sottoposta a vincolo
di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento
-non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul
piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo
tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a
vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente
eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse
assoggettato a tali vincoli.
Sicché, risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento
sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di
vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso
dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come
“tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera
“tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi
all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso
soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato
rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per
legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la
giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene
ricada nell'attività edilizia libera, richiede
l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia
di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e
ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da
parte dell'autorità competente”.
---------------
La Soprintendenza di Messina ha respinto l’istanza
presentata dal ricorrente D’Al., con la quale si richiedeva
il parere di compatibilità paesaggistica ai fini
dell’installazione di una tettoia con copertura retrattile
(cd. “pergotenda”), della superficie di 16 mq, da
collocare su una terrazza posta all’ultimo piano di un
edificio sito nel Comune di Castelmola.
Il provvedimento, in particolare, rilevava l’esistenza di un
vincolo di notevole interesse pubblico apposto su tutto il
territorio del Comune di Castelmola con DPRS 2976/1978, e
del Piano Paesaggistico Ambito 9 approvato con D.A.
6682/2016; aggiungeva inoltre la circostanza che
l’intervento proposto ricade in area soggetta al livello di
tutela 1 del citato P.P.A.
In applicazione di tali strumenti di tutela del territorio,
la Soprintendenza ha ritenuto di dover esprimere –con l’atto
ora impugnato– parere contrario al progetto, trattandosi di
intervento che “comporterebbe un notevole impatto
negativo al paesaggio tutelato” essendo “ricadente in
zona di notevole intervisibilità panoramica ai margini del
tessuto urbano di Castelmola”.
Il ricorrente ha allora impugnato in questa sede il parere
negativo espresso dalla Soprintendenza, assumendo che sia
affetto dai seguenti vizi: ...
...
Il primo motivo
di ricorso è infondato.
La indiscussa natura di “intervento libero” che deve
essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente
impedisce solo che questa debba essere assoggettata a
provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a
valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del
manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da
collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta
potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da
quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione
del fatto che l’intera area comunale di Castelmola è
sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico
istituito nel lontano 1978, nonché inquadrata nel Piano
Paesaggistico Ambito 9, più di recente varato dalla Regione
Sicilia con riferimento alla provincia di Messina.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento
-non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul
piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo
tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a
vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente
eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse
assoggettato a tali vincoli.
A ben vedere, tale distinguo risulta ben conosciuto dal
ricorrente, che non a caso ha inviato richiesta di nulla
osta alla Soprintendenza di Messina prima di avviare alcun
tipo di attività, salvo poi dolersi del parere contrario
espresso dall’amministrazione.
Alla luce di quanto esposto risulta irrilevante sia il fatto
che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o
libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore
di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il
manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi
mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto
sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta
dello stesso soggetto interessato) l’incidenza
dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici
ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la
giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile,
sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede
l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia
di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e
ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da
parte dell'autorità competente” (Tar Veneto 1007/2017)
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 30.07.2018 n. 1635 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ormai pacifica ha ritenuto che in presenza di aree assoggettate a
vincolo paesistico non può attribuirsi alcun rilievo
all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza
del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente
l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del
provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico
sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto
riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in
loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico,
preclude la maturazione degli effetti abilitativi della
d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa
autorizzazione paesaggistica …”.
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame,
eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale
difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base
a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre
l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31
del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Invero,
“… In ogni caso dirimente è la considerazione che in
presenza di zona vincolata si impone
la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica,
con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica.
Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo
paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di
una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da
ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3,
T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto
più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio
in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in
assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi
dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai
sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere
sanzionato”.
---------------
È evidente che rispetto alla recinzione in cemento
armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna
autorizzazione paesaggistica e, quindi, la DIA
va considerata tam quam non esset.
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente
l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata
ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in
quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
---------------
Altresì,
«… Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a
vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le
opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al
pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo.
…”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA
non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino
delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004,
non surrogabile con la pena pecuniaria. …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri
poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che,
difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate.
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato
perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci,
come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione
rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti
argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno
riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale
esito doveroso del procedimento di controllo attivato
(revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i
principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell’interessato,
non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non
sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
In simili casi, del resto, anche l’attuale
formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di
recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al
comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano
altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e
alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la
stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo
di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs
n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune si tratta di opere
abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla
autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza.
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in
c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria
ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della
quale la stessa DIA non produce alcun effetto,
ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di
cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la
sanzione pecuniaria.
---------------
4.2.1. - Relativamente al primo motivo del ricorso introduttivo, va
evidenziato quanto segue.
Tutte le aree, oggetto della D.I.A del 17.07.2009, sono parte
di un percorso antico utilizzato per la transumanza.
Tali percorsi sono tutelati, oltre che con decreti
ministeriali del 15.06.1976, del 20.03.1980 e del 22.12.1983,
anche dalla più recente normativa di cui al dlgs n. 42/2004
e da varie norme regionali.
Per quel che qui rileva la Regione Puglia, con DGR n.
1748/2000 ha approvato il P.U.U.T, che ha inserito i
percorsi armentizi, appartenenti al demanio, tra i beni
culturali vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939.
Tra l’altro la recinzione, oggetto dell’ordinanza di
demolizione impugnata, è tutta collocata in zona vincolata
in quanto ricade interamente nel tracciato del Regio
Tratturo Foggia-Ofanto, così come si evince dal
provvedimento della Regione Puglia di riorganizzazione
dell’assetto dei Tratturi e dalla planimetria allegata (cfr.
documenti nn. 6 e 7 depositati dal controinteressato Novelli
Antonio in data 30.04.2018, peraltro non specificamente
contestati da alcuna delle parti costituite).
Per cui la situazione sopra descritta (i.e. realizzazione di
opera permanente in cemento armato in zona vincolata) ha
determinato la legittima adozione dell’ordinanza di
demolizione e dei successivi provvedimenti comunali.
Alla luce di quanto sin qui esposto e dell’iter
procedimentale non è, pertanto, condivisibile l’affermazione
della società ricorrente secondo cui l’intervento de quo
sarebbe stato realizzato su un suolo di proprietà privata
non assoggettato ad alcun vincolo.
E’, infatti, certo che vi sia stata la realizzazione in area
vincolata di un intervento idoneo ad alterare l’aspetto del
territorio in contrasto con il parere espresso dall’Autorità
preposta alla tutela del vincolo e ciò di per sé legittima
l’emissione dell’ordinanza di demolizione oggetto di
impugnativa, non risultando fondata alcuna delle censure
formulate da parte ricorrente.
Sul punto la giurisprudenza ormai pacifica ha -come sopra
visto- ritenuto che in presenza di aree, assoggettate a
vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo
all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza
del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente
l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del
provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico
sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto
riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in
loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico,
preclude la maturazione degli effetti abilitativi della
d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa
autorizzazione paesaggistica …” (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295).
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame,
eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale
difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base
a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre
l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31
del d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. Stato, Sez. VI,
27.12.2016, n. -OMISSIS-59).
Si richiama altresì TAR Campania, Napoli, Sez. III,
02.03.2018, n. 1352:
“… In ogni caso dirimente è la considerazione che in
presenza di zona vincolata -come nella specie- si impone
la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica,
con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica.
Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo
paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di
una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da
ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3,
T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto
più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio
in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in
assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi
dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai
sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere
sanzionato. (cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI,
15/09/2016, n. 4319). …”.
Ne consegue che in applicazione del principio di diritto
affermato dalla costante giurisprudenza amministrativa, il
motivo di gravame sub 1) va disatteso, a fronte di una DIA
(quella del 17.07.2009) avente espressamente ad oggetto la
realizzazione di una recinzione in cemento armato.
Per quanto detto si tratta di una DIA certamente inefficace
ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 (“Nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell’esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l’immobile oggetto dell’intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti”) poiché in
difformità rispetto alla autorizzazione paesaggistica
rilasciata dalla Soprintendenza avente ad oggetto una
recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili
(rete metallica), come espressamente evidenziato nella nota
del 02.02.2016.
È quindi evidente che rispetto alla recinzione in cemento
armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna
autorizzazione paesaggistica e quindi la DIA del 17.07.2009
va considerata tam quam non esset.
Va, inoltre, evidenziato che, diversamente da quanto
sostenuto da parte ricorrente, la DIA del 2009 non è stata
confermata nel 2011.
Infatti, la determina dirigenziale dell’11.01.2011 revoca la
precedente diffida del 02.09.2009 e l’ordinanza dirigenziale
di sospensione dei lavori del 09.09.2009, comunque precisando
che la recinzione sarebbe potuta essere realizzata con le
caratteristiche costruttive indicate nelle premesse, vale a
dire nei termini autorizzati dalla Soprintendenza con nota prot. n. -OMISSIS- del 29.07.2010 (recinzione provvisoria con
materiali facilmente asportabili).
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente
l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata
ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in
quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
...
Inoltre, come evidenziato da TAR Puglia, Bari, Sez. III,
09.03.2017, n. 223:
«… Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni
soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in
assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto
effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015,
n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803;
TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le
opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al
pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo.
…” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr.
altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del
02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA
non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI,
05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino
delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004,
non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del
02.12.2016). …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri
poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che,
difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III,
08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato
perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci,
come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione
rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti
argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno
riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta
adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale
esito doveroso del procedimento di controllo attivato
(revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i
principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez.
V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da
ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n.
96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale
formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di
recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al
comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano
altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e
alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la
stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo
di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs
n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune di Cerignola si
tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità
rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza
(con note del 29.07.2010 e del 02.02.2016).
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in
c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria
ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della
quale la stessa DIA del 17.07.2009 non produce alcun effetto,
ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di
cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la
sanzione pecuniaria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. II,
02.12.2016, n. 1350; cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI,
05.03.2012, n. 1111).
Stante la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica
relativamente alle opere realizzate, deve quindi ritenersi
immune da censure il provvedimento di demolizione emesso
dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.07.2018 n. 1094 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In assenza di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e
l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo
e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento
realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo
paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato
previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione
paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino.
Invero, l’art. 22, comma 6, del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di
lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque
subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una
d.i.a., al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative.
In presenza di zona vincolata si impone la
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con
la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria
è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza
di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può
attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A.
poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di
effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.
---------------
La censura è infondata.
La DIA presentata il 03.02.2007 pacificamente mancava
dell’autorizzazione necessaria per tutti gli interventi da
realizzarsi su immobili sottoposti a vincolo.
Infatti, in base alla espressa previsione dell’allora
vigente art. 22, comma 6, del d.p.r. 380 del 2001, “la
realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che
riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o
paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo
rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle
relative previsioni normative. Nell'ambito delle norme di
tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui al
decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”.
Per tutti gli interventi realizzabili mediante DIA in base
all’art. 22 era quindi necessaria la previa autorizzazione
paesaggistica.
Ne deriva che in assenza di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve
considerarsi eseguito in assenza di titolo e
l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento
realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo
paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato
previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione
paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino (cfr. TAR Lombardia Milano Sez.
II, 29.07.2014, n. 2148, per cui l’art. 22, comma 6, del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di
lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque
subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una
d.i.a., al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative).
In presenza di zona vincolata si impone la
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con
la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria
è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza
di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può
attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A.
poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di
effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (TAR
Campania, Napoli, 02.03.2018, n. 1352).
L’art. 23 del d.p.r. 380 del 2001, inoltre, nel testo allora
vigente, ai commi 3 e 4 conteneva le seguenti disposizioni:
“Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto
ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega,
alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta
giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo
atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la
denuncia è priva di effetti.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad
un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione
comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto
alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente
ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al
comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di
esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti”.
Nel caso di specie, è circostanza altrettanto pacifica che
l’immobile di via ... 19 sia sottoposto a vincolo
paesaggistico in base al D.M. del 26.04.1973; né può
rilevare la circostanza dedotta dalla difesa ricorrente, per
cui il vincolo richiedeva l’autorizzazione solo per “opere
che possano modificare l’aspetto esteriore della località”,
dovendo comunque essere applicata la disciplina dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004, per cui “i proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree
oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo
157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli
138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero
sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano
paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o
all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni
i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati
della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la
compatibilità paesaggistica e sia rilasciata
l'autorizzazione a realizzarli”.
Nel caso di specie, la ampiezza degli interventi, risultanti
dalla relazione tecnica allegata alla DIA presentata il 03.02.2007 (consistenti tra gli altri in mutamenti di
destinazione d’uso, frazionamento dell’immobile in 12 unità
immobiliari, nonché nuova intonacatura e nuovi infissi di
tutto l’edificio) comportavano necessariamente
l’autorizzazione paesaggistica. Infatti, pur prescindendo
dalla qualificazione dell’intervento edilizio, l’art. 149
del d.lgs. n. 42 del 2004, richiede, comunque,
l’autorizzazione paesaggistica anche nel caso di interventi
minori (di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo) che
alterino “lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
dell’edificio”.
La DIA presentata al Comune il 03.02.2007 non ha quindi
mai avuto alcun effetto in relazione alle allora vigenti
disposizioni degli articoli 22 e 23 del d.p.r. n. 380 del
2001 e dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004..
La mancanza della autorizzazione paesaggistica non può
essere neppure stata sanata dalla successiva autorizzazione
paesaggistica in sanatoria del 07.04.2011, che riguarda
solo l’abbaino e i comignoli della copertura del tetto, che
erano estranei alla DIA del 2007, essendo compresi nella DIA
in variante presentata il 09.07.2008 (oggetto del
provvedimento di demolizione del 12.09.2008).
Il titolo edilizio del 2007 non si è dunque mai formato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 12.06.2018 n. 6567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Interventi, opere e costruzioni in aree protette
- Titoli abilitativi - Rilascio di tre distinti e autonomi
provvedimenti - Artt. 149, 181 d.lgs. n. 42/2004 - Artt. 3,
10, 22, 37, 44, 81, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree
protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è
subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti,
quali il permesso di costruire, l'autorizzazione
paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco
(con la conseguenza che questi ultimi due atti
amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto,
ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando siano
attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico,
chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della
pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme
penali e della piena autonomia, rispetto a quella
paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree
protette) (Cass. Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.05.2018 n. 20739
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Falso ideologico al tecnico del Comune che rilascia
un’autorizzazione paesaggistica illecita.
Integra il
reato previsto dall'art. 479 cod. pen.
- "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
atti pubblici" (ma i termini del
problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di
cui all'art. 480
- "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
certificati o in autorizzazioni amministrative") il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio
tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di
quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei
presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della
relativa domanda.
L'autorizzazione paesaggistica ha natura
di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e
valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti
prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo
della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui
rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo
giuridico di svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella
nota sentenza Sezz. U. 02.02.1995 n. 1827 che affermò il principio, mai più posto in
discussione, secondo il quale anche
nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di
volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un
fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione
alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più
precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a
verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto
costituente il presupposto indispensabile per il compimento
dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non
risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché,
quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non
menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto
di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve
logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore
implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente
irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente
preordinata) ai fini della sussistenza della falsità
ideologica.
I provvedimenti amministrativi emessi
all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico
non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è
libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che lo rappresenta non è destinato a provare la
verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito
a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione,
si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si
denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la
valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico
ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà
essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità,
non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è
implicitamente vincolato.
---------------
2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente
infondato.
3.1 primi due motivi, comuni per l'oggetto, possono
essere esaminati congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde «del reato di cui agli artt.
110, 479, cod. pen., per aver concorso, con la proprietaria
committente (Ad.Li.Co.), nell'illecito rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica predisponendo e
presentando, la proprietaria, la relazione paesaggistica
nella quale, nonostante l'illecito asservimento prevedesse
la realizzazione sul sito di volumetrie non consentite (in
particolare la zona qualificata E3 - verde agricolo fascia
costiera - con indice di fabbricabilità mc/mq 0,01 avrebbe
potuto esprimere una volumetria di circa mc. 45,32, mentre
veniva progettata una costruzione avente una volumetria di
mc. 352,52, utilizzando illecitamente volumetrie di fondi
distanti e con caratteristiche E2 ed indice di
fabbricabilità mc/mq 0,03), si affermava falsamente la
compatibilità ambientale dell'intervento e che lo stesso
valorizzava l'assetto del sito, sul quale veniva prevista
invece una densità di costruzione non consentita, con
conseguente pregiudizio ambientale, costituendo così gli
indispensabili falsi presupposti che consentivano al Re.,
come tecnico comunale, l'emissione dell'autorizzazione
paesaggistica, presupposto necessario per il rilascio del
permesso di costruire, fondata su tali qualificazioni nella
consapevolezza della loro falsità».
Il fatto è contestato come commesso in Morciano di Leuca il
14/12/2009.
3.2. La Corte di appello ha diversamente rubricato il fatto
qualificandolo ai sensi dell'art. 480, cod. pen.. Non rileva
in questa sede la diversa qualificazione del fatto (della
quale si giova l'imputato) derivante dalla ritenuta
diversità dell'oggetto della condotta (un'autorizzazione
piuttosto che un atto pubblico), perché ciò non muta i
termini del problema.
3.3. Secondo la ricostruzione della vicenda, così come
concordemente operata dai Giudici di merito senza
contestazioni del ricorrente, risulta quanto segue:
3.3.1. il 27/10/2009, la sig.ra Ad.Li.Co. aveva chiesto al Comune
di Morciano il rilascio del permesso di costruire per
realizzare una civile abitazione stagionale estesa 119 mq.
(oltre porticato) che sviluppava una volumetria di 352,52 mc.;
3.3.2. l'area di sedime era situata in zona classificata dal
Programma di Fabbricazione vigente come "E3 - verde
agricolo fascia costiera" (art. 18 delle relative NTA),
che prevedeva un indice di fabbricabilità fondiaria pari a
0,01 mc/mq, in base al quale avrebbe potuto essere
sviluppata una volumetria di soli 45,32 mc.;
3.3.3. la realizzazione dell'ulteriore volumetria era stata
progettualmente prevista mediante l'accorpamento di terreni
situati altrove, in zona classificata dal PdF come "E2 -
verde agricolo", che prevedeva un indice di
fabbricabilità pari a 0,03, mc/mq (art. 17 delle relative
NTA);
3.3.4. secondo quanto previsto dal PdF e dalla legge regionale
Puglia n. 56 del 1980, come costantemente interpretata dalla
giurisprudenza di legittimità e amministrativa,
l'accorpamento dei fondi era consentito solo
all'imprenditore agricolo e solo ove fosse compatibile con
la effettiva vocazione agricola dell'intervento;
3.3.5. nel fascicolo relativo alla richiesta di permesso di
costruire erano stati rinvenuti unicamente un certificato di
iscrizione alla camera di commercio della Colella come
imprenditore agricolo ed un certificato di attribuzione
della partita IVA per lo svolgimento dell'attività di "coltivazione
di frutti oleosi", ma nessun documento che correlasse
l'intervento edilizio all'attività agricola;
3.3.6. l'area oggetto di intervento era stata inserita dal P.U.T.T.
della Regione Puglia, nell'ambito territoriale esteso "C",
soggetto a particolare regime di tutela che richiedeva il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica;
3.3.7. il 14/12/2009 era stata rilasciata l'autorizzazione
paesaggistica nella quale si affermava che: «l'intervento
previsto si ritiene conforme allo strumento urbanistico -
PdF vigente, in quanto rispetta gli indici plano volumetrici
prescritti nelle zone agricole (...) non incide in maniera
sconvolgente sull'aspetto architettonico e paesaggistico dei
luoghi (...) facendo salvi tipologia, volumi e standards
urbanistici previsti dal vigente PdF (...) l'intervento
risulta conforme al PUTT, così come riportato nella
relazione paesaggistica allegata al progetto (...) accertata
la conformità urbanistica dell'intervento allo strumento
urbanistico vigente, nonché al PUTT ed alla normativa in
materia».
3.4. Secondo i Giudici di merito, l'autorizzazione non
avrebbe potuto essere rilasciata ostandovi i seguenti
presupposti di fatto, ben noti all'imputato:
a) il progetto
prevedeva la realizzazione di una "casa di civile
abitazione in campagna";
b) l'intervento edilizio non
era funzionale alla conduzione di un'impresa agricola
inesistente;
c) i lotti da accorpare non erano confinanti,
né contigui;
d) gli indici di utilizzazione fondiaria non
erano omogenei, non essendo consentito utilizzare i maggiori
indici di utilizzazione fondiaria di un fondo per
incrementare quelli ben minori dell'area di sedime.
3.5. Di qui l'affermazione della falsità dell'autorizzazione
paesaggistica nella parte in cui ha dato per esistenti i
presupposti per il suo rilascio.
4. E' necessario premettere che, come anticipato, il
ricorrente non contesta le basi fattuali del ragionamento
dei Giudici di merito. Sin dall'appello, infatti, si era
limitato a contestare la configurabilità giuridica del reato
di falso ideologico e a dedurre la mancanza dell'elemento
soggettivo.
4.1. La tesi difensiva della insussistenza del reato è
totalmente infondata alla luce del costante insegnamento di
questa Corte secondo il quale integra il
reato previsto dall'art. 479 cod. pen. (ma i termini del
problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di
cui all'art. 480) il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio
tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di
quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei
presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della
relativa domanda. L'autorizzazione paesaggistica ha natura
di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e
valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti
prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo
della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui
rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo
giuridico di svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni (Sez.
3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta, Rv. 268083).
4.2. Lo stesso principio, peraltro, è già stato affermato
con sentenza Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv.
267953, che ha definito altro processo a carico dell'odierno
imputato, reo di aver rilasciato un'autorizzazione
paesaggistica falsa nei suoi presupposti.
4.3. Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella
nota sentenza Sez. U, n. 1827 del 02/02/1995, Proietti, Rv.
200117, che affermò il principio, mai più posto in
discussione, secondo il quale anche
nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di
volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un
fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione
alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più
precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a
verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto
costituente il presupposto indispensabile per il compimento
dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non
risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché,
quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non
menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto
di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve
logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore
implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente
irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente
preordinata) ai fini della sussistenza della falsità
ideologica.
4.4. I provvedimenti amministrativi emessi
all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico
non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è
libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che lo rappresenta non è destinato a provare la
verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito
a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione,
si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si
denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la
valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico
ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà
essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità,
non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è
implicitamente vincolato
(Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto, Rv. 216123; Sez. 2,
n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305; Sez. F, n.
39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, che ha ribadito
la sussistenza del reato in caso di omessa indicazione, in
provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di
funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza
delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale
e della normativa correttamente applicabile nel caso
concreto).
4.5. La tesi del cd. "falso indotto" è radicalmente
priva di fondamento fattuale prima ancora che giuridico
poiché mai è stata messa in discussione la conformità a vero
dei fatti rappresentati negli elaborati progettuali a
corredo della richiesta di autorizzazione, tant'è che il
Tribunale ha potuto agevolmente ricostruire la vicenda
esaminando proprio gli atti prodotti dalla proprietaria/
committente.
E dunque il ricorrente/pubblico ufficiale aveva ben presenti
i presupposti fattuali della condotta amministrativa e tutte
le informazioni necessarie a esprimere un giudizio tecnico
consapevole e coerente con i fatti documenti, senza
necessità di sopralluoghi.
Torna utile ricordare che, come detto, lo stesso ricorrente
non ha mai messo in discussione la ricostruzione dei fatti
operata dai giudici di merito secondo i quali la violazione
delle norme e degli strumenti urbanistici era talmente
eclatante da non poter passare inosservata ad un pubblico
ufficiale esperto come l'odierno ricorrente.
4.6. I primi due motivi sono dunque manifestamente
infondati (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18890). |
marzo 2018 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Conferenza di servizi preliminare e tutela paesaggistica.
---------------
●
Processo amministrativo – Atto impugnabile - Conferenza di
servizi preliminare – Determinazione conclusiva – E’
impugnabile.
●
Paesaggio – Tutela – Autorità statale preposta alla gestione
del vincolo - Finalità esclusiva.
●
L’atto conclusivo della conferenza di servizi preliminare è
impugnabile (1).
●
La tutela dei valori paesaggistici costituisce,
per l’autorità statale preposta alla gestione del vincolo,
una finalità tendenzialmente esclusiva, nel senso che
l’interesse paesaggistico non può essere oggetto di
comparazione, da parte della medesima autorità, con altri
interessi pubblici concomitanti; e ciò sia per il preminente
valore costituzionale del paesaggio, sia perché la funzione
di tutela del paesaggio si svolge attraverso valutazioni di
carattere tecnico-scientifico, il cui processo formativo non
prevede quella comparazione tra interessi che è tipica della
discrezionalità amministrativa pura (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che gli effetti giuridici essenziali
riconducibili alla determinazione conclusiva della
conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma 3,
sesto periodo, l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui “Ove si
sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione
procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo,
indice la conferenza simultanea nei termini e con le
modalità di cui agli artt. 14-bis, comma 7, e 14-ter e, in
sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in
sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente
modificate o integrate solo in presenza di significativi
elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito
delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”.
Pertanto, le acquisizioni maturate nella conferenza
preliminare (in ordine ai pareri, nulla osta e ogni altro
atto di assenso necessario ai fini della approvazione
dell’intervento proposto), si consolidano e si riverberano
sulla successiva approvazione sia dei progetti di
fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e
possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze
(di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento
degli effetti della conferenza preliminare, nei termini
sinteticamente descritti, implica la necessità, per i
soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni
giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
(2) Nel caso di specie, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio
aveva rilasciato parere favorevole di compatibilità
paesaggistica, per il progetto preliminare di un’opera
pubblica di notevole impatto in quanto la soluzione proposta
non sembra avere alternative. La Sezione ha ritenuto che in
tal modo si pone illegittimamente in comparazione “l’inserimento
paesaggistico delle opere”, che attiene alla tutela del
paesaggio, con la mancanza di alternative alla soluzione
proposta, che attiene a interessi diversi e non affidati
alla Soprintendenza
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 08.03.2018 n. 185
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
13. - Con il secondo motivo, i ricorrenti –denunciando
«Eccesso di potere. Difetto d'istruttoria. Illogicità
manifesta. Erroneità dei presupposti. Travisamento dei
fatti. Contraddittorietà. Perplessità. Difetto di
motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3
della L. n. 241/1990»- fanno valere i vizi di legittimità che
inficerebbero i pareri, rilasciati in sede di conferenza di
servizi svoltasi il 29.06.2016, da parte delle autorità
deputate alla tutela dei vincoli paesaggistici esistenti
sull’area in cui dovranno essere eseguiti i lavori.
In primo
luogo, nei confronti del parere favorevole all’intervento
reso dal “Servizio tutela del paesaggio” per le provincie di
Cagliari e Iglesias, ufficio della Regione Sardegna, si
deduce il difetto di istruttoria e di motivazione sia perché
mancherebbe una valutazione specifica dell’impatto
paesaggistico di un intervento che si caratterizza per
l’imponenza della struttura (in specie, del viadotto), sia
perché le considerazioni svolte sarebbero, oltre che
generiche, del tutto tautologiche.
Nei confronti del parere favorevole espresso dalla
Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio si rileva, in
particolare, la contraddittorietà della motivazione. Il
delegato in conferenza di servizi, infatti, osserva in primo
luogo che la soluzione proposta «non appare soddisfacente in
relazione all’inserimento paesaggistico delle opere»,
indicando anche le rilevanti modifiche che andrebbero
apportate al progetto. Peraltro, osservano i ricorrenti, il
parere si conclude apoditticamente con l’affermazione che la
soluzione progettuale non sembra avere alternative e che non
vengono ravvisati elementi ostativi alla realizzazione
dell’opera.
Con il terzo motivo, i ricorrenti contestano la stessa
possibilità di un corretto inserimento paesaggistico
dell’intervento progettato, sulla scorta della
considerazione che si intendono realizzare delle opere di
dimensioni sproporzionate rispetto sia alla natura del tutto
eccezionale degli eventi alluvionali paventati, sia al
notevole pregiudizio che subirebbe il pregio paesaggistico
della zona coinvolta in relazione alla finalità perseguita,
ossia la regolarità del traffico veicolare in una località
abitata da poco più di mille persone.
Con il quarto motivo i ricorrenti sollevano ulteriori
profili di illegittimità del progetto approvato, per il
difetto di istruttoria emerso in conferenza di servizi con
riferimento alla considerazione che il viadotto progettato
sarebbe stato reso necessario dalla situazione di
irregolarità dei ponti esistenti; e con riferimento al
rilievo secondo cui le opere progettate sarebbero funzionali
alla realizzazione di un parco che metta in collegamento la
zona sportiva con la biblioteca. Entrambi i rilievi
sarebbero sganciati dalla realtà di fatto e dimostrerebbero
che il progetto è stato redatto in assenza della necessaria
conoscenza dei luoghi.
Infine, con il medesimo motivo, si deduce l’errore in cui
sarebbe occorso il responsabile unico del procedimento nel
ritenere che il Comune di Capoterra avrebbe espresso, in
epoca precedente alla conferenza di servizi del 29.06.2016, parere favorevole al progetto.
Sostengono i ricorrenti
che l’amministrazione comunale si è espressa esclusivamente
in relazione alla versione definitiva dello Studio Hy.
avente ad oggetto l'analisi idrologica del territorio, con
specifico riferimento soltanto alla “soluzione 2” (si rinvia
al doc. 4, pagg. 32-34, di parte ricorrente), riguardante il
territorio c.d. “a valle”, verso la foce del Rio San
Girolamo.
Nessun voto favorevole è mai stato espresso con
riferimento all'intervento riguardante la realizzazione del
nuovo attraversamento del lago di Poggio dei Pini, che
rientrava tra quelli inerenti il territorio “a monte”.
13.1. - I motivi possono essere esaminati congiuntamente,
data la loro stretta connessione.
13.2. - Peraltro, prima di affrontare il merito delle
censure, si pone una questione di rito che deriva dalla
natura della conferenza di servizi tenutasi per l’esame e la
valutazione del progetto.
Si è trattato, infatti, di una
conferenza preliminare finalizzata (secondo la definizione
di cui all’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del 1990) «a
indicare al richiedente, prima della presentazione di una
istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per
ottenere, alla loro presentazione, i necessari pareri,
intese, concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o
altri atti di assenso, comunque denominati», in relazione
alla quale si potrebbe prospettare il problema della
impugnabilità della determinazione conclusiva, considerato
che l’oggetto della conferenza preliminare non è ravvisabile
nell’approvazione del progetto sottoposto al suo esame ma,
piuttosto, quella di prefigurare le condizioni della
(futura) approvazione del progetto definitivo o esecutivo.
La questione si traduce, quindi, nel verificare il reale
contenuto lesivo della determinazione conclusiva della
conferenza preliminare, sia quando essa si esprima nel senso
di rilevare le criticità del progetto esaminato, che non
consentirebbero una sua positiva valutazione, ipotesi
rispetto alla quale si profila l’interesse del proponente a
impugnare l’esito negativo della conferenza); sia quando
(come nel caso di specie) l’esito della conferenza
preliminare sia favorevole all’iniziativa progettuale
(perché in tal caso l’impugnabilità della determinazione
conclusiva si sorreggerebbe sull’interesse a ricorrere di
terzi controinteressati che si ritengano lesi dalla
conclusione della conferenza).
Ciò premesso in linea di principio, gli effetti giuridici
essenziali riconducibili alla determinazione conclusiva
della conferenza preliminare si ricavano dall’art. 14, comma
3, sesto periodo, della legge n. 241/1990, secondo cui «Ove
si sia svolta la conferenza preliminare, l'amministrazione
procedente, ricevuta l'istanza o il progetto definitivo,
indice la conferenza simultanea nei termini e con le
modalità di cui agli articoli 14-bis, comma 7, e 14-ter e,
in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse
in sede di conferenza preliminare possono essere
motivatamente modificate o integrate solo in presenza di
significativi elementi emersi nel successivo procedimento
anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul
progetto definitivo».
Pertanto, le acquisizioni maturate
nella conferenza preliminare (in ordine ai pareri, nulla
osta e ogni altro atto di assenso necessario ai fini della
approvazione dell’intervento proposto), si consolidano e si
riverberano sulla successiva approvazione sia dei progetti
di fattibilità o preliminari, sia del progetto definitivo; e
possono essere modificate solo sulla base di sopravvenienze
(di fatto o di diritto, si dovrebbe ritenere).
Ne deriva come conseguenza che il possibile consolidamento
degli effetti della conferenza preliminare, nei termini
sinteticamente descritti, implica la necessità, per i
soggetti che si ritengano lesi nelle loro situazioni
giuridiche, di impugnare l’atto conclusivo.
Nel caso in
esame, trattandosi di esito favorevole che si inserisce nel
procedimento di approvazione del progetto preliminare,
correttamente i vizi della determinazione conclusiva della
conferenza preliminare vengono fatti valere, in via
derivata, quali vizi dell’ordinanza (più volte citata) con
la quale è stato approvato il progetto preliminare (mentre
la immediata impugnabilità della determinazione conclusiva
della conferenza preliminare si rende necessaria, per il
soggetto che propone l’intervento, solo in caso di esito
negativo, assimilabile a una sorta di «arresto
procedimentale»).
13.3. - Nel merito, sono fondate le censure con le quali si
denuncia il difetto di motivazione del parere favorevole
espresso dall’ufficio regionale sul paesaggio, nonché la
illogicità e contraddittorietà del parere favorevole reso
dalla Soprintendenza.
13.4. - L’area interessata dall’intervento è tutelata sotto
il profilo paesaggistico per l’operare di diversi vincoli,
per effetto –in primo luogo- del D.M. 15.06.1981, e,
successivamente, dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004,
dell’art. 142 del medesimo codice dei beni culturali (con
riferimento alla fascia dei 150 metri del rio San Girolamo),
delle previsioni contenute nel piano paesaggistico regionale
del 2006 (in quanto la zona ricade all’interno della fascia
costiera, art. 17 delle n.t.a. del PPR).
Ciò premesso, è opportuno riferire il contenuto dei pareri
con i quali le autorità preposte alla tutela dei vincoli
hanno positivamente valutato il progetto preliminare.
13.5. - Per quanto concerne il parere del servizio regionale
di tutela del paesaggio (cfr. nota del 16.06.2016, doc.
13 di parte ricorrente), sul presupposto che «l’ipotesi
progettuale prevede la formazione di una sede più ampia
dell’attuale corso d’acqua, atta a rendere maggiormente
funzionale e in sicurezza il sistema fluviale [e che] gli
interventi sono improntati [alle] buone pratiche della
ingegneria naturalistica in armonia con il quadro
paesaggistico di riferimento», conclude esprimendo «parere
preliminare favorevole all’intervento proposto, riservandosi
eventuali ulteriori approfondimenti in sede di progettazione
definitiva, alla quale si rimanda, per l’ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del D.Lgs.
42/2004».
Il parere della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio è
stato reso in sede di conferenza di servizi preliminare del
29.06.2016, nei seguenti termini:
«Il rappresentante della Soprintendenza fa presente che la
soluzione proposta non sembra avere alternative; essa,
peraltro, non appare soddisfacente in relazione
all'inserimento paesaggistico delle opere. Pertanto, la
condivisione del progetto preliminare deve intendersi
limitata alle opere infrastrutturali e che il progetto
definitivo, al fine di conseguire l’approvazione da parte
della Soprintendenza, dovrà contemplare alcune modifiche per
mitigare l’inserimento dell’opera nel contesto ambientale di
Poggio dei Pini; in particolare si prescrive quanto segue:
- dettagliato progetto degli interventi di mitigazione e
compensazione comprensivo dell'indicazione della morfologia
delle aree interessate e delle essenze da impiantare,
contestuale alle altre opere;
- se possibile eliminare la rotatoria;
- definire e indicare le essenze arbustive e/o arboree da
impiantare per mitigare gli impatti;
- adozione di un sistema di illuminazione della nuova
viabilità volto a limitarne l’inquinamento luminoso;
l'indicazione di tutti gli elementi di arredo, delle
armature stradali e dei corpi illuminanti (al riguardo, è
indispensabile che vengano prodotte le relative schede
tecniche […];
- le mantellate di protezione spondale previste dal progetto
sono caratterizzate da un notevole impatto visivo che deve
essere mitigato mediante opere a verde, tenendo conto del
conseguente incremento della rugosità e della scabrezza
dell’alveo;
- negli attraversamenti dei corsi d’acqua minori si chiede
di eliminare il belvedere per limitare l’ingombro dei
manufatti;
- arretrare le spalle del ponte al fine di ottenere il
mascheramento delle stesse e consentire la prosecuzione
della sistemazione delle sponde dell’alveo anche in
corrispondenza del ponte medesimo.[…] L’ing. Ga.To.
conferma che la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le
province di Cagliari, Oristano, Medio Campidano,
Carbonia-Iglesias, Ogliastra non ha ravvisato la presenza di
elementi ostativi alla realizzazione dell’opera».
13.6. - La mancanza di una adeguata motivazione delle
ragioni che consentirebbero di derogare al vincolo
paesaggistico operante sull’area, emerge in maniera del
tutto evidente dall’esame del parere dell’ufficio regionale
per il paesaggio, atteso che si fa genericamente riferimento
all’intervento proposto, senza tenere nel dovuto conto le
dimensioni delle opere da realizzare (essendo palesemente
insufficiente affermare che «gli interventi sono improntati
[alle] buone pratiche della ingegneria naturalistica»), né
viene in alcun modo affrontata ed esaminata la fondamentale
questione (in cui si traduce il potere di valutazione
tecnica riservato all’autorità che gestisce, o co-gestisce,
il vincolo) di come inserire l’intervento nel contesto
paesaggistico di riferimento.
Alla luce del preminente
valore costituzionale della tutela del paesaggio (art. 9
della Costituzione), ribadito costantemente dalla copiosa
giurisprudenza della Corte Costituzionale e del Consiglio di
Stato (tra le più recenti, si veda Cons. St., sez. VI, 23.07.2015, n. 3652, ed ivi i richiami alle fondamentali
sentenza della Corte Costituzionale e dello stesso giudice
d’appello; in precedenza, si veda soprattutto Cons. St.,
sez. VI, 23.12.2013, n. 6223), il dovere di
motivazione dell’autorizzazione paesaggistica deve
necessariamente articolarsi secondo «un modello che
contempli, in modo dettagliato, la descrizione: i)
dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati; ii) del
contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni; iii) del rapporto tra
edificio e contesto, anche mediante l’indicazione
dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si
inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535)» (così la citata sez. VI, n.
6223/2013).
La motivazione, in particolare quando sono in
gioco fondamentali valori costituzionali, deve dare conto in
modo circostanziato sia delle premesse in fatto, sia del
percorso logico e valutativo che l’amministrazione ha
seguito per giungere alla decisione.
Nel parere favorevole
reso dall’ufficio regionale sono sostanzialmente omessi
tutti i passaggi sopra descritti.
13.7. - Quanto al parere della Soprintendenza, esso si
caratterizza non solo per la insufficiente valutazione dei
profili di compatibilità tra il progetto presentato e i
valori paesaggistici implicati, ma anche per la intima
contraddittorietà tra le considerazioni svolte in premessa,
nelle quali sono comprese incisive richieste di modifica del
progetto, e la conclusione formulata dal Soprintendente nel
senso di non ravvisare «elementi ostativi alla realizzazione
dell’opera».
Affermazione, quest’ultima, in patente
contrasto anche con la premessa generale relativa
all'inserimento paesaggistico delle opere, ritenuto non
soddisfacente. Il che avrebbe dovuto indurre la
Soprintendenza a esprimere parere contrario o a condizionare
espressamente il rilascio del parere alle modifiche
progettuali esplicitate in conferenza preliminare o a
condizionare espressamente il parere favorevole alla
adozione delle predette modifiche in sede di elaborazione e
approvazione del progetto definitivo (ferma restando la
necessità di motivare in ordine alla compatibilità
dell’opera, pur modificata, con il vincolo paesaggistico).
Occorre far notare, infatti,
come la tutela dei valori
paesaggistici costituisca, per l’autorità (statale) preposta
alla gestione del vincolo, una finalità tendenzialmente
esclusiva, nel senso che l’interesse paesaggistico non può
essere oggetto di comparazione, da parte della medesima
autorità, con altri interessi pubblici concomitanti; e ciò
sia per le ragioni costituzionali sopra menzionate, sia
perché la funzione di tutela del paesaggio (come ha
ricordato il Consiglio di Stato nella pronuncia della sez. VI, n. 3652/2015, sopra citata)
si svolge attraverso
valutazioni di carattere tecnico-scientifico, il cui
processo formativo non prevede quella comparazione tra
interessi che è tipica della discrezionalità amministrativa
pura.
Pertanto, quando nel parere reso dalla Soprintendenza
si sostiene, in premessa, che «la soluzione proposta […] non
appare soddisfacente in relazione all'inserimento
paesaggistico delle opere», in effetti si profila una
ragione da sola sufficiente a motivare l’espressione di un
parere contrario alla realizzazione dell’opera, essendo
escluso che la Soprintendenza debba farsi carico di una
comparazione dell’interesse paesaggistico (unico interesse
attribuito alle sue cure) con altri interessi
contestualmente presenti nella vicenda. Una deviazione da
tali principi concretizzerebbe un vizio di eccesso di potere
per sviamento, ovvero una classica ipotesi di esercizio del
potere per una finalità diversa da quella prevista dalla
norma.
Il che sembra ricorrere nel caso di specie, quando la
Soprintendenza pone in comparazione «l’inserimento
paesaggistico delle opere» (che attiene alla tutela del
paesaggio) con la mancanza di alternative alla soluzione
proposta (che attiene a interessi diversi e non affidati
alla Soprintendenza).
14. - Dalle osservazioni che hanno portato all’accoglimento
dei vizi sopra esaminati, deriva come conseguenza
l’infondatezza del terzo motivo, poiché la valutazione della
compatibilità paesaggistica dell’opera (in assenza di un
vincolo di inedificabilità assoluta) è riservata alle
autorità titolari della funzione di tutela, che si dovranno
nuovamente pronunciare sul punto.
15. - Sono infondate, altresì, le censure di difetto di
istruttoria di cui al quarto motivo, poiché si tratta di
profili irrilevanti ai fini della decisione di realizzare le
opere in questione. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che
«l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue
che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza
di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo
edilizio adottato.
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4.3.− Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto che
la mancanza di autorizzazione paesaggistica costituirebbe un
requisito di efficacia e non di validità del permesso di
costruire, con la conseguenza che non ne poteva essere
disposto l’annullamento d’ufficio. Aggiunge, inoltre, che
non sussisterebbe neanche il vincolo, perché non
risulterebbe neanche dal certificato di destinazione
urbanistica.
Il motivo è infondato.
Anche in questo caso la fondatezza della prima censura per
mancanza del titolo edilizio rende priva di rilevanza
l’analisi di tale motivo, in quanto le opere sono abusive.
In ogni caso, e parimenti ad abundantiam, si osserva che
l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che
«l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue
che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza
di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo
edilizio adottato (Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V,
08.11.2012, n. 5691) (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 07.03.2018 n. 1465 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
IL C.D. EQUILIBRIO URBANISTICO NON È SUFFICIENTE A
GIUSTIFICARE L’ESISTENZA DEL PERICULUM PER IL REATO
PAESAGGISTICO.
In tema di sequestro preventivo, al fine
di ritenere sussistente il periculum in mora legittimante
l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, in
relazione al reato paesaggistico, è imprescindibile fare
riferimento non tanto e non solo all’incidenza dell’uso
degli immobili sul carico urbanistico (essendo ciò rilevante
per il reato edilizio), ma è necessaria la valutazione circa
il permanere della lesività della struttura abusiva già
completata, sotto il profilo del pericolo concreto per il
paesaggio, inteso in relazione all’assetto geomorfologico,
all’assetto idraulico e all’assetto della costa.
La questione
affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
verte sulla possibilità di giustificare l’adozione di un
provvedimento
di sequestro preventivo disposto anche in presenza di
un reato paesaggistico con il semplice richiamo
all’esistenza
stessa dell’opera abusiva.
La vicenda processuale segue alla
ordinanza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta
di
riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal
Giudice per le indagini preliminari relativo ad un immobile
(e più
dettagliatamente della sopraelevazione costituente il terzo
piano fuori terra di un immobile, nonché della scala in
cemento
armato realizzata in luogo dell’immobile di collegamento tra
i
due corpi di fabbrica insistenti in loco, il sottotetto
costituente
copertura dell’intero fabbricato, la veranda fronte mare sul
suolo demaniale per mq 3,20) in relazione ai reati di cui
all’art.
110 c.p. e d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c),
art. 110
c.p. e artt. 54 e 1161 c. nav., art. 110 c.p. e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e artt. 110 e 323 c.p. In particolare,
la
decisione era stata assunta a seguito dell’annullamento con
rinvio pronunciato dalla stessa Cassazione di una precedente
ordinanza che confermava il menzionato decreto di sequestro
preventivo.
La sentenza della Cassazione aveva rilevato che
il
sequestro trovava fondamento essenzialmente nella
contestazione
di cui al capo B (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. c), incentrata sulla inosservanza delle
previsioni del
Piano stralcio di assetto idrogeologico della Regione
Calabria,
dalla quale era scaturita l’illegittimità dei titoli edilizi
rilasciati ai
proprietari dell’immobile. La pronuncia censoria aveva
trovato
ragione unicamente nel fatto che, in relazione al periculum
in
mora, il giudice del riesame aveva omesso di accertare in
concreto se l’uso dell’immobile, abusivamente realizzato in
zona vincolata, determinasse un aggravamento delle
conseguenze
del reato, istituendo una sorta di “automatismo” tra
detto uso e l’alterazione dell’interesse tutelato dal
vincolo.
Decidendo quindi in sede di rinvio il Tribunale del riesame
si
era diffuso sulle ragioni che a suo avviso rendevano
sussistente
il periculum in mora, legittimante l’instaurazione ed il
permanere del vincolo cautelare, facendo riferimento
all’incidenza
dell’uso degli immobili sul carico urbanistico.
Contro l’ordinanza proponevano nuovo ricorso per cassazione
gli indagati, in particolare lamentando che il Tribunale
aveva
omesso del tutto di pronunciarsi sul tema rimarcato dalla
sentenza di annullamento, ovvero la relazione tra uso
dell’immobile
e aggravamento delle conseguenze del reato perché, pur non essendo stato contestato alcun profilo urbanistico,
la
valutazione del Tribunale aveva fatto perno esclusivamente
sull’incidenza dell’uso dei beni sul carico urbanistico ed
aveva,
quindi, omesso ogni valutazione circa le conseguenze
dell’utilizzo dell’immobile in relazione alla ratio delle
disposizioni
del vincolo PAI. Aggiungevano gli indagati che nel caso
concreto non sussisteva pericolo per la sicurezza e l’incolumità
pubblica, alla cui tutela correlano il vincolo Pai, e l’incongruenza
di un sequestro che funzionale a fronteggiare siffatto
pericolo
aveva ad oggetto il bilocale sito all’ultimo piano
dell’edificio e
non questo nella sua interezza.
La tesi ha convinto gli Ermellini che, nel dichiarare
fondato il
ricorso, hanno osservato come effettivamente il Tribunale
aveva posto la sua attenzione sull’incidenza dell’utilizzo
del
bene sul carico urbanistico, ovvero sull’equilibrio
urbanistico,
che però è cosa diversa dalla preservazione delle coste e
dalla
sicurezza idrogeologica.
Sul punto, i Supremi Giudici hanno
ricordato che in una recente decisione (Cass. pen., Sez. III,
28.11.2016, n. 50336, G., CED, 268331) si è rammentato
che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente la
mera esistenza di una struttura abusiva ultimata “non
integra
i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in
assenza
di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la
disponibilità
della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi,
possa
implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del
paesaggio”
(Cass. pen., Sez. III, 13.10.2015 n. 48958, G., CED,
266011; Id., Sez. III, 27.10.2010, n. 40486, Pm in proc.
P. e altro, CED, 248701 ha precisato che “l’esclusione
dell’idoneità
dell’uso della cosa a deteriorare ulteriormente
l’ecosistema,
protetto dal vincolo, deve formare oggetto di un esame
particolarmente approfondito”; principio di recente ribadito
da
Cass. pen., Sez. III, 24.08.2016, n. 35456, F.,
inedita).
Da qui, dunque, la fondatezza del ricorso, con nuovo
annullamento
dell’ordinanza (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 28.02.2018 n. 9196 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL N.O. RILASCIATO DOPO L’ESECUZIONE DEI LAVORI IN MANCANZA
DELLE CONDIZIONI NON EQUIVALE AD AUTORIZZAZIONE
PAESAGGISTICA.
L’autorizzazione postuma da parte
dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del
vincolo, che prevede, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. n.
42/2004, la possibilità di una valutazione della
compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già
realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del
reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1,
del medesimo decreto, non essendo il nulla osta intervenuto
dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo
paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere
l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già
compiuta in assenza di titolo abilitativo.
La Corte di cassazione si sofferma, con la sentenza in
esame,
ad analizzare la questione giuridica relativa
all’individuazione
dei possibili effetti che possono essere esplicati dal
rilascio di
nulla osta paesaggistico.
La vicenda processuale trae
origine
dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva
integralmente
confermato la pronuncia con cui il Tribunale di Oristano
aveva
ritenuto l’imputato responsabile dei reati di cui al d.P.R.
n. 380
del 2001, artt. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
181 per
aver, nella qualità di proprietario di un terreno soggetto a
vincolo paesaggistico e committente, realizzato, in assenza
del permesso di costruire e delle prescritte autorizzazioni,
tre
piste di varia lunghezza e dimensioni eliminando la
vegetazione
esistente formata da piante della macchia mediterranea
e livellando il terreno.
Contro la sentenza proponeva
ricorso
per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo
l’errore in
cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nella specie per aver
ritenuto l’irrilevanza del nulla osta tardivamente
conseguito
dall’imputato atteso che l’assenso della P.A. in relazione
al
vincolo paesaggistico, sia pure ottenuto ad opere già
ultimate,
dimostrava che le stesse non erano incompatibili con
l’ambiente,
attestandone al contrario la conformità ed agli strumenti
urbanistici operativi al momento della loro realizzazione,
ed avendo perciò in tal caso il nulla osta efficacia
sanante.
La tesi è stata respinta dalla Corte di cassazione che, sul
punto,
nell’affermare il principio di cui in massima, ha ribadito
il
costante orientamento giurisprudenziale secondo cui
l’autorizzazione paesaggistica costituisce, secondo quanto
previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 4, atto
autonomo e presupposto rispetto agli altri titoli edilizi
legittimanti
l’intervento edilizio e, all’infuori dei casi tassativamente
previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, commi 4 e 5,
non
può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione,
anche parziale, degli interventi.
Pertanto l’autorizzazione
postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta
alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi del citato
art. 167,
la possibilità di una valutazione della compatibilità
paesaggistica
di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di
per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale
disciplinato
dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto legislativo,
non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio
dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico
preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità
penalmente
rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo
abilitativo (Cass. pen., Sez. III, 07.05.2010, n. 17535,
M.,
CED, 247166; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, C.,
CED,
237562; Corte Cost., ord. n. 158 del 1998).
È tuttavia
prevista,
in deroga alla regola generale, una speciale ipotesi di
estinzione
del reato in presenza di autorizzazione postuma allorquando
questa venga rilasciata alle condizioni ed all’esito della
speciale procedura di cui all’art. 181, comma 1-quater dello
stesso decreto.
Trattasi invero di un procedimento
applicabile
ai soli interventi ivi tassativamente indicati,
caratterizzati da un
impatto sensibilmente più modesto sull’assetto del
territorio
vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima
disposizione
di legge, che postula, in ogni caso, l’osservanza di una
rigida sequenza temporale che, come ritenuto dalla
giurisprudenza,
non può prescindere dal necessario parere della
sovrintendenza
che la norma espressamente prevede e qualifica
come vincolante (Cass. pen., Sez. III, 13.06.2016, n.
24410, P. e altro, CED, 267191; Id., Sez. III, 07.03.2008,
n. 12951, S., CED, 239355), né ammette equipollenti
(Cass. pen., Sez. III, 29.11.2011, n. 889, F., CED,
251639).
All’infuori di tali puntuali condizioni il rilascio
dell’autorizzazione
paesaggistica postuma, comportando la qualificata
ricognizione dell’assenza di conseguenze dannose o
pericolose per l’ambiente, inibisce solo la demolizione e/o
la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi che ha funzione
direttamente ripristinatoria del bene offeso (Cass. pen.,
Sez.
III, 03.07.2007, n. 37318; Id., Sez. III, 26.11.2002, n.
40269, N., CED, 222703; Id., Sez. III, 03.07.2007, n.
37318, cit.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2018 n. 8853 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 7 del 14.02.2018, "Primo
aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 09.02.2018 n. 1671). |
anno 2017 |
|
dicembre 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria accoglie la tesi della cessazione degli
effetti del vincolo preliminare di notevole interesse
pubblico ante novella del 2006, d.lgs. n. 42 del 2004 e
modula la portata temporale della propria pronuncia.
---------------
●
Beni
culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di
dichiarazione di notevole interesse – Sopravvenienza della
norma che introduce un termine di 180 giorni per la
approvazione – Mancata conclusione del procedimento –
Decadenza delle misure di salvaguardia.
●
Giustizia amministrativa –
Principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria –
Irretroattività – Condizioni.
●
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art.
157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1
e dell’art. 139, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve
interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente
dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse
pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo
decreto legislativo –come modificato con il d.lgs.
24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa
qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro
180 giorni». (1)
●
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato può modulare la portata temporale delle proprie
pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro,
al verificarsi delle seguenti condizioni:
a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata
delle disposizioni da interpretare;
b) l’esistenza di un
orientamento prevalente contrario all’interpretazione
adottata;
c) la necessità di
tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di
evitare gravi ripercussioni socio-economiche».
«Il termine di
efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente
dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse
pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente
sentenza». (2)
---------------
(1) I. – Il caso.
La questione oggetto della pronuncia in rassegna concerne la
tematica della perdurante efficacia delle proposte di
vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore
delle modifiche apportate nel 2006-2008 al Codice dei beni
culturali (d.lgs. n. 42 del 2004), non seguite dal decreto
ministeriale di conclusione del procedimento di
dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di
appello proposto da una società –interessata al rilascio di
un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n.
387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego
di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR
sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della
perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di
localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto
ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico
che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai
sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata
nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le
disposizioni della presente Parte si applicano anche agli
immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata
la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della
dichiarazione di notevole interesse pubblico o del
riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la
tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento
in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni
interessati e la durata della misura cautelativa o
anticipatoria di tutela si protraeva fino alla approvazione
del vincolo, senza indicazione di termini di efficacia della
misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del
provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs.
n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi,
segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del
suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento
ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di
cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per
le aree e gli immobili oggetto della proposta di
dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co.
1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari,
possessori o detentori dei beni che “non possono
distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino
pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione
ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio
legislativo del Ministero per i beni e le attività
culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata
dalla competente commissione prima della data di entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche
in assenza della approvazione mediante l’adozione della
dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) alla data di entrata in vigore del Codice ha continuato a
trovare applicazione la medesima disciplina prevista
dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497
(trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490),
secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di
insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si
sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione
paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela)
si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata
nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della
misura cautelativa o anticipatoria si protrae fino
all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il
lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle
bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
b) l’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che
“le disposizioni della presente parte si applicano anche
agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate
la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della
dichiarazione di notevole interesse pubblico o del
riconoscimento quali zone di interesse archeologico”,
non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo,
termini perentori per il perfezionamento della procedura o
forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione
ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs.
26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare
gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto
una espressa decadenza per le proposte non approvate dal
Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò
consegue che le forme di decadenza successivamente
introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo
formulate antecedentemente alla entrata in vigore del
Codice;
c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con
l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157,
comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio
mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”,
poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria
intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale
retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione
proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare la statuizione di primo
grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di
decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non
conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1,
d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs.
n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti
avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni
culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co.
2, del medesimo Codice che, al contrario, la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con ordinanza
12.06.2017, n. 2838 (oggetto
della News
US in data 13.06.2017)
la quarta sezione del Consiglio di Stato, dopo aver
disatteso alcune questioni preliminari, ha deferito la
questione all’Adunanza plenaria, ricostruendo i due
orientamenti esegetici che si fronteggiano sul tema e
richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte
dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in
materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole
alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere
proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori
argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons.
Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 e 21.03.2005
n. 1121 che
si richiamano ai principi espressi da Corte
cost., 23.07.1997 n. 262,
Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010
n. 16476; TAR
Venezia 29.04.2015, n. 473):
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi
procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini
di cui alla Tabella A, allegata al d.m. 13.06.1994 n. 495),
non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal
d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la
possibilità, per l’amministrazione, di emanare il
provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano
gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art.
146, co. 1, del Codice.
Tale affermazione si fonda sul sistema di tutela introdotto
dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla
affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata
adozione del provvedimento di vincolo nel termine di
conclusione del procedimento a tal fine previsto non
comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia
dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che,
applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della
proposta, diviene definitivo con l’adozione della
dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997
cit.);
e) il legislatore del 2006-2008, a fronte
dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di
tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del
decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157,
co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”,
di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte
(dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle
proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004;
f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti
proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte,
di perdita di efficacia delle misure di tutela)
costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme,
contrastante anche con il principio del “tempus regit
actum”;
g) la “insensibilità” delle antecedenti
proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano
logico–sistematico e secondo una interpretazione
costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del
paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto
che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e
generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non
ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale
indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro
i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del
d.lgs. n. 42/2004;
h) la logica sottesa alla scelta di non
considerare prive di effetti le proposte di vincolo a
seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute
alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la
stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr. sentenza
n. 57 del 2015, in Foro
it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza
plenaria (cfr. sentenza
n. 6 del 06.07.2015,
in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e
in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di
MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che
estende misure decadenziali a fatti storici anteriori
dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività
delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie,
come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto
dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della
domanda risarcitoria);
i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello
Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà
di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei
atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il
paesaggio come valore primario costituzionale (ma
riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una
materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa,
pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo
della violazione del principio generale della
proporzionalità (cfr. negli esatti termini Corte
di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano
Siragusa).
Secondo un diverso più recente orientamento, maturato in
seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (Cons.
Stato, sez. VI, 16.11.2016 n. 4746; TAR
Puglia–Bari, sez. III, 08.03.2012, n. 521 e TAR
Venezia, sez. II, 08.04.2005, n. 1393),
anche per le proposte di vincolo approvate prima della
entrata in vigore della novella al d.lgs. n. 42 del 2004,
varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141,
qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il
provvedimento ministeriale conclusivo del relativo
procedimento.
Ciò in quanto:
j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte
di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di
proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo
tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe
desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni
tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una
tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal
punto di vista del tenore letterale, una tale
differenziazione nel regime giuridico delle proposte di
vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a
tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni,
elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e
definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna
rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto
organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di
efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo
per intervenuta decadenza;
k) il quadro normativo operante è stato
profondamente modificato con gli interventi di cui ai
decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi
la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per
mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento
(a differenza di quanto previsto dal quadro normativo
vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte
costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte
della quale sempre meno si giustifica, con il passare del
tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo
formulate in epoca anteriore al 2004;
l) all’estensione della nuova disciplina anche
alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata
modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in
quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio
di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non
ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o
rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due
possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di
specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile
una interpretazione che tenda ad “uniformare” il
sistema, in luogo di una interpretazione che produca
differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei
loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
III.- La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la decisione in rassegna, l’Adunanza plenaria ha
ritenuto di fare propria la tesi minoritaria, definita di “discontinuità”,
ravvisando tuttavia l’esigenza di arricchirne (e in parte
modificarne) le argomentazioni e di individuarne gli
effetti, nei termini così sintetizzati:
m) occorre distinguere tra efficacia delle
proposte di vincolo ed efficacia del vincolo preliminare sul
bene che ne costituisce oggetto; la conservazione della “efficacia
a tutti gli effetti”, dal punto di vista della
interpretazione letterale, è predicata dall’art. 157, comma
2, in relazione alle sole proposte non anche al vincolo
preliminare sul bene che ne discende. Quest’ultimo è
soggetto ad una propria disciplina avente finalità
cautelare;
n) il rinvio operato dall’art. 157, comma 2, alle
disposizioni della Parte III del d.lgs. n. 42/2004 deve
intendersi come comprensivo della regola della decadenza
introdotta nell’art. 141 dal d.lgs. 157/2006 e riformulata
dal d.lgs. 63/2008, non avendo alcun fondamento la tesi
secondo cui esso sia limitato alle norme di tutela (dunque
al solo art. 146) o che si tratta di rinvio fisso al testo
originario dell’art. 141 che inizialmente non contemplava la
cessazione del vincolo preliminare;
o) il rinvio non ha natura recettizia, ma formale
(quindi mobile), come si evince dalla formulazione
letterale, che si riferisce alla fonte (“Le disposizioni
della presente Parte”) e non al contenuto;
p) posto, dunque, che l’art. 157, comma 2, rinvia
tanto all’art. 141, comma 5, quanto all’art. 146, comma 1,
per evitare l’assurdo logico che esso implichi allo stesso
tempo che l’effetto preliminare delle proposte anteriori
(art. 141, comma 5) persista (art. 146, comma 1), l’unica
soluzione possibile è interpretarlo nel senso che esso
intenda da un lato conservare l’efficacia delle proposte
anteriori alla novella del 2006 al Codice, dall’altro
assoggettarne l’effetto preliminare di vincolo alla
disciplina vigente sulla decadenza allo spirare del termine
di 180 giorni previsto per la conclusione del procedimento;
q) non può prospettarsi una questione di
violazione del principio di irretroattività della legge
perché nel caso di specie v’è una norma transitoria, l’art.
157, comma 2, che prevede espressamente l’applicabilità alle
situazioni pendenti della nuova disciplina sulla decadenza
della misura di salvaguardia introdotta nel 2006 e
confermata nel 2008. In tal modo, infine, viene fatta
corretta applicazione alla fattispecie del principio tempus
regit actum, dal momento che la nuova disciplina viene
applicata alla fase del procedimento (valutazione della
proposta ai fini dell’assunzione del provvedimento
definitivo) ancora in corso;
r) sussiste l’opportunità di uniformare il
sistema, per esigenze di coerenza e di parità di
trattamento, che viene in rilievo allorquando si debbano
valutare fatti accaduti nel passato i cui effetti si
producono nel presente;
s) sul piano teleologico, la tesi della
discontinuità si giustifica alla luce della considerazione,
da parte del legislatore, di una pluralità di valori
costituzionali, quali, oltre quello del paesaggio, la
protezione della proprietà privata (art. 41 Cost., nonché
art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU e quindi art.
117 Cost.), e il buon andamento della pubblica
amministrazione;
t) la tesi della continuità si pone in conflitto
con il canone della ragionevolezza, poiché ammette che il
vincolo preliminare possa essere efficace anche a distanza
di numerosi anni dalla proposta, ancorché da tempo sia stata
introdotta nel Codice una disposizione che ne sancisce la
perdita di efficacia;
u) la nuova disciplina, introdotta con il d.lgs.
157/2006 e con il d.lgs. 63/2008, non priva di efficacia le
proposte, ivi comprese quelle di cui all’art. 157, c. 2, ma
conforma diversamente il potere di imposizione del vincolo,
comportando la decadenza delle sole misure di salvaguardia
in caso di inerzia protrattasi oltre 180 giorni.
IV.- Per completezza, sulla tematica della tutela del paesaggio,
si segnala:
v) circa l’interpretazione dell'articolo 2,
ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso
nell’articolo 140 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490) -secondo il
quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la
tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella
necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per
poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin
dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei
Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o
anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo,
al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per
l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere
possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili
ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi
compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9
Cost.- Cons.
Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3;
Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n.
714; idem 25.01.1990, n. 139; Sez.
VI, 21.03.2005, n. 1121; Sez.
V, 11.10.2005, n. 5484; Tar
Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
w) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione
alla titolarità ed all’esercizio dei poteri di tutela,
controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons.
Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9,
in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
x) sulla importanza del paesaggio in sede di
pianificazione del territorio, Corte
cost., 24.07.2013, n. 238; 18.07.2013,
n. 211 e 24.07.2012,
n. 207,
in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI,
cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza;
y) sul carattere “trasversale” della materia della
tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte
cost., 17.07.2013, n. 194,
in Foro it., 2013, I, 2733.
(2) I.- Gli effetti della pronuncia
dell’Adunanza Plenaria e il prospective overruling «sostanziale».
A fronte della obiezione della difesa erariale sulla
compromissione della tutela paesaggistica che deriverebbe
dalla tesi della «discontinuità», implicando la
cessazione ex abrupto di un numero indefinito (ma
verosimilmente elevato) di proposte di vincolo, che
lascerebbe prive di protezione aree pregiate dal punto di
vista naturalistico o culturale, l’Adunanza plenaria ha
affermato i seguenti importanti principi:
a) ha ribadito che a cessare è solo l’effetto
preliminare di vincolo, non l’efficacia della proposta;
b) la decadenza dell’effetto preliminare non è
immediata, ma una volta decorso il termine di 180 giorni;
c) circa la decorrenza del predetto termine, dopo
aver rammentato che in base al combinato disposto dell’art.
140, comma 1, e dell’art. 139, comma 5, del Codice, tale
termine decorre dalla pubblicazione della proposta (sicché,
per le proposte anteriori al Codice, il vincolo preliminare
sarebbe decaduto decorsi 180 giorni dall’entrata in vigore
–ad opera del d.lgs. 63/2008– dell’attuale testo dell’art.
141, comma 5, che tale decadenza commina, ovvero, ancor
prima, per effetto del d.lgs. 157/2006, che l’ha
introdotta), precisa che in un quadro di incertezza
normativa, ben può, in via del tutto eccezionale, la sola
Adunanza plenaria modulare la portata temporale della
propria sentenza, facendone decorrere gli effetti solo per
il futuro; tanto alla stregua delle seguenti considerazioni:
c1) la giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’UE ha già da tempo affermato
–nell’ambito della giurisdizione di annullamento sugli atti
delle istituzioni– che il principio dell’efficacia ex
tunc dell’annullamento, seppur costituente la regola,
non ha portata assoluta e che la Corte può dichiarare che
l’annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia
effetto ex nunc o che, addirittura, l’atto medesimo
conservi i propri effetti sino a che l’istituzione
comunitaria modifichi o sostituisca l’atto impugnato; ciò al
fine di tener conto non solo del principio di certezza del
diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in
giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare
rilevante. Tale giurisprudenza trova oggi un fondamento
testuale nel secondo comma dell’art. 264 del Trattato sul
funzionamento della Unione Europea (FUE);
c2) i principi europei sono
trasferibili nell’ordinamento nazionale in virtù dell’art. 1
del Codice sul processo amministrativo, secondo cui “La
giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed
effettiva secondo i principi della Costituzione e del
diritto europeo”;
c3) la regola dell’annullamento
con effetti ex tunc dell’atto impugnato può, sia
pure in circostanze assolutamente eccezionali, trovare una
deroga, con la limitazione parziale della retroattività
degli effetti o con la loro decorrenza ex nunc: il
Consiglio di Stato ha già fatto applicazione di codesti
principi (il leading case è rappresentato da Cons.
Stato, sez. VI, n. 2755 del 2011 cui adde in
motivazione sez. VI, 09.03.2011, n. 1488);
c4) lo stesso ordinamento
nazionale riconosce la possibilità di graduare l’efficacia
delle decisioni di annullamento di un atto amministrativo
(cfr. l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990
e l’art. 34, comma 1, lettera a), c.p.a. nonché artt. 121 e
122 c.p.a.);
c5) anche la Corte
costituzionale, pur partendo dal principio della natura
intrinsecamente retroattiva delle sentenze dichiarative
dell’incostituzionalità di una legge (che altrimenti
sarebbero inutili per la parte vittoriosa del giudizio a
quo), ha ritenuto possibile la graduazione degli
effetti nel tempo della sentenza di accoglimento qualora vi
sia «l’impellente necessità di tutelare uno o più
principi costituzionali» (così Corte cost. 11.02.2015
n. 10, in Foro it., 2015, I, 1502, con nota di
ROMBOLI; id., 2015, I, 1922 (m), con nota di TESAURO; Riv.
giur. trib., 2015, 384, con nota di BORIA; Corriere
trib., 2015, 958, con nota di STEVANATO; Riv. dir.
trib., 2014, II, 455, con nota di RUOTOLO, CAREDDA; Dir.
e pratica trib., 2015, II, 436, con nota di CAMPODONICO; Giur.
it., 2015, 1324 (m), con nota di COSTANZO, MARCHESELLI,
PINARDI SCAGLIARINI; Dialoghi trib., 2015, 62, con
nota di GALLIO, SOLAZZI BADIOLI, STEVANATO, LUPI; Giur.
costit., 2015, 45, con nota di ANZON DEMMIG, GROSSO,
PUGIOTTO, GENINATTI SATÈ; Riv. neldiritto, 2015,
1055, con nota di PIROZZI; Giur. costit., 2015,
585, con nota di NOCILLA; Riv. dir. trib., 2015, II,
3, con nota di FEDELE, CROCIANI; Dir. e pratica trib.,
2015, II, 905 (m), con nota di MISTRANGELO, ZANOTTI; Riv.
trim. dir. trib., 2015, 981, con nota di AMATUCCI);
c6) secondo quanto desumibile
dall’esegesi dell’art. 99 c.p.a., le pronunce dell’Adunanza
plenaria hanno natura essenzialmente interpretativa -in
particolare quando essa ritenga di enunciare il principio di
diritto e di restituire per il resto il giudizio alla
sezione rimettente– e, analogamente alle sentenze di
annullamento e a quelle di incostituzionalità, hanno
efficacia retroattiva;
c7) in tali ipotesi, la deroga
alla retroattività trova fondamento, più che nel principio
di effettività della tutela giurisdizionale, nel principio
di certezza del diritto: si limita la possibilità per gli
interessati di far valere la norma giuridica come
interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche
o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero
di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di
una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti
che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un
comportamento non conforme alla normativa in ragione di una
obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle
disposizioni;
c8) la deroga alla
retroattività trova giustificazione anche nel dato testuale
dell’art. 113 Cost. secondo cui “La legge determina
quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti
della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti
previsti dalla legge stessa”, con la precisazione che
l’interposizione del legislatore non occorre allorquando via
sia un principio generale dell’ordinamento UE direttamente
applicabile che permetta al giudice amministrativo di
pronunciarsi sulla legittimità degli atti della pubblica
amministrazione modulando gli effetti della propria
sentenza, e ciò vale in particolare quando il giudizio di
annullamento presenti uno spiccato carattere interpretativo;
c9) dalla natura interpretativa
delle pronunce dell’Adunanza plenaria discende altresì la
praticabilità del prospective overruling, in forza
del quale il principio di diritto, affermato in contrasto
con l’orientamento prevalente in passato, non verrà
applicato (con vari aggiustamenti) alle situazioni anteriori
alla data della decisione. In questi casi il prospective
overruling si esplicita, dunque, nella possibilità per
il giudice di modificare un precedente, ritenuto inadeguato,
per tutti i casi che si presenteranno in futuro, decidendo
però il caso alla sua immediata cognizione in base alla
regola superata;
c10) le condizioni che devono
ricorrere perché l’Adunanza plenaria possa limitare al
futuro l’applicazione del principio di diritto sono:
- l’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle
disposizioni da interpretare;
- l’esistenza di un orientamento prevalente contrario
all’interpretazione adottata;
- la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o,
comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche;
c11) nella fattispecie in esame
sussistono tutte le indicate condizioni, poiché:
- il dato letterale è equivoco;
- la tesi della continuità è prevalente;
- è necessario, a tutela del paesaggio, evitare la cessazione
istantanea di tutti i vincoli preliminari attualmente
esistenti su aree di interesse naturalistico o culturale;
c12) ne consegue che, fermo il
potere del legislatore di intervenire per ridisciplinare la
materia, la delimitazione al futuro del principio di diritto
affermato implica che l’effetto preliminare di salvaguardia
cessi decorsi 180 giorni dalla pubblicazione della sentenza.
II.- Sulla possibilità di modulare gli effetti delle sentenze
dell’Adunanza plenaria si segnala:
d) il leading case, citato in
motivazione, rappresentato da Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2011, n. 2755 (in Urb. e app., 2011, 927, con
nota di TRAVI; Riv. neldiritto, 2011, 1228, con
nota di RONCA; Guida al dir., 2011, fasc. 26, 103
(m), con nota di LORIA; Giornale dir. amm., 2011,
1310 (m), con nota di MACCHIA; Giur. it., 2012, 438
(m), con nota di FOLLIERI; Riv. giur. ambiente,
2011, 818 (m), con nota di DE FEO, TANGARI; Dir. proc.
amm., 2012, 260, con nota di GALLO, GIUSTI; Dir. e
giur. agr. e ambiente, 2012, 566, con nota di AMOROSO,
ANNUNZIATA), in cui, rilevata l’illegittimità del piano
faunistico venatorio regionale, piuttosto che annullarlo
(così eliminando le –pur insufficienti– misure protettive
per la fauna), il giudice amministrativo ne ha accertato la
illegittimità statuendo al contempo l’obbligo di procedere
entro dieci mesi all’approvazione di un nuovo piano
faunistico, in conformità alla motivazione di accoglimento
del ricorso.
In questo caso la pronuncia si è dichiaratamente ispirata al
principio di effettività della tutela onde evitare che
l’annullamento potesse paradossalmente pregiudicare la
posizione della associazione ambientalista ricorrente, anche
se vittoriosa, rammentando che «la funzione primaria ed
essenziale del giudizio è quella di attribuire alla parte
che risulti vittoriosa l'utilità che le compete in base
all'ordinamento sostanziale»; la sentenza della sesta
sezione ha suscitato un ampio dibattito dottrinale, nel
quale sono emerse in genere posizioni critiche (cfr.
MACCHIA, L’efficacia temporale delle sentenze del
giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giornale
dir. amm., 2011, 1310; FOLLIERI, L’ingegneria
processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it.,
2012, 438; GALLO, I poteri del giudice amministrativo in
ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento,
e GIUSTI, La «nuova» sentenza di annullamento nella
recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Dir.
proc. amm., 2012, 260; TRAVI, Accoglimento
dell’impugnazione di un provvedimento e «non annullamento»
dell’atto illegittimo, in Urb. e app., 2011,
927; BERTONAZZI, Sentenza che accoglie l’azione di
annullamento amputata dell’effetto eliminatorio?, in Dir.
proc. amm., 2012, 1128; CARBONE, Azione di
annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative
della modulazione degli effetti caducatori, in Dir.
proc. amm., 2013, 428; DIPACE, L'annullamento tra
tradizione e innovazione; la problematica flessibilità dei
poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc.
amm., 2012, 1273);
e) il precedente della VI sezione (invero
anticipato da Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2011, n. 1488,
anch’esso citato in motivazione, sebbene nella diversa
ottica del bilanciamento di interessi più che di effettività
della tutela, in una fattispecie in cui, annullata una
destituzione, è stato escluso, sul piano retributivo,
l’effetto ripristinatorio) ha avuto un qualche seguito nella
successiva giurisprudenza amministrativa di primo grado
(cfr. Tar per l’Abruzzo, Pescara, 13.12.2011 nn. 693-700, in
un caso di adozione di una variante alle NTA del PRG in
assenza di preventiva V.A.S. e Tar per il Molise,
21.11.2014, n. 637, in caso di accertata illegittimità di
una autorizzazione unica per la realizzazione di un impianto
a biomasse in mancanza della VINCA, in un’ottica tuttavia di
bilanciamento di valori costituzionali, nonché Tar per
l’Abruzzo, Pescara, 03.07.2012, n. 336; Tar per il Lazio,
Sez. III-bis, 09.04.2014, n. 3838) e incontrato il favore
della più recente dottrina (DE NICTOLIS, L'autotutela
provvedimentale di annullamento degli atti illegittimi tra
principi costituzionali, regole e eccezioni, in www.giustizia-amministrativa.it;
CHIEPPA e GIOVAGNOLI, Manuale di diritto
amministrativo, Milano, 2011, 506);
f) la possibilità di modulare nel tempo gli
effetti della sentenza di annullamento è stata
successivamente esclusa da Cons. Stato, Ad. plen.,
13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con
nota di TRAVI nonché in Urb. e app., 2015, 917, con
nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; Giur. it.,
2015, 1693 (m), con nota di COMPORTI; Guida al dir.,
2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; Foro amm.,
2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; Corriere giur.,
2015, 1596, con nota di SCOCA; Dir. proc. amm.,
2016, 173, con nota di TURRONI); tale pronuncia (non
menzionata dalla Plenaria in oggetto), chiamata a decidere
una fattispecie in cui si è negato che il g.a. possa
convertire, d’ufficio, la domanda di annullamento in tutela
risarcitoria, ha ritenuto espressamente (ai §§ 6 -8 ), di
non poter recepire i principi elaborati dalla richiamata
sentenza della VI sezione n. 2755 del 2011 (valore
paradigmatico dell’art. 21-nonies della legge n.
241 del 1990 e degli artt. 34, comma 1, lettera a), nonché
121 e 122 c.p.a.; non trasponibilità, nell’ordinamento
italiano, delle regole del processo dinanzi alla Corte di
giustizia UE di cui all’art. 264 FUE); dopo aver rammentato
che la giurisdizione amministrativa di legittimità è una
giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture
parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, ha anche
precisato che non è “consentito al giudice, in presenza
dell’acclarata, obiettiva esistenza dell’interesse
all’annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate
ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità,
al principio della domanda” (nello stesso senso, sia
prima che dopo, v. Ad. plen. 25.02.2014, n. 9, in Foro
it., 2014, III, 429 con nota di SIGISMONDI; Ad. plen.,
27.04.2015, n. 5, id., 2015, III, 265, con nota di
TRAVI);
g) sull’effetto retroattivo della sentenza di
annullamento –da cui discende, tra gli altri, l’effetto
ripristinatorio- si veda per tutti, nella dottrina classica,
CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento (voce),
in Enc. dir., Milano, 1958, 496;
h) nel caso esaminato dalla pronuncia in
rassegna, la modulazione temporale degli effetti cassatori:
h1) non è stata applicata ad
una statuizione di annullamento –avendo la Plenaria rimesso
la decisione alla sezione rimettente– bensì all’effetto
naturalmente retroattivo della sentenza che, affermando il
principio di diritto applicabile al caso di specie, ha
natura dichiarativa e non costitutiva;
h2) è stata applicata -al
contrario di quanto sancito dal leading case della
VI Sezione n. 2755 del 2011- a sfavore della parte
ricorrente; per un primo commento sul punto si veda ANTONIO
VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del
diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent.
22.12.2017 n. 13) in Lexitalia 05.01.2018, secondo
il quale la limitazione pro futuro degli effetti
della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria
equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in
funzione para normativa, e può integrare un’ipotesi di
diniego di giurisdizione in danno della parte ricorrente,
suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (su
cui di recente si veda Cass. civ., sez. un., 29.12.2017 n.
31226 secondo cui “alla tradizionale interpretazione
“statica” –propria delle disposizioni codicistiche– del
concetto di giurisdizione rilevante ai fini
dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e
della Corte dei conti, si è andata affiancando una ulteriore
interpretazione, “dinamica” o “funzionale”, sottesa agli
artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, Cost. e
al primo comma dello stesso art. 111, come novellato dalla
legge costituzionale 23.11.1999, n. 2. In base a tale
interpretazione “dinamica”, attiene alla giurisdizione
l’interpretazione della norma che l’attribuisce non solo in
quanto ripartisce tra gli ordini di giudici tipi di
situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene
pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che
dai giudici si possono impartire per assicurare che la
protezione promessa dall’ordinamento risulti realizzata,
dall’altro i presupposti del loro esercizio; sicché è norma
sulla giurisdizione non solo quella che individua i
presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma
anche quella che dà contenuto al potere stabilendo
attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca”);
i) sul valore del precedente, sulla funzione
nomofilattica delle corti supreme, e sul difficile rapporto
fra interpretazione della legge e creazione della norma, si
vedano, da ultimo e nell’ambito di una sterminata
letteratura, gli scritti di F. PATRONI GRIFFI, La
funzione nomofilattica: profili interni e sovranazionali, in
Federalismi.it, n. 19/2017 ; R. RORDORF, Il
precedente nella giurisprudenza, in Foro it.,
2017, V, 277; A. PROTO PISANI, Tre note sui
<<precedenti>> nella evoluzione della giurisprudenza della
Corte costituzionale, nella giurisprudenza di una Corte di
cassazione necessariamente ristrutturata e nella
interpretazione delle norme processuali, ibidem, 286;
V. FERRARI, L’equivoco del giudice legislatore, ibidem,
295 (cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e
giurisprudenza anche in chiave comparata).
III. – Il prospective overruling.
In tema di overruling -e cioè di mutamento della
precedente interpretazione della norma processuale da parte
dell’organo nomofilattico che porti a ritenere esistente, in
danno di una parte del giudizio, una decadenza od una
preclusione prima escluse, di modo che l’atto compiuto dalla
parte, od il comportamento da questa tenuto secondo
l’orientamento precedente, risultino irrituali per effetto
ed in conseguenza diretta del mutamento dei canoni
interpretativi- si segnala quanto segue:
j) a partire da Cass. civ., sez. un., 11.07.2011
n. 15144 (in Foro it., 2011, I, 3343, con nota di
CAPONI, Retroattività del mutamento di giurisprudenza:
limiti, nonché in Corr. giur. 2011,
1392, con commenti di CONSOLO, CAVALLA e DE CRISTOFARO, Le
S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile:
funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento,
tipi di overruling) e numerose altre successive -tra
cui 21.05.2015, n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014,
n. 12521, 13.02. 2014, n. 3308, in Foro it.,
2014, I, 1114 con nota di P. CERBO, cui si rinvia per ogni
approfondimento; e, da ultimo, Cass. civ., sez. un.,
13.09.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per
configurare il c.d. prospective overruling (istituto
creato nel diritto nordamericano degli anni trenta proprio
per mitigare gli effetti della naturale retroattività dei revirement delle
corti supreme), e quindi per attribuire carattere
innovativo, con decorrenza ex nunc, all’intervento
nomofilattico, occorra la concomitante presenza dei seguenti
tre presupposti:
j1) l’esegesi deve incidere su
una regola del processo;
j2) l’esegesi deve essere
imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo
tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un
ragionevole affidamento;
j3) l'innovazione comporti un
effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa;
k) tale impostazione è stata pedissequamente seguita anche dal
giudice amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in
considerazione dalla decisione in commento), Cons. Stato,
Ad. plen., 02.11.2015, n. 9, in Foro it. 2016, III,
65, con nota di CONDORELLI, (specie § 4, in cui si afferma
esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una
sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma
in una operazione di creazione di un novum ius, in
sequenza ad un vetus ius, con sostanziale
attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte
del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo
coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101
Cost.”); successivamente, Cons.
Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138 (oggetto
della News
US in data 14.11.2017 cui
si rinvia per ogni ulteriore approfondimento); la pronuncia
in rassegna ha esteso il prospective overruling alla
interpretazione innovativa di una norma di diritto
sostanziale (anziché processuale), con il rischio di privare
il ricorrente sia della tutela cassatoria che di quella
risarcitoria, e senza che si fosse formato un diritto
vivente sul punto controverso (tanto che era stato
necessario rimettere la questione alla Plenaria proprio per
la presenza di un contrasto di giurisprudenza maturato in
seno al Consiglio di Stato); nel caso di specie la Plenaria
ha ritenuto di estendere la portata del prospective
overrulling ad una decadenza procedimentale
dell’Amministrazione (decadenza delle misure cautelari di
salvaguardia) ravvisando la medesima ratio della
decadenza processuale, sul presupposto della inderogabile
necessità di tutelare un valore costituzionale, qual è il
paesaggio e quindi di dover consentire alle Soprintendenze
di concludere nel termine di legge di 180 gg. (decorrente
dalla pubblicazione della sentenza della Plenaria) i
procedimenti di vincolo avviati prima dei correttivi al
codice dei beni culturali e mai conclusi, con salvezza delle
misure di salvaguardia che, diversamente, sarebbero
risultate irrimediabilmente travolte dall’effetto
retroattivo della pronuncia che ne ha accertato la
cessazione;
l) sulla valenza inderogabilmente retroattiva della esegesi
di norme di carattere sostanziale anche in presenza di un overruling, si
veda Cass. civ., Sez. V, 18.11.2015, n. 23585: “La
regola secondo cui, alla luce del principio
costituzionale del giusto processo, le preclusioni e le
decadenze derivanti da un imprevedibile revirement giurisprudenziale
non operano nei confronti della parte che abbia confidato
incolpevolmente sul precedente consolidato orientamento
attiene unicamente al profilo deglieffetti del mutamento di
una consolidata interpretazione del giudice della
nomofilachia in ordine a norme processuali. Il
sopravvenuto consolidamento di un nuovo indirizzo
giurisprudenziale su norme di carattere sostanziale
che in astratto consentirebbero la riforma di una precedente
decisione non può quindi giustificare la rimessione
in termini invocata dalla parte onde superare il giudicato formale
formatosi per la mancata tempestiva impugnazione di una
sentenza” (in termini, Sez. VI, 09.01.2015, n. 174, Riv.
giur. trib., 2015, 315, con nota di MARCHESELLI; Nuova
giur. civ., 2015, I, 501, con nota di MOLINARO)
(Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 22.12.2017 n. 13
- commento tratto da e link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere della Sovrintendenza, autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi
della stessa più ampia sequenza procedimentale,
autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei
primi due fa comunque venir meno i presupposti che
radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di
accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di
costruire per l’effetto caducante che ne consegue.
---------------
18. E’ comunque autonomamente fondata anche la seconda
censura, alla quale la società oppone plurime, ma non
fondate eccezioni di inammissibilità. Il parere della
Soprintendenza è perplesso e contraddittorio perché quanto
alle opere già eseguite richiama le disposizioni degli artt.
167 e 181 del codice e la sussistenza del vincolo
paesaggistico, demandando al Comune la verifica di
compatibilità, mentre si esprime chiaramente in senso
favorevole solo sulle ulteriori opere ancora da eseguire.
18.1. Segue da ciò il vizio dell’autorizzazione comunale,
che va oltre il segno nell’inciso della premessa, non
conforme al vero, “visto il parere favorevole della
Sovraintendenza”.
19. Parere della Sovrintendenza, autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi
della stessa più ampia sequenza procedimentale,
autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei
primi due fa comunque venir meno i presupposti che
radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di
accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di
costruire per l’effetto caducante che ne consegue (cfr. per
una parallela fattispecie procedimentale Cons. Stato, sez.
IV, 08.09.2015, n. 4193) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2017 n. 5896 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che il difetto
dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla
legittimità del titolo edilizio, ma ne determina
l’inefficacia.
---------------
1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di
Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il
verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig.
Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate,
con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
- veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
- piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x
5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto,
altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale
deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il
cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato
autorizzato.
...
4.3 Gli ultimi due motivi dedotti dal ricorrente si
riferiscono ai locali adibiti a lavanderia e deposito.
Il ricorrente ha evidenziato che con provvedimento del 03.07.1989 il Comune di Joppolo ha autorizzato la
costruzione di una tettoia per frescura in legno e una
baracca in legno e lamiera per deposito attrezzi e WC.
Lo stesso ricorrente ha, quindi, precisato che con permesso
di costruire n. 8 del 2009 l’immobile del ricorrente, con le
relative pertinenze, ha ottenuto il cambio di destinazione
d’uso da civile abitazione a ristorante.
Le difese del ricorrente si incentrano sostanzialmente su
tali argomenti, rilevando profili quali il lungo tempo
trascorso, il consolidarsi di una situazione di affidamento,
l’intervenuta autorizzazione alla modificazione della
destinazione d’uso.
Osserva il Collegio che il provvedimento repressivo nel caso
dei locali in questione non si basa sull’assenza di titolo
edilizio, ma sulla mancanza del nulla osta ambientale, in
relazione all’operato mutamento di destinazione d’uso.
È pacifico fra le parti che i manufatti in questione siano
sottoposti a vincolo ambientale, ai sensi della legge 08.08.1985 n. 431.
Orbene, è innegabile che l’azione dell’amministrazione si
sia svolta in modo non aderente ai canoni di buona
amministrazione, se è vero che essa si è resa conto
dell’esistenza del vincolo dopo circa vent’anni dal rilascio
del primo titolo edilizio e dopo avere rilasciato nel 2009
un permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso.
Gli stessi atti di accertamento e il provvedimento impugnato
non brillano per chiarezza e completezza espositiva. Anzi
risultano, per certi versi, lacunosi e scarsamente
comprensibili.
Ciò premesso, vi è un dato che risulta, tuttavia,
insuperabile: manca l’autorizzazione paesaggistica.
Occorre tenere conto, in proposito, che la giurisprudenza ha
chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica
non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne
determina l’inefficacia (Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015 n. 5663).
Ne consegue che, pur in presenza del titolo edilizio,
l’intervento assentito non è eseguibile fino a quando non
intervenga detta autorizzazione.
L’intervento repressivo da parte dell’autorità comunale non
rende, quindi, necessario l’esercizio di poteri di
autotutela, con la conseguenza che non risultano applicabili
i principi in materia di tutela di affidamento vigenti in
relazione a tale potere.
I motivi dedotti risultano, pertanto, infondati.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla necessità di autorizzazione
paesaggistica in ipotesi di insussistenza del bene tutelato
per legge ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. g), del
d.lgs. 42/2004 – Comune di Tolfa (Regione Lazio,
nota 30.11.2017 n. 610249 di prot.). |
ottobre 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art. 167
del d.lgs. 42/2004 a seguito dell'entrata in vigore del DPR
n. 31 del 2017, "Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" - Comune
di Genzano di Roma (Regione Lazio,
nota 17.10.2017 n. 522062 di prot.). |
settembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
A. Panzera,
Interventi edilizi semplificati in zona di tutela paesaggistica (Ambiente
& Sviluppo n. 8-9/2017).
---------------
A seguito di pubblicazione in Gazzetta ufficiale (G.U. Serie Generale n.
68 del 22.03.2017) è entrato in vigore il Regolamento contenente norme “per
l’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica
e di quelli sottoposti ad iter semplificato”, in attuazione dell’articolo
12, comma 2, del Decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito con
modificazioni, dalla Legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo
25, comma 2, del Decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla Legge 11.11.2014, n. 164. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 15.09.2017, "Approvazione,
ai sensi degli articoli 84 e 85 della l.r. 12/2005, della
modulistica utile alla predisposizione degli atti e delle
determinazioni che gli enti locali lombardi debbono assumere
nei procedimenti paesaggistici di loro competenza" (decreto
D.G. 12.09.2017 n. 10892). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 dell'11.09.2017, "Sesto
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 04.09.2017 n. 10538). |
EDILIZIA PRIVATA: G. Guzzo e E. Del
Greco,
LA TUTELA DEL PAESAGGIO NELL’ATTUALE
CODIFICAZIONE LEGISLATIVA: DIRITTO FONDAMENTALE O DIRITTO
CEDEVOLE? (10.09.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: Premessa. 1. Edilizia e paesaggio: le
rispettive discipline. 2. La legge n. 1497/1939 e la tutela
delle bellezze naturali. 3. La legge n. 431/1985 e la
previsione dei vincoli paesaggistici. 4. Il d.lgs. n.
490/1999: il testo unico delle disposizioni legislative in
materia culturale e ambientale. 5. L’autorizzazione
ambientale. 6. Il d.lgs. n. 42/2004 e s.m. e integrazioni.
7. I piani paesistici. 8. Il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica. 8.1. I termini fissati dall’articolo 146 per
il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica come novellato
dalla legge n. 164/2014 (art. 6, co. 4, e 25, co. 3). 8.2. I
rimedi di giustizia azionabili nei confronti
dell’autorizzazione paesaggistica. 8.3. Il d.P.R. n.
139/2010 e il d.P.R. n. 31/2017. 9. L’articolo 167, commi 4,
5 e 6 del d.lgs. n. 42/2004: l’autorizzazione paesaggistica
in sanatoria. 10. L’autorizzazione per le infrastrutture di
comunicazione elettronica dopo la legge n. 36/2001 (art. 8)
e il d.lgs. n. 259/2003 (art. 87) e s.m. ed int. 11.
Considerazioni finali. |
agosto 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, il ricorso
all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le
condizioni di cui alla appena citata norma ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Sicché, il Collegio ritiene che l'annullamento d'ufficio di
una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo
di intervento che deve essere realizzato sul territorio,
richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, preminente su quello privato alla
conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso
al potere di autotutela della pubblica amministrazione,
entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente
l'intento di operare un mero astratto ripristino della
legalità violata.
--------------
5. – Dalla documentazione acquisita in giudizio emerge che
la Sovrintendenza con nota 11770 del 16.04.2014 aveva
espresso parere favorevole alla installazione dei due
cartelloni “non essendosi rilevati elementi avversi la
conformità e la compatibilità dei lavori di cui si tratta
(…)” (così, testualmente, nell’atto sopra richiamato e
depositato in giudizio).
Con la successiva nota qui impugnata del 04.01.2016,
adottata in seguito alla riapertura del procedimento,
provocato dalla nota che il Comune di Fiumicino, in data
07.09.2015, aveva trasmesso alla Soprintendenza chiedendo un
ulteriore approfondimento istruttorio ed al preavviso di
diniego di cui alla nota del 03.11.2015, la Soprintendenza
ribaltava totalmente il precedente avviso favorevole
specificando testualmente che:
- il luogo oggetto dell’intervento di installazione di
cartellonistica pubblicitaria su strada di cui alla
richiesta di autorizzazione si colloca “in una zona
sottoposta a tutela paesaggistica, in un punto di grande
visibilità”;
- “la proposta è risultata non compatibile, in quanto propone la
messa in opera di due strutture per insegna pubblicitaria di
ampia dimensione, collocate su suolo pubblico in un'area
che, pur vulnerata dalla presenza diffusa di un'edificazione
disomogenea e di scarsa qualità, presenta ancora visuali
sufficientemente libere da interferenze visive”;
- l'installazione in esame, ove realizzata, a causa delle sue
dimensioni e della tipologia di forme e materiali scelti,
causerebbe un disturbo percepibile dei valori paesaggistici
tutelati, che si aggiungerebbe al disordine esistente, in
contrasto con le finalità di miglioramento della qualità
paesaggistica indicate dalla normativa di tutela vigente.
La Sovrintendenza poi, nel corpo del medesimo atto rilevava
(sempre testualmente) come “nelle osservazioni prodotte,
la richiedente cita l'autorizzazione ottenuta da questo
Ufficio per altre due installazioni simili. Tale
argomentazione, non può essere assunta come parametro ai
fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica"
di competenza di questo Ufficio ai sensi dell'art. 146, co.
8, del D.lgsl. 42/2004. Come già asserito nel preavviso di
diniego espresso da questa Soprintendenza con la nota citata
a margine, l'art. 153 del Codice riguarda esclusivamente le
installazioni pubblicitarie, che per loro natura sono
considerate dalla normativa paesaggistica, pertanto, in via
di principio generale come elementi di forte disturbo dei
valori paesaggistici ("il paesaggio è l'ambiente nel suo
aspetto visivo", vv. sentenza C. Cost. n. 367/2007).
Pertanto, per quanto attiene gli aspetti strettamente
paesaggistici (vv. sentenza Cons. Stato n. 3652/2015), si
ritiene che il permanere, e/o il proliferare di simili
installazioni in zone che, essendo sottoposte a tutela
paesaggistica ai sensi dell'art. 9 della Costituzione,
necessitano di particolare attenzione, a causa dell'aspetto
intrusivo di tali manufatti è da considerarsi non solo non
accettabile ma censurabile”.
Concludeva la Sovrintendenza la motivazione della decisione
sfavorevole segnalando al Comune di Fiumicino che, “si
rimanda l'autorizzazione eventuale di strutture
pubblicitarie, ove possibile, ad una fase successiva alla
rivisitazione della normativa comunale di riferimento
attualmente in vigore, normativa che è comunque sempre
subordinata a quella paesaggistica”.
6. – Pare evidente, dalla semplice lettura della motivazione
dell’atto qui impugnato con il ricorso introduttivo, che il
revirement della Soprintendenza non è accompagnato da
alcun espressa divulgazione delle ragioni tecnico-giuridiche
che hanno imposto la rivalutazione della compatibilità
paesaggistica dell’installazione della cartellonistica
stradale né –e ciò è ancora meno comprensibile– delle
ragioni che hanno indotto gli uffici in un primo tempo a
rilasciare con nettezza e senza oscillazioni il nulla osta
alla installazione per poi, ad una distanza temporale
inferiore a due anni, mutare totalmente avviso con
riferimento all’identico contesto paesaggistico ambientale
rispetto al quale la installazione non avrebbe avuto,
secondo il primo parere, nessun impatto pregiudizievole per
i valori da proteggere nell’area interessata.
Peraltro tale contraddizione non risolta da una adeguata
motivazione era stata già sottolineata dalla odierna
ricorrente all’epoca dell’invio delle controdeduzioni al
preavviso di diniego del 03.11.2015, ma la Soprintendenza
non ha ritenuto, neppure nella parte del provvedimento di
diniego nel quale mostra di esprimere una risposta alle
controdeduzioni, di fornire riferimenti più puntuali in
merito, limitandosi, per vero in modo piuttosto
semplicistico, ad affermare come il riferimento segnalato
nelle controdeduzioni all’autorizzazione ottenuta dalla
società per altre due installazioni simili costituisce “argomentazione
(che n.d.r.) non può essere assunta come parametro ai fini
della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di
competenza di questo Ufficio”.
7. – Sotto altro versante va poi rilevato che il
provvedimento della Soprintendenza costituisce un diniego di
autorizzazione paesaggistica frutto dell’esercizio del
potere attribuito al ridetto ente dall’art. 146 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42.
Il legislatore ha concepito l’intero procedimento ed il
provvedimento conclusivo dello stesso come un autonomo
procedimento amministrativo indipendente rispetto “al
permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti
l'intervento urbanistico-edilizio” (così, testualmente,
al comma 4).
Orbene risulta agli atti che la Soprintendenza aveva già
esercitato tale potere, concludendo il relativo procedimento
con l’autorizzazione di cui alla nota n. 11770 del
16.04.2014, esprimendo parere favorevole alla installazione
dei due cartelloni. Ne deriva che il nuovo provvedimento
adottato il 04.01.2016 costituisce una duplicazione
dell’esercizio dello stesso potere (già esercitato) senza
che mai, neppure nel provvedimento qui impugnato, la
Soprintendenza abbia posto nel nulla il precedente atto
secondo le coordinate della disciplina legislativa degli
atti di ritiro, vale a dire nel rispetto degli artt.
21-quinquies e 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241.
Posto che non appare francamente revocabile in dubbio che il
provvedimento del 04.01.2016 contenga un implicito
annullamento del precedente avviso favorevole del
18.04.2014, posto che lo supera nei fatti e sotto il profilo
giuridico ponendolo nel nulla, nell’adottarlo la
Soprintendenza avrebbe dovuto rispettare le prescrizioni
dettate per l’adozione degli atti di ritiro dall’art.
21-nonies l. 241/1990.
Infatti, per giurisprudenza costante, il ricorso
all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le
condizioni di cui alla appena citata norma ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale
anche di questa Sezione, ritiene che l'annullamento
d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica,
indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere
realizzato sul territorio, richieda necessariamente
un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico
concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante,
preminente su quello privato alla conservazione del
provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine
ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un
mero astratto ripristino della legalità violata (cfr., in
termini, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2123 e
20.09.2012 n. 4997 nonché TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
13.08.2015 n. 1896 e TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
03.02.2015 n. 654).
8. – Ad avviso del Collegio, quindi, sono fondate le censure
con le quali la Un. contesta la contraddittorietà del
comportamento mantenuto dalla Soprintendenza rispetto al
precedente parere espresso in senso favorevole alla
installazione, del quale non ha tenuto in adeguato conto
nella motivazione dell’atto di diniego qui impugnato con il
ricorso introduttivo nonché i profili di doglianza che
attengono ad una non corretta applicazione della disciplina
regolatrice gli atti di ritiro. Il rilievo delle doglianze
accolte, nel palinsesto di legittimità dell’atto impugnato,
provoca la irrilevanza dello scrutinio degli ulteriori
motivi di gravame dedotti.
La fondatezza dei suindicati motivi di censura provoca,
inevitabilmente, l’accoglimento anche del ricorso recante
motivi aggiunti con il quale veniva impugnato, anche per
illegittimità derivata, il provvedimento comunale
conseguente che, traendo forza giuridica dal parere
sfavorevole della Soprintendenza alla installazione dei due
cartelloni, negava il rilascio della relativa autorizzazione
comunale
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere realizzate in violazione della disciplina
antisismica e sulle opere in cemento armato - Efficacia
estintiva del permesso di costruire in sanatoria -
Esclusione - Artt. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95
d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
L'efficacia estintiva del permesso di costruire in
sanatoria, deve escludersi per le opere realizzate in
violazione della disciplina antisismica e sulle opere in
cemento armato. Sul punto la giurisprudenza (Cass. Sez. 3,
n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino; Sez. 3, n. 19256 del
13/04/2005, Cupelli; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep.
1998), Agnesse) (Corte Cost. sent. 149 del 30/04/1999). Tali
esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in
cemento armato (Cass. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna
A.; Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G. ed
altre prec. conf.).
Intervento abusivo - Violazioni edilizie
e paesaggistiche - Valutazione della particolare tenuità.
Ai fini della valutazione della particolare tenuità del
fatto in tema di violazioni edilizie e paesaggistiche la
consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di
intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive)
costituisce solo uno dei parametri di valutazione, perché,
per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, in
particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali,
ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico.
Inoltre, altro indice sintomatico della non particolare
tenuità del fatto è rappresentato dalla contestuale
violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano
contestualmente violate, mediante la realizzazione
dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela
di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in
zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali) (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M.
in proc. Derossi; Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016,
Mancuso) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38953
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: conferenza di servizi - partecipazione degli
uffici ministeriali - competenze (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota 07.08.2017 n. 24390
di prot.).
---------------
Stante la rilevanza delle numerosi questioni esaminate
dagli uffici ministeriali in sede di conferenza di servizi,
si illustra brevemente la disciplina applicabile, al fine di
facilitarne la corretta applicazione (in particolare, in
ambito regionale), alla luce delle novità apportate dal
d.lgs. n. 127 del 2016 alla disciplina della conferenza di
servizi, contenuta negli artt. 14 e ss. della legge n. 241
del 1990, nonché delle modifiche organizzative introdotte
dal d.m. 23.01.2016 al regolamento di organizzazione del
Ministero, di cui al d.P.C.M. n. 171 del 2014.
In ambito sovraregionale, spetta al Direttore generale ...
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e sentenza
della Corte cost. n. 56/2016 - Art. 349 cod. pen. - DIRITTO
PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di incostituzionalità di
norme - Trattamento sanzionatorio - Rilevabilità d'ufficio -
Rimodulazione del trattamento sanzionatorio -
Inammissibilità del ricorso - Impugnazione tardiva -
Preclusioni.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42
del 2004, dichiarato costituzionalmente illegittimo per
effetto della sopravvenuta sentenza della Corte cost. n. 56
del 11/01/2016, nella parte in cui lo stesso prevede: "«:
a) ricadano su immobili od aree che, per le loro
caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di
notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;
b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi
dell'articolo 142 ed», oggi è configurabile quale
contravvenzione ex art. 181, comma 1, d.lgs. cit., e non più
quale delitto.
Inoltre, l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione
di incostituzionalità di norme riguardanti, come nella
specie, il trattamento sanzionatorio, è rilevabile d'ufficio
anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel
caso di impugnazione, come nella specie, correttamente
ritenuta tardiva; infatti in questo caso si è in presenza di
un gravame sin dall'origine inidoneo a instaurare un valido
rapporto processuale, in quanto il decorso del termine
derivante dalla mancata proposizione dello stesso ha già
trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale,
sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare
il decorso del termine e a prenderne atto.
Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva
di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio,
anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della
pena (Cass. Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, dep.
28/07/2015, Jazouli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38687
- link a www.ambientediritto.it). |
luglio 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U.
27.07.2016 n. 170 "Regolamento dell’albo degli idonei
all’esercizio dell’attività di direttore di ente parco
nazionale, ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della legge
09.12.1998, n. 426" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.06.2016 n. 143). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura precaria dell'opera edilizia - Carattere
stagionale dell'attività - Elementi della precarietà -
Stabilimento balneare.
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per
sé la precarietà dell'opera, la precarietà non va confusa
con la stagionalità, vale a dire con l'utilizzo annualmente
ricorrente della struttura, né con la possibilità di
smontare il manufatto non infisso al suolo (si veda in
proposito Cass. Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini,
secondo cui ...al fine di ritenere sottratta al preventivo
rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un
manufatto per la sua asserita natura precaria, la stessa non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale
dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per
fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con
conseguente possibilità di successiva e sollecita
eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua
rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Natura
precaria dell'opera edilizia - Oggettiva temporaneità e
contingenza - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - DIRITTO DEMANIALE - Fattispecie: occupazione
arbitraria dello spazio demaniale marittimo - Alterazione di
bellezze naturali - Art. 734 cod. pen. - Artt. 3, 6, 10 e
44, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 146-181, d.lgs. n. 42/2004.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla
tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione,
tanto meno dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la
oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che
l'opera è destinata a soddisfare in ordine alla dedotta
precarietà dell'opera e che, (in specie) in ogni caso,
trattandosi di opera realizzata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, qualsiasi difformità dal titolo edilizio è
comunque sanzionata ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R.
n. 380 del 2001 (art. 32, u.c., d.P.R. n. 380 del 2001),
così come qualsiasi difformità dal progetto autorizzato
integra il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004
(Fattispecie: installazione stagionale di uno stabilimento
balneare costituito da una costruzione lignea pluripiano
poggiante su pali in legno semplicemente infissi
sull'arenile della spiaggia, in zona soggetta a speciale
protezione ambientale e a vincolo ambientale) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Alterazione delle
bellezze naturali - Stabilimento balneare - Art. 734 cod.
pen. - Natura di reato istantaneo - Effetti della
prescrizione e decorrenza del termine - Ultimazione
dell'opera.
Il reato di cui all'art. 734 cod. pen., nell'ipotesi di
alterazione delle bellezze naturali ha natura di reato
istantaneo con effetti permanenti e si consuma e si
esaurisce con la costruzione lesiva delle bellezze naturali
protette, sicché agli effetti della prescrizione il decorso
del termine ha inizio dal momento in cui il reato si è
realizzato con il compimento dell'opera ovvero la attuazione
dei mezzi che hanno determinato il deturpamento (Sez. 3, n.
11226 del 04/07/1985, Bertani).
DIRITTO DEMANIALE - Ancoraggio del
manufatto alla spiaggia - Natura di reato permanente -
Demolizione del manufatto edificato entro la fascia
demaniale o conseguimento dell'autorizzazione.
Il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 cod. nav. ha natura
di reato permanente per il quale la permanenza cessa solo
con la demolizione del manufatto edificato entro la fascia
demaniale o con il conseguimento
dell'autorizzazione prescritta, dal momento che la norma è
posta a tutela della sicurezza della navigazione marittima
nelle zone prossime al demanio (Sez. 3, n. 3848 del
06/11/1997, Padua; cfr. altresì Sez. U, n. 17178 del
27/02/2002, Cavallaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Circolare applicativa del d.P.R. n. 31 del 2017,
"Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata" (MIBACT, Direzione Generale
Archeologica, Belle Arti e Paesaggio,
circolare 21.07.2017 n. 42). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione
paesaggistica.
I due titoli, permesso di costruire e nulla osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue
i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica
rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che
l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
---------------
Se può dubitarsi che con l’introduzione
del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione
paesaggistica sia divenuta condizione di validità del
permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il
passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata
rilasciata nel vigore della precedente disciplina,
allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da
considerare condizione di efficacia del titolo edilizio.
---------------
Per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione
paesaggistica. I due titoli (TAR Campania, sez. VIII n.
2652/2012), permesso di costruire e nulla osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue
i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica
rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che
l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI,
02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato,
sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n.
547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
Nella fattispecie, come visto, l’autorizzazione
paesaggistica non è stata mai richiesta né tanto meno
acquisita, legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha
ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi senza dover
ricorrere (come in effetti non ha fatto) al potere di
autotutela (id est senza dover passare per
l’annullamento della concessione edilizia n. 15/1982).
Se, infatti, può dubitarsi che con l’introduzione del codice
Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica
sia divenuta condizione di validità del permesso di
costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la
concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel
vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla
osta paesaggistico era pacificamente da considerare
condizione di efficacia del titolo edilizio (cfr. in
argomento C.d.S. n. 547/2006).
In conclusione sul punto, in difetto dell’autorizzazione
paesaggistica i danti causa della ricorrente non avrebbero
mai dovuto intraprendere i lavori sulla base di una
concessione edilizia inefficace
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 11.07.2017 n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4).
Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
---------------
8. Quanto al
secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono
del travisamento probatorio
cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di
cui all'art. 181,
comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza
impugnata che
l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non
sarebbe stata preceduta
dall'imprescindibile parere vincolante della competente
Soprintendenza, aggiungendosi
anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia
dell'autorizzazione comunale,
avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la
stessa autorizzazione
comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata
subordinatamente al rispetto di alcune
prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore
bianco; nelle aree
libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a
dimora piante ad alto fusto
tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe
essere stato verificato.
In
definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio
postumo di un qualsiasi
diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai
fini della tutela paesaggistica,
ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di
condono edilizio), non
produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che
effettivamente vi è stato
travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la
Corte d'appello risulta
aver considerato e valutato solo l'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dall'organo
competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente
al rilascio
dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto
conto del parere favorevole
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà
espresso con nota prot.
11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio
dell'autorizzazione comunale intervenuta
in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva,
esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4). Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione
(v., per una ipotesi analoga
in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep.
09/10/1997, Marcelletti,
Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di
fatto, la sentenza
dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della
Corte d'appello. Tuttavia,
l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine
di prescrizione
massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi
anche per tale reato
la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il
reato paesaggistico
estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine
di rimessione in pristino
stato (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.06.2017 n. 30194). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione
- Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna
definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione
effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene
a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale,
sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la
demolizione, presuppone che la valutazione effettuata
dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e
deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il
quale va precisamente individuato, dando atto delle
specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi
escludere che possano assumere rilievo determinazioni di
carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o
fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n.
25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del
17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 -
Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale -
Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo
paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso
di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo,
Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi.
Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3,
n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del
12/01/2005, Ricci) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30170 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di bellezze paesaggistiche - Luogo
soggetto a vincolo paesaggistico - Configurabilità del reato
di cui all'articolo 734 cod. pen. - Elementi - Alterate o
turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica - Artt.
181, co. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e 734 cod. pen..
Le bellezze paesaggistiche sono il risultato di componenti
varie (la conformazione del terreno, la vegetazione
naturale, la distribuzione, il tipo e l'ubicazione dei
fabbricati esistenti, il paesaggio e la cornice
complessiva), per cui anche il semplice spianamento del
terreno e la distruzione della vegetazione integrano il
reato di cui all'articolo 734 cod. pen. (Cass. Sez. 3, n.
1803 del 02/12/1981 - dep. 19/02/1982, Marcon).
Inoltre, per la realizzazione del reato previsto dall'art.
734 cod. pen., non è necessaria l'irreparabile distruzione o
alterazione della bellezza naturale di un determinato luogo
soggetto a vincolo paesaggistico, essendo sufficiente che, a
causa delle nuove opere edilizie, siano in qualsiasi modo
alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e
panoramica offerte dalla natura (Cass. Sez. 6, n. 11929 del
21/03/1977 - dep. 29/09/1977, Oricchio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30157 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità
di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona
agricola mediante livellamento del terreno e successivo
riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale
all’esercizio delle attività di trasporto di cui era
all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari
evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento,
sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento
della funzionalità agricola, sia con la destinazione
agricola di zona (come pure con quella asseritamente
sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con
l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona
agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività
agricola.
----------------
Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha
denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla
osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente
realizzato in zona agricola mediante livellamento del
terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di
recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente
del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione
metallica su pali in ferro e per il “livellamento della
depressione presente nel terreno agricolo"........... “al
fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno”
medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di
un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante
dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del
materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo
spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un
materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio,
trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata
dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza,
ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a
tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e
non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla
recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR
Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88
della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la
recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in
nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era
alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia
conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle
attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il
marito della ricorrente, è del pari evidente la
incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con
l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della
funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di
zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona
per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle
NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi
deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR
Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016,
TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che
essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di
contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta
paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione
che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni
visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III
1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di
autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza plenaria la questione della perdurante
efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004
e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole
interesse pubblico.
---------------
Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
42 del 2004 – Efficacia – Mancata conclusione del
procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Va rimessa all’Adunanza
plenaria la questione se, a mente del combinato disposto
degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n.
42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n.
157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo
decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata
conclusione del relativo procedimento con l’adozione del
decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole
interesse pubblico, cessino di avere effetto.
(1)
----------------
(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione
del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la
questione della perdurante efficacia delle proposte di
vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto
ministeriale di conclusione del procedimento di
dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di
appello proposto da una società –interessata al rilascio di
un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n.
387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego
di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR
sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della
perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di
localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto
ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico
che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai
sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata
nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le
disposizioni della presente Parte si applicano anche agli
immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata
la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della
dichiarazione di notevole interesse pubblico o del
riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la
tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento
in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni
interessati e la durata della misura cautelativa o
anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del
vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della
misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del
provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs.
n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi,
segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del
suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento
ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di
cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per
le aree e gli immobili oggetto della proposta di
dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co.
1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari,
possessori o detentori dei beni che “non possono
distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino
pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione
ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio
legislativo del Ministero per i beni e le attività
culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata
dalla competente commissione prima della data di entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche
in assenza della approvazione mediante l’adozione della
dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs.
22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la
medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma,
della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del
d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente
alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e
la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino
all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il
lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle
bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere
che “le disposizioni della presente parte si applicano
anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata
formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai
fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o
del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”,
non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo,
termini perentori per il perfezionamento della procedura o
forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione
ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs.
26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare
gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto
una espressa decadenza per le proposte non approvate dal
Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò
consegue che le forme di decadenza successivamente
introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo
formulate antecedentemente alla entrata in vigore del
Codice;
c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con
l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157,
comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio
mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”,
poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria
intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale
retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione
proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo
grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di
decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non
conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1,
d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs.
n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti
avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni
culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co.
2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver
disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due
orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al
riguardo anche le argomentazioni addotte dalla
giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in
materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole
alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere
proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori
argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons.
Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663
e
21.03.2005
n. 1121
che si richiamano ai principi espressi da
Corte cost.,
23.07.1997 n. 262;
Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem
17.02.2010 n. 16476;
TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si
siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella
A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle
modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di
modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per
l’amministrazione, di emanare il provvedimento di
dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di
tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del
Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto
dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla
affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata
adozione del provvedimento di vincolo nel termine di
conclusione del procedimento a tal fine previsto non
comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia
dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che,
applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della
proposta, diviene definitivo con l’adozione della
dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997
cit.);
e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della
perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato
rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale,
non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né
questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le
forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn.
157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte
formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore
del d.lgs. n. 42/2004;
f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il
sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita
di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una
applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con
il principio del “tempus regit actum”;
g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo
regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo
una interpretazione costituzionalmente orientata, con
finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta
dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si
avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di
tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti
sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla
data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di
decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di
effetti le proposte di vincolo a seguito di norme
sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro
emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che
ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n.
57 del 2015, in Foro
it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza
plenaria (cfr.
sentenza n.
6 del 2015, in Foro
it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in
Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO,
cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che
estende misure decadenziali a fatti storici anteriori
dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività
delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie,
come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto
dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della
domanda risarcitoria);
i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei
confronti della proprietà privata e della libertà di
iniziativa economica alla stregua dei parametri europei
atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il
paesaggio come valore primario costituzionale (ma
riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una
materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa,
pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo
della violazione del principio generale della
proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di
giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13,
Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla
VI sezione del Consiglio di Stato (Cons.
Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746;
TAR
Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521
e
TAR Venezia,
II, 08.04.2005, n. 1393),
anche per le proposte di vincolo approvate prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il
regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non
sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento
ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo
presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte
assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia
di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi
dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali
peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica
sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal
punto di vista del tenore letterale, una tale
differenziazione nel regime giuridico delle proposte di
vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a
tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni,
elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e
definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna
rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto
organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di
efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo
per intervenuta decadenza;
k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato
con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn.
157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di
efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del
termine di conclusione del procedimento (a differenza di
quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della
sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale),
costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre
meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione”
relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore
al 2004;
l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte
di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157,
comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio
sostenere la violazione del principio di irretroattività
della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e
dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici
consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni
della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del
legislatore, appare preferibile una interpretazione che
tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una
interpretazione che produca differenti applicazioni dei
poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque,
possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della
legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del
D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente
alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la
durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae
sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che
il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle
bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall'art. 9 Cost. -
Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV,
19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem
25.01.1990, n. 139;
Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121;
Sez. V, 11.10.2005, n. 5484;
Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla
titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo
e gestione dei beni culturali e paesaggistici,
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro
it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del
territorio,
Corte cost., 24.07.2013, n. 238;
18.07.2013, n. 211 e
24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025,
con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento
di dottrina e giurisprudenza;
p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e
valorizzazione dei beni culturali,
Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it.,
2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 12.06.2017 n. 2838
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
G. Spina,
Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica e nuova procedura
semplificata (Ambiente & Sviluppo n. 5/2017).
---------------
Contesto normativo
Nella Gazzetta Ufficiale del 22.03.2017, n. 68 è stato pubblicato il D.P.R.
13.02.2017, n. 31, “Regolamento recante individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata”.
Il nuovo Regolamento si inserisce all’interno di un tessuto normativo nel
quale vanno quantomeno ricordate, in generale, le seguenti discipline. (...continua). |
URBANISTICA:
Questa Sezione ha già avuto modo
di affermare come l’art. 16 della legge n. 1150/1042
continui a trovare applicazione anche per i piani
attuativi regolati dalla LR 12/2005: «…sebbene la
normativa regionale detti una disciplina dei piani
attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime
di approvazione di strumenti urbanistici nei quali
siano ricompresi immobili di interesse
storico–artistico ovvero soggetti alla legge n.
1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali,
tanto che, in ragione del principio di
“autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve
ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in
esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942.
A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n.
12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme
statali”) non contempla tra le normative da
disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a
richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del
DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore
del fatto che la legge urbanistica statale
costituisce ancora normativa fondamentale sul punto
che può essere derogata nel caso in cui la
legislazione regionale rechi una disciplina generale
ed esaustiva della materia di che trattasi…».
---------------
... per l’annullamento della nota della
Soprintendenza belle arti e paesaggio di Milano,
prot. 4672 datata 03.08.2015, avente ad oggetto “Tremezzina
loc. Mezzegra (Co) – piano attuativo di iniziativa
privata ATR 1. Richiedente Ca.Al., De Ma. Ca., De
Ma. Al., Ra.Gi., Bo.Ma0. Parere ai sensi dell’art.
16, commi 3 e 4, della L. 1150/1942 – osservazioni
al piano per gli aspetti di impianto paesaggistico”;
...
FATTO
I ricorrenti, premettendo di essere proprietari di
immobili siti in territorio di Mezzegra, situati in
un unico comparto, soggetto a vincolo paesaggistico
e per il quale –ai fini di nuova edificazione– è
obbligatorio un piano attuativo, piano attuativo
richiesto il 03.02.2011 ed approvato con
deliberazione consiliare del Consiglio del Comune di
Mezzegra n. 19 del 05.08.2011, impugnano il parere
in epigrafe.
Affidano il ricorso ai seguenti motivi:
1. Violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990, del
principio di partecipazione al procedimento
amministrativo, delle disposizioni comunitarie in
materia di partecipazione e giusto procedimento
amministrativo. Il parere definitivo sarebbe stato
espresso senza essere preceduto dal preavviso di
rigetto.
2. Violazione degli artt. 14-ter e 14-quater
della L. 241/1990, del principio di leale
collaborazione tra Enti e del principio del giusto
procedimento. La Soprintendenza, convocata alle
conferenze di VAS per l’approvazione del PGT, non vi
avrebbe partecipato, ciò da cui deriverebbe, nella
prospettazione di parte ricorrente,
l’inammissibilità del parere.
3. Violazione dell’art. 14 LR 12/2005, dell’art.
159 d.lgs. 42/2004, e del principio di legalità;
incompetenza; violazione dell’art. 1 L. 241/1990,
dell’art. 97 Cost. e del principio di buona
amministrazione. Parte ricorrente, premettendo
l’inapplicabilità dell’art. 16 della L. 1150/1942,
in quanto “cedevole” rispetto all’art. 14
della LR 12/2005, che disciplina il procedimento di
approvazione dei piani attuativi, afferma
l’insussistenza di qualsivoglia obbligo di
sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani
attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT.
4. Violazione dell’art. 146, n. 8, d.lgs.
42/2004, degli artt. da 8 a 13 LR 12/2005; eccesso
di potere; incompetenza; violazione degli artt. 117
e 118 Cost., dell’art. 42 Cost., dell’art. 17 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
La Soprintendenza, anziché rimanere nell’ambito
delle proprie attribuzioni a tutela del vincolo
paesaggistico di inedificabilità relativa, ne
avrebbe esorbitato, imponendo, di fatto, un vincolo
di inedificabilità assoluta e sine die sul
comparto, così trasformando il contenuto
conservativo del vincolo in un divieto generalizzato
di nuova edificazione.
La Soprintendenza si è costituita, spiegando difese
nel merito.
Con ordinanza 05.02.2016, n. 143, questa Sezione III
ha rigettato la domanda cautelare.
All’udienza del 09.05.2017 la causa è stata trattata
e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso non è fondato.
L’impugnato parere della Soprintendenza risulta
essere stato richiesto –a sanatoria– con nota del
Comune di Tremezzina n. 4937 del 13.05.2015
(depositata dall’Avvocatura dello Stato in data
29.03.2017 sub 2) ai sensi dell’art. 16, comma 3,
della legge n. 1150/1942, sul presupposto che «…durante
l’iter di adozione ed approvazione del piano
attuativo, non è stato recepito il parere previsto
dall’art. 16 della L. n. 1150/1942. Considerato che
con
nota 03.04.2015 n. 7899 di prot.,
l’Ufficio Legislativo del Ministero dei Beni e della
Attività Culturali e del Turismo ha indicato allo
scrivente ufficio la possibilità di chiedere, a
sanatoria del piano attuativo, il formale parere
della competente Soprintendenza ai sensi dell’art.
16 della legge 1150 del 1942…».
Il parere si inserisce quindi nel procedimento di
approvazione del piano attuativo quale atto
istruttorio endoprocedimentale; non è quindi l’atto
conclusivo del procedimento, in relazione al quale
dovrebbe essere emanato il preavviso di rigetto ai
sensi dell’art. 10-bis della legge 241/1990.
Il secondo motivo, con cui parte ricorrente
deduce l’illegittimità del parere perché la
Soprintendenza, pur convocata alle conferenze di VAS
per l’approvazione del PGT, non vi avrebbe
partecipato, ed il terzo motivo, con cui
viene dedotto che non vi sarebbe obbligo di
sottoporre ad autorizzazione paesaggistica i piani
attuativi, a maggior ragione se conformi al PGT,
possono essere trattati congiuntamente.
Entrambi presuppongono infatti la questione se sia
applicabile ai piani attuativi regolati dalla LR
12/2005 la previsione dell’art. 16, comma 3, della
legge 1150/1942, secondo cui «I piani
particolareggiati nei quali siano comprese cose
immobili soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089,
sulla tutela delle cose di interesse artistico o
storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla
protezione delle bellezze naturali, sono
preventivamente sottoposti alla competente
soprintendenza…».
Entrambi i motivi sono infondati.
Questa Sezione III, con motivazioni dalle quali
questo Collegio non ravvisa motivo di discostarsi,
ha già avuto modo di affermare come l’art. 16 della
legge n. 1150/1042 continui a trovare applicazione
anche per i piani attuativi regolati dalla LR
12/2005: «…sebbene la normativa regionale detti
una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla
dice in ordine al regime di approvazione di
strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi
immobili di interesse storico–artistico ovvero
soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione
delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del
principio di “autocompletamento” dell’ordinamento
giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla
fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge
n. 1150/1942. A ciò si aggiunga che l’art. 103 della
L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme
statali”) non contempla tra le normative da
disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a
richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del
DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore
del fatto che la legge urbanistica statale
costituisce ancora normativa fondamentale sul punto
che può essere derogata nel caso in cui la
legislazione regionale rechi una disciplina generale
ed esaustiva della materia di che trattasi…».
Tale applicabilità risulta poi confermata dalla
sentenza di questa Sezione III del 12.02.2016, n.
288.
Ciò determina il rigetto sia del terzo motivo
di ricorso, sia, attesa la diversità fra il
procedimento VAS per il PGT ed il procedimento per
il piano attuativo, del secondo motivo di ricorso.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Con l’impugnato parere non è stata imposta l’inedificabilità
dei suoli, ma espresso parere contrario alla
soluzione proposta invitando i richiedenti e
l’Amministrazione comunale a rivedere il
posizionamento e il peso edificatorio delle
previsioni insediative.
Si legge infatti nel parere: «…La soluzione
proposta riguarda la realizzazione di sei corpi di
fabbrica (per complessivi 2.500 mc) oltre alle
relative opere esterne e infrastrutturali d’accesso
disposti lungo una fascia attualmente ad uso
agricolo, segnata da ampi terrazzi a prato sostenuti
da muretti a secco, in posizione centrale rispetto
ad un sistema ancora inalterato, che ne snaturerebbe
gravemente le valenze, compromettendo
irrimediabilmente e in via definitiva la qualità dei
luoghi, con perdita dei caratteri identitari del
territorio e per gli effetti intrusivi e occlusivi
determinati dai nuovi insediamenti. Le opere
previste sembrano pertanto determinare, rispetto
alle valenze sopra evidenziate, rilevanti criticità
in merito ai seguenti rischi:
- rischio di completa occlusione dello spazio
inedificato con perdita dei residui elementi di
equilibrio percettivo di questo brano del paesaggio
agrario storico di elevata visibilità da lago, dalla
sponda opposta nonché dai luoghi panoramici
circumvicini;
- rischio di perdita dell’attuale assetto del
paesaggio sotto il profilo culturale e naturalistico
a seguito di opere di infrastrutturazione che
darebbero il via alla saturazione di questa
straordinaria fascia di territorio mantenuta ancora
nei sui assetti storici, come espressamente
riconosciuti dal vincolo.
Tutto ciò richiamato e premesso, questa
Soprintendenza esprime parere contrario alla
soluzione proposta, e invita i richiedenti e
l’Amministrazione comunale a rivedere
sostanzialmente il posizionamento e il peso
edificatorio delle previsioni insediative, anche
mediante azioni perequative che portino ad
individuare altri ambiti suscettibili di
trasformazione, o ancor meglio privilegiando
operazioni di recupero e di contenuto aumento
volumetrico del patrimonio edilizio esistente…».
Tali valutazioni, oltre a non imporre un vincolo di
inedificabilità assoluta e sine die sul
comparto, costituiscono espressione di potere
tecnico–discrezionale della Soprintendenza, che può
formare oggetto di sindacato del giudice
amministrativo solo sotto i profili di illogicità,
irragionevolezza od errore nei presupposti, profili
che non appaiono sussistere.
Il ricorso deve quindi essere rigettato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 29.05.2017 n. 1207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Galbiati,
Autorizzazione
paesaggistica semplificata
(20.05.2017 - tratto da www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati
paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e
differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di
compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e
violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera
e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001
estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti
dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del
territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche
conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica
posto che la circostanza di avere ottenuto detto
provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei
reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di
fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del
cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione
di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
La
questione va risolta in senso opposto rispetto a quanto
auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di
condividere l’orientamento seguito da recente
giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di
argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché
riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento,
depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione
paesaggistica è una condizione di validità del permesso di
costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta".
La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
---------------
Non sussiste la denunciata violazione dell’articolo
21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le
prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della
impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene
giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello,
nel caso di specie antagonista, alla conservazione del
provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello
legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità
ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo
edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato,
sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua
espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il
sacrificio di un valore costituzionale, quello del
paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in
giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con
conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e
privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non
annoverati fra i principi fondamentali”.
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del
paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi
recessivi gli interessi privati in conflitto con il
preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del responsabile del settore tecnico
del Comune di Mercogliano n. 416 del 03/12/2015 avente ad
oggetto "annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del
19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi,
collegati e conseguenti", della comunicazione di avvio del
procedimento del 24.03.2015, nonché di ogni altro atto
connesso, presupposto e conseguente.
...
I. Il ricorso è infondato.
II. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente
lamenta, in primis, la contraddittorietà del comportamento
dell’Amministrazione, dopo aver certificato, in data
21.02.2005, la zona interessata dall’intervento non risulta
assoggettata ad alcun vincolo, successivamente, nella
comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015,
afferma che l’area è parzialmente vincolata.
Il rilievo non
è in grado di inficiare la legittimità dell’atto impugnato,
già per il fatto che il vizio denunciato non si attaglia ad
attività, come nel caso di specie, di natura vincolata,
dovendosi inferire la necessità della previa autorizzazione
paesaggistica dalla mera presenza del relativo vincolo,
senza che residuino margini di apprezzamento discrezionale
che possano consentire di obliterarne la rilevanza. Vi è da
dire che tale circostanza non è contraddetta in ricorso e
neppure può ritenersi superata da una erronea certificazione
rilasciata in passato dall’Amministrazione comunale. Va da
sé che l’atto certificativo ha natura ed effetti
dichiarativi e pertanto non sottende alcun elemento
volontaristico in grado di contraddire le successive
determinazioni dell’Amministrazione.
Invero, il fulcro delle
deduzioni di parte ricorrente investe la natura
dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di
efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, la
questione, avente rilievo centrale nell’economia del
ricorso, va risolta in senso opposto rispetto a quanto
auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di
condividere l’orientamento seguito da recente
giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di
argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché
riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento,
depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione
paesaggistica è una condizione di validità del permesso di
costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV,
27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative". La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
Il motivo in
esame è quindi infondato.
III. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si lamenta
che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di
motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo
di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione
repressiva del precedente titolo edilizio.
A tal riguardo
parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del
tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio ex art.
9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio a
carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere
congruamente giustificato attraverso una valutazione
comparativa degli interessi in conflitto, della quale
occorrerebbe dar conto nella quadro motivazionale del
provvedimento.
Peraltro, si osserva in ricorso che la
mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente
sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento
della ricorrente e che, nel corso del tempo, si sono
susseguiti diversi titoli edilizi, senza che mai sia stata
evidenziata dai tecnici comunali la presenza del vincolo
sull’area (permesso di costruire numero 17/2006; variante
della 19.12.2006; Dia n. 17/07 riguardante sistemazione
aree esterne; dia n. 98/07 riguardante modifiche interne
cambio di destinazione d’uso; dia numero 1/08 riguardante
zona EUROSPIN.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste
la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n.
241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese
dall’amministrazione a fondamento della impugnata
determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico
sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso
di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento
e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la
constatata deviazione dal modello legale, che impone
l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera
prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta
esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del
titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo
giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un
valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come
puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a
principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”
(cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105;
idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015,
n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel
senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate,
stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei
beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za
12/20.12.2007 nr. 439).
In conclusione, atteso il
rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2
cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati
in conflitto con il preminente interesse alla tutela del
bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n.
4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione
del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla
parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti
applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167
del decreto legislativo n. 42/2004.
IV. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e
pertanto va respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.05.2017 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Terni - Procedimento semplificato
autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota 09.05.2017 n. 14620
di prot.).
---------------
Con nota dell'11.04.2017, il Comune di Terni ha rivolto a
questo Ufficio alcuni quesiti concernenti la corretta
applicazione del d.P.R. n. 31 del 2017, in particolare per
quanto riguarda l'individuazione dei casi di esclusione
dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per
particolari categorie di interventi in relazione al rinvio,
più volte operato nel regolamento, alle diverse tipologie di
vincoli previsti dall'articolo 136 del codice di settore.
Si reputa utile, in questa primissima fase applicativa del
nuovo regolamento, per agevolarne la corretta esecuzione e
prevenire l'insorgere di indesiderate difficoltà pratiche
che potrebbero impedirne la funzione semplificatrice,
fornire direttamente risposta anche gli enti territoriali
che dovessero proporre quesiti, e ciò anche in deroga a
quanto disposto dall'art. 4 del d.P.C.M. n. 171 del 2014
(...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione
di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo,
oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del
procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui
l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità
del permesso di costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica
l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità
urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli
atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela
paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso
di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico
per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni
competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies
della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso,
comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai
fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241,
e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque
denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo
restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio
del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4,
D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei
vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al
comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia
sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via
di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine
di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del
relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole,
la denuncia è priva di effetti.
---------------
Atteso il rilievo
costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono
da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto
con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
Si
osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione
dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del
paesaggio per la particolare dignità data dall'essere
iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi
fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente
alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad
esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e
non può legittimamente svolgere quell'attività di
comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla
sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità
amministrativa”.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del Responsabile del V Settore –
Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 –
Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante
"annullamento in autotutela del permesso di costruire
n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di
tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e
conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
...
II. Non coglie nel segno il secondo mezzo, col quale si
lamenta la mancata prospettazione, in sede motivazionale,
dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato e che
sarebbe comunque, a parere del ricorrente, insussistente.
Devesi infatti rilevare che non solo il compendio
motivazionale è esaustivo sul punto, ma sono le stesse
ragioni a fondamento dell’atto impugnato a denotare la
sussistenza del necessario profilo di interesse pubblico,
alla luce della natura dell’autorizzazione paesaggistica, in
quanto condizione di efficacia invece che di validità del
titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non può non
sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che
appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Ritiene, infatti, il Collegio di condividere l’orientamento
coltivato da recente giurisprudenza, che si esprime nei
termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di
carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad
ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a
favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica
è una condizione di validità del permesso di costruire e non
di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV,
27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
Nemmeno
persuade quanto ulteriormente dedotto nel senso che il
Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di
motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo
di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione
repressiva dei precedenti titoli edilizi.
A tal riguardo
parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del
tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, sulla base del rilievo costituzionale del paesaggio ex
art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio ha
carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere
congruamente giustificato attraverso una valutazione
comparativa degli interessi in conflitto, della quale
occorrerebbe dar conto nel quadro motivazionale del
provvedimento. Peraltro, si osserva in ricorso che la
mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente
sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento
della ricorrente e che l’edificio è da tempo utilizzato da
due medie strutture di vendita cosicché l’annullamento dei
titoli edilizi avrebbe effetti pregiudizievoli anche sul
piano occupazionale.
Orbene, a parere del Collegio, non
sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies
della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni
rese dall’Amministrazione a fondamento della impugnata
determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico
sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso
di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento
e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la
constatata deviazione dal modello legale, che impone
l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera
prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta
esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del
titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo
giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un
valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come
puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a
principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”
(cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105;
idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015,
n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel
senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate,
stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei
beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za
12/20.12.2007 nr. 439).
Atteso il rilievo
costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono
da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto
con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio
(Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
Nemmeno può condividersi quanto
dedotto a proposito della pretesa compatibilità del
manufatto con il vincolo paesaggistico insistente sull’area,
trattandosi di un contesto edificato ed urbanizzato in
relazione alle caratteristiche del Vallone Acqualeggia. I
rilievi sollevati non sono favorevolmente apprezzabili, in
quanto impingono in valutazioni discrezionali che pertengono
alle Autorità preposte alla gestione del vincolo e che sono
state, nel caso di specie, del tutto pretermesse.
Si
osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione
dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del
paesaggio per la particolare dignità data dall'essere
iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi
fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente
alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad
esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e
non può legittimamente svolgere quell'attività di
comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla
sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità
amministrativa” (cfr. TAR Venezia, sez. II. 26.01.2017,
n. 93).
Il motivo in esame è quindi infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Autorizzazione paesaggistica -
Termine di efficacia (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
27.04.2017 n. 13204 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n.
81172 del 16.02.2016, con la quale si
chiede, in relazione ad una fattispecie
rappresentata dal Comune di Rocca Priora, se
sia possibile rilasciare un titolo
abilitativo edilizio in base ad
un'autorizzazione paesaggistica rilasciata
nel 2007 "in applicazione della previsione
dell'ultimo periodo dell'art. 146 del D.lgs.
n. 42 del 2004 ....che, nell'attuale
formulazione, fa decorrere il termine di
efficacia dell'autorizzazione paesaggistica
dal giorno in cui acquista efficacia il
titolo edilizio eventualmente necessario per
la realizzazione dell'intervento" .
Al riguardo, codesta amministrazione
prospetta la tesi secondo cui "l'efficacia
differita dovrebbe interessare le
autorizzazioni rilasciate successivamente al
01.06.2014 (entrata in vigore delle
modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del
2014) in quanto i provvedimenti rilasciati
anteriormente avevano già acquistato
efficacia in virtù della normativa
previgente".
La soluzione proposta appare senz'altro
condivisibile.
La disposizione che prevede l'abbinamento
del dies a quo di efficacia ...
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di Robbiate -
Procedimento semplificato autorizzazione
paesaggistica (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
26.04.2017 n. 13008 di prot.).
---------------
Con nota prot. n. 3974 del 30.03.2017, il
Comune di Robbiate ha rivolto a questo
Ufficio un quesito relativo alle modalità di
individuazione degli immobili di interesse
storico-architettonico o
storico-testimoniale, isolati o ricompresi
nei centri storici sottoposti a vincolo
provvedimentale ai sensi dell'articolo 136,
comma 1, lettere c) del codice, al fine
della esclusione dall'esonero dalla previa
autorizzazione paesaggistica per particolari
categorie di interventi ricadenti su tale
tipologia di immobili, atteso il rinvio a
tale esclusione più volte operato dal d.P.R.
n. 31 del 2017.
Il Comune richiedente, nella richiesta che
qui si allega, rappresenta che il centro
storico risulta sottoposto a un vincolo
generalizzato, apposto nel 1969,
riconducibile alle lettere c) e d)
dell'articolo 136 del codice.
La prospettazione contenuta nella richiesta
di parere sembra comprendere due distinte
questioni: da un lato, se e come sia
possibile distinguere, all'interno di un
unico provvedimento di vincolo riconducibile
in modo indifferenziato ad entrambe le
categorie di "vincolo d'insieme" oggi
suddistinte ... (...continua). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Decreto del Presidente della Repubblica
13.02.2017, n. 31, recante: Individuazione degli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura semplificata (MIBACT,
circolare 21.04.2017 n. 15). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interventi edilizi realizzati
prima dell'apposizione del vincolo
paesaggistico - Permesso di costruire in
sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
---------------
Con la nota n. prot. 81219 del
16.02.2016, codesta Amministrazione
regionale ha posto un quesito riguardante la
disciplina applicabile ai casi di sanatoria
edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n.
380 del 2001 relativi ad abusi edilizi
commessi antecedentemente all'apposizione
del vincolo paesaggistico (è stato
rappresentato il caso di un abuso edilizio
commesso nel comune di Sutri,
antecedentemente alla data di pubblicazione
del VIR adottato, in area posta all'interno
della "fascia di rispetto di un bene lineare
tipizzato di interesse archeologico, di cui
all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998",
e per il quale è stato richiesto il permesso
di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire
... (...continua). |
marzo 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla verifica della legittimità
delle preesistenze nell'ambito dei procedimenti di
accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi
dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004 (Regione Lazio,
nota 28.03.2017 n. 159563 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la
denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non
ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono
ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben
poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare
le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate.
---------------
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle
DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal
Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura
quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso
stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa
giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio
dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una
riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti
per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo
edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il
rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto
proprio a fatto del privato”.
---------------
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona
vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re
ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni
paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza
circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in
considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da
ciò che era stato originariamente assentito.
---------------
1.1.- In data 28.10.2015 la
Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un
sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del
07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo,
accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli
interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed
alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque,
rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale
difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”,
anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in
relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di
autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non
poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle
regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed
il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di
positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo,
la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica
non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n.
873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e
le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I,
sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent.
n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di
ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non
surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350
del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito
all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come
realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n.
3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo
idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri
sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i
relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez.
VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un
sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che
restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende,
evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti
che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto
di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di
controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a
presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i
quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente
nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab
origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di
formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad
esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una
situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis,
da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania,
Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19
legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri
poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi
regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto
irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una
conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della
destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento
alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con
consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa
menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla
DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in
quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez.
V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons.
Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo
negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti
dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi
perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di
disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti
(sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere
per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza
di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi
provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la
straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed
ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non
scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato
originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo
alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali)
(MIBACT,
nota 08.03.2017 n. 7403 di
prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la
quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico
quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente
Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta
interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il
sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce
laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m
dai due bordi stradali compresi tra le progressive
chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il
divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole
interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n.
1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi
individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali
del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo)
nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del
1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli
elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti
alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua). |
febbraio 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di
accertamento di compatibilità paesaggistica quale
presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui
all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima
del vincolo paesaggistico (Regione Lazio,
nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito al termine di
efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche (Regione
Lazio,
nota 16.02.2017 n. 81172 di prot.). |
gennaio 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Titoli edilizi rilasciati dal comune in assenza di
autorizzazione paesaggistica - applicabilità del divieto di
sanatoria a immobili realizzati ex ante (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 16.01.2017 n. 1070 di prot.). |
anno 2016 |
|
dicembre 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla possibilità di realizzare gli
interventi di cui alla l.r. 21/2009 in aree vincolate
paesaggisticamente ed ai provvedimenti da adottare
relativamente agli interventi realizzati previa d.i.a. ma in
assenza di nulla osta – Comune di Pico (Regione Lazio,
parere 14.12.2016 n. 621493 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Immobili di proprietà della Fondazione IRCCS Cà
Granda - Ospedale maggiore policlinico di Milano -
conferimento del diritto di usufrutto - quesito (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 01.12.2016 n. 34182 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 8175 del 03.08.2016 con la
quale codesta Direzione, nel trasmettere la richiesta di
parere, di cui alla nota prot. 5399 del 15.07.2016, del
Segretariato regionale per la Lombardia in merito al
conferimento del diritto di usufrutto dei fabbricati di
esecuzione ultrasettantennale di proprietà della Fondazione
IRCCS Cà Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano a
favore della Fondazione Sviluppo Cà Granda, concordando con
l'avviso prospettato dal Segretariato regionale, ritiene
che, sulla base di un'interpretazione non estensiva del
codice di settore, considerato che il conferimento del
diritto di usufrutto tra le due fondazioni lascerebbe
immutata la proprietà degli immobili, il conferimento in
argomento non sia soggetto al regime di autorizzazione
previsto per le alienazioni.
Al riguardo, nel ritenere condivisibile l'orientamento di
codesta Direzione, si rappresenta quanto segue.
L'art. 54, comma 2, lett. a), del codice di settore, prevede
la temporanea inalienabilità dei beni immobili aventi più di
settanta anni di cui all'art. 10, comma 1, ove appartenenti
a persone giuridiche private senza fine di lucro e fino alla
conclusione del procedimento di verifica dell'interesse
culturale previsto dall'art. 12 del codice medesimo. Se tale
procedimento si conclude con esito (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di Ferno (VA). Richiesta di parere in merito al
procedimento di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in
assenza di autorizzazione paesaggistica prima dell'apposizione del vincolo
paesaggistico. Protocollo di riferimento regionale n. T1.2016.0051211 del
10/10/2016. COMUNICAZIONE
(Regione Lombardia,
nota 01.12.2016 n. 62321 di prot.). |
novembre 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: Nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
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Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato
che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé.
La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto,
dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza («(…)
realizzazione di un corpo ascensore e scala esterni che ne
modificano sostanzialmente la percezione dalla strada con
cui (attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di
edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture
arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i
caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene
non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad
una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due
guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra
edificio, aperture e balconi sul prospetto sud»)
non risulta, come correttamente messo in rilievo dal primo
giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in quanto
manca una adeguata descrizione del contesto paesaggistico e
soprattutto del rapporto tra gli interventi che si intendono
realizzare e il contesto stesso.
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1.– La Be.Ho. s.r.l. (d’ora innanzi anche solo società), al
fine di realizzare un annesso con nuove camere al servizio
del proprio albergo sul terreno sito lungo la s.s. 45-bis
Gardesana e distinto al catasto al foglio 21 mappale 1096,
ha realizzato senza titoli abilitativi un intervento di
risanamento conservativo su un vecchio edificio in
prossimità dell’albergo stesso, denominato “Villa
Mughetto” ovvero “dei Mughetti”, già adibito a
residenza estiva per membri del clero e poi abbandonato e
lesionato da successivi eventi sismici.
In particolare, la società ha realizzato:
i) all’interno del corpo di fabbrica una serie di alloggi bilocale,
pensati per le famiglie in vacanza;
ii) all’esterno, sul lato nord ha costruito un vano scale ed
ascensore, finalizzati a consentire un accesso più agevole e
a costituire una via di fuga in caso di emergenza.
Essendo l’area sottoposta a vincolo, ai sensi del decreto
ministeriale 15.03.1985, n. 65, la società ha presentato
domanda di sanatoria, anche paesaggistica.
La Soprintendenza, con atto 18.10.2011, ha espresso parere
sfavorevole, così motivato: «(…) realizzazione di un
corpo ascensore e scala esterni che ne modificano
sostanzialmente la percezione dalla strada con cui
(attraverso il piccolo ponticello) questa tipologia di
edifici si relaziona strettamente –inserimento di aperture
arcuate (prospetto nord) che non trova alcun riscontro con i
caratteri architettonici di Villa dei Mughetti che, sebbene
non presenti elementi originali (…)appartiene tuttavia ad
una chiara tipologia edilizia sita storicamente tra le due
guerre– la sostanziale trasformazione dei rapporti tra
edificio, aperture e balconi sul prospetto sud».
L’amministrazione comunale, con atto 07.07.2014, n. 144, ha,
implicitamente, rigettato la domanda di sanatoria e ordinato
la rimozione delle opere in esame, preavvertendo della
possibilità, in caso di inottemperanza, di acquisire i beni
oggetto dell’ordinanza e la relativa area al patrimonio
pubblico.
2.– La società ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza
13.02.2015, n. 264, ha accolto il ricorso, rilevando
l’illegittimità del parere della Soprintendenza sia perché
adottato senza la comunicazione del preavviso di rigetto sia
perché privo di adeguata motivazione.
In particolare, in relazione a quest’ultimo aspetto, si è
affermato che in presenza di un vincolo paesaggistico e non
monumentale sull’edificio «la compatibilità di un
intervento va allora valutata dal punto di vista di chi
osserva da lontano, e non è esclusa per il solo fatto che le
innovazioni siano visibili su questa scala più ampia; viene
infatti meno quando le stesse, oltre che visibili, siano
oggettivamente percepibili come un’indebita intrusione,
avuto riguardo alle forme, ai colori, alle dimensioni e alla
funzione dei nuovi manufatti, da apprezzare comparando
l’interesse pubblico alla conservazione con quello privato
alla fruizione del territorio».
3.– L’amministrazione ha proposto appello rilevando che:
i) l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del
fatto che la Soprintendenza, con parere 06.05.2010, aveva
già espresso parere negativo;
ii) gli interventi in esame sarebbe incompatibili con il quadro di
insieme che il vincolo ambientale intende tutelare, atteso
che di esso «fanno parte integrante proprio quelle ville
e villini tra i quali rientra anche l’immobile interessato
dall’intervento, con la conseguenza che, stravolgendone le
precipue caratteristiche, l’intera prospettiva sottoposta a
tutela viene ad essere snaturata». Si aggiunge che il
primo giudice avrebbe invaso in modo indebito sfera di
azione propria dell’amministrazione.
3.1.– Si è costituita in giudizio la società, ricorrente in
primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello e
riproponendo i motivi non esaminati dal Tribunale
amministrativo.
3.2. La Sezione, con ordinanza 21.10.2015, n. 4792, ha
sospeso l’efficacia della sentenza impugnata ad eccezione
della parte in cui la stessa aveva privato di effetti
l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
3.3.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza
pubblica del 13.10.2016.
4.– L’appello non è fondato.
5.– Con un primo motivo, l’appellante deduce che
l’omesso contraddittorio si giustificherebbe in ragione del
fatto che l’amministrazione, con parere 06.05.2010, aveva
già espresso parere negativo.
Il motivo non è fondato.
L’art. 146, comma 8, del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137) dispone che
il Soprintendente, in caso di parere negativo, deve
comunicare agli interessati il preavviso di provvedimento
negativo ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990.
Nella fattispecie in esame la Soprintendenza non ha
rispettato quanto previsto dalla suddetta norma, non avendo
comunicato il preavviso di rigetto. Tale omissione non può
ritenersi, come sostiene l’appellante, giustificata
dall’esistenza di un precedente parere negativo, in quanto
si tratta di vicende amministrative non completamente
sovrapponibili, con la conseguenza che l’amministrazione
avrebbe dovuto assicurare, anche in relazione al
procedimento in esame, una previa interlocuzione con il
privato.
6.– Con un secondo motivo si assume l’erroneità della
sentenza nella parte in cui ha ritenuto non congrua la
motivazione del parere, in quanto gli interventi in esame
sarebbe incompatibili con il quadro di insieme che il
vincolo ambientale intende tutelare, atteso che di esso «fanno
parte integrante proprio quelle ville e villini tra i quali
rientra anche l’immobile interessato dall’intervento, con la
conseguenza che, stravolgendone le precipue caratteristiche,
l’intera prospettiva sottoposta a tutela viene ad essere
snaturata». Si aggiunge che il primo giudice avrebbe
invaso in modo indebito la sfera di azione propria
dell’amministrazione.
Il motivo non è fondato.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che, nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni,
delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (Cons.
Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons. Stato, sez. VI,
04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n.
2535).
Nella fattispecie in esame, costituisce dato non contestato
che viene in rilievo un edificio che non è tutelato in sé.
La rilevanza paesaggistica dell’intervento deriva, pertanto,
dal suo inserimento in un’area da tutelare.
La motivazione, adottata dalla Soprintendenza, sopra
riportata, non risulta, come correttamente messo in rilievo
dal primo giudice, conforme al paradigma sopra indicato, in
quanto manca una adeguata descrizione del contesto
paesaggistico e soprattutto del rapporto tra gli interventi
che si intendono realizzare e il contesto stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.11.2016 n. 4925 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’indennità
prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli
paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno)
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale, con conseguente applicabilità anche a tale
sanzione del principio contenuto nell’art. 28 l. n.
689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare, "Con riguardo all’individuazione del dies a quo
della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto
della particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano
nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni
e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte
autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui
all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere
solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la
“permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione
comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione
pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che,
secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche
in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la
permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in
sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a
fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione
di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al
vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il
proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che
costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle
opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare
diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile
dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda
rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere
alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità
destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel
procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due
tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che
l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se
venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa
violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega
alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne
consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria
costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del
1981”.
---------------
Ricorso straordinario proposto dalla Signora LA.Nu. avverso il decreto del dirigente servizio del
Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità
siciliana, n. 2184 del 07.08.2014, di ingiunzione di
pagamento indennità ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004. Istanza
di sospensione.
...
1. Con atto notificato all’Assessorato regionale dei beni
culturali e dell’identità siciliana –Soprintendenza per i
beni culturali ed ambientali di Messina– con raccomandata a.r. del 19.01.2015 e trasmesso all’Ufficio riferente
con raccomandata a.r. del 30.01.2015, la Signora La.Nu. ha proposto ricorso straordinario per
l’annullamento, previa sospensione:
- del decreto n. 2184 del 07.08.2014, a firma del
dirigente del Servizio tutela e acquisizioni del
Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità
siciliana, delegata alla firma dal Dirigente generale, con
il quale, ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, come
sostituito dall’art. 27 del d.lgs. n. 157/2006, è stato
ingiunto il pagamento della somma di euro 9.398,00, quale
indennità per il danno causato al paesaggio con la
realizzazione di opere abusive in area di notevole interesse
paesaggistico senza il preventivo nullaosta della
Soprintendenza, consistenti nella realizzazione di un corpo
di fabbrica in località Tufo del Comune di Lipari, foglio di
mappa n. 97, particella 214;
- di ogni altro atto presupposto inerente e consequenziale
al suddetto provvedimento.
In punto di fatto la ricorrente premette di avere presentato
al Comune di Lipari, in data 01.04.1986, domanda di
concessione edilizia in sanatoria, ai sensi della l. n.
47/1985, per la costruzione di un corpo di fabbrica adibito
a civile abitazione. La pratica è stata istruita, acquisendo
anche il parere favorevole, con prescrizioni, della
Soprintendenza di Messina n. 7284 del 27.10.1997 ed è
stata quindi rilasciata concessione edilizia in sanatoria n.
180 del 17.06.2004.
In data 07.08.2014 veniva poi emesso il D.D.S. n.
2184/2014, oggi impugnato.
2. Il ricorso è affidato al seguente motivo: il decreto
impugnato avente natura di atto amministrativo definitivo,
risulta illegittimo stante la intervenuta perenzione della
pretesa impositiva a seguito di prescrizione del relativo
diritto.
Giusta il disposto di cui all’art. 28 l. n. 689/1981, la
sanzione della quale si discute deve ritenersi ormai
prescritta essendo trascorso il periodo di cinque anni dalla
data di rilascio della concessione edilizia in sanatoria –17.06.2004– a quello della notifica del decreto
impugnato –11.10.2014– che tale sanzione irroga.
3. Con nota n. 18376 del 16.04.2015 il Dipartimento
regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana ha
trasmesso un rapporto sul suddetto ricorso, corredato dai
relativi atti, affermando la imprescrittibilità del potere
sanzionatorio della P.A. in materia di sanzioni
paesaggistiche.
...
Quanto sopra premesso, il Collegio ritiene che si possa
entrare nel merito del ricorso la cui motivazione è
incentrata sulla intervenuta perenzione della pretesa
impositiva, a seguito di prescrizione del relativo diritto.
Sulla linea dell’orientamento espresso, con indirizzo ormai
costante, sia dal Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 11.04.2007, n. 1585; Id. 12.03.2009, n. 1464; Id. 23.03.2010, n. 2160) che dalle Sezioni riunite di questo
Consiglio (Cons. giust. sic., sezioni riunite, 08.11.2011, n. 188/2011; Id., 21.02.2012, n. 28/2012) e dal
Consiglio di giustizia amministrativa in sede
giurisdizionale (n. 123 del 13.03.2014), occorre in
primis affermare che l’indennità prevista per abusi edilizi
in zone soggette a vincoli paesaggistici, costituisce vera e
propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla
sussistenza effettiva di un danno ambientale, con
conseguente applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 l. n. 689/1981, secondo cui
“il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni
amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”. Tale prescrizione si applica, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
In particolare nella sentenza sopra citata del Consiglio di
Stato n. 1464/2009, che ripercorre sul tema (richiamandoli)
i punti fermi dell’elaborazione giurisprudenziale, è
affermato “Con riguardo all’individuazione del dies a quo
della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto
della particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano
nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni
e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di
talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di
illeceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte
autorizzazioni” sicché, per effetto del principio di cui
all’art. 158 cod. pen., la prescrizione “inizia a decorrere
solo dalla cessazione della permanenza” e, appunto, la
“permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione
comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione
pecuniaria, o con il conseguimento dell’autorizzazione che,
secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche
in via postuma”.
Il punto fondamentale, per cui risulta certamente cessata la
permanenza, è che “una volta ottenuta la concessione in
sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a
fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione
di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al
vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il
proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che
costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle
opere abusive eseguite in zona vincolata; opinare
diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile
dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda
rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere
alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità
destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel
procedimento di sanatoria edilizia”.
In conclusione, “il principio di autonomia delle due
tipologie di violazioni… va rettamente inteso nel senso che
l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se
venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa
violazione paesaggistica, ma non anche che essa non spiega
alcuna influenza sulla permanenza di quest’ultima; ne
consegue che proprio il momento del rilascio della sanatoria
costituisce il dies a quo della prescrizione della sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 689 del
1981”.
Nel caso di specie il rilascio della concessione edilizia in
sanatoria è avvenuto il 17.06.2004, sicché la
prescrizione dell’illecito è maturata il 17.06.2009, e
quindi assai prima che fosse irrogata la sanzione impugnata
con il presente ricorso.
Quest’ultima, dunque, è illegittima come rilevato con
l’unico motivo di ricorso, giacché irrogata a credito
sanzionatorio prescritto.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto con
assorbimento dell’istanza di sospensione cautelare
(CGARS,
parere 21.11.2016 n. 1210 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura
tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio
statico), l'edificio è stato realizzato con alcune
difformità.
Secondo il verbale di accertamento redatto dai
funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior
altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del
corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento
di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture pertinenziali.
Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm
dell'edificio non ha comportato alcun aumento né di
cubatura né di superficie utile, ma corrisponde
puramente e semplicemente all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle
travi della copertura, resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per
altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e
superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di
corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune secondo cui le difformità "sono
sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche
estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle
finestre e di portefinestre, modificazione all'area
pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma
comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA
SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO
AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior)
volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture
portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior
altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato
aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa
dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale"
delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo
sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha
affermato che “risulta del tutto condivisibile
l’individuazione del concreto profitto tratto dai
proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione [non anche
ricostruzione] della sola opera realizzata senza
autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere
ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe
dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto
delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”,
sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale,
più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e
logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della
sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in
discorso.
---------------
... per l'ottemperanza della
sentenza
27.11.2015 n. 1041 del TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA, SEZ. II, resa tra le parti,
concernente esecuzione
sentenza 20.10.2014 n. 975 Tar Emilia
Romagna, Bologna, sez. II - rideterminazione sanzione
pecuniaria relativa al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica e del permesso di costruire in sanatoria.
...
1. Giova riepilogare, per quanto più
sinteticamente possibile, gli antefatti.
Gli architetti Gl. e Ro.Gr. sono stati
progettisti e direttori di lavori, per conto dei loro
clienti sig.ri Va. e Mo., effettuati
sull'edificio sito in Bologna, via ..., n. 47,
per il quale è stato rilasciato dal Comune il permesso di
costruire (concessione edilizia) n. P.G. 82570/2000 del
16.05.2002.
Il progetto prevedeva la demolizione di un preesistente
edificio di maggior altezza, volume e impianto costruttivo,
e la costruzione in sua vece di un nuovo fabbricato
destinato a residenza civile, in un'area soggetta al vincolo
paesaggistico.
In sede di esecuzione del progetto, per motivi di natura
tecnica (e cioè il raggiungimento di un corretto equilibrio
statico), l'edificio è stato realizzato con alcune
difformità.
Secondo il verbale di accertamento n. 52/2005 redatto dai
funzionari comunali gli abusi sono consistiti in una maggior
altezza (di circa 90 cm.) e in un minimo ampliamento del
corpo scale (mq 2,43), oltre che nel diverso posizionamento
di alcune finestre e in modifiche di alcune finiture
pertinenziali.
Tutta la presente vertenza riguarda la consistenza
fisico/morfologica e conseguentemente la rilevanza anche
economica di queste difformità costruttive, che sono state
sanzionate pecuniariamente sulla base del loro valore.
Vale perciò riepilogare l’identificazione delle opere
difformi dal progetto.
1.1. Risulta che l'innalzamento di circa 90 cm dell'edificio
non ha comportato alcun aumento né di cubatura né di
superficie utile, ma corrisponde puramente e semplicemente
all'aumento del “pacchetto strutturale costituito delle
travi della copertura, resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica)”.
Tutti i vani interni sono, quindi, rimasti identici per
altezza e superficie. Si tratta, in sostanza, per altezza e
superficie di un aumento degli spessori dei solai, e cioè di
corpi chiusi e ciechi.
Questi dati risultano condivisi nel provvedimento del Comune
P.G. n. 152679/07, secondo cui le difformità "sono
sintetizzabili in: difformità planovolumetriche, modifiche
estetiche ai prospetti con il riposizionamento delle
finestre e di portefinestre, modificazione all'area
pertinenziale ed alla scalinata pedonale di accesso", ma
comunque "NON E' MAGGIORE LA VOLUMETRIA UTILE INTERNA NE' LA
SUPERFICIE UTILE INTERNA MA SOLO IL VOLUME COMPLESSIVO
AUMENTATO PER MOTIVI STRUTTURALI".
Si doveva quindi sanzionare la realizzazione di un (maggior)
volume. In sostanza, un maggior “spessore” delle strutture
portanti.
Può dirsi non controverso fra le parti che la maggior
altezza dell'edificio (circa 90 cm) non ha comportato
aumento di cubatura o di superficie utile, e che essa
dipende solo dall'aumento del c.d. "pacchetto strutturale"
delle travi di copertura, aumento resosi necessario per le
caratteristiche oggettive del progetto in relazione al
rispetto della normativa tecnica (antisismica).
Tale essendo la situazione di fatto, sia gli architetti che
la proprietà hanno sùbito provveduto a regolarizzare quella
che ritenevano una "abusività" marginale.
Per questo hanno presentato domanda di variante in corso
d'opera (P.G. n. 533 del 21.03.2005) e, poi, domanda al
Comune per ottenere sia il permesso di costruzione in
sanatoria ex art. 17 l.reg. n. 23/2004 (P.G. n. 123725/2005)
sia l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ai sensi
dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (ex art. 13 l.reg. n.
31/2002).
Quest'ultima è stata denegata con provvedimento prot.
123725/2005 del 29.08.2005, per il solo motivo della
"impossibilità, anche ai sensi dell'art. 159 del d.lgs. n.
42/2004, di rilasciare la suddetta autorizzazione a
sanatoria, trattandosi di interventi già realizzati per i
quali l'art. 146, c. 10, vieta espressamente il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria".
Contro questo provvedimento è stato presentato un primo
ricorso al Tar (n.r.g. 1184/2005).
Ma, in attesa della decisione, i progettisti hanno
presentato il 28.07.2006 la domanda di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n.
42/2004 e di riesame del diniego di permesso di costruire in
sanatoria.
Il Comune di Bologna ha però respinto entrambe le domande:
a) quella di accertamento di compatibilità paesaggistica,
per "carenza di legittimazione" dei richiedenti;
b) quella di permesso di costruire in sanatoria, perché:
- l'accertamento di compatibilità paesaggistica non poteva essere
rilasciato;
- esulante "dai casi di cui ai commi 4 e 5 del predetto art. 167".
Tale provvedimento è stato impugnato dagli architetti con il
ricorso n.r.g. 327/2007.
E' però accaduto che i proprietari committenti hanno invece
ottenuto l'accertamento di compatibilità paesaggistica, che
era stato negato agli architetti progettisti e direttori dei
lavori.
Il titolo a sanatoria è stato rilasciato con contestuale
applicazione di una sanzione pecuniaria di complessivi euro
295.845,47, dei quali euro 52.314,50 quale sanzione edilizia
ex art. 34 DPR n. 380/2001 ed euro 243.532 quale c.d. "danno
ambientale", in applicazione dell'art. 167 del d.lgs. n.
42/2004.
1.2. Questo provvedimento è stato impugnato sia dagli
architetti, con motivi aggiunti al ricorso n. 327/2007, sia
con autonomo ricorso n.r.g. 927/2007 dai committenti.
Il Tar ha riunito i ricorsi con sentenza n. 951/2009 e li ha
accolti, annullando il diniego di autorizzazione
paesaggistica e di permesso di costruire in sanatoria
(ricorsi nn. 1184/2005 e 1417/2005) e le sanzioni pecuniarie
per illegittimità derivata dalla illegittimità del diniego
di sanatoria (ricorsi nn. 327 e 927 del 2007).
Poi il procedimento amministrativo è stato riattivato.
Il
Comune ha riesaminato il diniego, conformandosi a quanto
affermato dal Tar in accoglimento dei ricorsi, ed ha emanato
il provvedimento P.G. 189408 del 23.07.2009 con cui ha
rilasciato il permesso di costruire in sanatoria subordinato
al pagamento di due sanzioni pecuniarie. La prima, per
l'abuso edilizio, di euro 12.695 (calcolata secondo le
modalità di cui alla nota 1 della Tab. allegata alla L.n.
47/1985, trasformando l'incremento di volume in superficie
virtuale utilizzando la formula superficie=incremento di
volume x 3/5, in quanto l'abusivo innalzamento del
fabbricato non ha comportato un aumento di superficie). La
seconda, per l'abuso paesaggistico, applicata ai sensi
dell'art. 167, co. 5, del d.lgs. n. 42/2004, è stata fissata
seguendo i paramenti quantitativi previsti dalla delibera
consiliare n. 40/2006, che prevedevano anche essi la
conversione del maggior volume di 199 mc nella superficie di
119 mq.
E' stata irrogata quindi una sanzione dello stesso
importo di euro 243.532,97 di quello del precedente
provvedimento, già annullato dalla citata sentenza.
Anche tale ultimo provvedimento è stato impugnato al Tar
dagli architetti con ricorso n. 1309/2009 e dai committenti
con separato ricorso.
Nonostante l'istanza di sospensiva, i committenti hanno
dovuto pagare l'intero importo ingiunto dal Comune (euro
256.228,13).
Per questo i committenti, sentendosi danneggiati, hanno
proposto contro gli architetti numerose cause civili, che
nelle more del giudizio avanti al Tar, durato cinque anni,
hanno avuto vari esiti tutti economicamente pesanti per i
convenuti.
1.3. Con sentenze nn. 975 e 973 del 20.10.2014, il Tar
dell'Emilia Romagna ha infine accolto sia il ricorso degli
architetti sia quello dei committenti e ha annullato i
provvedimenti impugnati.
Nella motivazione il Tribunale, pronunciandosi sull'art.
167, c. 5, del d.lgs. n. 42/2004 e sulla possibilità di
ricorrere per il calcolo delle sanzioni al meccanismo della
trasformazione della cubatura in superficie utile, afferma
questo principio di diritto: "Il richiamo alla l. n. 47/1985,
nota 1 della Tabella allegata, non appare conforme alla
previsione contenuta nel citato articolo 167, 5° c., in
guanto la stima deve accertare in concreto il maggior
importo tra danno arrecato e profitto conseguito".
Entrambe tali sentenze sono passate in giudicato.
1.4. Quella n. 975 è stata notificata il 21.11.2014 ma il
Comune di Bologna non vi ha dato esecuzione, non ha cioè
provveduto alla restituzione delle somme pagate dai
committenti (euro 256.228,13) e per le quali essi hanno
perseguito gli architetti.
Non l'ha fatto subito, come doveva, stante l'esecutività
della sentenza, e non lo ha fatto neppure dopo il passaggio
in giudicato, avvenuto sei mesi dopo la notifica.
Sono stati gli architetti, quindi, a contestare
l'illegittimo ritardo nel provvedere e a sollecitare e
diffidare il Comune a dare esecuzione alla sentenza.
Perdurando ancora l'inerzia del Comune, gli architetti hanno
pertanto proposto il ricorso per ottemperanza in cui
chiedevano al Tribunale:
I. ai sensi dell'art. 114, c. 4, lett. a) e d), del c.p.a.:
ordinare al Comune di restituire ai committenti la somma
pagata quale sanzione ex art. 167, c. 5, del d.lgs. n.
42/2004, fissando il termine entro il quale doveva essere
emesso il mandato;
Il. ai sensi degli art. 112, c. 5, e 134 c.p.a., sussistendo
giurisdizione di merito: dare gli opportuni chiarimenti in
ordine alla esecuzione della sentenza;
III. ai sensi dell'art. 114, c. 3, e dell'art. 114, c. 4,
lett. e), c.p.a.:
a) di condannare il Comune, per l'ingiustificato ritardo
nell'esecuzione in forma specifica della sentenza passata in
giudicato, al risarcimento dei danni maturati a causa
dell'illegittimo ritardo fino alla notifica del ricorso,
danni forfettariamente indicati nell'importo di euro
5.000,00 o nella diversa misura ritenuta secondo equità;
b) di stabilire l'importo della somma di denaro dovuta dal
Comune per ogni ulteriore ritardo rispetto alla data di
notifica del ricorso o dell’emanando provvedimento che
ordina l'esecuzione della sentenza (c.d. “astreinte”).
1.5. Alquanto dopo la notifica del ricorso per
l'ottemperanza il Comune ha notificato un nuovo
provvedimento, sostitutivo di quello annullato dalle
sentenze nn. 975/2014 e 973/2014.
In esso viene fatto un nuovo calcolo della sanzione
pecuniaria per la violazione paesaggistica, e cioè il
calcolo del "maggior profitto" ritratto da una difformità
edilizia di cui era stata previamente accertata la
compatibilità paesaggistica.
Ma questo nuovo calcolo ha ripercorso e riprodotto
sostanzialmente il meccanismo della sanzione già annullata,
perché ha convertito ancora una volta il maggior volume
(cieco) in una "superficie virtuale".
Con provvedimento P.G. 186953 del 19.06.2015 il Comune ha,
infatti, ricalcolato l'importo di questo ipotetico maggior
profitto riproponendo (con una leggera diminuzione) il
meccanismo già dichiarato illegittimo.
La differenza è che questa volta si è ipotizzato che la
superficie virtuale avrebbe riguardato vani alti m. 2,40,
cioè superfici accessorie.
Contro questo nuovo provvedimento gli architetti hanno
proposto motivi aggiunti al ricorso per l'ottemperanza,
deducendo due censure e cioè:
a) violazione del giudicato;
b) violazione e falsa applicazione dell'art. 167, co. 5 e 6,
del d.lgs. n. 42/2004. Illogicità manifesta, difetto di
motivazione e falso presupposto di fatto. Violazione
dell'art. 11, co. 5., del regolamento edilizio del Comune di
Bologna e del punto 18 della delibera dell'Assemblea
Regionale n. 279/2010.
1.6. Si perviene così all'impugnata sentenza n. 1041/2015,
depositata il 27.11.2015, con la quale il Tar:
a) ha dichiarato improcedibile il ricorso per l'esecuzione
di giudicato, sul presupposto che il nuovo provvedimento non
è di portata elusiva, condannando peraltro il Comune al
pagamento di euro 2.000 per spese legali, stante il ritardo
nel provvedere;
b) ha respinto l'azione risarcitoria presentata
contestualmente all'ottemperanza, compensando per tale
profilo le spese di lite;
c) ha accolto i motivi aggiunti, convertiti in ricorso
ordinario di legittimità ex art. 32 c.p.a., e ha annullato
il provvedimento impugnato, compensando, peraltro, anche
qui, le spese di lite.
1.7. Questa sentenza è stata impugnata, quanto al capo c),
dal Comune, che assume corretto il suo metodo di calcolo del
maggior profitto.
Gli architetti hanno controdedotto ma, a loro volta, hanno
proposto appello incidentale contro i capi a) e b) della
sentenza, giacché a loro avviso il censurato provvedimento
(nei fatti annullato dal Tar) era elusivo del giudicato e
comunque doveva reputarsi illegittimo il ritardo nella sua
adozione con danni patrimoniali per gli architetti causati
dalle azioni civili nel frattempo portate avanti dai
committenti, certamente quantificabili quanto meno in via
equitativa.
1.8. E’ opportuno ricordare che da ultimo, nelle more di
questo giudizio, il Comune ha adottato un ulteriore
provvedimento determinativo della sanzione, questa volta
allineato concettualmente alla decisione Tar (ossia costo
della demolizione), anche se gli architetti (che lo hanno
già impugnato al Tar Emilia, ivi rinunciando a chiedere
misure cautelari in attesa dell’esito di questo giudizio)
segnalano ancora l’eccessività del quantum della sanzione
(circa 91.000 euro), dovuta al fatto che il Comune ha
computato oltre ai costi di demolizione anche quelli di
ricostruzione dei solai e tetto, per di più non applicando
prezziari del 2005 sibbene molto più recenti ed onerosi.
2. Vale a questo punto osservare che il Collegio non ha
motivo di prendere in considerazione il provvedimento
sanzionatorio adottato dal Comune come ultimo in ordine di
tempo e ciò perché lo stesso, per quanto riferito, è già
stato autonomamente impugnato innanzi al Giudice di primo
grado, che pertanto dovrà farsene carico in relazione alle
censure in quella sede articolate nei suoi riguardi.
Può solo incidentalmente notarsi in questa sede –sulla
scorta degli argomenti comunque già spesi in proposito dalle
parti in causa– che non possono escludersi suoi profili di
eccessività, quanto alla concreta, nuova determinazione
della sanzione, in considerazione del fatto che il Comune
avrebbe stimato costi non soltanto di demolizione ma anche
di ricostruzione (quanto meno dei solai dell’edificio). E
questo potrebbe non essere del tutto allineato con quanto
stabilito dal Giudice di primo grado, in relazione al
criterio parametrico da utilizzare per la stima del
“profitto” altrimenti conseguito dalla parte proprietaria,
secondo il quale, ragionevolmente, i costi da considerare
sono esclusivamente quelli di demolizione (non anche,
perciò, di ricostruzione).
Del resto, non va trascurato che, nella fattispecie, la
demolizione resterà puramente teorica (valendo soltanto come
parametro di riferimento per una liquidazione in via
amministrativa di una sanzione) e che perciò la proprietà
non avrà necessità di alcuna ricostruzione.
Sempre incidentalmente, poi, non si può nemmeno del tutto
trascurare che, in epoca recente e successiva ai fatti di
causa, come provato documentalmente in questo giudizio, il
Comune si è infine indotto ad introdurre una disciplina
regolatoria –valida per casi particolari, come quello in
discorso– per effetto della quale il computo della sanzione
deve avvenire secondo quantificazione forfettaria e, in ogni
caso, con una valutazione a corpo, non a misura, dell’entità
del profitto conseguito.
3. Venendo poi al merito stretto del presente giudizio,
giova precisare che la materia del contendere ruota intorno
alla questione se sia stato corretto o meno, da parte del
Comune, in sede di ottemperanza, una riedizione del
provvedimento sanzionatorio sopra detto suscettibile di
pervenire ad una quantificazione monetaria non sensibilmente
dissimile da quella che derivava dal primo provvedimento
sanzionatorio, già censurato con successo in sede
giurisdizionale.
Secondo il Comune sì, il suo comportamento è stato corretto
e, pertanto, va riformata la sentenza impugnata lì dove
essa, invece, ha annullato il provvedimento in argomento.
No, invece, ad avviso degli architetti resistenti ed
appellanti incidentali, secondo i quali il provvedimento,
proprio perché rinvenuto illegittimo, denuncia la sua
portata elusiva del giudicato e, dunque, giustificherebbe la
riforma in parte qua della sentenza impugnata.
3.1. Dirimente in proposito, ad avviso del Collegio, è una
considerazione di natura innanzitutto logica, prima ancora
che giuridica.
Il Comune, posto che nella fattispecie, per la
determinazione della sanzione da irrogare, si doveva
calcolare esclusivamente la componente “profitto” –esclusa
essendo, incontestatamente fra le parti, la necessità di
sottrarvi la componente “danno”, dato che, infine, gli
interventi eseguiti sono risultati paesaggisticamente
compatibili– si è convinto che, allora, tale “lucro” si
dovesse misurare secondo una logica commerciale e di
mercato.
L’aumento dimensionale dell’edificio è stato esclusivamente
volumetrico ed “esterno” –ed anche questa è circostanza non
controversa– giacché non s’è verificata né maggiore
volumetria utile interna né maggiore superficie utile
interna.
In parole povere, solo i limiti esterni dell’edificio si
sono “ingrossati”. E questo si spiega bene sol che si
consideri che, nel caso in esame, all’edificio sono stati
aumentati i volumi delle strutture portanti e di solaio come
conseguenza di un voluto adeguamento antisismico
dell’immobile (adeguamento che può in effetti determinare
ispessimenti).
Perseguendo l’intento, dunque, il Comune si è posto nella
logica di dover tramutare comunque in superficie metrica la
maggior volumetria riscontrata nell’edifico per poi ricavare
il valore economico di tale maggiore superficie.
Tutto questo, però, in palese e dichiarata prospettiva
meramente “virtuale”, posto che evidentemente all’interno
dell’immobile non era stata ricavata maggiore superficie
utile.
Per giungere a tale obiettivo, dopo un primo tentativo
fallito (giacché il relativo provvedimento è stato annullato
in sede giurisdizionale), il Comune è allora ricorso al
seguente ragionamento: qualora la proprietà abbattesse
l’edificio ristrutturato, ed ampliato all’esterno dal punto
di vista volumetrico, e qualora la stessa subito dopo lo
ricostruisse, questa volta però rinunciando a parte della
maggiore volumetria per ricavarne, sostitutivamente,
maggiore superficie utile interna, si paleserebbe a quel
punto l’entità del “profitto” al momento non visibile, giacché tutto racchiuso –in potenza– all’interno di quei
metri cubi di maggior volume esterno.
3.2. In questi termini, tuttavia, il ragionamento del Comune
risulta del tutto non persuasivo.
E ciò non tanto e non solo in relazione al fatto che gli
strumenti urbanistici del momento potrebbero non consentire
una siffatta trasformazione (e chissà se mai nel futuro)
ovvero che è del tutto opinabile che la proprietà abbia
effettivamente in animo di imbarcarsi in una operazione di
siffatta metamorfosi di un suo edificio appena riadattato,
quanto piuttosto per il fatto che –ove mai vera l’ipotesi
prefigurata dal Comune– essa risulterebbe nella sostanza in
buona parte autolesionistica, perché fondata sul presupposto
di una rinuncia alla maggior robustezza dell’edificio
(frutto della recente ristrutturazione anche con valenza
antisismica) a mero vantaggio di una piccola maggiore
estensione interna della sua superficie utile.
Detto in altri termini, non risulta in primo luogo
plausibile stimare come “profitto” ciò che, per il suo
materiale conseguimento, implicherebbe “sacrificio” di una
utilità ben maggiore, ossia, nel caso di specie, la maggiore
robustezza dell’edificio dal punto di vista antisismico.
Implausibilità, quella appena descritta, tanto maggiore
quanto più si consideri che la città di Bologna ha avuto
tristemente modo, in tempi recenti, di dimostrare di non
essere affatto estranea al rischio sismico, essendo stata
più che lambita dai tragici eventi tellurici di appena
quattro anni fa.
3.3. Senza dunque neppure dover prendere in considerazione
il fatto che, persistendo nella sua teorizzazione, il Comune
è riuscito, nel caso di specie, a mantenere (utilitaristicamente,
dal punto di vista delle casse locali) l’entità della
sanzione pecuniaria in misura prossima a quella della sua
prima (ed illegittima) determinazione, esprimendo essa una
somma di denaro idonea a giustificare un ragionevole valore
di mercato della maggior superficie utile interna virtuale, è
possibile constatare che, in tal modo, l’ente locale si è
nuovamente sottratto, nella sostanza, ad un’appropriata e
congrua esecuzione del giudicato cui esso era tenuto.
In quest’ottica, allora, non risulta persuasivo e fondato
l’appello del Comune, volto ad una possibile riforma della
sentenza impugnata lì dove essa, anche se con altro percorso
argomentativo, giunge a ritenere non legittima anche la
seconda determinazione della sanzione in contestazione.
Al riguardo, peraltro, torna utile, per un verso, il ricordo
sia del fatto che la decisione impugnata pur sempre ha
affermato che “risulta del tutto condivisibile
l’individuazione del concreto profitto tratto dai
proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione [non anche
ricostruzione] della sola opera realizzata senza
autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere
ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe
dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto
delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente”,
sia, per altro verso, del fatto che lo stesso ente locale,
più di recente, ha abbracciato il criterio (più equo e
logico) della misura forfettaria a corpo dell’entità della
sanzione irrogabile in casi corrispondenti a quello in
discorso.
3.4. Le considerazioni che precedono, di contro, rendono
persuasivo l’appello incidentale degli architetti volto a
far rilevare che, quello del Comune, è stato un adempimento
solo formalmente esaustivo del dovere di ottemperanza cui
esso era tenuto ma non di certo sostanzialmente satisfattivo.
Per questa parte, dunque, la sentenza impugnata deve essere
riformata e dichiarato coerentemente illegittimo, per
elusione di giudicato, l’adempimento che il Comune indica
come soddisfacentemente eseguito.
La non adeguatezza dell’adempimento, per elusione del
giudicato, conduce altresì a ritenere persuasiva la domanda
di risarcimento del danno formulata dagli architetti che,
accolta, può condurre ad una liquidazione equitativa del
danno in euro 5.000,00 per ciascuno dei ricorrenti
incidentali, anche nella considerazione del tempo impiegato
dall’ente locale nel giungere all’adozione di un atto pur
sempre non coerente con quello da esso atteso.
Non persuasiva, di contro, la richiesta di astreinte
formulata dagli appellanti incidentali, specie in
considerazione del fatto che gli stessi non risultano aver
addotto argomenti in ordine al requisito della non manifesta
iniquità di cui all’art. 114, co. 4, lett e), del c.p.a..
4. In conclusione, va respinto l’appello principale e, in
accoglimento parziale di quello incidentale, deve essere
riformata in parte la sentenza appellata, in particolare con
la condanna del Comune al risarcimento del danno in favore
degli appellanti incidentali nella misura innanzi detta (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.11.2016 n. 4824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167
D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi
art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che
l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a
vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno),
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale.
---------------
E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica
applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto
nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a
riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative
punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di
cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la
violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso
dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con
sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in
sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n.
689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in
materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con
sanzione pecuniaria.
---------------
Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza
della prescrizione, il C.G.A. ha modificato il proprio
precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento,
secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi
coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la
illiceità del comportamento edilizio … e cioè quello della
intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale
appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera
con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno
dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto
della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una
più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da
adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della
sanzione qui in discussione il momento della intervenuta
concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la
sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso C.G.A. si
è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione
del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione
edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della
sanzione.
---------------
D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi
dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata col primo motivo di
ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art.
15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n.
490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista
per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non
una forma di risarcimento del danno), che, come tale,
prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale
(cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le
violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima,
applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le
violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie,
anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale
(art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti
amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica
puniti con sanzione pecuniaria (vedasi Tar Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id,
02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vedansi, anche, Tar
Lecce, III, 01.08.2016, n. 1313 e I, Sezione, 19.11.2015, n. 3351; Tar Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395;
Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n.
123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa
Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso
sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n.
2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A.
(parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente
indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il
quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente
piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità
del comportamento edilizio … e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più
attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
(ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in
termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015
e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo
stesso C.G.A. si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 e da
ultimo n. 490/2016 e data 05/05/2016)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 11.11.2016 n. 2599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanatoria, essendo stata richiesta dopo
l’imposizione del vincolo, richiede necessariamente
l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n.
75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia
Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il
permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione
straordinaria e del permesso di costruire per opere di
ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n.
4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte
ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta
presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della
relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i
provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del
processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo
amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente
costruzione dei manufatti in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti
dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700
del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in
giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto
posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente
costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte
ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente
giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la
sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità
dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al
presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità
risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta,
con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi
ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non
pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento
di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento
dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione.
Lamenta in particolare che il comune di Verona ha
indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni
sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da
quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come
imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori
evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta
vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio
del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la
zona di progetto e la zona in cui sono individuati i
manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la
loro omissione nell’atto notarile di compravendita di
terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di
accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono
costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a
scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione
nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e
motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della
dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo
con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti
per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di
esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del
diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto
provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente
all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento
edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione
di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria,
essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo,
richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità
paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Richiesta di parere in merito all'art. 3 della legge
124/2015 "Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi
pubblici" (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 538538 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito ad un intervento di manutenzione
ordinaria mura di cinta di età medioevale - Comune di Vico
nel Lazio (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 537945 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Parere in merito all'applicazione dell'art. 27, comma 3,
della l.r. 24/1998 concernente l'edificazione su lotti
inedificati e parzialmente boscati ricadenti in un comparto
di lottizzazione - Comune di Montebuono (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 537898 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato paesaggistico - Natura di reato di pericolo
astratto - Effettivo pregiudizio per l'ambiente - Esclusione
- Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
Il reato paesaggistico di cui all'articolo 181 del decreto
legislativo n. 42 del 2004 è un reato di pericolo astratto
che non richiede un effettivo pregiudizio per l'ambiente.
Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo
pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che il
reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui
conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità
paesaggistica delle opere eseguite (Cass. Sez. 3, n. 11048
del 18/02/2015 dep. 16/03/2015, Murgia) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato paesaggistico di cui
all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un
reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo
pregiudizio per l'ambiente.
Invero, il reato di pericolo previsto
dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai
fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per
l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di
preventiva autorizzazione, di interventi che siano
astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico
tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio
perdurano anche se l'amministrazione competente attesta la
compatibilità paesaggistica delle opere eseguite.
--------------
L'applicabilità dell'art. 131-bis,
c.p. non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, tenuto
conto della contemporanea violazione di più disposizioni
della legge penale (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; art.
44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001).
Infatti, è stato affermato da questa Corte che la causa di
esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere
applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo,
qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa
indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse
disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi"),
poiché è la stessa previsione normativa a considerare il
"fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una
valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale
particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si
articola.
---------------
9. La Corte d'appello, poi, passa a esaminare la questione
della configurabilità del reato paesaggistico, osservando
come, per la realizzazione di tali interventi, sarebbe stata
necessaria anche l'autorizzazione richiesta dall'art. 146
del decreto Urbani; precisano i giudici d'appello
correttamente come i lavori di ristrutturazione edilizia non
rientrano tra quelli per i quali l'articolo 149 esclude la
necessità di tale autorizzazione; del resto, prosegue la
Corte d'appello, nel caso in esame risultava accertato come
le opere realizzate non fossero solo prettamente interne,
essendo infatti consistite anche in una sopraelevazione ed
in una apertura di luci, donde le stesse si presentavano
astrattamente idonee ad alterare lo stato dei luoghi,
incidendo sul loro aspetto esteriore in senso fisico ed
estetico e modificando di conseguenza i valori
paesaggistici.
A tal proposito correttamente la Corte d'appello evidenzia
come il reato paesaggistico di cui
all'articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004 è un
reato di pericolo astratto che non richiede un effettivo
pregiudizio per l'ambiente.
Trattasi di affermazione giuridicamente corretta, essendo
pacifico l'orientamento di questa Corte nel senso che
il reato di pericolo previsto dall'art. 181
del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, non richiede ai fini della sua
configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente,
essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva
autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei
ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui
conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità
paesaggistica delle opere eseguite
(da ultimo: Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 - dep.
16/03/2015, Murgia, Rv. 263289).
...
12. Quanto, poi, alla dedotta violazione di legge per omessa
applicazione dell'art. 131-bis c.p., oggetto del secondo
motivo, osserva questa Corte come la Corte d'appello, con
argomentazione del tutto corretta ed immune da vizi, escluda
la particolare tenuità del fatto, osservando come in virtù
della edificazione mediante l'insieme delle sopra descritte
opere di un nuovo piano abitabile non potrebbe parlarsi di
offesa di particolare tenuità; a tal proposito, confutando
l'argomentazione difensiva secondo cui l'altezza del
soppalco pari a 2,30 m. ne escluderebbe l'abitabilità
essendo l'altezza minima pari a 2,70 m., i giudici di
appello correttamente evidenziano come di fatto l'altezza
realizzata fosse assolutamente sufficiente a garantire
l'utilizzo a fini abitativi del soppalco -come comprovato
anche dalla presenza dei due bagni-, sicché il mancato
raggiungimento dell'altezza minima di legge ne avrebbe sì
escluso l'agibilità, ma non escludeva che ci si trovasse di
fronte ad un abuso edilizio che costituiva manifestazione
del disinteresse di chi aveva abusivamente edificato a
rispettare le prescrizioni di legge riguardo alle altezze.
A ciò, peraltro, va aggiunto che
l'applicabilità dell'art. 131-bis, c.p. non avrebbe comunque
potuto essere riconosciuta, tenuto conto della contemporanea
violazione di più disposizioni della legge penale (art. 181,
d.lgs. n. 42 del 2004; art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del
2001): ed infatti, è stato affermato da questa Corte che la
causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità
del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere
applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo,
qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa
indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse
disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio
punendi"), poiché è la stessa previsione normativa a
considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima",
secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza
l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui
esso si articola
(da ultimo: Sez. 5, n. 26813 del 28/06/2016, Grosoli, Rv.
267262) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Beni ambientali. Richiesta di autorizzazione paesaggistica e
false attestazioni del richiedente circa la sussistenza
delle condizioni per l'accoglimento.
Integra il reato previsto dall'art.
479
cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da
parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda.
(In motivazione, la S.C. ha precisato che l'autorizzazione
paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando
l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo
tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo
un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del
proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo
competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque
modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni)
(massima tratta da www.lexambiente.it).
---------------
5.5. Venendo al ricorso presentato da Re., con il primo
motivo egli deduce, innanzitutto, profili di censura
sostanzialmente già formulati dagli altri due imputati,
sicché gli stessi debbono essere rigettati sulla scorta
delle argomentazioni già svolte.
Ciò vale, in primo luogo, per l'evidente falsità della
documentazione allegata alla D.I.A., attestante la
preesistenza dell'immobile oggetto dell'intervento edilizio,
rispetto alla quale i Giudici di secondo grado non avrebbero
replicato alle osservazioni del consulente di parte, Arch.
El., circa l'esistenza, in quella zona, di altri antichi
manufatti simili a quello in contestazione, composti anche
da conci squadrati, con la conseguenza che Re. non avrebbe
avuto motivo di nutrire sospetti in merito alla autenticità
dell'immobile oggetto della D.I.A.. Sul punto, appare dunque
opportuno rinviare, per ragioni di economia espositiva, alle
osservazioni già svolte al paragrafo 5.1.
Una volta affermata la correttezza della lettura processuale
compiuta dai giudici di merito sia in relazione
all'affermata falsità della rappresentazione documentale
allegata alla D.I.A., sia in relazione alla percepiblità
ictu oculi (ovvero sulla base dei meri rilievi
fotografici) della stessa, in specie per un soggetto
tecnicamente attrezzato ed esperto come Re. (tanto più ove
si consideri che, come osservato da Ba. in sede di ricorso,
la richiesta di intervento conservativo su una "muratura
perimetrale" priva di copertura solare, sarebbe stata
comunque destinata all'immediato "diniego"), deve poi
rilevarsi come sia esente da censure, sul piano
logico-giuridico, l'ulteriore passaggio motivazionale con
cui le due sentenze di primo e secondo grado hanno
ricondotto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen. il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 2/09 da parte
di un soggetto che, per le ragioni già esposte, era
consapevole della falsità di quanto attestato negli atti a
corredo della D.I.A..
Sul punto, Re. ha dedotto di non aver compiuto, con
l'autorizzazione paesaggistica, alcuna attestazione in
ordine all'epoca dell'immobile né alla sua fattura,
essendosi limitato a prendere atto del contenuto della
relazione tecnica e della allegata documentazione prodotta
dal richiedente ed asseverata da un professionista, così
come previsto dalla legislazione in materia edilizia.
Tali
atti, del resto, avrebbero pacificamente natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale
dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull'area o sull'immobile interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intende realizzare e all'attestazione della loro conformità
agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio;
sicché, a fronte della relativa attestazione, il potere
dell'amministrazione si sostanzierebbe nel verificare la
corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato
rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in
questione.
Le argomentazioni difensive testé riassunte sono, tuttavia,
prive di pregio.
Come osservato, in passato, da questa Corte in una ipotesi
del tutto identica contestata all'odierno imputato,
l'autorizzazione paesaggistica, rilasciata da Gi.Re.,
aveva certamente la natura di atto pubblico, "comprovando
l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente
svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua
valutazione tecnica e producendo il consistente effetto
ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del
proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la
procedura per ottenere il permesso a costruire"
(così,
in motivazione, Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, non massimata);
ciò che pertanto consente pacificamente di
escludere l'applicabilità della meno grave ipotesi di cui
all'art. 480 cod. pen..
In secondo luogo, i giudici di merito hanno puntualmente
chiarito che, avendo attestato la sussistenza delle
condizioni per il rilascio dell'autorizzazione, Re.
implicitamente asseverò l'esistenza dei presupposti di
fatto, della cui insussistenza, per le ragioni già chiarite,
egli era, tuttavia, pienamente consapevole.
In altri termini,
il rilascio del titolo abilitativo
rilevante sul piano paesaggistico presupponeva, in ogni
caso, un preventivo vaglio della sussistenza delle relative
condizioni, giuridiche e di fatto; sicché la dolosa
affermazione della sussistenza di presupposti che Re. era
perfettamente consapevole non esistessero integra, come
correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, il delitto
contestato.
Sotto altro profilo, del tutto inconferente è l'ulteriore
deduzione secondo cui il ricorrente non avrebbe avuto alcun
obbligo di effettuare preventive verifiche circa la
conformità della rappresentazione dello stato di fatto alla
reale situazione dei luoghi e in ordine alla preesistenza
del fabbricato.
E', infatti, evidente, proprio alla luce
delle menzionate caratteristiche dell'autorizzazione
paesaggistica, che in capo all'organo competente incomba,
diversamente da quanto opinato dal ricorrente, un vero e
proprio obbligo giuridico di accertare la sussistenza delle
condizioni giuridico-fattuale per l'accoglimento della
richiesta; obbligo che, ovviamente, può essere assolto in
qualunque forma, e dunque non necessariamente con un
sopralluogo, che in ogni caso Re. avrebbe potuto svolgere
nell'esercizio dei poteri di ufficio. E dalla circostanza
che egli non abbia ritenuto di svolgere alcuna verifica, i
giudici hanno coerentemente tratto ulteriori conferme del
fatto che egli fosse partecipe della complessiva operazione
illecita.
Per quanto, infine, concerne le censure mosse con
riferimento al dolo dell'abuso di ufficio, deve ribadirsi
che i giudici di merito hanno esplicitato, con motivazione
congrua e logicamente ineccepibile, e quindi incensurabile
in sede di legittimità, le ragioni sulla base delle quali
hanno ritenuto ravvisarlo.
Infatti,
una volta affermata l'avvenuta commissione del
delitto di falso, le due sentenze hanno posto in luce come,
pur in assenza di documentati contatti tra Re. e i due
coimputati, potesse affermarsi l'esistenza, oltre che della
consapevolezza delle condotte illegittime accertate
-costituite, sia dalla falsità in atto pubblico, sia dalla
violazione, non contestata ricorso per cassazione,
dell'obbligo, sancito dall'art. 23 del d.p.r. n. 380 del
2001, di ordinare alla committenza di non effettuare il
richiesto intervento edilizio- di un deliberato intento di
far conseguire ad An.Vi.Qu. l'ingiusto profitto patrimoniale
(per la tesi secondo cui il vantaggio patrimoniale di cui
all'art. 323 cod. proc. pen., va riferito al complesso dei
rapporti giuridici a carattere patrimoniale e quindi non
solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali o
altro, ma anche quando sia volto a creare un accrescimento
della situazione giuridica soggettiva, cfr. Sez. 3, n. 10810
del 17/01/2014, Altieri e altri, Rv. 258894; Sez. 6, n.
12370 del 30/01/2013, P.C. e Baccherini, Rv. 256004; Sez. 6,
n. 43302 del 27/10/2009, Rocca, Rv. 244945; Sez. 6, n. 49554
del 22/10/2003, Cianflone e altri, Rv. 227204, relativo al
caso del rilascio di una concessione edilizia; in questi
ultimi termini v. anche Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007,
Serione e altri, Rv. 238028) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 06.10.2016 n. 42064). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
P. Marzano,
Silenzio-assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti
di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’
all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal
Consiglio di Stato (05.10.2016 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
●
Sezione prima. 1. Un
‘manifesto’ per la funzione consultiva del Consiglio di
Stato nel processo di attuazione della legge n. 124 del
2015. – 2. Sul nuovo ruolo del Consiglio di Stato nella
policy di riforma della pubblica Amministrazione. – 3. La
‘nuova amministrazione’ nella visione del Consiglio di
Stato, dopo la riforma cd. Madia. Dequotazione del
procedimento e riduzione degli interessi all’esito del
processo di semplificazione.
●
Sezione seconda. 4.
Il parere del Consiglio di Stato sull’art. 17-bis della
legge n. 241 del 1990 e la genesi di questa disposizione. –
4.1 L’ambito di applicazione soggettivo del silenzio-assenso
tra Amministrazioni. – 4.2 L’ambito di applicazione
oggettivo; rapporti con gli artt. 16 e 17 della legge sul
procedimento amministrativo e tutela degli interessi
sensibili. – 4.3 Art. 17-bis e coordinamento tra
Amministrazioni; l’esclusione dell’applicazione in caso di
Sportello unico. – 4.4 Formazione del silenzio assenso,
dissenso tardivo e autotutela.
●
Sezione terza. 5. La
portata dell’art. 17-bis della legge sul procedimento
amministrativo. Il rapporto ‘orizzontale’ tra (due sole)
Amministrazioni co-decidenti; il coordinamento progressivo
in ragione della complessità della decisione - 5.1 Il
rapporto con la conferenza di servizi – 6. Silenzio-assenso
e tutela degli interessi sensibili – 6.1 Art. 17-bis e
cogestione dell’interesse paesaggistico – 7. Il dissenso tra
Amministrazioni e gli obblighi di leale collaborazione. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
ABUSO D’UFFICIO E MANCATA RICHIESTA DEL PARERE DELLA
SOPRINTENDENZA PRIMA DEL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE
IN ZONA PAESAGGISTICA.
È configurabile il reato di abuso
d’ufficio nella condotta consistente nell’omettere, prima di
rilasciare un permesso di costruire, di considerare, sotto
ogni profilo, il parere della Soprintendenza sull’atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente
subdelegato in materia paesaggistica, in quanto, a
prescindere dall’estensione del sindacato, ciò integra una
violazione di legge, in quanto l’autorizzazione
paesaggistica presupposto del permesso di costruire va
adottata previo parere della Soprintendenza, del quale
occorre tener conto in sede di esercizio della
discrezionalità amministrativa.
Il tema
oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in
esame è quello della configurabilità del reato di abuso
d’ufficio nel caso in cui il permesso di costruire veniva
rilasciato dal Comune senza preventivo rilascio del parere
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, trattandosi
di intervento edilizio in zona paesaggisticamente tutelata.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui
la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di condanna
emessa dal Tribunale, aveva assolto alcuni pubblici
amministratori dai reati di abuso d’ufficio e falso in atto
pubblico, in relazione all’esecuzione di alcune opere in
zona vincolata in assenza di permesso di costruire.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica, in particolare deducendo
l’erroneità del presupposto di diritto fondante la sentenza
di assoluzione, che valutava come decisivo il contenuto del
parere della Soprintendenza, ritenendo che, essendo
espressione di un giudizio di merito, le indicazioni in esso
contenute -oggetto della falsa attestazione di adeguamento-
fossero da considerarsi tamquam non essent, in modo
da escludere la sussistenza dei reati di falso e di abuso,
e, quindi, la violazione edilizia.
Evidenziava, al riguardo, che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
159, nel testo vigente (dal 12.05.2006 al 23.04.2008)
all’epoca dei fatti, pur non attribuendo alla Soprintendenza
un potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico per
motivi di merito, “riconosce ad essa un controllo di mera
legittimità che peraltro può riguardare tutti i possibili
vizi tra cui anche l’eccesso di potere” (Corte Cost. n.
367 del 2007); in tal senso, la stessa giurisprudenza del
Consiglio di Stato avrebbe sottolineato che le valutazioni
di competenza della Soprintendenza costituiscono espressione
di un potere di amministrazione attiva, non di mero
controllo, potendo valutare la congruenza del giudizio di
compatibilità paesaggistica dell’intervento.
Il parere della Soprintendenza, nel caso di specie, aveva ad
oggetto l’autorizzazione paesaggistica comunale che
conteneva una mera motivazione di stile (“ritenuto possa
concedersi il nulla osta richiesto in quanto l’intervento
non contrasta con l’ambiente circostante”); pertanto, in
carenza di motivazione del nulla-osta, era legittima la
valutazione in concreto contenuta nel provvedimento della
Soprintendenza, in particolare con riferimento alla tutela
del vincolo della visuale panoramica del luogo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha accolto il ricorso, in particolare osservando
come, pur prescindendo dai limiti del sindacato della
Soprintendenza, la sentenza risultava erronea nel
disconoscimento di qualsivoglia efficacia del parere
dell’ente deputato alla tutela del vincolo.
Invero, puntualizzano i Supremi Giudici, pur escludendo, nel
regime normativo vigente all’epoca dei fatti, un sindacato
di merito della Soprintendenza, nondimeno deve ritenersi
indubbio il riconoscimento di un sindacato di legittimità
(sul punto, seppur con riferimento alla disciplina
successiva alla L. 02.08.2008, n. 129, Cons. Stato, Sez. VI,
25.02.2013, n. 1129: “...con l’entrata in vigore, a
regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina
autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del
paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004, n. 42), la Soprintendenza si è
ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera
legittimità (come previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
159 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009)
sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons.
Stato, Ad. Plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di
“merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di
cogestione del vincolo paesaggistico (D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 146). Non par dubbio, sostengono gli Ermellini, che
tale mutato quadro normativo abbia giustificato sul piano
normativo una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento
edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati
nella richiamata disciplina vincolistica”; Cons. Stato,
Sez. VI, 19.05.2015, n. 2751) che, nel caso in esame, era
stato esercitato mediante espressione di un parere con
prescrizioni; laddove, se il potere di impartire le
prescrizioni fosse stato esulante dal sindacato rimesso
all’ente, in quanto ritenuto espressione di una valutazione
di merito, l’alternativa, ai fini della tutela del vincolo
(nella specie, della visuale panoramica), sarebbe stato un
parere sfavorevole.
Pertanto, l’aver omesso, nel rilascio del permesso di
costruire, di considerare, sotto ogni profilo, il parere
della Soprintendenza, a prescindere dall’estensione del
sindacato, integra una violazione di legge, in quanto
l’autorizzazione paesaggistica presupposto del permesso di
costruire va adottata (nel caso di specie, dal Comune, quale
organo sub-delegato della Regione) previo parere della
Soprintendenza, del quale occorre tener conto in sede di
esercizio della discrezionalità amministrativa. E se le
prescrizioni avessero oltrepassato i limiti del sindacato,
l’ente comunale avrebbe dovuto o espressamente motivare al
riguardo, o considerare il parere, in assenza di efficacia
delle prescrizioni, sfavorevole.
In ogni caso, conclude la Cassazione, la violazione di legge
può essere integrata anche dallo sviamento del potere,
integrato dal rilascio del permesso di costruire, mediante
obliterazione completa della tutela della visuale oggetto
delle prescrizioni contenute nel parere della Soprintendenza
(Cass., Sez. II, 05.05.2015, n. 23019, A., in CED 264279,
secondo cui in tema di abuso d’ufficio, la violazione di
legge cui fa riferimento l’art. 323 c.p. riguarda non solo
la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme
che regolano l’esercizio del potere, ma anche le condotte
che siano dirette alla realizzazione di un interesse
collidente con quello per quale il potere è conferito,
ponendo in essere un vero e proprio sviamento della
funzione; Id., Sez. VI, 13.03.2014, n. 32237, N., in CED
260428) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2016 n. 41473 - Urbanistica e
appalti 12/2016). |
settembre 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Il
CdS sconfessa il TAR-BS circa il corretto modus
procedendi per la quantificazione della sanzione
ex art. 167 dlgs 42/2004.
Il
calcolo della sanzione, computata sul valore di
quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento
(così come evidenziato nella relazione allegata al
provvedimento impugnato in primo grado), non pare
corrispondere al criterio legislativo (art. 167,
comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel
maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione.
Detto altrimenti, nel caso di accertata
compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004),
il "profitto conseguito" non corrisponde
all’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare
ottenuto violando le regole che tutelano il bene
vincolato.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza
cautelare 23.05.2016 n. 376 del TAR
Lombardia, sezione staccata di Brescia, resa tra le
parti, concernente pagamento di una sanzione
pecuniaria a seguito di accertamento di
compatibilità paesistica.
...
Considerato che il calcolo della sanzione, computata
sul valore di quella parte dell’immobile oggetto
dell'intervento (così come evidenziato nella
relazione allegata al provvedimento impugnato in
primo grado), non pare corrispondere al criterio
legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs.
22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra
il danno arrecato e il profitto conseguito mediante
la trasgressione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta) accoglie l'appello (ricorso numero:
5818/2016) e, per l'effetto, in riforma
dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza
cautelare in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente
ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita
fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art.
55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
ordinanza 30.09.2016 n. 4285 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167
D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi
art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che
l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a
vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno),
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale.
---------------
E’ stata più volte affermata la pacifica applicabilità anche
a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della
l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le
somme dovute per le violazioni amministrative punite con
pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal
giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso
dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con
sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in
sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n.
689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in
materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con
sanzione pecuniaria.
---------------
Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza
della prescrizione, occorre tener conto della particolare
natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e
paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di
opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni,
hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la
commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il
cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Pertanto, si è ritenuto che “…il principio di autonomia
delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica)
deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria
dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà
sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma
non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla
permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente
individuazione del dies a quo nel momento in cui viene
eliminata la violazione con l’emissione degli atti di
sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il
C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, ha modificato il
proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile
l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione
deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa
cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio
osservato … e cioè quello della intervenuta concessione
edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione
di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e
territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità
che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”;
cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione
della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a
quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il
momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la
sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è
nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del
termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione
edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della
sanzione.
---------------
... per l'annullamento del D.D.S. n. 819 del 24.03.2015,
emesso dalla Regione Siciliana, Dipartimento Beni Culturali
e dell'Identità Siciliana Servizio Tutela, notificato il
29.05.2015 , a mezzo del servizio postale , per il pagamento
della somma di € 7.247,58 a titolo di INDENNITA' Pecuniaria
ex. art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, come sostituito dall'art. 27
del dlgs n. 157/2006, nonché di tutti gli atti a tale
comunque preliminari, connessi, coordinati e conseguenti.
...
C. - Il ricorso merita accoglimento, essendo fondata
l’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente ai
sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15
l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999)
va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi
edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce
vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla
sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons.
St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV,
15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
Nel caso di specie, poi, con nulla osta prot. prot. 7285 del
07/08/1997 (allegato n. 1 della produzione dell’Avvocatura
erariale), la Soprintendenza di Messina aveva dichiarato che
le opere realizzate arrecavano danno, se pur lieve, alle
valenze paesaggistiche dell’area protetta.
D. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per
le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”; disposizione,
quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo,
a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative
pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una
sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vd.
TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812;
23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche TAR
Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; TAR Napoli, VI,
13.02.2015, n. 1092).
E. - Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della
particolare natura degli illeciti in materia urbanistica,
edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella
realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e
autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti,
sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno
solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a
dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (vd.
Cons. St., VI, 12.03.2009, n. 1464).
Pertanto -pur dandosi atto del diverso orientamento assunto
in precedenza dal C.G.A. secondo il quale “…la permanenza
cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in
alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria”
(vd. C.G.A., 13.09.2011, n. 554)- si è ritenuto che “…il
principio di autonomia delle due tipologie di violazioni
(edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato
precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta
sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la
potestà sanzionatoria per la diversa violazione
paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna
incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con
conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui
viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di
sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 2645/2015 e n.
1098/2013 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il
C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, confermando la
sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo
all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato
(decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni
riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha
modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo
preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine
in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto
che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento
edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più
attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
(ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in
termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015
e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, cui si
richiama in memoria la difesa dell’Amministrazione, lo
stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del
19.10.2015).
F. - Accolto e riaffermato il superiore principio
interpretativo, non rimane che prendere atto che nella
vicenda in esame la cessazione della permanenza
dell’illecito si è verificata in data 12.01.2004, allorché è
stata rilasciata al ricorrente la concessione edilizia in
sanatoria n. 1/2004, sicché la prescrizione dell’illecito
era già maturata quando col decreto D.D.S. n. 819 del
24/03/2015, qui impugnato, è stata irrogata la sanzione ex
art. 167 D.lgs. n. 42/2004.
Né può rilevare, in contrario, la clausola contenuta nel
nullaosta del 1997, dato che nella fattispecie il Comune ha
rilasciato formale concessione edilizia nel 2004, così
determinando la data di cessazione dell'illecito e dunque la
decorrenza del termine prescrizionale. Per altro, nel caso
in esame è pure documentata in atti la nota del 14/12/2005
con cui è stata data comunicazione, tanto al Comune quanto
alla soprintendenza di Messina, della ultimazione dei lavori
di cui alla concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004 e
N.O. della Soprintendenza n. 7285 del 07/08/1997.
G. - Il decreto è, dunque, illegittimo secondo quando
dedotto con il secondo motivo del ricorso in trattazione.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso, assorbito
quant’altro, va accolto con conseguente annullamento del
D.D.S. n. 819 del 24/03/2015 adottato dal Dipartimento
regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana,
Servizio Tutela, fatte salve le prescrizioni di cui all’art.
2 dello stesso decreto (che richiama e rinvia alle
prescrizioni impartite).
Il Collegio, avuto riguardo ai peculiari profili della
controversia e alle sopra indicate oscillazioni
giurisprudenziali, ancora presenti nel momento di adozione
dell’atto impugnato, oltre che al vantaggio conseguito dalla
parte ricorrente per l’acclarata prescrizione del credito
vantato dalla P.A., ritiene doversi compensare tra le parti
le spese di giudizio
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 28.09.2016 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’area
di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è
pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n.
394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a
quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni
culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della
legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il
rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi,
impianti ed opere all’interno del parco debba essere
sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco,
verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le
disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo
di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali
nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art.
12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia
11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce
che le funzioni amministrative per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi
all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano
esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la
giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di
interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi
nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre
distinti autonomi provvedimenti: la concessione
edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove
necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi
ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da
legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a
compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la
loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio”.
Analogamente, anche questa Sezione ha statuito che “spetta
in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della
L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento
edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al
proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della
potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L.
06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate
senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e
senza il permesso di costruire … e dunque in violazione
della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente
confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima
adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della
l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune
porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il
loro particolare interesse naturalistico, ambientale o
storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti
e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat
naturali e garantire, quindi, la conservazione della
biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene
rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del
vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la
giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che
il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione
paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla
competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di
interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento,
dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la
necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le
Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del
parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice,
“sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio,
approvando piani paesaggistici, ovvero piani
urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei
valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio
regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure
per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi
costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela
…”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio compatibili con il principio del minor consumo del
territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio
paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani,
sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti
autorità pianificatrici, debba essere propriamente
considerato in termini di competenza e non di gerarchia.
Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico
interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il
regime di utilizzazione di una determinata porzione di
suolo.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dall’azienda agricola Da Ro. Pa., in persona della
medesima titolare e legale rappresentante pro tempore,
contro Consorzio Parco Lombardo della Valle del Ticino, per
l’annullamento del provvedimento di diniego di accertamento
della compatibilità paesaggistica prot. n. 580/12 del
18.01.2012, per la realizzazione di un ampliamento di un
edificio agricolo in difformità all’autorizzazione
paesaggistica prot. n. 645 – 12839/96 del 20.12.2006,
sull’area sita in Comune di Mezzanino (PV), Cascina Venesia;
della comunicazione resa ai sensi dell’art. 10-bis della L.
241/1990 prot. n. 11663/11 – 149/4211/11/CP/ID/ER del
24.10.2011; del verbale della commissione per il paesaggio
n. 25 del 18.10.2011; del rapporto di servizio del Settore
Vigilanza del 19.09.2011; nonché di ogni altro atto
presupposto, connesso e conseguenziale;
...
Considerato.
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
dell’infondatezza delle censure dedotte e constatata la
piena legittimità e correttezza dell’operato
dell’Amministrazione.
In primis, si rileva come la contestata mancanza di
verifica in loco dei presupposti di legge per l’emissione
del provvedimento impugnato sia irrilevante nel caso che ci
occupa, ove l’accertamento è avvenuto sulla base del
contenuto della documentazione (cfr. allegati alla relazione
ministeriale), con la quale gli enti preposti hanno
accertato quali fossero le opere realizzate in assenza di
titolo abilitativo, nonché quelle poste in essere in totale
difformità rispetto all’autorizzazione paesaggistica prot.
n. 645 – 12839/06 del 20.12.2006 ed al permesso di costruire
rilasciato il 15.02.2007.
Infatti, solo in conseguenza di tale accertamento e tenuto
altresì conto dell’avvenuto cambio di destinazione d’uso di
uno degli immobili individuati sul mappale n. 681, foglio 8,
del Comune di Mezzanino – località Cascina Venesia, l’Ente
Parco ha provveduto ad adottare gli atti di propria
competenza nell’ambito del procedimento paesaggistico di cui
al D.lgs. n. 42/2004, conclusosi con l’emissione di
provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi prot. n.
5684/2012.
In particolare, all’esito dei numerosi sopralluoghi eseguiti
dal competente personale tecnico e di vigilanza del Comune
di Mezzanino e del Parco del Ticino, è stato accertato il
mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da agricolo a
ristorante–agriturismo.
Come ben evidenziato nel definitivo provvedimento
sanzionatorio paesaggistico (ordinanza di ripristino dello
stato dei luoghi ai sensi dell’art. 167 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42) “[…] è di tutta evidenza, a seguito
dei molteplici sopralluoghi eseguiti dagli organi tecnici e
da quelli di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco
del Ticino … che l’ampliamento del fabbricato, di cui
all’Autorizzazione Paesaggistica n. 645 – 12839706 del
20/12/2006, originariamente richiesto “da utilizzare per il
ricovero dei mezzi agricoli”- “chiuso su tre lati, mentre
sul lato sud è prevista una grossa apertura per garantire un
facile accesso ai macchinari agricoli” (testualmente dalla
Relazione Tecnica, Allegato C, all’originaria richiesta di
Autorizzazione Paesaggistica) successivamente AL CONTRARIO
il fabbricato in ampliamento è stato sostanzialmente
modificato, in grave e palese contrasto con l’autorizzazione
paesaggistica ricevuta nel 2006, con interventi che non solo
sono in contrasto con la originaria destinazione agricola
ma, inoltre, hanno comportato aumento di volumetria e
superficie utile […]”.
In relazione al parere favorevole espresso dalla
Soprintendenza di settore, ed al presunto contrasto con il
provvedimento di diniego emesso dall’Ente Parco, si osserva
quanto segue.
In primo luogo, l’area di intervento (Parco Lombardo della
Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme
di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle
aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004
“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi
dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il
rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi,
impianti ed opere all’interno del parco debba essere
sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco,
verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le
disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo
di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali
nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art.
12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia
11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce
che le funzioni amministrative per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi
all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano
esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la
giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di
interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi
nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre
distinti autonomi provvedimenti: la concessione
edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove
necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi
ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da
legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a
compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la
loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio” (Cass. Pen., III, 12.05.2003, n. 20738,
in senso conforme n. 12917/1998 e n. 9138/2000).
Analogamente, anche questa Sezione (parere Sez. II n.
4093/2010 reso il 24.11.2010), ha statuito che “spetta in
via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L.
n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento
edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al
proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi
della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6,
della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere
realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente
medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in
violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area
protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente
confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima
adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della
l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune
porzioni di territorio, in quanto “aree protette”,
per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale
o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi,
ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da
richiedere un intervento istituzionale anche per
salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso
minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene
rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del
vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la
giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che
il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione
paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla
competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di
interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento,
dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la
necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le
Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del
parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice,
“sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio,
approvando piani paesaggistici, ovvero piani
urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei
valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio
regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure
per il “mantenimento delle caratteristiche, degli
elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti
a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo
urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del
minor consumo del territorio, e comunque tali da non
diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani,
sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti
autorità pianificatrici, debba essere propriamente
considerato in termini di competenza e non di gerarchia.
Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico
interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il
regime di utilizzazione di una determinata porzione di
suolo.
Orbene, alla luce di quanto suddetto, emerge come il parere
espresso dall’Ente Parco sia solo in apparente contrasto con
quello della Soprintendenza.
Invero, pur irritualmente, la Soprintendenza ha inteso
compiere direttamente una valutazione di merito, rimettendo
all’Ente Parco la preventiva valutazione circa
l’ammissibilità degli interventi alla procedura di
accertamento di compatibilità ex post, ed anzi
subordinando agli esiti di detto giudizio l’efficacia della
propria favorevole valutazione.
Correttamente, del resto, nel parere di cui alla nota prot.
n. 8432 del 06.09.2011, la Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici di Milano si esprime
favorevolmente ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.lgs.
42/2004 citato, “per quanto di competenza … fatta salva
la verifica dell’ammissibilità dell’istanza da parte
dell’autorità competente”.
Il ricorso, per tutto quanto sopra esposto, non può essere
accolto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 14.09.2016 n. 1908 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' notoria la ben differente natura
giuridica dei due provvedimenti, ovvero
autorizzazione paesaggistica e nulla osta
dell’Ente parco, in relazione ai quali non è
consentita l’assimilazione.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica
attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto,
mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela
un sistema di valori più vasto e complesso,
identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991
(e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed
ambientali, nonché storici, culturali,
antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le
valutazioni negative di ordine anche paesaggistico
espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si
sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno
dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle
rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla
conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a
tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto
“aree protette”, per il loro particolare interesse
naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree
che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di
paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli
habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale,
spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina
unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello
Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett.
s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante
nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e
l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e
concorrenti, rimessi alla competenza di autorità
diverse, deputate alla tutela di interessi solo in
parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato
annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non
fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente
parco, come accaduto nel caso di specie.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal Sig. Gi.Na. contro l’Ente Parco
Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in persona
del legale rappresentante p.t., per l’annullamento
del provvedimento prot. n. 6949 del 14.05.2009, con
il quale l’Ente Parco ha respinto l’istanza di
autorizzazione presentata dal ricorrente per la
realizzazione di un fabbricato rurale nel Comune di
Castellabate, in località Valle, nonché di ogni
altro atto o provvedimento presupposto, connesso e
conseguente, se ed in quanto lesivo per gli
interessi del ricorrente medesimo.
...
Sulla base, soprattutto, degli ultimi elementi
acquisiti, emerge chiaramente, infatti, che è vero
che la competente Soprintendenza abbia emesso un
parere favorevole ex art. 159, comma 3, d.lgs.
42/2004, ma tale circostanza non può rilevare in
maniera decisiva rispetto al caso di specie, attesa
la ben differente natura giuridica dei due
provvedimenti, ovvero autorizzazione
paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco,
in relazione ai quali non è dunque consentita
l’assimilazione.
Come ricorda l’Amministrazione, l’autorizzazione
paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio
in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente
parco tutela un sistema di valori più vasto e
complesso, identificato, come da art. 12, comma 1,
l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei
valori naturali ed ambientali, nonché storici,
culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le
valutazioni negative di ordine anche paesaggistico
espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si
sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno
dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle
rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla
conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a
tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree
protette”, per il loro particolare interesse
naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree
che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di
paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli
habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale,
spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina
unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello
Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett.
s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante
nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e
l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e
concorrenti, rimessi alla competenza di autorità
diverse, deputate alla tutela di interessi solo in
parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato
annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non
fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente
parco, come accaduto nel caso di specie.
In ogni caso, va altresì evidenziato, in punto di
fatto, che sebbene la Soprintendenza abbia espresso
nella fattispecie, in punto di valutazione di
stretta legittimità, parere favorevole (in realtà
trattasi di formalizzato mancato esercizio del
potere di annullamento dell’autorizzazione
comunale), sull’intervento in argomento, al contempo
essa ha evidenziato una serie di anomalie rispetto
alla realizzazione del fabbricato rurale proposto,
tanto da richiedere all’Ufficio tecnico comunale
appositi pregnanti accertamenti e stringenti ed
incisive verifiche, con riguardo in particolare al
dimensionamento del fabbricato rurale in relazione
alle effettive esigenze di coltivazione.
E va considerato anche che l’intervento previsto
ricadeva in zona in cui l’approvando Piano del parco
avrebbe consentito un siffatto intervento edilizio
solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici e
residenziali dell’imprenditore agricolo, e comunque
nei limiti delle esigenze adeguatamente dimostrate.
Tutti elementi carenti nel caso in questione.
La previsione di una tale forma di tutela per l’area
oggetto dell’intervento va certamente a consolidare
le valutazioni espresse dall’Ente parco circa la
particolare valenza ambientale del sito.
Rammentato ciò, va ribadito anche, come da
consolidato orientamento, che l’Ente parco ha la
possibilità di denegare il proprio nulla-osta di
pertinenza prescindendo dalla preventiva definitiva
approvazione del Piano del parco.
Alla stregua di tutto quanto sopra riportato, non
ravvisandosi altri vizi rilevanti ai fini del
decidere, nemmeno per quanto attiene all’istruttoria
ed ai profili motivazionali del provvedimento
impugnato, difettando le censure dedotte dei
necessari presupposti di consistenza, il ricorso può
essere in definitiva respinto (Consiglio
di Stato, Sez. II,
parere 14.09.2016 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Per
tagliare i boschi basta l'autorizzazione forestale.
La preservazione nel tempo dei boschi e foreste nella loro
complessiva integrità costituisce lo scopo sia della
protezione forestale che di quella paesaggistica generale.
In vista di questo obiettivo, la legge statale, sottoponendo
a vincolo, tutti i boschi prevede che il taglio colturale e
le altre operazioni ammesse possono essere compiute con
autorizzazione forestale senza che sia necessaria
l'autorizzazione paesaggistica.
Lo ha precisato l'Ufficio Legislativo del Ministero dei beni
culturali con il
nota 08.09.2016 n. 25553 di prot..
Per lo speciale valore tutelato paesaggisticamente di boschi
e foreste, il legislatore prevede un regime derogatorio
ridotto e rimesso al controllo dell'autorità forestale, ma
solo ove il bosco o foresta sia tutelato come elemento
morfologico del territorio, da salvaguardare nei suoi
elementi identificativi.
Qualora il territorio boschivo sia
tutelato anche con specifico provvedimento che ne riconosca
il notevole interesse pubblico per ragioni di carattere paesaggistico-culturale, gli interventi forestali, già
compatibili con la tutela dei caratteri morfologici tutelati
per legge, richiedono la valutazione della loro
compatibilità con lo specifico valore paesaggistico
espressamente riconosciuto e tutelato nel provvedimento,
mediante ricorso alla previa autorizzazione paesaggistica».
Nel caso specifico, la questione verte sulla necessità di
autorizzare preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del
codice del paesaggio, interventi di taglio colturale in un
complesso forestale vincolato non solo ai sensi dell'art.
142, comma 1, lett. g), del medesimo codice.
Nel caso in
questione, in particolare, la Soprintendenza ha adottato
un'ordinanza di sospensione lavori ritenendo invece che gli
interventi di taglio colturale siano sottratti alla previa
autorizzazione paesaggistica, anche nell'ipotesi di bosco
tutelato con specifico provvedimento adottato ai sensi
dell'art. 136 del codice di settore
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: SARDEGNA, bosco del Marganai — Ente Foreste
della Sardegna — autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42
del 2004 per il taglio colturale, la forestazione, la
riforestazione, le opere di bonifica antincendio e di
conservazione da eseguirsi nei boschi sottoposti a tutela,
oltre che ex lege, in forza di specifico
provvedimento (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 08.09.2016 n. 25553 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n. 4703 del 19.02.2016 con la
quale la Direzione generale Belle arti e paesaggio chiede
conferma del proprio orientamento, espresso in adesione alla
competente Soprintendenza, circa la necessità di autorizzare
preventivamente, ai sensi dell'art. 146 del codice di
settore, interventi di taglio colturale nel complesso
forestale del Marganai, vincolato non solo ai sensi
dell'art. 142, comma 1, lett. g), del medesimo codice, ma
anche con specifico provvedimento adottato in data
13.02.1978, che ne ha riconosciuto il notevole interesse
pubblico, non ritenendo applicabile a tale fattispecie il
regime derogatorio speciale previsto dall'art. 149, comma 1,
lett. c), del codice.
Nel caso in questione, in particolare, la Soprintendenza ha
adottato un'ordinanza di sospensione lavori in data
24.09.2015, contestata dall'Ente Foreste della Sardegna, che
ritiene invece che gli interventi di taglio colturale siano
sottratti alla previa autorizzazione paesaggistica, anche
nell'ipotesi di bosco tutelato con specifico provvedimento
adottato ai sensi dell'art. 136 del codice di settore.
Al riguardo, nel condividere l'orientamento della Direzione,
si precisa quanto segue. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
non compatibilità paesaggistica circa l'abusiva
realizzazione di:
piscina; volumi, definiti come locali termici; sistemazioni
esterne.
La questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma
dei volumi tecnici è irrilevante rispetto al caso di specie,
in cui viene in rilievo una piscina esterna ed i collegati
vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del
pari servente alla medesima) non potendo, ad avviso del
Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative
opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per
il fondamentale rilievo che <<"la nozione di 'volume
tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in
questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina
esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle
esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è
in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si
pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono
l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non
rientranti nella clientela dell’hotel).
Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già
ritenuto da questa Sezione “tutti gli elementi strutturali
concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano
essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi
ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile
come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a
quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma
restando la vexata e ancora non risolta questione della
sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i
quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine
esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente
principio di portata generalizzante in materia: “…la Sezione
richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata
giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo
167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo
paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come
per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono
realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio
della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia
riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una
propria rilevanza paesaggistica per le opere da
realizzare.”.
----------------
... per l'annullamento della nota prot. n. 14826 del
17.09.2015, notificata il 22.09.2015, recante il parere di
non compatibilità paesaggistica relativo alla domanda di
permesso a costruire in sanatoria assunto al protocollo
comunale n. 49133 dell'08.10.2010, riguardante la
realizzazione, in assenza di titolo edilizio, presso la
struttura ricettiva Hotel E. sita in C/mare di Stabia alla
via ... n. 12 sull'area catastalmente identificata al foglio
15 - p.11a 64, di una piscina interrata, locali tecnici,
sistemazione a verde dell'area esterna e diversa
distribuzione degli spazi interni dell'ultimo livello del
predetto Hotel; nonché di ogni altro provvedimento
preordinato, connesso e consequenziale comunque lesivo degli
interessi del ricorrente.
...
9. Il ricorso è infondato, nel senso di seguito precisato.
10. Parte ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato
parere soprintendizio per violazione del combinato disposto
degli artt. 147 e 167, comma 4, D.lgs. 42/2004, deducendo
che i volumi tecnici e la piscina interrata di cui è causa
sfuggirebbero al divieto di sanatoria paesaggistica postuma
recato da tali norme, non rientrando nel concetto di volume
e superficie utile posto come profilo ostativo dalle
medesime.
10.1 A sostegno dei propri assunti richiama, oltre a una
nutrita giurisprudenza, tra cui anche la sentenza di questa
Sezione n. 2763/2013, che si era pronunciata in ordine alle
medesime opere di cui è causa nel contenzioso con il Comune,
avente ad oggetto il diniego di istanza di accertamento di
conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001, la Circolare
del Mibac n. 33 del 2009 che esclude dal concetto di volume,
rilevante in senso ostativo ai sensi del richiamato art.
167, comma 4, Dlgs. 42/2004, i volumi tecnici.
10.2. Va peraltro chiarito come la richiamata sentenza di
questa Sezione n. 2763/2013, pur avendo ad oggetto le
medesime opere di cui è causa, non possa avere rilevanza
diretta nell’odierno contenzioso, in quanto riferita non
alla sanatoria paesaggistica, ma a quella urbanistica di cui
all’art. 36 D.P.R. 380/2001 e al relativo atto di diniego
comunale, fondato sul distinto profilo del contrasto dei
medesimi interventi con le previsioni urbanistiche, sulla
base peraltro di un errata considerazione della loro
collocazione in una determinata zona di PRG.
E’ pur vero che nella medesima sentenza si afferma la
sanabilità di tali opere anche da un punto di vista
paesaggistico postumo ex art. 167 Dlgs. 42/2004, ma trattasi
di affermazione incidenter tantum in quanto relativa
ad un profilo non oggetto di disamina ad opera dell’atto
impugnato e dunque di annullamento ad opera dell’indicata
sentenza, nonché di affermazione comunque intervenuta in un
contenzioso in cui non è stata parte la Soprintendenza per i
Beni ambientali e che pertanto non può assumere alcuna
rilevanza diretta nell’odierna sede, come già evidenziato
dalla Sezione in sede cautelare, posto che il giudicato si
forma solo inter partes.
11. Giova preliminarmente precisare che il gravato parere
soprintendizio, pur non recando alcuna specifica motivazione
in ordine all’insanabilità delle sistemazioni esterne
diverse dalla realizzazione dei volumi tecnici e della
piscina interrata, sia riferito anche a tali sistemazioni
esterne, stante il loro carattere di accessorietà rispetto
alle citate opere considerate quale “nuova costruzione”
essendo motivato sulla base di questi rilievi:
“CONSTATATO che si chiede sanatoria ex art. 167 del D.Lvo
42/2004 per le seguenti opere:
cambio di destinazione d'uso dell'ultimo piano:
realizzazione di piscina;
realizzazione di volumi, definiti come locali termici;
sistemazioni esterne;
RICORDATO che l'art. 167 al comma 4 prevede l'accertamento
di compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dell'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
PRECISATO che le opere di sistemazione interna per cambio di
destinazione d'uso non rilevano ai fini paesaggistici;
SI ESPRIME parere di non compatibilità paesaggistica posto
che sia la piscina, in quanto nuova costruzione, sia i
volumi realizzati ex novo, non rientrano nei casi dai citato
comma 4 dell'art. 167. Di conseguenza le opere di
sistemazione esterna conseguenziali alle suddette nuove
costruzioni non possono essere assentite”.
Deve pertanto ritenersi che la sistemazione a verde
dell’area esterna, pur non rientrante nel concetto di nuova
costruzione, invocato dalla Soprintendenza quale profilo
ostativo all’applicabilità della sanatoria paesaggistica
postuma, e pur non essendo inclusa fra le opere di
sistemazione interna per cambio di destinazione d’uso,
considerate per contro irrilevanti da un punto di vista
paesaggistico dalla Soprintendenza, sia del pari esclusa
dalle opere suscettibili di sanatoria paesaggistica postuma,
in quanto consequenziale (rectius accessoria) alle
suddette nuove costruzioni.
12. In ordine a tale profilo motivazionale peraltro parte
ricorrente non ha sollevato alcuna autonoma censura, con la
conseguenza inattaccabilità in parte qua del gravato
parere soprintendizio, avversato solo nella parte relativa
all’insanabilità dei locali tecnici e della piscina
interrata, con la conseguenza che la sorte del gravato
parere in parte qua non potrà che essere relazionata a
quella delle distinte tipologie di “nuove costruzioni”
(locali tecnici da un lato e piscina interrata dall’altro)
rispetto alle quali le aree a verde si presentano
accessorie.
13. Giova peraltro precisare come da una attenta disamina
dell’istanza di accertamento di conformità (avente ad
oggetto le medesime opere di cui all’istanza di sanatoria
paesaggistica oggetto del gravato parere soprintendizio) si
evinca come i locali tecnici oggetto della medesima e siti
nella corte della struttura alberghiera non siano serventi
rispetto alla struttura alberghiera autonomamente
considerata (essendo i relativi locali tecnici siti nel
piano seminterrato), ma rispetto alla piscina interrata, del
pari oggetto dell’istanza di accertamento di conformità e
del gravato atto soprintendizio, trattandosi di locali
tecnici per gruppo elettrogeno, serbatoio di accumulo acqua
e pompa antincendio nonché di pannelli sandwich (locali
tecnici adibiti a gruppo elettrogeno, riserva idrica,
autoclave e aspiratore).
L’accessorietà di tali locali tecnici rispetto alla piscina
si evince peraltro dallo stesso posizionamento dei medesimi
nelle vicinanza della piscina, come desumibile dal quadro
d’insieme prodotto in allegato all’istanza di accertamento
di conformità.
14. Ciò posto, in riferimento alla problematica della
sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici il
Collegio non ignora come già in passato presso i giudici di
prime cure si siano fronteggiati due distinti orientamenti
giurisprudenziali, ovvero un orientamento di segno negativo
(fra le prime pronunce TAR Umbria sentenza n. 388 del
29.11.2011), fondato sulla irrilevanza a fini paesaggistici
di concetti quali “volume tecnico” e “superficie
utile” ed uno favorevole (ex multis TAR
Campania-Salerno, 25.06.2013, n. 1429) pure in passato
seguito dalla Sezione (ex multis sentenza n. 3381 del
12/07/2012 con richiamo ai precedenti della Sezione TAR
Campania Napoli Sez. VII, Sent., 10.05.2012, n. 2173, TAR
Campania Napoli Sez. VII, n. 27380/2010; 6827/2009;
1748/2009) fondato sul presupposto dell’esclusione dei
volumi tecnici dal divieto di cui all’art. 167 Dlgs.
42/2004, sulla base del presupposto che i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
siano inidonei ad introdurre un impatto sul territorio
eccedente la costruzione principale e, come tali, siano
ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di
edificabilità.
Ne conseguirebbe, in tale ultima prospettiva, che la stessa
ratio che in materia urbanistica ha indotto ad
escludere i volumi tecnici del calcolo della volumetria
edificabile dovrebbe valere anche in materia paesistica per
sottrarre tali volumi dal divieto di rilasciare
l’autorizzazione paesistica in sanatoria (in senso conforme
a tale orientamento tra le altre TAR Campania, Napoli, Sez.
IV, 21.09.2010, n. 17491, che peraltro ha escluso dagli
interventi assentiti ex post quelli comportanti
sostanziali modifiche della sagoma e traslazione
dell’immobile, in quanto incidenti sul contesto vincolato e
TAR Emilia Romagna, Parma, 15.09.2010, n. 435, secondo cui
peraltro non si configura come volume tecnico l’aumento
dell’altezza del sottotetto non giustificato da esigenze
funzionali).
14.1. La Sezione peraltro successivamente, preso atto del
contrario e prevalente orientamento alla tutela alla
sanatoria paesaggistica postuma dei volumi tecnici e
interrati, espresso in particolare dal giudice di “seconde
cure”, cui si è fatto riferimento in sede cautelare,
secondo il quale il divieto di incremento di volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude
qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume ovvero tra volume in
superficie e volume interrato (in termini cfr. Cons. Stato,
sez. VI n. 4348 del 02.09.2013; Sez. VI, n. 4114 del
06/08/2013; sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre,
Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV,
11.05.2005, n. 2388; Tar Puglia, Lecce, TAR Lecce Puglia
sez. I n. 218 del 23.01.2014) ha mutato il proprio
orientamento giurisprudenziale (ex multis tra le
prime pronunce in tal senso sent. n. 5981 del 23.12.2013
fondata sul rilievo che “Per la consolidata
giurisprudenza del Consiglio di Stato infatti -come si
desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice-
hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e
seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di
sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il
comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica
quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura),
così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le
opere da realizzare".
“Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici)
si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti
disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico)
ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può
valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una
negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti“
(cfr. in tal senso la sentenza citata del Consiglio di Stato
sez. VI, n. 4503 del 2013)”.
14.2. Non ignora peraltro il Collegio come il Consiglio di
Stato (cfr. sentt. Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016
riferita alla realizzazione di un abbaino nel sottotetto;
Consiglio di Sato sez. III n. 1613/2016 riferita alla
realizzazione di box prefabbricati; Consiglio di Stato sez.
VI, n. 5932 del 2014 riferita alla realizzazione, in
difformità dal permesso di costruire relativo alla
apposizione di un ascensore condominiale, di un torrino,
funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino
all'ultimo piano) più di recente abbia sposato la tesi
favorevole alla sanabilità paesaggistica dei volumi tecnici,
già in passato seguita dalla Sezione, sulla base del rilievo
che “nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione
del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di
autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale
rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a
pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba
valutare la compatibilità dell’intervento con i valori
paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter
opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta
valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e
nuovi volumi”.
In tale prospettiva il Supremo Consesso ha pertanto ritenuto
che “Non può dunque essere condiviso l’assunto
dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile
corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della
tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume
tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di
concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito
normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del
paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a
quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare
una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare
un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici”
a seconda della loro diversa applicazione nel campo
urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni
modificazione alla realtà preesistente determina “di per
sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del
paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m.
02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991;
art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU)
coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile
(superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi)
mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti
dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine,
locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze,
balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di
‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini
in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi "non può essere ipotizzato -nella locuzione
“superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini
atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per
giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta
preclusione normativa rispetto a una valutazione che va
invece ragionevolmente espressa in funzione della
essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo
in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche
alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo
giudizio di compatibilità paesaggistica, rispetto al
contesto paesaggistico tutelato” (in tal senso Consiglio
di Stato sez. VI n. 1945/2016 cit.).
14.3. Non può peraltro sottacersi che il Consiglio di Stato
anche di recente abbia aderito al diverso orientamento
giurisprudenziale, da ultimo sposato dalla Sezione
(Consiglio di Stato sez. VI n. 3289/2015 di riforma della
Sentenza di questa Sezione n. n. 6827/2009 riferita alla
realizzazione dell’innalzamento per circa 90 cm del torrino
ascensore e del solaio di copertura, necessario per il
rispetto di norme tecniche, secondo la quale “il vigente
art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del
paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi
natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei
volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia
esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale
tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi
volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera
della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce
esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è
quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale
norma, che costituisce eccezione al principio generale delle
necessità del previo assenso codificato dal precedente art.
146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse”).
15. Peraltro il Collegio, pur prendendo atto dei contrari
orientamenti giurisprudenziali, sussistenti anche
all’interno della medesima Sezione del Consiglio di Stato,
riferita alla questione della sanabilità paesaggistica ex
post dei volumi tecnici a seconda del loro inserimento o
meno nel raggio di azione ostativo della previsione di cui
all’art. 167, comma 4, Dlgs. cit., riferito alla
realizzazione di nuovi volumi, ritiene che la questione sia
irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in
questione, come innanzi precisato, la sanatoria
paesaggistica ex post di una piscina esterna (sia
pure con volume completamente interrato) e di vani tecnici
posti a servizio della medesima piscina, come è dato
evincere dall’istanza di autorizzazione in sanatoria ex art.
36 D.P.R. 380/2001 prodotta in atti.
Parte ricorrente, cui peraltro incombeva il relativo onere
di allegazione, prima ancora che probatorio, non ha inoltre
dedotto, come era suo onere, che i vani tecnici di cui è
causa fossero a servizio della struttura principale
dell’albergo e non, come è dato evincere dall’istanza di
sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, della piscina di cui è
causa.
15.1. Ritiene pertanto il Collegio che la questione riferita
alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici sia
dunque irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene
in rilievo (giova ribadirlo) una piscina esterna ed i
collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde
esterna, del pari servente alla medesima) non potendo ad
avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le
relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi
tecnici per il fondamentale rilievo che come innanzi
accennato (cfr., Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), <<"la
nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella
volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera
priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa-
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove,
ad avviso del Collegio la piscina esterna non può
considerarsi come strettamente connessa alle esigenze
tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado
di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al
fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a
pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella
clientela dell’hotel).
In questa prospettiva risulta irrilevante anche il richiamo
alla Circolare MIBAC n. 33/2009 invocata da parte
ricorrente.
15.2. Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che
come già ritenuto da questa Sezione con orientamento che qui
si ribadisce (Tar Campania/Napoli - sez. VII - nr. 2088 del
21.04.2009; TAR Campania, Napoli, sez. VII n. 1 del
07/01/2014) “tutti gli elementi strutturali concorrono al
computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati
o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la
piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in
senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è
in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio
al quale accede” e ferma restando la vexata e
ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica
postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della
Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con
volume interrato) richiama il seguente principio di portata
generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503
dell’11.09.2013 cit): “…la Sezione richiama e ribadisce
in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la
quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del
medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi
interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile
il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo
(perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria
paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di
qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza
paesaggistica per le opere da realizzare.”.
16. Il ricorso va dunque rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.09.2016 n. 4172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
REATO PAESAGGISTICO ED INOFFENSIVITÀ PENALE DEL FATTO: NON
MUTA NULLA DOPO CORTE COST. N. 56/2016.
Anche a seguito della sentenza della
Corte cost. n. 56 del 2016 (che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale parziale del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis, comportando una
parificazione delle condotte di cui al comma 1-bis del cit.
art. 181 con la disciplina di cui al comma 1, purché non
vengano superate le soglie volumetriche indicate dal comma
1-bis), in materia di reati paesaggistici, il principio di
offensività continua ad operare in relazione alla attitudine
della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al
bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e
l’incidenza della condotta medesima sull’assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall’amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell’intervento eseguito.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la
sentenza in esame è quello della possibile rilevanza del
principio di offensività sul c.d. reato paesaggistico a
seguito della recente declaratoria di incostituzionalità
operata dalla Corte cost. con la sent. n. 56 del 2016.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui
la Corte d’Appello aveva confermato quella del Tribunale che
aveva condannato un’imputata, reputandola colpevole del
reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma
1-bis. Alla stessa era contestato di aver realizzato una
costruzione di mq. 19,50, in assenza dalla concessione
edilizia, in territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e
dichiarato di notevole interesse pubblico con D.M.
13.11.1971.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione la
donna, in particolare assumendo l’inoffensività penale del
fatto, trattandosi di intervento di scarsa consistenza ed
importanza ambientale.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha accolto il ricorso solo per essere intervenuta
medio tempore la prescrizione del reato, tuttavia
osservando sulla questione principale che il principio di
offensività opera in relazione alla attitudine della
condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene
protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della
violazione non richiede la causazione di un danno e
l’incidenza della condotta medesima sull’assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall’amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell’intervento eseguito (Cass. pen., Sez. III,
16.03.2015, n. 11048 M., in CED 263289; Id., Sez. III,
15.01.2013, n. 6299, S., in CED 254493).
È stato altresì osservato che l’individuazione della
potenzialità lesiva di detti interventi deve essere
effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi
ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio
ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse
astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v.
ex plurimis: Cass. pen., Sez. III, 07.02.2003, n.
14461, C., in CED 224468; Id., Sez. III, 06.02.2003, n.
14457 D.M., in CED, 224465; Id., Sez. III, del 13.02.2003,
n. 12863, A., in CED, 224896; Id., Sez. III, 30.01.2003, n.
10641, S., in CED, 224355) e che, proprio per tali ragioni,
è richiesta la preventiva valutazione da parte dell’ente
preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche
modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina
urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti, pertanto, ad
affermare che il reato paesaggistico è configurabile anche
se la condotta consiste nell’esecuzione di interventi senza
autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo
e senza l’azione dell’uomo, siano venuti meno, restituendo
ai luoghi l’originario assetto (Cass. pen., Sez. III,
15.01.2013, n. 6299, S., in CED 254493) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.09.2016 n. 36112 - Urbanistica e
appalti 11/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Consiglio di Stato esprime il parere sul
decreto in materia di interventi paesaggistici.
Il Consiglio di Stato, Sez. consultiva,
parere 01.09.2016 n. 1824, ha espresso avviso
favorevole, con alcune osservazioni e proposte di
correttivi, sullo schema di decreto proposto dal Ministero
per i beni culturali riguardante l’individuazione degli
interventi che sono esclusi dall’autorizzazione
paesaggistica o sono sottoposti a procedura autorizzatoria
semplificata (Schema di decreto del Presidente della
Repubblica recante “individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’art. 12
del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come
modificato dall’art. 25 del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164”).
Il decreto si pone l’obiettivo di snellire il peso
burocratico sulle iniziative dei privati, cittadini e
imprese, e di restituire efficienza ed efficacia all’azione
amministrativa in un ambito, quale quello della tutela
paesaggistica, particolarmente delicato per la rilevanza
costituzionale degli interessi pubblici coinvolti.
Il Consiglio di Stato, tra le osservazioni formulate, ha
precisato che qualora occorrano sia un’autorizzazione
paesaggistica che un permesso di costruzione e c'è
disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente
competenti, è convocata una conferenza di servizi; e che in
ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta
autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse
storico, artistico o archeologico.
Infine il Consiglio di Stato ha osservato che anche per gli
interventi “liberalizzati”, le disposizioni del
decreto hanno immediata applicazione per le regioni a
statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e
le province autonome di Trento e Bolzano hanno l’obbligo di
darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i
principi statutari (tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al
riguardo, si legga anche:
●
Intesa sullo schema di decreto
del Presidente della Repubblica recante regolamento,
proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e
del turismo, relativo all’individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi
dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata,
repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016);
● Oggetto: Schema
di decreto del Presidente della Repubblica recante
regolamento relativo all’individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi
dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.11.2014, n. 164 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri,
esame preliminare del 15.06.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Berti Suman,
Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni
(art. 17-bis, legge n. 241/1990): dovere di istruttoria e
potere di autotutela - Commento al parere n.
1620/2016 del Consiglio di Stato su alcuni problemi
applicativi dell’articolo 17-bis della legge 07.08.1990, n.
241, introdotto dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n.
124 (01.09.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis: “nuovo
paradigma” nei rapporti tra pubbliche amministrazioni – 3.
Il rapporto con gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990
– 4. Silenzio-assenso ed interessi sensibili: giurisprudenza
costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso recente:
l’Adunanza Plenaria sulla perdurante vigenza del meccanismo
del silenzio-assenso nel procedimento relativo al nulla osta
dell’Ente Parco – 5. Il difetto di istruttoria (e di
motivazione) nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il
potere di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive. |
agosto 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, ai
sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n.
42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi
incremento volumetrico, indifferentemente dalla
connotazione dello stesso in termini di volume
tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti
di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente
art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e
del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni
in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi
di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto
di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini
di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi
nuova edificazione comportante creazione di volume,
senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o
meno”.
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente
alla finalità di preservazione, posta alla base
della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto
ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo
volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come
precisato dall’art. 167 citato), che determina la
compromissione del valore tutelato, attraverso la
realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è
vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza,
anche di questo Tribunale, ha considerato
ammissibile la compatibilità paesaggistica per i
volumi tecnici.
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare
(alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che
ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile
di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo
allorquando manchi una qualsivoglia autonomia
funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad
ospitare impianti occorrenti alla funzionalità
dell’edificio:
- “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non
computabile nella volumetria ai fini in questione,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché
è destinata a solo contenere, senza possibilità di
alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi
di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima. In
sostanza, si tratta di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in
alcun modo ubicati all'interno di questa, come
possono essere —e sempre in difetto
dell'alternativa— quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione
senza generare aumento alcuno di carico territoriale
o di impatto visivo”;
- “Secondo una consolidata giurisprudenza, per l'identificazione
della nozione di volume tecnico rilevano tre
parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale,
costituito dall'esistenza di un rapporto di
strumentalità necessaria tra il manufatto e
l'utilizzo della costruzione a cui accede; il
secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un
lato all'impossibilità di soluzioni progettuali
diverse, nel senso che tali costruzioni non devono
poter essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano
in tale nozione solo le opere edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa”.
---------------
Il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla
Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza
dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica,
configura l’esercizio di un potere autonomo cosicché
non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e
confutare le motivazioni assunte dalla Commissione
Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui
la stessa era giunta nell’apporre condizioni.
---------------
Il procedimento che ha condotto al diniego di
sanatoria (ex art. 167) è ad istanza di parte
(essendo stato attivato dall’interessato con la
presentazione della domanda di accertamento di
conformità), cosicché è escluso l’obbligo della
comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo
carattere vincolato, il diniego conseguente al
parere negativo della Soprintendenza non è
invalidato dall’omissione del preavviso ex art.
10-bis della legge n. 241/1990.
Per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca
all’interno dello stesso procedimento ed è regolato
dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non
prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione.
---------------
... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell’atto prot. n. 26301 del
07/12/2010 con cui la Soprintendenza ha espresso
parere contrario ai fini della compatibilità
paesaggistica, per le opere oggetto di permesso di
costruire in sanatoria; nonché di tutti gli atti
preordinati, consequenziali o comunque connessi;
- (quanto ai motivi aggiunti) della disposizione
prot. n. 1617 del 17/02/2011 con cui il Caposettore
Tecnico del Comune di Boscotrecase ha rigettato la
richiesta di permesso di costruire in sanatoria;
nonché di ogni altro atto preordinato, conseguente o
comunque connesso, in quanto lesivo.
...
2.- Si può quindi passare all’esame del ricorso e
dei motivi aggiunti.
2.1- Con le censure rivolte con il ricorso al parere
negativo della Soprintendenza si sostiene che:
- le opere riguardano esclusivamente la
realizzazione di un box auto, per la maggior parte
interrato ed insuscettibile di produrre nuove
volumetrie (come si ricava dall’avviso favorevole
della Commissione locale per il paesaggio);
- va altresì considerata la disciplina dettata in
tema di parcheggi pertinenziali, assoggettati alle
disposizioni della legge n. 122/1989 e della L.R. n.
19/2001 (che escludono la costituzione di nuovi
volumi, ammettendo la costruzione di parcheggi e box
auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti);
- la Soprintendenza ha omesso ogni considerazione
sulle motivazioni che avevano indotto il Comune di
Boscotrecase al rilascio dell’autorizzazione, senza
valutare il percorso logico-giuridico condotto
(essendo suscettibili di accertamento di
compatibilità paesaggistica le opere che non
incidono sul vincolo, quali soppalchi, volumi
interrati e volumi tecnici);
- il parere negativo richiama contraddittoriamente
un giudizio di incompatibilità espresso ben 28 anni
prima.
2.2- Con i motivi aggiunti avverso il rigetto del
permesso di costruire è denunciata l’illegittimità
derivata del provvedimento, ribadendo e deducendo
inoltre che:
- le opere di cui è stata chiesta la sanatoria non
hanno determinato creazione di superfici utili o
volumi maggiori di quelli autorizzati (trattandosi
per lo più di irrilevanti modifiche della sagoma del
fabbricato e di lievissimi incrementi
planovolumetrici, non computabili perché di
carattere meramente accessorio, quali locali tecnici
e box pertinenziale, peraltro realizzato in uno
spazio in buona parte interrato, già assentito con
il nulla osta relativo alla concessione edilizia n.
17/1972);
- anche in ragione della modestissima entità delle
difformità, si imponeva all’Amministrazione di
valutare l’irrilevanza dei presunti incrementi
planovolumetrici, sotto il profilo dei carichi
urbanistici e, soprattutto, dal punto di vista
paesaggistico;
- la Soprintendenza aveva del tutto omesso di
verificare se le opere rientrino nelle ipotesi di
deroga previste dall’art. 167, quarto comma, del
d.lgs. n. 42/2004, come da valutazione effettuata
dalla Commissione Edilizia Integrata all’esito di
approfondite indagini;
- il parere deve riferirsi al contrasto con il
vincolo alla data attuale e non può fondarsi
sull’ipotizzato contrasto con la situazione dei
luoghi di quaranta anni addietro, senza alcun
riferimento ai grafici di progetto, alla
documentazione inviata dal Comune, alla relazione
illustrativa del competente organo e al parere
espresso dalla C.E.I.;
- manca nel provvedimento del Soprintendente
qualsiasi verifica sulla possibilità di interventi
che rendano l’abuso conforme al dettato normativo
(come ravvisato dalla Commissione comunale nel
parere favorevole del 27/04/2010);
- non sono state assicurate le garanzie
partecipative e non è stato formulato il preavviso
di diniego.
3.- Tanto premesso, va osservato che, nel proprio
parere, la Soprintendenza ha ritenuto che “la
richiesta di sanatoria contrasta palesemente con
quanto previsto dall'art. 167, comma 4, lett. a),
[d.lgs. n. 42 del 2004], dove viene enunciato che
l'autorità amministrativa competente può accertare
la compatibilità paesaggistica solo allorquando "i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati"”.
L’opposta tesi dei ricorrenti fa leva sulla
considerazione secondo cui nella specie non è
configurabile la realizzazione di nuovi volumi, in
quanto:
- il box auto è in maggior parte interrato ed è
stato ricavato in uno spazio esistente;
- parimenti, le modifiche alla sagoma del fabbricato
e gli incrementi planovolumetrici non sono
computabili ai fini della compatibilità
paesaggistica, poiché di carattere meramente
accessorio.
La tesi non può essere condivisa.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa dal
Collegio, ha infatti chiarito che, ai sensi
dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004,
la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi
incremento volumetrico, indifferentemente dalla
connotazione dello stesso in termini di volume
tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti
di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il
vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati
realizzati volumi di qualsiasi natura (anche
’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
si riferisce a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico e altro
tipo di volume, sia esso interrato o meno”
(Cons. Stato, sez. VI, 02/07/2015 n. 3289).
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente
alla finalità di preservazione, posta alla base
della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto
ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo
volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come
precisato dall’art. 167 citato), che determina la
compromissione del valore tutelato, attraverso la
realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è
vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza,
anche di questo Tribunale, ha considerato
ammissibile la compatibilità paesaggistica per i
volumi tecnici (cfr. TAR Campania, sez. VII,
10/05/2012 n. 2173).
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare
(alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che
ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile
di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo
allorquando manchi una qualsivoglia autonomia
funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad
ospitare impianti occorrenti alla funzionalità
dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31/03/2014
n. 1512: “Occorre osservare che la nozione di
‘volume tecnico', non computabile nella volumetria
ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva
di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché è destinata a solo contenere,
senza possibilità di alternative e comunque per una
consistenza volumetrica del tutto contenuta,
impianti serventi di una costruzione principale per
essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima. In sostanza, si tratta di impianti
necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di
questa, come possono essere —e sempre in difetto
dell'alternativa— quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione
senza generare aumento alcuno di carico territoriale
o di impatto visivo”; cfr., altresì, TAR Lazio,
sez. I, 15/07/2013 n. 6997: “Secondo una
consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4258; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 25.03.2008, n. 582), per
l'identificazione della nozione di volume tecnico
rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo
funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto
di strumentalità necessaria tra il manufatto e
l'utilizzo della costruzione a cui accede; il
secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un
lato all'impossibilità di soluzioni progettuali
diverse, nel senso che tali costruzioni non devono
poter essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano
in tale nozione solo le opere edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa”).
Nel caso in esame, è evidente che non ricorrono tali
condizioni, in presenza di interventi concretatisi
nella realizzazione di un box auto (dotato di
autonoma utilizzabilità e la cui funzionalità è
separata dall’immobile) e di incrementi volumetrici
che hanno prodotto la modifica della sagoma del
fabbricato (arrecando quindi un non trascurabile
impatto visivo e che non sono destinati a ospitare
impianti al servizio del fabbricato).
Anche le ulteriore censure sono prive di fondamento,
in quanto:
- non assume rilievo il richiamo alle leggi in tema
di parcheggi pertinenziali, stante l’autonomia delle
discipline regolanti gli aspetti urbanistici e
paesaggistici, per cui la possibilità di costruire
parcheggi e box auto in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti non esclude l’accertamento della
compatibilità paesaggistica dell’intervento;
- il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla
Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza
dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica,
configura l’esercizio di un potere autonomo (nella
specie, esercitato con compiuta cognizione dei fatti
e degli elementi forniti, come emerge dal parere),
cosicché non può predicarsi alcun obbligo di
esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla
Commissione Edilizia Integrata comunale e la
conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre
condizioni (peraltro, inconciliabili con l’assoluta
preclusione a realizzare nuovi volumi);
- l’ampia premessa, contenuta nel parere negativo,
mette in luce e rafforza l’elemento
dell’incompatibilità paesaggistica (evidenziando che
già nel 1972 era stata ritenuta in contrasto
l’eccessiva volumetria, ciò nonostante realizzata),
senza che possa dirsi che l’attuale parere si limiti
a richiamare il precedente giudizio (essendo lo
stesso reso in base a quanto disposto dal citato
art. 167, quarto comma, e per di più con l’espressa
menzione che l’intervento contrasta “tutt’ora con
la tutela del paesaggio”).
Quanto alle censure di ordine formale, svolte nei
motivi aggiunti, occorre considerare che il
procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria
è ad istanza di parte (essendo stato attivato
dall’interessato con la presentazione della domanda
di accertamento di conformità), cosicché è escluso
l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì,
stante il suo carattere vincolato, il diniego
conseguente al parere negativo della Soprintendenza
non è invalidato dall’omissione del preavviso ex
art. 10-bis della legge n. 241/1990 (cfr. in termini
generali, su entrambi gli aspetti, da ultimo TAR
Campania, sez. IV, 01/06/2016 n. 2783); per altro
verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla
tutela del vincolo paesaggistico si colloca
all’interno dello stesso procedimento ed è regolato
dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non
prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione
(cfr. TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997, cit.).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il
ricorso e i motivi aggiunti vanno respinti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.08.2016 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Soprintendenze, bandite nuove valutazioni
sostitutive. Sentenza del tribunale
amministrativo regionale per la Calabria.
La Soprintendenza non può svolgere una nuova valutazione
sostitutiva di quella svolta dall'ente competente nel
merito, mentre l'oggetto del giudizio alla stessa spettante
appare limitato al profilo della legittimità dell'atto.
È quanto sottolineato dai giudici della I Sez. del
TAR Calabria-Catanzaro con la
sentenza 29.08.2016 n. 1674.
I giudici calabresi hanno poi citato anche un altro
orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'annullamento
del nulla osta paesaggistico comunale (Consiglio di stato n.
2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto
l'esercizio della funzione di controllo della legittimità
del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e
risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità
riscontrato nella valutazione formulata in concreto
dall'ente territoriale (in senso conforme Consiglio di stato
n. 1764 del 2016)».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi
catanzaresi vedeva Tizio che con l'atto introduttivo del
giudizio chiedeva: l'annullamento del decreto del
Soprintendente con cui era annullato il provvedimento del
dirigente del settore tutela ambientale della Provincia
contenente nulla osta paesaggistico.
Tizio stesso riferiva di essere proprietario di un terreno
oggetto di ricorso e che aveva stipulato una convenzione
edilizia con il comune e che, volendo edificare, aveva
richiesto nulla osta paesaggistico. Dopo istruttoria, veniva
rilasciato il nulla osta in suo favore, ma successivamente,
la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in
precedenza dalla Provincia.
Pertanto Tizio impugnava il provvedimento.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale l'unico limite
che la Soprintendenza competente incontra in tema di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito
dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle
valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire
la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova
valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell'autorizzazione.
Nel caso di specie, la Soprintendenza aveva
annullato il nulla osta a suo tempo adottato
evidenziando che dalla documentazione trasmessa si
evinceva che l'ipotesi progettuale del fabbricato
non poteva considerarsi idonea per le
caratteristiche dell'ambito, rendendo ancor di più
condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora
sgombro nella porzione oggetto di intervento. Nel
provvedimento si precisava che l'opera
necessiterebbe di una riduzione dell'ingombro
planimetrico e volumetrico per ridurre l'ampiezza
visiva.
Pertanto secondo i giudici l'accertamento svolto
andava oltre il profilo della mera legittimità,
incidendo sul merito e comportando la sostituzione
della propria valutazione a quella operata dall'ente
competente (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
---------------
MASSIMA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio, la parte
ricorrente chiedeva: l’annullamento del decreto del
Soprintendente del 01.08.2007 con cui era annullato
il provvedimento del dirigente del settore tutela
ambientale della Provincia di Vibo Valentia
contenente nulla osta paesaggistico.
Riferiva: di essere proprietario del terreno
descritto in ricorso; che aveva stipulato una
convenzione edilizia con il comune di Ricadi; che,
volendo edificare, aveva richiesto nulla osta
paesaggistico; che, dopo istruttoria, veniva
rilasciato il nulla osta in suo favore; che,
tuttavia, successivamente, la soprintendenza
annullava il nulla osta rilasciato in precedenza
dalla Provincia.
Impugnava il provvedimento per: violazione dell’art.
7 della l. n. 241 del 1990, dell’art. 159 del d.lgs.
n. 42 del 2004, dell’art. 97 cost. e del principio
di imparzialità; difetto di istruttoria; violazione
dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990;
violazione degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42
del 2004; violazione dell’art. 146, sesto comma, del
d.lgs. n. 42 del 2004; difetto di motivazione,
travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e
contraddittorietà, come precisato in ricorso.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di
rigettare il ricorso.
2. Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.
Nel corso del giudizio, veniva accolta, con
ordinanza del Tar, confermata dal Consiglio di
Stato, l’istanza cautelare proposta da parte
ricorrente.
In particolare, merita accoglimento, come già
sottolineato nel provvedimento di conferma
dell’ordinanza cautelare da parte del Consiglio di
Stato, il terzo motivo di ricorso formulato da parte
ricorrente, in base al quale
la Soprintendenza, sostanzialmente, non può svolgere
una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta
dall’ente competente nel merito, mentre l’oggetto
del giudizio alla stessa spettante appare limitato
al profilo della legittimità dell’atto.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha annullato
il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che
dalla documentazione trasmessa si evince che
l’ipotesi progettuale del fabbricato non può
considerarsi idonea per le caratteristiche
dell’ambito, rendendo ancor di più condizionata la
realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella
porzione oggetto di intervento.
Nel provvedimento si precisa ancora che l’opera
necessiterebbe di una riduzione dell’ingombro
planimetrico e volumetrico per ridurre l’ampiezza
visiva. L’accertamento svolto trascende il profilo
della mera legittimità, incidendo sul merito e
comportando la sostituzione della propria
valutazione a quella operata dall’ente competente.
In senso conforme, si esprime, d’altro canto, la
giurisprudenza amministrativa prevalente, con
orientamento che si ritiene pienamente
condivisibile.
In particolare (Tar Campania Salerno, n. 1104 del
2016) si evidenzia in giurisprudenza che
l’unico limite che la Soprintendenza competente
incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare
un riesame complessivo delle valutazioni compiute
dall'ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o la sostituzione di una nuova
valutazione di merito a quella compiuta in sede di
rilascio dell'autorizzazione. L’annullamento del
nulla osta paesaggistico comunale
(Cons. St. n. 2176 del 2016),
da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto
l'esercizio della funzione di controllo della
legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente
locale delegato e risulta, quindi, riferibile a
qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella
valutazione formulata in concreto dall'ente
territoriale
(in senso conforme Cons. St. n. 1764 del 2016).
Il provvedimento adottato deve pertanto essere
annullato. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Il delitto ex
art. 480 cp si articola sotto il profilo
oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli
atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o
autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione
riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la
verità.
---------------
Dagli atti si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica
l'imputato pose in essere le condizioni affinché il
proprietario
realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo,
pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento
successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi
pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed
ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del
coimputato derivanti dall'illecita costruzione del
manufatto.
Tali caratteristiche consentono di inquadrare il
provvedimento incriminato nella categoria degli atti
pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve
ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa
Corte, per cui il possibile contenuto
dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività
compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite;
sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o
anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico
contemplato dagli artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato
dalla produttività di effetti costitutivi,
traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a
situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica.
Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica
deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici,
comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal
richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico,
esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il
consistente effetto ampliativo della sfera
giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il
manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il
permesso a costruire, che nel caso in esame non era
rilasciabile, a causa della destinazione agricola del
terreno.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. Occorre premettere che, secondo le sentenze di merito,
Re., in qualità di dirigente l'ufficio tecnico comunale,
aveva attestato falsamente che l'intervento edilizio
illustrato negli atti tecnici presentati dai coimputati, Le.
e Ba. il primo proprietario del terreno ed il secondo
suo tecnico di fiducia- riguardava il recupero di un volume
già esistente, allo scopo di consentirne la realizzazione in
zona sottoposta a vincolo, mediante presentazione di sola
DIA e non del necessario permesso di costruire, mentre il
manufatto era in sostanza inesistente.
2. Quanto ai motivi di ricorso, va osservato che il primo
ha proposto un nuovo apprezzamento del merito del
ragionamento decisorio, non confrontandosi con la congrua
motivazione, che ha logicamente desunto l'elemento
psicologico del reato dall'evidenza delle falsificazioni
propinate a Re. dai coimputati e, pertanto, da questi
agevolmente rilevabili dagli atti prodotti; dalle foto
allegate alla pratica, che l'imputato aveva necessariamente
visionato, emergeva in modo evidente l'epoca recente della
costruzione, anche per i modi dì costruzione dei muri, che
era stata creata ad arte al solo scopo di eludere la
necessità della richiesta di permesso a costruire; tale
conclusione è stata adeguatamente giustificata anche
attraverso il richiamo alle deposizioni conformi del CT
della difesa e del tenente dei Vigili urbani, che
avvalendosi di aerofotogrammetrie, ha testimoniato
dell'inesistenza del manufatto appena due anni prima
dell'istruzione della pratica;la situazione falsamente
rappresentata nella relazione tecnica e nella relazione
paesaggistica ed attestata dal ricorrente
nell'autorizzazione paesaggistica a sua firma faceva,
invece, riferimento ad un antico rudere crollato,
addirittura costruito secondo tecniche tradizionali
dell'architettura rurale salentina.
3. La critica sulla qualificazione giuridica del
provvedimento di autorizzazione paesaggistica, secondo il
ricorrente qualificabile ai sensi dell'art. 480 cp, non è
fondata.
3.1 In linea generale deve ricordarsi che
il delitto ex
art. 480 cp si articola sotto il profilo
oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli
atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o
autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione
riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la
verità (Sez. 6,
21.01.2004 n. 22396 RV 229394).
3.2 Nella fattispecie concreta, la funzione del
provvedimento non fu quella di provare la verità dei fatti
attestati.
Invero, dagli atti a disposizione della Corte, si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica
l'imputato pose in essere le condizioni affinché il
proprietario Le.
realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo,
pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento
successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi
pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed
ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del
coimputato derivanti dall'illecita costruzione del
manufatto.
3.3 Tali caratteristiche consentono di inquadrare il
provvedimento incriminato nella categoria degli atti
pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve
ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa
Corte, per cui il possibile contenuto
dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività
compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite;
sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o
anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico
contemplato dagli artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato
dalla produttività di effetti costitutivi,
traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a
situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica
(Cass. SU n 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984;
Cass. 17.06.1987, Iorio).
3.4 Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica
deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici,
comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal
richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico,
esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il
consistente effetto ampliativo della sfera
giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il
manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il
permesso a costruire, che nel caso in esame non era
rilasciabile, a causa della destinazione agricola del
terreno (Corte di
Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 26.08.2016 n. 35556). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto
legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme
precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016
(nuovo codice dei contratti pubblici) - Circolare in
diramazione (MIBACT, Segretariato Generale,
circolare
10.08.2016 n. 38). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del
decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di
norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs.
n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti
pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
carattere non (più) vincolante del “parere tardivo”
reso dalla Soprintendenza.
Sul carattere non (più)
vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza, con l’effetto che il Comune non può negare
l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa
presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua
propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio,
diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena
permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di
esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante, non ha che da fare richiamo, tra gli altri
condivisibili precedenti della Sezione, alla recentissima
decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con
la quale è stato ribadito in
particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di
assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo
costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il
riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di
annullamento e in seguito quello di rendere un parere
conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di
rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la
certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo
che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta
la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo
stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto,
ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il
parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro,
che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout
court l’espressione, affermando che “un siffatto parere
possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il
primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146
secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo
periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso
il prescritto parere, l’amministrazione competente può
indire una conferenza di servizi, alla quale il
Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i
richiamati principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il
termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo
carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per
l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di
operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche
per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso
in materia di accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167
del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione
procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle
considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere
condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale
ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di
celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici
interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…".
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA
- SEZ. STACCATA DI BRESCIA - SEZ. I,
10.11.2015 n. 1470, resa tra le parti,
con la quale è stato respinto il ricorso proposto da
Co.Im. s.r.l. avverso
- a) il parere negativo di compatibilita'
paesaggistica per progetto edificatorio reso dalla
Soprintendenza in data 20.06.2014 e
- b) i provvedimenti del Comune in data 08.07.2014 e
07.11.2014, concernenti diniego di autorizzazione
paesaggistica;
...
2. Ciò posto è fondato e va accolto il motivo di appello
basato sull’asserzione per la quale deve considerarsi
illegittimo il diniego di rilascio di un'autorizzazione
paesaggistica, con il quale l'Amministrazione comunale si
uniformi in modo pedissequo al parere negativo dato dalla
Soprintendenza oltre il termine di 45 giorni previsto
dall'art. 146, comma 8, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42,
nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'art.
25, comma 3, d. l. 12.09.2014 n. 133 (conv. dalla l.
11.11.2014 n. 164), siccome erroneamente ritenuto
vincolante, posto che, qualora sia trascorso inutilmente il
termine sopra indicato l'organo statale non è privato del
potere di esprimere comunque un parere, ma il parere in tal
modo dato perde il proprio carattere di vincolatività sicché
lo stesso deve essere autonomamente e motivatamente valutato
dall'amministrazione procedente in relazione a tutte le
circostanze rilevanti del caso concreto.
3. Preliminarmente, in relazione all’accoglimento del primo
motivo di appello e, per l’effetto e in riforma della
sentenza impugnata, ai fini dell’accoglimento del ricorso di
primo grado con conseguente caducazione (esclusivamente)
degli atti comunali in epigrafe, concernenti diniego di
autorizzazione paesaggistica, non appare ostativa
l’eccezione di inammissibilità del ricorso al Tar sollevata
dall’Amministrazione statale con la memoria difensiva del 14.07.2016, e ciò sia perché la sentenza impugnata ha
respinto espressamente le eccezioni d’inammissibilità mosse
in primo grado dal Mibact sicché, ove l’appellata avesse
voluto contestare le statuizioni preliminari suindicate,
avrebbe dovuto proporre ricorso in via incidentale, il che
non è stato fatto; e sia perché, in ogni caso, i profili di
inammissibilità dedotti dal Ministero nella recente memoria
si riferiscono ad aspetti diversi ed estranei rispetto al
motivo d’appello concernente “motivazione insufficiente” e
“violazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004”,
basato, come detto, “sul superamento del termine dei 45
giorni” da parte della Soprintendenza.
4. Nel merito, sul carattere non (più) vincolante del
“parere tardivo” reso dalla Soprintendenza –e che, nella
fattispecie, il parere sia tardivo non è circostanza
contestata-, con l’effetto che il Comune non può negare
l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa
presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua
propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio,
diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena
permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di
esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante
(cfr. la seconda opzione interpretativa enunciata in
sentenza), non ha che da fare richiamo, tra gli altri,
condivisibili precedenti della Sezione (v. sentenze Cons.
Stato, sez. VI, nn. 4927 e 2136 del 2015), alla recentissima
decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con
la quale, in relazione a una controversia analoga, sotto
svariati profili, a quella odierna, è stato ribadito in
particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di
assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo
costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il
riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di
annullamento e in seguito quello di rendere un parere
conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di
rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la
certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo
che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta
la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo
stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto,
ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il
parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro,
che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout
court l’espressione, affermando che “un siffatto parere
possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il
primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146
secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo
periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso
il prescritto parere, l’amministrazione competente può
indire una conferenza di servizi, alla quale il
Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i
richiamati principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il
termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo
carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per
l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di
operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche
per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso
in materia di accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167
del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione
procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle
considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere
condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale
ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di
celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici
interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…"
(così, testualmente, Cons. Stato, VI, n. 3179 del 2016
cit.).
Ritornando alla controversia odierna, poiché il Comune, con
gli atti conclusivi dell’8 luglio e del 07.11.2014,
risulta essersi limitato a richiamare in modo “pedissequo”
il parere negativo –e tardivo- della Soprintendenza, senza
alcuna motivazione specifica e autonoma, il diniego finale,
alla luce dei precedenti giurisprudenziali rammentati sopra,
va per ciò solo annullato, non potendo il Comune ricusare la
chiesta autorizzazione paesaggistica mediante il mero
richiamo al parere negativo della Soprintendenza.
5. In relazione al secondo profilo del primo motivo di
appello va soggiunto che le considerazioni svolte sopra
accrescono il rilievo da riconoscere alla dedotta
contraddittorietà tra il diniego finale del Comune e il
precedente parere favorevole di compatibilità paesaggistica
dato dal Comune stesso il 01.04.2014, posto che la
soluzione favorevole alla società faceva seguito a
un’istruttoria approfondita, all’esito della quale organi
dell’Amministrazione comunale avevano espresso
considerazioni opposte a quelle ministeriali, sicché in modo
condivisibile si osserva con l’appello che il Comune avrebbe
quantomeno dovuto motivare in modo adeguato il proprio
mutamento di opinione.
6. Poiché l’appellante sembra avere graduato la domanda
giudiziale assegnando priorità all’esame, “in via
assorbente”, del primo motivo di appello (cfr. Cons. Stato,
Ad. Plen., n. 5 del 2015), il gravame va per ciò solo
accolto e, per l’effetto, assorbita ogni altra censura non
esplicitamente esaminata, in riforma della decisione
impugnata e in accoglimento del ricorso di primo grado, per
le ragioni ed entro i termini sopra specificati, va
annullato il provvedimento comunale di diniego di
autorizzazione paesaggistica, salvi gli atti ulteriori della P.A..
7. Pare il caso di aggiungere, tuttavia, in modo conforme a
quanto puntualizzato dall’appellante,
e in vista del riesercizio del potere amministrativo, che
devono considerarsi coperte dal giudicato le statuizioni
della sentenza, non impugnate dal Ministero, con le quali il
Tar, con riferimento al giudizio di (in)compatibilità
paesaggistica, ha considerato “alcune affermazioni contenute
nell’impugnato diniego … in effetti generiche e strumentali:
a) l’affermazione che il progetto “non risulta finalizzato
ad un miglioramento della qualità paesaggistica complessiva
dei luoghi”, appare del tutto inconferente, dal momento che
appare effettivamente molto difficile che un progetto di
edificazione possa avere la funzione di migliorare l’aspetto
paesaggistico dell’ambiente. Si tratta, semmai, di inserirvi
un’edificazione senza incidere sullo stesso in modo non
conforme alla legge;
b) secondo la Soprintendenza
l’edificazione delle ville “si configura come sostanziale
modifica dei caratteri strutturali del terreno agricolo”:
tale effetto appare, invero, ineliminabile rispetto a
qualsiasi intervento di edificazione in un’area
precedentemente agricola e poi trasformata in edificabile.
Anche il passaggio del ricorso in cui si sottolinea, con
riferimento al modus operandi della Soprintendenza che:
“Dopo aver bocciato il progetto sul piano e sul crinale,
viene bocciato quello sul “versante”. Dopo aver bocciato il
progetto in area erbosa, viene bocciato quello in area
alberata. Bocciato il progetto con gli interrati, viene
bocciato anche i progetto senza interrati.” (così il
ricorso, al primo capoverso di pag. 16) non può non attirare
l’attenzione di questo Tribunale.
Inoltre, è incontestabile
che nella parte iniziale e nella parte finale, il
provvedimento impugnato indulge in considerazioni generali
sulle caratteristiche dell’area che sarebbero pertinenti se
si stesse discutendo dell’edificabilità dell’area. Non a
caso, infatti, la Soprintendenza dedica l’intera pagina 1
del proprio provvedimento a richiami alla DGR 9/2727 del 22.12.2011, contenente indicazioni che dovrebbero essere
considerate e valutate, nonché rispettate, proprio in sede
di pianificazione e cioè sono destinate ad orientare le
scelte sull’utilizzazione del territorio compiute dal
pianificatore.
A parere del Collegio, infatti, il richiamo,
contenuto nel parere impugnato, alle regole che escludono
e/o limitano l’edificazione sui versanti e a quelle che
garantiscono il rispetto dei terrazzamenti (terrazze e
ciglioni) che caratterizzano il paesaggio agrario lombardo
collinare, integrano più un’inammissibile censura della
scelta urbanistica, che una critica alle soluzioni
progettuali sottoposte all’attenzione della Soprintendenza.
Nel caso di specie, invece, lo strumento urbanistico ha
operato una precisa scelta in ordine all’edificabilità
dell’area, che non può, come già più volte affermato dalla
giurisprudenza, essere vanificata dal rigetto di ogni
possibile soluzione costruttiva da parte dell’ente
competente ad esprimere l’obbligatorio parere di
compatibilità paesistica. Se il parere si limitasse a ciò,
dunque, risulterebbe superato il limite della potestà
attribuita all’autorità preposta a verificare il rispetto
dei vincoli di tutela del paesaggio (che deve tendere, data
l’edificabilità dell’area, all’individuazione della
soluzione progettuale di minor impatto con l’ambiente,
prendendo le mosse dal punto fisso che non può esistere
l’opzione zero, dal momento che l’edificazione modificherà
sempre il paesaggio, in specie in una zona particolarmente
delicata come quella in questione), così come sostenuto da
parte ricorrente…”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.08.2016 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5,
del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il
potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento
che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la
formazione di un silenzio-assenso.
Tanto più considerando il fatto che l’istituto del
silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt.
16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non
poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti
che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è
necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato
espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a
crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del
D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le
determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella
contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L.
n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione
dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione,
deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime
disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed
esaustiva.
---------------
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di
quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità
paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si
determina né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso
tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei
valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta.
L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello
della prescindibilità dello stesso parere, con la
conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva
responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art.
146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che
“l’amministrazione competente provvede comunque sulla
domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a
concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza
non si è espressa, poiché la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il
procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la
propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum,
dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio
tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
---------------
In materia di autorizzazioni paesaggistiche, la
Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di
valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad
accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle
caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi
sottoposti al vincolo.
In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere
oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo
entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente
ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento
dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere,
sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà,
dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore
nella corretta percezione degli elementi che connotano la
fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si
ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici,
dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del
relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli
elementi fattuali della vicenda dal punto di vista
paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione
alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le
ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato
perché in grado di compromettere gli interessi che il
vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare,
esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere
oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il
suddetto vincolo.
---------------
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che, a differenza di quanto
sostenuto dalla ricorrente, il mero decorso dei termini
stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non
ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle
Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione
non fa discendere dall’inerzia la formazione di un
silenzio-assenso. Tanto più considerando il fatto che
l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di
legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n.
241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento
ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è
necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato
espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a
crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del
D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le
determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella
contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L.
n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la
formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia
dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando
l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme
dotate di valenza speciale ed esaustiva.
Ciò posto, è necessario evidenziare che le censure dedotte
dalla ricorrente in relazione alla violazione dell’art. 167,
comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 per mancato rispetto del
termine ivi previsto ai fini dell’emissione del parere di
competenza della Soprintendenza, non appaiono pertinenti.
Ed invero, il suddetto parere è stato reso nell’ambito della
procedura di cui all’art. 146 dello stesso D.Lgs. n.
42/2004, innestata sulla pratica di sanatoria di cui alla L.
n. 724/1994. Erroneamente si è ritenuto applicabile l’art.
167 del D.Lgs. n. 42/2004 che, a ben vedere, opera solo con
riferimento alle tipologie di intervento previste dal comma
4 del medesimo articolo, tra le quali non rientrano gli
interventi di creazione di superfici utili o volumi e
aumento di quelli già legittimamente realizzati.
Ciò posto, pur volendo superare, per esigenze di giustizia
sostanziale, il dato letterale e ritenere la censura
relativa alla tardività del parere, mossa dalla ricorrente,
riferibile ai termini di cui all’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004, questa non potrebbe ritenersi fondata per le
ragioni che di seguito si espongono.
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di
quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità
paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si
determina né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso
tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei
valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta.
L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello
della prescindibilità dello stesso parere, con la
conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva
responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art.
146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione
competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a
concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza
non si è espressa, poiché la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il
procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la
propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum,
dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio
tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
Parimenti infondata è la censura relativa al difetto di
motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui
si esprime in senso sfavorevole alla sanatoria della
tettoia.
Sul punto, è necessario, in primo luogo, considerare che, in
materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza
adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura
tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità
dell’opera rispetto alle caratteristiche
paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al
vincolo. In quanto tali, le suddette valutazioni possono
essere oggetto di sindacato da parte del giudice
amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano
effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e
travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso
di potere, sub specie delle figure sintomatiche
dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità
e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che
connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie
non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici,
dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del
relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli
elementi fattuali della vicenda dal punto di vista
paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione
alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le
ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato
perché in grado di compromettere gli interessi che il
vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare,
esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere
oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il
suddetto vincolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 09.08.2016 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2016 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto legislativo 30.06.2016, n. 127, recante
"Norme per il riordino della disciplina in materia di
conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124", pubblicato in Gazzetta Ufficiale
Serie Generale n. 162 del 13.07.2016 - nota circolare (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 27.07.2016 n. 22539 di prot.).
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Sommario: I. Introduzione; 2. I decreti
legislativi che intervengono sui moduli procedimentali e
organizzativi dell'agire della pubblica amministrazione: in
particolare, il riordino della disciplina della conferenza
dei servizi; 3. Modalità di svolgimento delle conferenze di
servizi; 4. Rappresentante unico di governo; 5. Decisione
della conferenza di servizi - effetti procedurali ed
efficacia sostanziale; 6. Procedimento di opposizione
('dissenso qualificato'); 7. Disposizioni di coordinamento
fra la disciplina generale e le varie discipline settoriali
che regolano lo svolgimento de/la conferenza dei servizi. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria afferma che la disciplina sul silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell’ente Parco non è
stata implicitamente abrogata dalla l. n. 80 del 2005
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 27.07.2016 n. 17).
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Ambiente – Parchi e aree protette – Nulla osta ex art. 13,
l. n. 394 del 1991 - Silenzio-assenso – Abrogazione
implicita a seguito dell’entrata in vigore della l. 80 del
2005 – Esclusione.
Il silenzio-assenso previsto dall’art. 13,
commi 1 e 4, l. 06.12.1991 n. 394 (Legge quadro sulle aree
protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito
dell'entrata in vigore della l. n. 80 del 2005, che,
nell'innovare l'art. 20, l. n. 241 del 1990, ha escluso che
l'istituto generale del silenzio-assenso possa trovare
applicazione in materia di tutela ambientale e
paesaggistica.
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1. La pronuncia in esame, sollecitata dall’ordinanza di
rimessione della
III Sez. del Consiglio di Stato n. 642 del 17.02.2016,
fa seguito alla decisione dell’Adunanza
plenaria 24.05.2016, n. 9 (di cui alla news dell’U.S.
del 26.05.2016 su analogo tema).
La questione rimessa consiste nello stabilire se l’art. 20,
l. n. 241 del 1990 –novellato nel 2005- abbia comportato
l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. n. 394 del 1991,
attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se
debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto
ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art.
20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio
cronologico della successione delle leggi nel tempo e della
tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo
procedimentale in settori “sensibili” quali sono
quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della
salute, e dei beni culturali.
Questi in sintesi i passaggi motivazionali della decisione.
In relazione ai presupposti, in generale, per la
configurabilità di abrogazione inespressa di una legge, la
Plenaria ha ricordato che:
A) a norma dell'art. 15 delle Disposizioni preliminari al Codice
civile, essa si rinviene quando vi è incompatibilità fra
nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita), ovvero quando
la nuova legge regola l’«l’intera materia» già
regolata dalla anteriore (abrogazione implicita): per cui
detta incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione
tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione
delle due leggi in comparazione, sì che dall'applicazione ed
osservanza della nuova derivi necessariamente la
disapplicazione o l'inosservanza dell'altra (ex multis,
Cass., I, 21.02.2001, n. 2502).
B) il principio lex posterior generalis non derogat priori
speciali deve cedere alla regola dell'applicazione della
legge successiva allorquando dalla lettera e dal contenuto
di detta legge si evince la volontà di abrogare la legge
speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due
disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la
coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella
generale successiva (cfr. Cass., sez. lav., 20.04.1995, n.
4420. V. inoltre Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3823).
Venendo alla specifica questione in esame, e applicando i
suindicati principi, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che
tale incompatibilità che giustifica l’abrogazione tacita o
implicita non sussistesse nel caso in esame e che l’art. 13,
l. n. 394 del 1991 abbia disposto unicamente una particolare
strutturazione del procedimento, comunque in grado di
garantire la piena tutela dell’interesse protetto.
Le ragioni per giungere a tale conclusione sono le seguenti:
C) non si rinviene una indicazione della giurisprudenza
costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il
legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di
semplificazione procedimentale rappresentato dal
silenzio-assenso anche in materia ambientale, laddove si
tratti di valutazioni con tasso di discrezionalità non
elevatissimo (cfr. Corte cost. 19.10.1992, n. 393;
27.04.1993, n. 194; 02.02.1996, n. 26; 17.12.1997, n. 404;
16.07.2014, n. 209).
D) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni
preclusive in tal senso: la Corte di Giustizia europea ha
ritenuto non compatibile la definizione tacita del
procedimento, solo quando, però, per garantire effettività
agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse
necessaria una espressa valutazione amministrativa quale un
accertamento tecnico o una verifica (sentenza 28.02.1991,
causa C-360/87); essa inoltre ha censurato unicamente
l’omessa effettuazione della Valutazione di Impatto
Ambientale in quanto prescritta dalla direttiva n. 85/337/Cee
(sentenza 10.06.2004, causa C-87/02).
All’interno di tale cornice, la Plenaria ha evidenziato che:
E) il dato testuale dell’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 (come
modificato dalla l. 81 del 2005) depone nel senso della non
configurabilità di un effetto abrogativo implicito. Ed
infatti, esso esordisce riferendosi alle sole «disposizioni
del presente articolo». Dunque almeno in principio la
sua previsione pare riguardare i casi generali e non
estendersi a precedenti specifiche disposizioni, come quella
del detto art. 13. (cfr. Cons. Stato, VI, 29.12.2008, n.
6591 e 17.06.2014, n. 3047).
F) dal punto di vista sistematico:
1. l’art. 13, l. n. 394 del 1991 fu posto quando
l’originario art. 20, l. n. 241 del 1990 escludeva in via
generale il silenzio-assenso, salvo casi specifici previsti
da appositi regolamenti governativi di delegificazione.
Viceversa, solo con la riforma del 2005 il modulo del
silenzio assenso è stato generalizzato. Non è pertanto
logico ritenere che una disposizione volta a generalizzare
il regime procedimentale del silenzio-assenso faccia venir
mento proprio quelle ipotesi di silenzio-assenso già
previste dall’ordinamento nel più restrittivo sistema
dell’art. 20 vigente prima della riforma del 2005 (cfr. in
termini Cons. St., sez. VI, 17.06.2014, n. 3047; id.
29.12.2008, n. 6591);
2. la previsione del silenzio assenso per il rilascio del
nulla osta dell’Ente Parco si inseriva in una normativa
organica del settore sui parchi e le aree protette (la l. n.
394 del 1991), cosicché deve ritenersi che essa fosse il
frutto di un bilanciamento complessivo degli interessi ivi
coinvolti e costituisse effetto di una valutazione
legislativa ponderata e giustificata dalla specificità della
materia;
3. il nulla osta dell’art. 13, l. n. 394 del 1991 ha ad
oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con
le disposizioni del piano e del regolamento del parco. Si
tratta pertanto di effettuare valutazioni a basso margine di
discrezionalità compatibili con il modulo procedimentale del
silenzio-assenso.
Si segnalano in senso contrario, per l’applicazione del
criterio cronologico ed il conseguente il riconoscimento
della abrogazione tacita Cons. St., sez. III, 15.01.2014, n.
119; id., sez. IV, 28.10.2013, n. 5188 (tratto da a e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità
risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è
soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28,
l. 24.11.1981 n. 689.
Tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della
p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti
amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto
a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento
in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio
delle autorizzazioni ancorché postume.
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... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri
relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità
risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs n. 42/2004.
...
4) Il ricorso è parzialmente fondato.
5) Con riguardo all’ingiunzione di pagamento dell’indennità
risarcitoria ai sensi dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, il
ricorrente ha ottenuto la determinazione paesaggistica n.
208 del 06.12.2001 favorevole alla sanatoria del
frazionamento.
Sul punto, la Sezione ha già avuto occasione di precisare
che la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d.
indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale
di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689; tale termine
prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di
irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in
materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o
decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la
permanenza dell'illecito con il rilascio delle
autorizzazioni ancorché postume (TAR Lazio Latina 19.01.2012 n. 30).
6) Pertanto, essendo stata rilasciata l’autorizzazione
paesaggistica in data 06.12.2001, il diritto a pretendere
l’indennità risarcitoria in argomento si è prescritto il
06.12.2006
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo all’irrogazione della
sanzione della rimessa in pristino, il regime
sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in
conformità al principio generale tempus regit actum,
quello vigente al momento dell’irrogazione della
sanzione, non già quello in vigore all’epoca di
realizzazione dell’abuso e l’ordinanza impugnata è
stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del
richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova
formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In
caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il
trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in
pristino a proprie spese, fatto salvo quanto
previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui
al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella
del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a
spese del trasgressore o il pagamento di una somma
equivalente al maggiore importo tra il danno
arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione risponde ad una valutazione di
opportunità rimessa esclusivamente all’autorità
amministrativa preposta alla tutela paesaggistica
nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”.
Sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in
pristino, che rappresenta la prima forma attraverso
cui si realizza in maniera piena la protezione dei
beni ambientali interessati, tale valutazione
impinge nel merito dell’azione amministrativa e,
come tale, se assistita da congrua motivazione, non
può essere sindacata in sede giurisdizionale.
--------------- 2.2 Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale
tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.04.2000, n. 2544; Tar Liguria 26.11.2012) e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”; sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale (Tar Lazio Roma
02.10.2008, n. 8716) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e
gestori di beni o servizi pubblici - art. 17-bis
della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall'art. 3 della
legge 07.08.2015, n. 124 - parere n. 1640 del 2016
reso dal Consiglio di Stato - precisazioni alla nota
circolare prot. 27158 del 10.11.2015 (MIBACT,
nota 20.07.2016 n. 21892 di prot.).
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A seguito del recente
parere
13.07.2016 n. 1640 reso dal Consiglio di Stato alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione, in
tema di silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis
della legge n. 241 del 1990, si ritiene necessario
fornire alcune precisazioni in merito alla
nota
circolare 10.11.2015 n. 27158 di prot. (diffusa agli
uffici ministeriali da codesto Segretariato con
circolare
20.11.2015 n. 40) con la quale questo
Ufficio ha reso noti i primi orientamenti
applicativi dell'istituto, introdotto dall'art. 3
della legge n. 124 del 2015.
Al riguardo, per comodità di esame, si seguirà qui
di seguito, per quanto necessario, lo stesso ordine
espositivo adottato nella circolare del 2015.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Non vincolante il parere fuori termine.
Consiglio di Stato. La Soprintendenza può autorizzare
interventi in aree vincolate pure dopo i 90 giorni.
Nell’ambito
dell’autorizzazione per interventi edilizi su immobili e
aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge, la
Soprintendenza può rilasciare il parere di compatibilità in
sanatoria anche dopo i 90 giorni stabiliti dal Codice dei
beni culturali (comma 5, articolo 167, Dlgs 42/2004). Però
in questo caso la Pa che deve dare il via libera non può più
essere obbligata a rispettarlo, ma solo a motivare
adeguatamente la decisione, sia se ne discosta sia se lo
condivide.
Con questa novità interpretativa, il Consiglio di
Stato -sentenza 18.07.2016 n. 3179,
VI Sez.- ha
bocciato il ricorso del ministero per i Beni e le attività
culturali (Mibac) per cui anche nelle procedure non
ordinarie il parere della Soprintendenza è sempre
vincolante, anche se emesso dopo il termine perentorio di
legge.
Ciò poiché lo stesso Consiglio di Stato in altri casi
(sentenze 4656 e 4914/2013) ha ritenuto che la perentorietà
non riguarda la sussistenza del potere dell'ente
ministeriale o la legittimità dell'atto, ma solo l'obbligo
di chiudere la procedura amministrativa (“sì” finale entro
180 giorni). In più, perché le stesse norme (comma 9,
articolo 146), in caso di inerzia dell'organo nazionale,
consentono all’ente locale di “richiamarlo” con una
conferenza di servizi.
In questo caso era contestata la tesi opposta con cui il Tar
aveva annullato lo stop di un Comune alla realizzazione di
ripari temporanei di un bar su suolo pubblico (ordini di
rimozione inclusi) poiché si richiamava semplicemente a un
parere negativo della Soprintendenza, non più obbligatorio e
vincolante poiché adottato dopo oltre cinque mesi, e senza
alcuna valutazione dell’ente anche conforme.
I giudici, in linea col primo grado, hanno ritenuto
applicabile anche per le pratiche di compatibilità ex-post
il più recente orientamento giurisprudenziale della stessa
Sezione valido per quelle ordinarie –da ultimo la sentenza
4927/2015- che ha chiarito come il legislatore, per
bilanciare la tutela del paesaggio e la certezza dei
rapporti giuridici, ha imposto che i poteri degli enti
interessati «debbano essere esercitati in tutta la loro
ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso
tempo certo e non superabile».
Trascorsi quindi i 90 giorni, anche nelle “sanatorie” il
parere della Soprintendenza è «privo dell’efficacia
attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza
obbligatoria e vincolante», anche se poi nulla vieta
l’organo statale a rilasciarlo comunque, ma in tal caso
l’atto va «autonomamente valutato» dalla pubblica
amministrazione procedente. Nell’attuale quadro di
«cogestione del vincolo», il Comune era dunque “libero”
dall’obbligo di bloccare l’intervento proposto, ma doveva
motivare la decisione in modo adeguato anche se condivideva
il no del Mibac.
Questo principio resta «il punto di mediazione fra le
esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici»,
in realtà nella tempistica per l’autorizzazione
paesaggistica –commi 8, 9, e 10, articolo 146– vi è «un
ordito normativo volto a configurare…una sorta di
atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità
per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione
del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Tutti
i termini del procedimento sono ordinatori, salvo
che la legge non preveda una espressa sanzione per
il loro superamento, sanzione non prevista nel caso
di specie.
Segnatamente, il fatto che il termine di cui
all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia
collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che
la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo,
che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli
interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Invero, si è affermato
che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146,
comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere
della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la
sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
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In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza
–parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha
espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
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Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati
principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur
dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita
del suo carattere di vincolatività, con conseguente
obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio
del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie
del parere soprintendentizio reso in materia di
accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte
dell’amministrazione procedente, previo parere
vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice
di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto
di mediazione fra le esigenze di celerità
dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi
specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del
potere del Soprintendente di fornire il proprio
apporto anche oltre il termine perentorio e dal
dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza
tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre
il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167
del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il
Tribunale amministrativo ha affermato che
“l’amministrazione non poteva denegare
l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere
negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere
tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia
attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza
obbligatoria e vincolante”.
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...per la riforma della sentenza breve del TAR
PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZ. I -
18.09.2014 n. 2375, resa tra le parti,
concernente parere negativo di compatibilità
paesaggistica in sanatoria per la realizzazione di
opere edilizie.
...
Con unico ed articolato motivo di appello il Ministero
censura la sentenza del Tribunale Amministrativo nella parte
in cui ha ritenuto che il parere della Soprintendenza
sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, in quanto
tardivo, avesse perso la sua natura vincolante, con la
conseguenza che l’Amministrazione avrebbe dovuto rendere
motivazione in ordine alla eventuale condivisione del
medesimo.
Rileva in primo luogo che tutti i termini del procedimento
sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa
sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel
caso di specie.
Evidenzia ancora che il fatto che il termine di cui
all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia
collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che
la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo,
che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli
interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Richiama in proposito le sentenze di questo Consiglio (sez.
VI, n. 4914/2013 e n. 4656/2013) nelle quali si è affermato
che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146,
comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere
della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la
sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
Il Ministero appellante deduce ancora, a sostegno della tesi
della persistente natura vincolante del parere, la
circostanza che il comma 9 dello stesso articolo 146,
prevede che, in caso di inerzia dell’organo statale,
l’amministrazione territoriale può procedere all’indizione
di una conferenza di servizi. Di conseguenza, anche
nell’ipotesi in cui il parere dovesse intervenire prima
della pronuncia del Comune, anche dopo la scadenza del
termine, esso continuerebbe a mantenere la sua natura
vincolante, non potendo il mancato rispetto di esso incidere
sui caratteri del provvedimento tardivamente adottato,
rendendoli diversi rispetto a quelli previsti dalla norma
attributiva del potere.
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla
luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è
condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n.
1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza
–parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha
espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi,
relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di
rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge
ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con
conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al
rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del
parere soprintendentizio reso in materia di accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo
grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra
le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del
04.04.2014 così recita:
“Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della
stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della
proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero
deve essere rigettato, con conseguente conferma della
sentenza appellata.
L’avvenuta reiezione dell’appello principale determina
l’assorbimento dell’esame dell’appello incidentale
presentato dalla società St., in quanto, per espressa e
palesata volontà di questa, il gravame viene condizionato
all’accoglimento di quello principale del Ministero.
Nell’atto di appello incidentale si legge, infatti, che
questo è “condizionato” ed è proposto “per la denegata
ipotesi in cui l’appello del MiBAC fosse ritenuto fondato”.
Ritiene, infine, la Sezione di precisare che alcuna valenza
assumono, ai fini della definizione del presente giudizio,
le circostanze rappresentate dall’amministrazione e relative
alla presentazione, da parte della società appellata, di un
nuovo progetto di sistemazione degli spazi esterni del
locale dalla stessa gestito, trattandosi di opere diverse
rispetto a quelle oggetto di causa e di differente e nuovo
procedimento amministrativo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione
civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più
recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso.
La novità dell’orientamento giurisprudenziale assunto dalla
sezione sulla questione costituisce motivo per l’integrale
compensazione tra le parti costituite delle spese del grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
parere della Soprintendenza ex artt. 146 e 167 dlgs 42/2004.
L'evoluzione normativa, che ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante
a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo
costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e
la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i
richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro
ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso
tempo certo e non superabile.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
---------------
Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria.
---------------
Ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla
possibilità per l’amministrazione statale di rendere il
parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla
perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente
obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del
titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione,
valgano anche per l’analoga fattispecie del parere
soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo
della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Pertanto, deve essere condivisa la pronuncia del giudice di
primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di
mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione
amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e
di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti
o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza
del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto
anche oltre il termine perentorio e dal dovere
dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata….”.
---------------
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla
luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è
condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n.
1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi,
relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di
rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge
ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con
conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al
rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del
parere soprintendentizio reso in materia di accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo
grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra
le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del
04.04.2014 così recita:
“Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della
stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della
proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero
deve essere rigettato, con conseguente conferma della
sentenza appellata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Silenzio-assenso
a 360°. Ma l'istituto non può essere un alibi per la p.a..
Parere del Consiglio di stato sulla riforma Madia. Limiti
all'autotutela.
Il silenzio-assenso si applica a 360 gradi. Sia nei
confronti di regioni ed enti locali, sia quando su un
provvedimento debbano pronunciarsi autorità indipendenti o
gestori di servizi pubblici o ancora organi politici. Dopo
30 giorni di inerzia , il silenzio sarà equiparato al
concerto, assenso o nulla osta da acquisire. E la p.a. non
avrà più potere di dissentire, impedendo l'adozione
dell'atto attraverso lo strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso diventerebbe «un
atto di natura meramente provvisoria, suscettibile di essere
neutralizzato da un ripensamento unilaterale fino
all'adozione del provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non può essere la regola. Né
nei rapporti tra p.a. e cittadino, né in quelli tra
amministrazioni chiamate a esprimere il proprio nulla osta
su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra amministrazioni concertanti, il
silenzio-assenso è un rimedio «patologico» ma necessario
perché «nessuna p.a. può avere più il potere di bloccare un
procedimento» non esprimendo la propria posizione su un atto
specifico.
Nell'articolato
parere 13.07.2016 n. 1640 il Consiglio di Stato
si è espresso sulla portata applicativa della novità
contenuta nella delega Madia (legge n.124f2015) che ha
introdotto nella legge sul procedimento amministrativo
(legge n. 241/1990) l'art. 17-bis sul silenzio-assenso anche
nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo Spada è stato l'Ufficio legislativo
della Funzione pubblica che sollevato diversi dubbi
interpretativi in relazione all'ambito di applicazione
dell'istituto, ai rapporti tra silenzio-assenso e conferenza
dei servizi e all'esercizio del potere di autotutela.
La commissione speciale, costituita ad hoc dal
Consiglio di stato per l'esame dei quesiti, ha riconosciuto
che la regola del silenzio-assenso trova fondamento nel
diritto europeo, nella Costituzione e nel principio di
trasparenza.
Perché non è ammissibile paralizzare l'attività della p.a
semplicemente non esprimendo la propria opinione su un atto
specifico. Tuttavia, ha ammonito palazzo Spada, «una
pronuncia espressa resta sempre preferibile: permane una
valenza fortemente negativa del silenzio-assenso (sia tra
amministrazione e cittadino, sia tra amministrazioni
co-decidenti), ma esso resta comunque una soluzione migliore
dell'inerzia totale».
Nel rispondere ai quesiti del dicastero di Marianna Madia,
il Consiglio di stato ha esteso l'applicabilità
dell'istituto a una molteplicità di fattispecie applicative,
tutte accumunate dal fatto di riguardare atti di natura
co-decisoria. La stessa cosa, tuttavia, non può dirsi per
gli atti che si collocano in un momento successivo a quello
della decisione, quali per esempio la bollinatura della
Ragioneria generale dello stato. Il bollino della Rgs, ha
chiarito il Consiglio di stato, «è infatti un atto con
funzione di controllo che si colloca dopo l 'esaurimento
della fase decisoria ed è necessario per l'integrazione
dell'efficacia dei provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso nemmeno le
amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili
(beni culturali, salute dei cittadini), a cui si applicano i
termini previsti dalla normativa di settore o , in mancanza,
il termine di 90 giorni (articolo
ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere
sul silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato sul
silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni (art. 17-bis,
l. n. 241 del 1990) (Consiglio di Stato, Commissione
speciale,
parere 13.07.2016 n. 1640).
---------------
L’importanza del ricorso ai quesiti nella
fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei quesiti
riguardanti l’attuazione della riforma di cui alla legge n.
124 del 2015, sottolinea l’efficacia del metodo seguito dal
Governo di procedere tramite la proposizione di quesiti sul
funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in concreto’
della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio di Stato
concepita come sostegno in progress a un progetto
istituzionale, piuttosto che a singoli provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra
amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso
‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come l’art.
17-bis, introducendo il nuovo istituto del silenzio-assenso
‘endoprocedimentale’, ponga una seconda regola
generale –dopo quella prevista dall’art. 21-nonies nei
rapporti tra cittadino e PA– che stavolta riguarda i
rapporti ‘interni’ tra amministrazioni, quale che sia
l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del
procedimento pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il silenzio
dell’Amministrazione interpellata, che non esterni alcuna
volontà, è equiparato ope legis ad un atto di assenso
e non preclude all’Amministrazione procedente l’adozione del
provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e rimedio
all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo strumento di
semplificazione confermi la natura “patologica” del
silenzio amministrativo, sia nel rapporto verticale (tra
amministrazione e cittadino), sia nel rapporto orizzontale
(tra amministrazioni co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia
dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica,
tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o
il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere
di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo
silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della tacita
autorizzazione” (ovvero la regola del silenzio-assenso)
introdotto dalla cd. direttiva Bolkestein (considerando 43;
art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon
andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso nell’ottica di
assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona,
dell’impresa e dell’operatore economico;
- sistematico, con riferimento al principio di trasparenza
(anch’esso desumibile dall’art. 97 Cost.) che ormai, specie
dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 25.05.2016, n. 97,
informa l’intera attività amministrativa come principio
generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il Consiglio
di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile anche a:
1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di coordinamento
istituzionale volta a garantire un’applicazione omogenea
delle nuove regole di semplificazione nel rispetto della
loro autonomia organizzativa.
2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando essi
adottano atti amministrativi o normativi che quando sono
chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta
comunque denominati nell’ambito di procedimenti per
l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza
di altre Amministrazioni. In tal caso, è la natura dell’atto
da adottare (amministrativo o normativo) che rileva, e non
la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare
della competenza “interna” nell’ambito della pubblica
Amministrazione coinvolta.
3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di incompatibilità con
la particolare autonomia di cui godono, anche in
considerazione della natura amministrativa ormai ad esse
pacificamente riconosciuta.
4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e servizi anche
quando siano titolari del procedimento (e debbano acquisire
l’assenso di altre amministrazioni) e non solo quando siano
chiamati a dare l’assenso nell’ambito di procedimento di
altre Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la nozione
(di matrice comunitaria ed ormai accolta dalla prevalente
giurisprudenza) “oggettiva” e “funzionale” di
pubblica Amministrazione, in virtù della quale si considera
pubblica Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere
dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad osservare,
nello svolgimento di determinate attività o funzioni, i
principi del procedimento amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni
interpretative concernenti anche l’ambito di applicazione
oggettivo del nuovo istituto.
1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica anche
ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi in
virtù di un espresso dato testuale: il primo periodo del
comma 1 contiene un esplicito riferimento ai procedimenti
per l’adozione degli atti normativi
2) Applicabilità a procedimenti relativi a interessi
pubblici primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere
la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di
semplificazione anche ai procedimenti di competenza di
amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili,
ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini: le
Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi
sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto
dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di
novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte
alla regola generale del silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli
interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove la
relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione
procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In
tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà
applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che
esclude dal suo campo di applicazione gli interessi
sensibili).
3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n. 241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre
amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris)
nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento
ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che
l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione speciale
ritiene che la disposizione sia applicabile anche ai pareri
vincolanti e non, invece, a quelli puramente consultivi (non
vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa
disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del
1990.
4) Il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che hanno
natura codecisoria esclude, che il silenzio-assenso possa
sostituire atti che si collocano in un momento successivo a
quello della decisione, riguardando la fase costitutiva
dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d. ‘bollino’
della Ragioneria Generale dello Stato, previsto dall’art.
17, comma 10, della legge 31.12.2009, n. 196, un atto con
funzione di controllo, che si colloca dopo l’esaurimento
della fase decisoria ed è necessario per l’integrazione
dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
5) Non applicabilità ai procedimenti ad iniziativa di
parte tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra
pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in cui
l’atto di assenso sia chiesto da un’altra pubblica
amministrazione non nel proprio interesse, ma nell’interesse
del privato (destinatario finale dell’atto) che abbia
presentato la relativa domanda tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la
circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il privato
la presenti direttamente o per il tramite di
un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera
intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità di
autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la
risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa è
quello secondo cui l’art. 17-bis trova applicazione nel caso
in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire
l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di
assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza
di servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa, al fine
di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17-bis, la
soluzione secondo cui il silenzio-assenso di cui all’art.
17-bis operi sempre (anche nel caso in cui siano previsti
assensi di più amministrazioni) e prevenga la necessità di
convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il
silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso
espresso dalle Amministrazioni interpellate, e avrebbe lo
scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza
appositamente convocata.
La disciplina del superamento del
disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la
disciplina del superamento del disaccordo prevista dall’art.
17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva alcune
perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes materiae:
la norma disciplina un meccanismo sostitutivo che presuppone
il dissenso espresso, che, dunque, non si applica per
definizione nelle ipotesi di silenzio-assenso che
costituiscono l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche
da apportare allo schema del provvedimento” non tiene
conto dell’eventualità che il Presidente del Consiglio possa
risolvere il conflitto senza modificare lo schema del
provvedimento, ma recependolo integralmente la posizione
dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e firma del
provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte
dell’Amministrazione procedente l’invio formale del testo
non ancora sottoscritto, in vista della successiva eventuale
sottoscrizione di un testo condiviso (nell’ipotesi in cu
l’Amministrazione interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata rimanga
silente, il provvedimento potrà essere sottoscritto soltanto
dall’Amministrazione procedente, dando atto nelle premesse o
in calce al provvedimento dell’invio dello schema di
provvedimento e del decorso del termine per il
silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento finale
(adottato sulla base del silenzio-assenso
dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela soggiace
alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia stato ancora
adottato, il parere esclude che, formatosi il
silenzio-assenso, l’Amministrazione inerte possa superarlo
esercitando il potere di autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta giorni (o
il diverso termine per le Amministrazioni preposte alla
tutela di interessi sensibili) ha natura perentoria e,
dunque, la sua scadenza fa venire meno il potere postumo di
dissentire (anche in autotutela) (commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
struttura costituita esclusivamente da uno scheletro di
carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli
solari, e che non sviluppa una superficie utile, è passibile
di compatibilità paesaggista ex art. 167 dlgs 42/2004.
---------------
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto
amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato
l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In
conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è
possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito
dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni
sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento
impugnato non consente di ripercorrere l’iter
logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella
redazione del provvedimento impugnato e non consente,
soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno
condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere
contrario.
---------------
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa
Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa,
considerato che le opere eseguite in assenza di titolo
edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura
metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto
voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio,
per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene
compatibili le stesse», l’amministrazione non rende
adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del
provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota
depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che
la motivazione del provvedimento amministrativo non può
essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la
motivazione stessa precedere e non seguire ogni
provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro
il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
---------------
Quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non
appare corretto il riferimento alla costruzione di una
“tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per
questo, non rientrante nella casistica delle opere
ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata
dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti:
- che il progetto riguarda “un progetto di installazione di
un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria
metallica”,
- che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già
esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del
piazzale interno dell'opificio” e
- che “La tipologia architettonica della struttura in
oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura
della superficie già esistente (e già destinata a
parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta
superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce"
dei pannelli di circa 1,68 mt.
I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un
inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°.
All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli
fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt.
così come riportato negli elaborati grafici al fine di
conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del
manufatto e non comporta creazione di superfici utili o
volumi ovvero modifiche di quelli esistenti.
---------------
Con istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in
data 28.07.2011 la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. chiedeva il
rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria
relativamente ad una struttura metallica reggente un
impianto fotovoltaico (della potenza di 19,92 Kw)
realizzata, insieme al medesimo impianto, nel piazzale
interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio
artigianale per la manutenzione di macchine ed attrezzatura
per l'edilizia del quale la stessa "Nu.Ed.Pe."
S.a.s. è proprietaria, in area sottoposta a vincolo ex L.
29.06.1939, n. 1497 e ricadente in un A.T.E. di tipo C del
P.U.T.T./p. della Regione Puglia.
La Commissione locale per il paesaggio del Comune di Lecce
esprimeva parere favorevole al rilascio in data 01.12.2011.
Sennonché, giusta provvedimento prot. n. 5391 del
26.03.2012 il Soprintendente per i beni architettonici e
paesaggistici della Provincia di Lecce ed il Responsabile
del procedimento comunicavano che «questa Soprintendenza,
esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le
opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti
nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di
m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un
ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento
e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse».
Detto parere veniva notificato alla "Nu.Ed.Pe."
S.a.s. giusta nota prot. n. 44629/12 del 05.04.2012 a firma
del Dirigente dell'Ufficio tecnico - Settore urbanistico del
Comune di Lecce.
Avverso detti provvedimenti insorge l’odierna ricorrente
chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Dicastero intimato resistendo al ricorso
e chiedendone la reiezione.
All’udienza dell’08.06.2016 il ricorso è stato trattenuto
in decisione.
Con un articolato motivo di ricorso, l’"Nu.Ed.Pe."
lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso
di potere per erronea presupposizione in fatto, illogicità,
irragionevolezza, contraddittorietà e perplessità
dell'azione amministrativa; illegittimità in via derivata.
In particolare, il parere soprintendentizio impugnato, nel
ritenere «le opere eseguite in assenza di titolo edilizio,
consistenti nella realizzazione di "struttura metallica
dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici"»
incompatibili "per tipologia di intervento e dimensioni", si
paleserebbe frutto di attività istruttoria carente, nonché
di erronea presupposizione in fatto.
Nello specifico, nella relazione paesaggistica e nella
relazione P.U.T.T./p. allegate alla istanza protocollata
agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 si precisava
che la struttura metallica reggente l'impianto fotovoltaico,
nonché l'impianto stesso, sono localizzati nel piazzale
interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio
artigianale del quale la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è
proprietaria e, quindi, in un contesto a vocazione
produttiva rispetto al quale non è dato comprendere quale
sia il significato dell’affermazione inerente
l'incompatibilità per "tipologia di intervento".
Allo stesso modo, non si comprende quale sia il parametro al
quale rapportare la presunta incompatibilità per
"dimensioni".
Con nota depositata in udienza, la Soprintendenza ha
affermato che “tale intervento "per tipologia" non rientra
nella casistica delle opere ammissibili dall'art. 167 Dlvo
42/2004 in quanto la tettoia prevista per una altezza libera
di 4.00 mt. ... al fine di conservare la funzione di
parcheggio dell'area sottostante- ha sviluppato una
superficie utile all'appoggio dei pannelli fotovoltaici (cfr
Relazione tecnica All. 1);
- non rientra altresì per "tipologia" ammissibile alla
casistica del succitato articolo in quanto come specificato
dalla circolare Mibact n. 33/2009, esplicativa in merito alla
definizione dei termini "lavori", "superfici utili" e
"volumi", per superfici utili si intende "qualsiasi
superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono
ammesse le logge e i balconi nonché i ponici. collegati al
fabbricato, aperti su Ire lati contenuti entro il 25%
dell'area di sedime del fabbricato stesso”.
La censura è fondata e deve essere accolta.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241,
l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno
determinato l'adozione in relazione alle risultanze
dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di
motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso
logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano
indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione
assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento
impugnato non consente di ripercorrere l’iter
logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella
redazione del provvedimento impugnato e non consente,
soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno
condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere
contrario.
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa
Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa,
considerato che le opere eseguite in assenza di titolo
edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura
metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto
voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio,
per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene
compatibili le stesse», l’amministrazione non rende
adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del
provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota
depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che
la motivazione del provvedimento amministrativo non può
essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la
motivazione stessa precedere e non seguire ogni
provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro
il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
In ogni caso, anche la motivazione fornita nella nota
depositata in giudizio appare frutto di un errore sui
presupposti di fatto.
Infatti, quanto al profilo della compatibilità
dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla
costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una
superficie utile e, per questo, non rientrante nella
casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e
richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge,
infatti, che il progetto riguarda “un progetto di
installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003)
su carpenteria metallica”, che “L'impianto è stato
realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a
parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio di proprietà della Im.Pe. s.a.s.” e
che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto
è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della
superficie già esistente (e già destinata a parcheggio),
completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una
distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa
1,68 mt. I pannelli sono collegati alla struttura portante
avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa
30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli
fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt
così come riportato negli elaborati grafici al fine di
conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del
manufatto e non comporta creazione di superfici utili o
volumi ovvero modifiche di quelli esistenti”.
La stessa documentazione fotografica depositata in atti
dimostra che la struttura è costituita esclusivamente da uno
scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere
i panelli solari e che non sviluppa una superficie utile.
Per i predetti motivi il ricorso deve essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 07.07.2016 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
rimborso spese ai membri della Commissione Comunale per il
Paesaggio.
La
Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i
vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese”
sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò
a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di
impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa
voce di bilancio.
A tale fine l’Ente potrà riallocare le
risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio
di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le
minori spese derivanti dall’espletamento della funzione
medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a
disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero
comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio
della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che nell’ambito
dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni
locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs
42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore”
che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via
astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei
termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto”
in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel
funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto si ritiene, altresì, che i
professionisti componenti le commissioni in parola debbano
essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata
ma “interni” al comparto pubblico, inteso come
soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma
3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica
opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale”
delle funzioni svolte e del divieto tombale di
remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il
conferimento di incarichi a titolo onorifico a
professionisti privati, e ciò alla luce del generale
principio di “autosufficienza” e “valorizzazione”
delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale
principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non
ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio
corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le
commissioni in esame, in termini di potenziale (ed
arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed
in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno
in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei
componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per
il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale
del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art.
183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con
riferimento a professionisti interni al comparto pubblico,
in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in
seno alle commissioni de quibus– è già remunerato
nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per
effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico
che lega il professionista alla pubblica amministrazione,
complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente
delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito
del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi
all’attività in questione ed averne individuate le misure
volte a prevenirlo.
In tale ottica, il carattere onorifico
della prestazione -in assenza di cause giustificatrici
ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si
presenta –almeno in via astratta– come misura volta a
prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita”
venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi
ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò
proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi
coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse
dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il
bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero
risultare recessivi.
---------------
Il Comune di Moliterno (PZ), premettendo:
- che una rilevante porzione del territorio comunale (oltre
il 90% del territorio) è compresa nel Parco Nazionale
Appenino Lucano-Val d’agri-Lagonegrese;
- che tale circostanza ha comportato la necessità di
acquisire “pareri obbligatori in merito alle domande
paesaggistiche”;
- che il decreto legislativo n. 42/2004 e successive
modifiche ed integrazioni “all’art. 146, attribuisce alla
Regione l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia
di paesaggio, consentendo alla stessa tuttavia di delegarne
l’esercizio ad una pluralità di enti tra cui i Comuni purché
gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in
grado di assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione
tra attività di tutela del paesaggistica ed esercizio di
funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”;
- che il comma 3 dell’art. 183 del medesimo decreto
legislativo “dispone testualmente che <<la partecipazione
alle commissioni previste dal presente codice è assicurata
nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni
interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun
compenso e comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica>>”;
- di non avere “al proprio interno personale idoneo per
l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione
(...)” ;
- e che pertanto, al fine di istituire la commissione
prevista dalla legge, “si è reso necessario
ricorrere a professionisti esterni”, e ciò anche alla
luce della delibera n. 2002 del 29.12.2008, con cui la
Regione Basilicata ha previsto l’obbligo di “operare la
scelta dei propri componenti tra tecnici esterni
all’amministrazione”;
chiede di sapere se sia possibile “riconoscere ai
componenti esterni la commissione un rimborso delle spese
documentate (spese di viaggio) ancorandolo comunque ad un
limite massimo”.
A tale riguardo, l’Ente dichiara di essere consapevole che
un “eventuale rimborso andrebbe a gravare le finanze
comunali”, e ciò in quanto “se è vero che da un lato
il rimborso spese non integra gli estremi di un compenso, è
altrettanto vero che il dato normativo statuisce che non
debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica”.
Il Comune rappresenta, altresì, che “la delega
dell’esercizio del potere da parte della Regione al Comune,
accelera l’istruttoria delle pratiche snellendo, di gran
lunga l’iter procedimentale e, quindi, riduce notevolmente
le lungaggini temporali”.
...
6. Inquadramento del quesito
6.1 L’istanza di parere in esame verte in tema di esercizio -per
delega regionale- della funzione autorizzatoria in materia di
paesaggio e, in particolare, di oneri finanziari connessi
alla composizione ed al funzionamento delle “commissioni
locali per il paesaggio” istituite nell’ambito dei
relativi procedimenti autorizzatori.
La normativa di riferimento è contenuta nel Dlgs 42/2004 (“Codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio” ovvero per brevità “Codice”)
così come successivamente modificato ed integrato e, per
quanto qui di specifico interesse, negli artt. 146, comma 6
(che disciplina i presupposti della delega in materia di
autorizzazione paesaggistica), 148 (che disciplina
l’istituto delle commissioni locali per il paesaggio) e 183,
comma 3 (che dispone i vincoli di natura finanziaria sottesi
all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni in
parola).
Nello specifico, il Comune istante chiede di conoscere la
portata e la latitudine applicativa della clausola di
invarianza finanziaria contenuta nel comma 3, dell’art. 183
del Dlgs 42/2004, ai sensi del quale “la partecipazione
alle commissioni previste dal presente codice è assicurata
nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni
interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun
compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica”.
In particolare, viene chiesto di sapere se, alla luce del
disposto in questione, il rimborso delle spese documentate a
favore dei componenti la commissione per il paesaggio (spese
di viaggio) –seppure non vietato esplicitamente- risulti
comunque inibito alla luce della clausola di invarianza
finanziaria ivi codificata, comportando comunque un aggravio
per le finanze comunali.
Nella formulazione del quesito, il Comune, dichiarando di
essere consapevole che l’attività dei componenti la
commissione “rientrando all’interno dei compiti
istituzionali, debba essere gratuita”, precisa di aver
fatto ricorso a professionisti esterni per mancanza al
proprio interno di “personale idoneo per l’espletamento
delle funzioni demandate alla commissione”, e ciò anche
in considerazione delle direttive contenute nella delibera
di Giunta regionale della Basilicata n. 2202 del 29.12.2008
ai sensi della quale “la commissione ha l’obbligo di
operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni
all’amministrazione”.
Alla luce di quanto sopra ed al fine di rispondere al
quesito in esame, occorre analizzarne–seppure per linee
generali– il contesto normativo di riferimento.
7. Autorizzazione in materia di paesaggio: presupposti
per conferire la delega di funzione
7.1 Ai sensi dell’art. 146, comma 1, del Dlgs 42/2004 i
proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di
immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla
legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, a
termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157,
non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che
rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di
protezione.
A tale fine, i suddetti soggetti hanno l'obbligo di
presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli
interventi che intendano intraprendere, corredato della
prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i
lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta
l'autorizzazione.
Il comma 6, nell’attuale formulazione introdotta dal Dlgs
63/2008, prevede espressamente che sia la regione il
soggetto titolare dell’esercizio della funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio e che la debba
espletare avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate
competenze tecnico-scientifiche e di idonee risorse
strumentali .
Le regioni, però, hanno (conservato) la facoltà di
delegarne, a loro volta, l’esercizio, per i rispettivi
territori, a province, a forme associative e di cooperazione
fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni
sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero
a comuni, al sussistere dei due presupposti essenziali, e
cioè “purché gli enti destinatari della delega dispongano
di di strutture in grado assicurare un adeguato livello di
competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la
differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed
esercizio di funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia” (cfr. comma 6, seconda parte art.
146).
Alla luce del rinnovato assetto normativo, pertanto,
l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di
paesaggio potrà essere intestato (rectius conservato)
in capo agli enti locali, solo in via eventuale e, comunque,
condizionata alla sussistenza dei suddetti presupposti di “adeguatezza”
della struttura in termini di competenze professionali e di
effettiva capacità/possibilità di differenziare le attività
di tutela del paesaggio dalle funzioni (antagoniste) in
materia urbanistico-edilizia.
Si precisa, peraltro, che suddetti requisiti devono
sussistere in via continuativa per tutta la durata della
delega.
Ai sensi dell’art. 159, la verifica della loro sussistenza e
permanenza, in concreto ed in via continuativa, è rimessa
alla cura e alla responsabilità delle regioni, con la
conseguenza che, in caso di mancata verifica ovvero di esito
negativo della stessa, la funzione tornerà (ovvero resterà)
ad essere esercitata in via diretta dalla regione medesima .
Da ciò ne consegue che, una volta verificata la sussistenza
di tali condizioni, gli enti delegati dovranno essere in
grado di esercitare in concreto tale funzione.
In tale ottica, le regioni assumono un ruolo fondamentale.
Ci si riferisce in particolare all’istituzione ed al
funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio
previste dall’art. 148 del Codice.
Ai sensi del suddetto articolato normativo “Le regioni
promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento
delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti
ai quali sono delegate le competenze in materia di
autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146,
comma 6.”
Dal combinato disposto del comma 6 dell’art. 146 e del comma
1 dell’art. 148, infatti, discende che gli enti delegati,
pur dotati “a monte” di una struttura “interna”
adeguata, ai fini dell’esercizio in concreto della funzione
devono essere “supportati” dalle commissioni locali
di paesaggio.
L’istituzione delle suddette commissioni è affidata, in
termini di “promozione”, alle regioni.
In quest’ottica, anche in considerazione della natura “delegata”
della funzione autorizzatoria nel cui ambito si innestano
tali commissioni, il termine “promozione” si pone
come sinonimo di “rendere fattibile”, riducendosi –in
caso contrario– ad una mera enunciazione di principio
svuotata di effettiva portata applicativa.
E ciò in quanto costituisce “principio fondamentale della
finanza pubblica quello secondo il quale, nella ipotesi in
cui l’esercizio di funzioni e servizi resi dalla pubblica
amministrazione all’utenza, o comunque diretti al
perseguimento di pubblici interessi collettivi, venga
trasferito o delegato da una ad altra amministrazione,
l’autorità che dispone il trasferimento o la delega è, pur
nell’ambito della sua discrezionalità, tenuta a disciplinare
gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e
passivi (…)” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza
364/2010).
Ed è alla luce di tali coordinate che, a parere della
Sezione, occorre analizzare il quesito in esame, con
riferimento ai vincoli finanziari connessi all’istituzione
ed al funzionamento delle suddette commissioni.
8. Commissioni locali per il paesaggio: statuto giuridico
ed economico
Lo statuto giuridico ed economico delle suddette commissioni
è codificato –a livello di coordinate di principio- dal
combinato disposto degli artt. 148 e 183, comma 3, del dlgs
42/2004, mentre la disciplina di dettaglio è affidata al
potere normativo e regolamentare delle regioni.
L’art. 148 del Dlgs 42/2004 codifica i requisiti di
professionalità e di esperienza dei componenti le
commissioni, disponendo che debbano essere “soggetti con
particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella
tutela del paesaggio”, e ne determina la funzione
svolta, e cioè il rilascio di pareri propedeutici al
rilascio dell’autorizzazione in materia di paesaggio.
A seguito della novella di cui al dlgs 63/2008, nell’attuale
formulazione dell’art. 148, comma 3, è venuta meno la natura
“vincolante” dei pareri resi dalle commissioni.
8.1 Il comma 3 dell’art. 183 oltre a disegnarne i vincoli
finanziari, ne connota la natura, facendo rientrare la
partecipazione alle commissioni de quibus nell’ambito
dei “compiti istituzionali” dell’amministrazione
interessata.
Tale articolato normativo è collocato nell’ambito delle “Disposizioni
finali” del Dlgs 42/2004 ed ha subito nel tempo alcune
modifiche ed integrazioni.
Nella sua originaria formulazione (vigente sino
all’11.05.2006), l’articolato in questione disponeva, oltre
al generico vincolo di invarianza finanziaria, uno specifico
vincolo di gratuità della partecipazione alle commissioni
previste nel Codice (i.e. “la partecipazione alle
commissioni previste nel presente codice si intende a titolo
gratuito e comunque da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica”).
Con il decreto legislativo n.157/2006 è stato modificato,
tra gli altri, anche il disposto di cui al comma 3,
dell’art. 183.
In particolare, nella proposta di modifica presentata dal
Governo, l’art. 30 dello schema di decreto legislativo
157/2006 non riportava più alcun riferimento al sopra citato
vincolo di gratuità, limitandosi a codificare (rectius
confermare) il divieto di “nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica” discendente
dall’attuazione del complessivo articolato (i.e. “Dall’attuazione
del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica”).
Sul punto la V Commissione Bilancio, tesoro e programmazione
(cfr. Atto 595 - Rilievi alla VIII Commissione), evidenziando
l’anomalia della circostanza e ricordando che “in casi
analoghi, in base alla prassi consolidata, si è previsto che
la partecipazione a Comitati non deve dare luogo ad alcun
compenso o rimborso spese”, aveva richiesto di
riformulare il disposto in questione, proponendone un
precetto più stringente ai sensi del quale “la
partecipazioni alle commissioni previste dal presente codice
non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso o
rimborso spese e comunque da essa non devono derivare nuovi
o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Rispetto a tale proposta di modifica, nella versione
definitivamente approvata ed oggi vigente dell’articolato in
questione, è stato espunto il riferimento al divieto di
rimborso spese ed è stato integrato il contenuto precettivo,
specificando la valenza “istituzionale” della
partecipazione alle commissioni codificate dal Codice (i.e.
“3. La partecipazione alle commissioni previste dal
presente codice è assicurata nell'ambito dei compiti
istituzionali delle amministrazioni interessate, non da'
luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da
essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica”.).
9. Vincoli finanziari contenuti nel comma 3, dell’art.
183 del Codice
Alla luce dell’attuale formulazione del disposto in esame,
quindi, occorre domandarsi se gli oneri derivanti dal “rimborso
delle spese”, seppure non esplicitamente vietati dal
dettato in questione (ed anzi, espressamente espunti dal
precetto), rientrino comunque nel perimetro di applicazione
della norma, in quanto compresi nel cono d’ombra del divieto
di corresponsione di “alcun compenso” ovvero,
comunque, nel perimetro applicativo del divieto di generare
“nuovi o maggiori oneri”, oppure non rientrino in
alcuni dei suddetti limiti e pertanto possono essere
sostenuti nei limiti delle prescrizioni della normativa
vigente.
A tale fine occorre precisare quanto segue.
Il comma 3, dell’art. 183 contiene due tipologie di vincolo:
uno di natura specifica, relativo al divieto di “compensare”
ossia remunerare, sotto qualsiasi forma, l’attività di
partecipazione alle commissioni de quibus; l’altro di
natura generica e residuale, inerente al divieto di “alterare”
il complessivo equilibrio economico-finanziario della
finanza pubblica allargata.
9.1 Con riferimento alla portata del vincolo di natura specifica,
si ritiene che con l’attuale formulazione della norma (“non
si dà luogo alla corresponsione di alcun compenso”)
s’intenda precludere ogni tipologia di onere finalizzato,
anche in via indiretta, alla remunerazione –sotto qualsiasi
forma ed “etichetta”- dell’attività svolta dal
componente la commissione.
In tale ottica, esulerebbero dal perimetro applicativo del
divieto esclusivamente gli oneri aventi natura e funzione
meramente “restitutorie”, come il rimborso delle
spese documentate.
Tale opzione peraltro sarebbe confermata dalla specifica
espunzione del divieto del “rimborso delle spese” dal
testo finale del disposto in esame e dalla circostanza che
in altre fattispecie assimilabili il legislatore abbia
espressamente incluso nel divieto tale voce di spesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, si ritiene che esulino
dall’ambito di applicazione del vincolo di gratuità di cui
al comma 3, dell’art. 183 esclusivamente gli oneri di natura
“restitutoria”, come quelli relativi al “rimborso
delle spese”, purché la natura “non remunerativa”
né “indennitaria” di tali oneri sussista, in
concreto, al di là della sua etichetta formale.
9.2 Fermo quanto sopra, occorre verificare se il rimborso delle
spese –per quanto non precluso dal divieto di compensi sopra
citato- sia consentito alla luce del vincolo di invarianza
della spesa codificato dal medesimo articolato in esame.
Il vincolo di invarianza della spesa costituisce “l’alter
ego” dell’obbligo di copertura finanziaria codificato
dall’art. 81, comma 4, della Costituzione, in termini di
identità di obiettivo perseguito, e cioè la tutela degli
equilibri di finanza pubblica.
L’obbligo di copertura finanziaria (nella versione dell’art.
81, comma 3, Cost. post intervento riformatore del 2012 “ogni
legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi
per farvi fronte”) impone che la legge provveda, in
maniera adeguata ed effettiva, ai mezzi di sostegno dei
nuovi e/o maggiori oneri derivanti –in via esplicita ovvero
implicita- dall’attuazione della norma.
Il vincolo di invarianza finanziaria presuppone o comunque
codifica (e impone) la “neutralità” dell’impatto
degli oneri derivanti dall’attuazione della norma, in
termini di equilibrio economico-finanziario complessivo.
L’obiettivo perseguito è identico: la tutela degli equilibri
della finanza pubblica; ciò che differisce è lo strumento
utilizzato per raggiungerlo. Nel prima caso si agisce sulla
necessità di “dare copertura finanziaria” agli oneri
(nuovi o maggiori, anche in termini di minori entrate)
sopravvenuti per effetto della norma; nel secondo caso si
agisce sulla necessità che gli oneri, qualora sussistenti,
non abbiamo alcun impatto sugli equilibri di bilancio.
Il criterio di invarianza degli oneri finanziari è fissato,
infatti, con riguardo agli effetti complessivi della norma e
non comporta “in sé” la preclusione di un eventuale
aggravio di spesa purché tale aggravio sia “neutralizzato”
nei termini sopra precisati, “dal momento che ben
potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione
in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori
entrate” (cfr. ex pluribus Corte Costituzionale
sentenza n. 132/2014).
Ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge di contabilità e
finanza pubblica n. 196/2009, tale “neutralità
finanziaria” deve essere comprovata nell’ambito di una
relazione tecnica che riporta i dati e gli elementi idonei a
suffragare l'ipotesi di invarianza degli effetti sui saldi
di finanza pubblica, anche attraverso l'indicazione
dell'entità delle risorse già esistenti e delle somme già
stanziate in bilancio, utilizzabili per le finalità indicate
dalle disposizioni medesime.
In tale senso, il comma 3, dell’art. 183 del D.lgs. 42/2004
nel prevedere che dalla partecipazione alle commissioni
previste nel Codice non devono “comunque derivare nuovi o
maggiori oneri” non comporta un divieto assoluto di
sostenere nuovi o maggiori oneri, ma esclusivamente
l’obbligo di compensare tali oneri con entrate ovvero con
risparmi di spesa derivanti e/o connesse all’attuazione
della normativa in questione (cioè le disposizioni che
nell’ambito del Codice istituiscono le varie commissioni,
tra cui l’art. 148 in tema di commissioni locali per il
paesaggio).
10. Alla luce di quanto sopra e per rispondere all’oggetto
del quesito in esame, la Sezione ritiene che il comma 3,
dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, per come formulato, non
precluda “in linea astratta” il rimborso delle spese
di viaggio sostenute dai componenti per la partecipazione
alle commissioni di riferimento, e ciò in quanto
l’articolato in questione non prevede uno specifico divieto
in tale senso, e, comunque, tale divieto non può ritenersi
compreso –per via implicita- nel divieto di “corrispondere
alcun compenso” sancito dal comma in questione, in
quanto non ne condivide i medesimi presupposti “remunerativi
o compensativi”.
Fermo quanto sopra, alla luce del vincolo di neutralità
finanziaria sancito dall’articolato in esame, gli oneri
derivanti dal “rimborso delle spese” potranno essere
legittimamente previsti e sostenuti dall’amministrazione
interessata solo ed esclusivamente all’esito della verifica
“a monte”, sin dalla fase di programmazione, della
possibilità di neutralizzare, in concreto, tali spese con le
nuove entrate (ovvero con i risparmi di spesa) derivanti
dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte
integrante e sostanziale la commissione locale per il
paesaggio in esame.
In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti,
pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria
come sopra codificato a norma del comma 3, dell’art. 183 in
esame.
Si ricorda, inoltre, che tale rimborso spese dovrà essere
effettuato in conformità ai vincoli della normativa vigente,
e ciò in termini di presupposti, tipologia e limiti
quantitativi ivi fissati, regolamentandone a monte la
fattispecie, pur sempre nella propria discrezionalità
gestoria.
Nel caso in esame, peraltro, trattandosi di istituzione e
funzionamento di un organo collegiale connesso all’esercizio
di una funzione “istituzionale” dell’amministrazione
interessata, tale vincolo di invarianza della spesa
comporterà –ai fini del suo rispetto- una diversa
allocazione delle ordinarie risorse (umane, strumentali ed
economiche) disponibili a legislazione vigente, ovvero
l’utilizzo delle eventuali maggiori entrate derivanti dalla
o per l’effetto dell’istituzione delle suddette commissioni,
il tutto avendo riguardo al fatto che si tratta di una
funzione “delegata” che le regioni hanno l’onere di “promuovere”
ai fini del suo esercizio, in concreto.
A tale fine occorrerà, pertanto, avere riguardo alla
normativa regionale emanata al fine di “promuovere” e
“disciplinare” il funzionamento delle suddette
commissioni.
10.1 I parametri di riferimento sono, da un lato, la legge
regionale n. 50/1993 e successive modifiche ed integrazioni,
tra cui la legge regionale n. 7/1999 emanata in attuazione
del dlgs 112/1998 per il “conferimento di funzioni e
compiti amministrativi al sistema delle autonomie locali”
e, dall’altro, la delibera di giunta regionale n. 2202/2008
che, alla luce delle innovazioni introdotte dal Dlgs
63/2008, ha provveduto a disciplinare, nel dettaglio, i
presupposti per l’esercizio della delega in questione da
parte degli enti delegati.
L’art. 7 della legge 50/1993, andando a modificare ed
integrare la legge regionale n. 20/1987 in materia di
paesaggio, dispone che sono subdelegate ai comuni le
funzioni amministrative esercitate dagli organi e uffici
regionali, concernenti il rilascio di nullaosta o divieti
relativi e connessi, tra l’altro, alla tutela del paesaggio.
A tale fine il competente ufficio comunale rilascia il
nullaosta, ovvero respinge l'istanza, sentita la commissione
comunale per la tutela del paesaggio.
Ai sensi dell’articolato in questione, cosi come modificato
dalla sopra citata legge n. 7/1999, la commissione in esame
è un “(...) organo collegiale imperfetto, istituita con
deliberazione del Consiglio comunale, è composta dal
responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un
architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo
naturalista e un agronomo".
Nell’ambito delle direttive contenute nella sopra citata
delibera di Giunta regionale 2202/2008 vengono, invece,
esplicitati i presupposti per la delega dell’esercizio della
funzione autorizzatoria in parola.
A tale fine, la regione Basilicata assegna un ruolo “essenziale”
all’istituzione delle suddette commissioni locali paesaggio
(definita nel provvedimento regionale come “Commissione
per la qualità architettonica e per il paesaggio”),
ponendosi come strumento per il soddisfacimento di entrambi
i presupposti fissati dal comma 6, dell’art. 146, e
precisamente:
a) come strumento necessario per “assicurare la richiesta
adeguatezza delle istruttorie tecnico-amministrative
relative alle istanze di autorizzazione in materia
paesaggistica”, prescrivendo che “ogni Comune dovrà
garantire che il procedimento venga affidato a strutture che
siano in grado di esprimere la necessaria competenza dal
punto di vista tecnico scientifico. In particolare la
struttura comunale deve necessariamente avvalersi della
competenza tecnico-scientifica delle Commissioni per la
qualità architettonica e per il paesaggio, istituite in
attuazione dell'art. 7 della l.r. n. 50/1993, che dovrà
essere rinominata nella composizione prevista dalla l.r. n.
7/1999.” (cfr. punto 1, lett. a) Allegato A); nonché
b) come strumento per garantire la “differenziazione tra i
procedimenti paesaggistico e urbanistico-edilizio (...), in
quanto la Commissione comunale per la qualità architettonica
e per il paesaggio, è “composta da figure professionali
di elevata competenza e specializzazione, esterni alle
strutture amministrative comunali.” (cfr. punto 1, lett.
b) Allegato A).
Con riferimento ai requisiti “soggettivi” dei
componenti, oltre alla specifica tipologia di professionisti
richiesta ai sensi dell’art. 7 della legge 7/2009 sopra
richiamata (i.e. “(..) responsabile dell'ufficio tecnico
comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo,
un biologo naturalista e un agronomo”), viene ribadito
che la Commissione dovrà operare la scelta dei propri
componenti tra tecnici “esterni” all'amministrazione
e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per
edilizia e che i componenti dovranno dimostrare di aver
svolto attività attinenti a materie quali l'uso, la
pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio,
la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni
architettonici e culturali e dovranno aver maturato una
qualificata esperienza, almeno quinquennale.
In tale contesto, il ruolo di “promotore” della
regione si sostanzierebbe unicamente nel consentire ai
comuni di costituire Commissioni intercomunali nell'ambito
delle forme associative previste dalle leggi regionali e
nazionali, con particolare riguardo alle Unioni di Comuni,
privilegiando Commissione tra Comuni contermini ovvero,
qualora abbiano già istituito una Commissione, ai sensi
dell'art. 7 della L.R. n. 50/1993, di non provvedere ad una
nuova istituzione qualora quella esistente risulti adeguata
e conforme ai criteri come sopra fissati.
Al fine di dare un contenuto “concreto” all’onere di
promozione codificato dall’art. 148, comma 1, si ritiene,
quindi, che debba aversi riguardo ai principi generali
fissati dal sistema in tema di delega di funzione, ed ai
sensi dei quali l’ente delegante deve intervenire al fine di
rendere in concreto possibile l’esercizio della funzione
delegata.
Nel caso di specie, pertanto, tale onere potrà sostanziarsi
nel coadiuvare gli enti delegati nella
istituzione/composizione delle commissioni de quibus.
11. A tale specifico riguardo, anche alla luce del peculiare
requisito di “terzietà” richiesto nelle direttive in
parola con riferimento ai componenti le commissioni in
esame, si ritiene necessario verificare se tali
professionisti debbano essere “esterni”
all’amministrazione interessata ma “interni” al
comparto pubblico complessivamente inteso ovvero possano
essere anche professioni privati, cioè “esterni” a
tale apparato pubblico.
Come noto, per i professionisti legati da un rapporto di
servizio con la pubblica amministrazione vige il tendenziale
principio di onnicomprensività della retribuzione alla luce
del quale gli importi percepiti per le funzioni svolte in
via principale s’intendono sufficienti e proporzionati a
remunerare tutti gli eventuali altri incarichi ricoperti
nell’ambito ed in ragione del rapporto di impiego alle
pubbliche dipendenze (cfr. parere Consiglio di Stato n.
173/2004) nonché il principio, oggi immanente al sistema ai
fini di tutela della finanza pubblica allargata, di divieto
di “cumulo” degli emolumenti percepiti (tra gli
altri, si vedano gli artt. 82 e 83 del TUEL).
In tale ottica, la gratuità delle prestazioni svolte in seno
ad organi collegiali, non si presenta come mancanza di
sinallagmaticità (e quindi di causa) e quindi eccezione al
principio di necessaria onerosità delle prestazioni
lavorative, in quanto il professionista s’intende remunerato
nell’ambito e per effetto della retribuzione ovvero degli
emolumenti già percepiti in virtù del rapporto di servizio
ovvero del munus pubblico rivestito nell’ambito della
pubblica amministrazione.
11.1 Nel caso in cui invece i professionisti fossero esterni al
complessivo apparato pubblico occorrerà verificare se il
tale vincolo di gratuità tombale sia compatibile con il
suddetto principio di onerosità delle prestazioni ai sensi
del quale “Ogni attività lavorativa è presunta a titolo
oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità
di solidarietà in luogo di quella lucrativa (...)” (ex
pluribus Cass. sentenza 26.01.2009 n. 1833) e, comunque,
non vada ad inficiare –almeno in linea potenziale e
astratta– sull’indipendenza e sull’imparzialità dei
componenti le commissioni, alla luce proprio dell’assenza di
qualsiasi remunerazione per l’attività svolta.
In tale caso, infatti, si suole parlare di “funzionario
onorifico”, e cioè di professionista esterno che presta
la propria attività nell’ambito del comparto pubblico pur
non condividendone, neppure in parte, i connotati
essenziali, tra cui “la scelta del dipendente di
carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata
mediante procedure concorsuali (che, si contrappone, nel
caso del funzionario onorario, ad una scelta
politico-discrezionale), l'inserimento strutturale del
dipendente nell'apparato organizzativo della p.a. (rispetto
all'inserimento meramente funzionale del funzionario
onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito
statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una
disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante
pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento
dell'incarico e dalla natura dello stesso), il carattere
retributivo -perché inserito in un rapporto sinallagmatico-
del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al
carattere indennitario rivestito dal compenso percepito dal
funzionario onorario), la durata tendenzialmente
indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte
della normale temporaneità dell'incarico onorario)”
(cfr. ex pluribus Corte di Cassazione, sentenza n.
5398/2007).
Nel caso di specie, si ritiene che il legislatore abbia
effettuato un’opzione, seppure implicita, a favore di
componenti “interni” all’apparato pubblico, in quanto
legati da un rapporto di dipendenza (nelle sue varie forme)
con la pubblica amministrazione, e ciò per le seguenti
ragioni:
a) in primo luogo alla luce del fatto che la partecipazione alle
suddette commissioni rientra –per espressa previsione di
legge– nei compiti “istituzionali”
dell’amministrazione interessata (cfr. comma 3, art. 186 del
Codice), con tutti i corollari a questo connessi, anche in
termini di sempre più incisiva valorizzazione delle risorse
professionali interne da adibire a tali scopi.
Sul punto,
peraltro, si segnala che ai sensi dell’ art. 6, comma 7, del DL 78/2010, a decorrere dall’esercizio 2011 il legislatore,
al fine di conseguire risparmi nei costi di apparato “valorizzando”
al contempo le figure professionali “interne”,
vincola la spesa per incarichi di studio e consulenza ad una
percentuale del 20% della spesa sostenuta per tale voce nel
2009, pena illecito disciplinare e responsabilità erariale
del dirigente responsabile;
b) per la rilevanza delle funzioni espletate dalle commissioni in
esame in termini di “zona a rischio corruzione”,
considerato il peculiare settore in cui i componenti si
trovano ad operare–quello delle autorizzazione
paesaggistiche- in cui si contrappongono interessi pubblici
ed interessi privati, con conseguente potenziale ampliamento
dei diritti dei privati in danno di quello pubblico di
tutela del paesaggio;
c) per la necessità, quindi, di garantire che le attività dei
componenti de quibus siano improntate ai principi di
indipendenza ed imparzialità, alla cui base non può non
assumere rilievo essenziale una retribuzione sufficiente e
proporzionata;
d) per il carattere tombale del divieto di corrispondere compensi
del comma 3, dell’art. 183 che, alla luce di quanto sopra,
mal si concilia –almeno in linea di principio- con la
necessità di remunerare i professionisti “altamente
specializzati” (privati) incaricati in via “onorifica”
;
e) per gli specifici vincoli imposti dai codici deontologici degli
ordini professionali di appartenenza dei professionisti
indicati nella normativa regionale (cfr. art. 7 legge
regionale Basilicata n. 7/1999), ai sensi dei quali la
regola generale vieta la gratuità della prestazione salvo
specifiche ipotesi motivate da ragioni di “solidarietà”
ovvero di “apprendistato”; ragioni che, nel caso di
specie, non è dato intravedere;
f) per la possibilità di rinvenire le suddette professionalità
nell’ambito del comparto organizzativo regionale che –quale
titolare della funzione– ha (o comunque dovrebbe avere) al
proprio interno le specifiche figure professionali richieste
ai fini della composizione delle commissioni in parola.
11.2 Ed è in quest’ottica che, a parere della Sezione, si ritiene
di dover interpretare il punto 2 dell’allegato A (“Requisiti
dei componenti della Commissione per la qualità
architettonica”) della delibera di giunta della regione
Basilicata (n. 2202/2008) ai sensi della quale le
commissioni in esame devono essere composte da “tecnici
esterni all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte
della Sportello unico per edilizia”.
La ratio sottesa a tale disposizione –cioè la
necessità di garantire le competenze tecnico-scientifiche e
la differenziazione tra i due procedimenti, quello
paesaggistico e quello urbanistico-edilizio- si appalesa
comunque soddisfatta con l’utilizzo di professionisti
“esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al
comparto pubblico.
In questo caso, peraltro, il vincolo di gratuità tombale
previsto dal comma 3, dell’art. 183 si presenterebbe non
come deroga al principio immanente al sistema di onerosità
della prestazione, ma come diretta attuazione del principio
di onnicomprensività della retribuzione come sopra
enucleato.
A tale fine, peraltro, potrà essere la stessa regione –in
qualità di titolare della funzione autorizzatoria- a dotare
l’amministrazione interessata dei professionisti in possesso
dei necessari requisiti di competenza ed esperienza cui
affidare l’incarico di comporre le commissioni in parola, e
ciò in attuazione dell’obbligo di “promozione” delle
commissioni di cui al comma 1 dell’art. 148.
12. Per concludere, anche al fine di riepilogare gli esiti
del percorso motivazionale seguito, la
Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i
vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese”
sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò
a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di
impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa
voce di bilancio.
A tale fine l’Ente potrà riallocare le
risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio
di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le
minori spese derivanti dall’espletamento della funzione
medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a
disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero
comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio
della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che nell’ambito
dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni
locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs
42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore”
che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via
astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei
termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto”
in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel
funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto si ritiene, altresì, che i
professionisti componenti le commissioni in parola debbano
essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata
ma “interni” al comparto pubblico, inteso come
soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma
3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica
opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale”
delle funzioni svolte e del divieto tombale di
remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il
conferimento di incarichi a titolo onorifico a
professionisti privati, e ciò alla luce del generale
principio di “autosufficienza” e “valorizzazione”
delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale
principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non
ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio
corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le
commissioni in esame, in termini di potenziale (ed
arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed
in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno
in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei
componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per
il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale
del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art.
183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con
riferimento a professionisti interni al comparto pubblico,
in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in
seno alle commissioni de quibus– è già remunerato
nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per
effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico
che lega il professionista alla pubblica amministrazione,
complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, l’ente
delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito
del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi
all’attività in questione ed averne individuate le misure
volte a prevenirlo.
In tale ottica, il carattere onorifico
della prestazione -in assenza di cause giustificatrici
ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si
presenta –almeno in via astratta– come misura volta a
prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita”
venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi
ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò
proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi
coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse
dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il
bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero
risultare recessivi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 07.07.2016 n. 29). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CISANO BERGAMASCO (Bergamo) - art. 167 decreto legislativo n. 42 del 2004 - demolizione manufatto in zona paesaggisticamente vincolata e rimessione in pristino (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 01.07.2016 n. 19729 di prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. Bombardelli,
Il silenzio-assenso tra amministrazioni e il rischio di
eccesso di velocità nelle accelerazioni procedimentali
(Urbanistica e appalti n. 7/2016).
---------------
L’art. 17-bis della L. 07.08.1990, n. 241 introduce
l’istituto del silenzio-assenso per l’adozione di
provvedimenti normativi ed amministrativi nei casi in cui
sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nullaosta
di altre PP.AA. o di gestori di beni o servizi pubblici e
questi non vengano rilasciati entro un termine prefissato.
Si tratta di uno strumento di semplificazione procedimentale
molto problematico, anche perché è prevista la sua
applicazione nei casi in cui l’atto di assenso debba essere
rilasciato da amministrazioni preposte alla tutela di
interessi sensibili.
Nel presente commento vengono considerate le principali
criticità di questo istituto. |
giugno 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: L’art.
149 del dlgs 42/2004 prevede che “...non é comunque
richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146,
dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi
di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato
dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Gli interventi consistenti nell’istallazione:
- “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e
di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché
nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata
sull’inferriata situata nella parte superiore del varco
d’accesso”,
non possono rientrare nella fattispecie di cui all'art. 149,
lett. a), del dlgs 42/2004, e ciò in quanto tali opere,
complessivamente considerate, comportato un’alterazione
dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che
le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla
percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo
ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non
rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a),
del d.lgs. n. 42 del 2004- sono soggetti al regime
autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto
legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo
aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in
assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente
proceduto a intimarne la demolizione.
---------------
Non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate
opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti, la Sezione deve rilevare che, in base alla
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i
manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare
lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il
manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad
un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un
utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà
dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire ... postula un uso specifico e
temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo
stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze permanenti nel tempo”.
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti
l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna
pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità
temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti
a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza
che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta
una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata
legittimità del provvedimento impugnato.
---------------
Osserva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 146, commi 1
e 2 del d.lgs. n. 42 del 2004 dispone che “i proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree
oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo
157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli
138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero
sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano
paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o
all'ente locale al quale la regione ha affidato la relativa
competenza i progetti delle opere che intendano eseguire,
corredati della documentazione prevista, al fine di ottenere
la preventiva autorizzazione”.
L’art. 149 del medesimo decreto legislativo prevede,
inoltre, per quanto d’interesse in questa sede, che “...non
é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta
dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a)
per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria,
di consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli
edifici...”.
Orbene, per quanto concerne il caso di specie, la Sezione
deve in primo luogo rilevare che gli interventi oggetto
dell’impugnata ordinanza -così come individuati dalla nota
della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del
27.08.2012, non contestata in atti- sono stati realizzati su
un immobile vincolato ope legis ai sensi dell’art. 10
del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, i suddetti interventi -consistiti, come esplicitato
al precedente n. 4, nell’istallazione “di due unità di
condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul
parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella
realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata
sull’inferriata situata nella parte superiore del varco
d’accesso”- non possono rientrare nella fattispecie di
cui al richiamato art. 149, lett. a) del succitato decreto
legislativo, e ciò in quanto tali opere, complessivamente
considerate, hanno comportato un’alterazione dell’aspetto
esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime,
consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione
visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente
sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non
rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a)
del d.lgs. n. 42 del 2004- erano soggetti al regime
autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto
legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo
aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in
assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente
proceduto a intimarne la demolizione.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza
che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti -anche volendo prescindere dalla circostanza che la
società ricorrente si è limitata ad asserire l’amovibilità
di tali opere senza fornire adeguati elementi probatori al
riguardo, eccezion fatta per il solo intervento relativo ai
“grillages”, cui si fa riferimento nella relazione
tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012- la Sezione deve
rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a
nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere
murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non
risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel
tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ...
postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene
e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo” (Cons.
di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n. 4116).
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti
l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna
pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità
temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti
a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza
che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta
una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata
legittimità del provvedimento impugnato
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Rapporto
intercorrente tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire.
L’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il
rapporto tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un
rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni
paesistiche e quelle urbanistiche.
E tale principio resta fermo anche quando
le disposizioni urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori
paesaggistici di un’area
(massima tratta da https://lexambiente.it).
---------------
9.- Al riguardo, si deve preliminarmente chiarire che non possono avere
decisiva rilevanza in questo giudizio amministrativo, concernente la
legittimità di un ordine di demolizione determinato dalla realizzazione di
opere edilizie in assenza del (necessario) titolo abilitativo edilizio, le
autorizzazioni paesaggistiche rilasciate per le stesse opere dalla Regione
Lazio.
9.1.- Sebbene infatti per realizzare un’opera edilizia nelle aree sottoposte
a vincolo paesaggistico occorra sia l’assenso a fini edilizi e sia l’assenso
a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può
realizzare un’opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli
abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi essendo
posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta
il necessario rilascio anche dell’altro e la mancanza del necessario titolo
edilizio non consente, come nella fattispecie, la realizzazione di un’opera
anche se per la stessa è stato rilasciato l’assenso a fini paesaggistici.
9.2.- In proposito, si è anche di recente ricordato che, per principio
consolidato, l’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto autonomo
e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il rapporto tra
autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un rapporto di
presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e
quelle urbanistiche (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 521 del 09.02.2016).
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni urbanistiche sono
dettate tenendo conto pure dei valori paesaggistici di un’area
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.06.2016 n. 2658 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Riguardo agli abusi
paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della
condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura
di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della condotta medesima sull'assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall'amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell'intervento eseguito.
E' stato altresì osservato che l'individuazione della
potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta
quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al
paesaggio ed
all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse
astrattamente idoneo a ledere il
bene giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva
valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del
vincolo per ogni intervento,
anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla
disciplina urbanistica ed
edilizia.
Sicché, il
reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta
consista nell'esecuzione
di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il
mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano
venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario
assetto.
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi
in zone vincolate
senza il controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal
risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai
fini dell'integrazione della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti
alla tutela del vincolo.
---------------
La ratio della introduzione di
vincoli paesaggistici
generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella
valutazione che l'integrità
ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso
anche da
interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella
sua interezza.
La severità del relativo trattamento
sanzionatorio
«trova giustificazione nella entità sociale dei beni
protetti e nel ricordato
carattere generale, immediato ed interinale, della tutela
che la legge ha inteso
apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere
comportamenti tali che
possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili
all'integrità ambientale.
I reati incidenti su beni paesaggistici
vincolati per legge hanno
introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del
territorio
individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o
morfologiche), improntata
a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell'intero
territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta
sostanziale identità dei
valori in gioco, il bene paesaggistico non può essere
considerato qualcosa di
avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta
nella norma è
sufficientemente determinata.
---------------
In proposito, occorre preliminarmente osservare che la
sentenza della Corte
Costituzionale n. 56, depositata il 23.03.2016 ha
dichiarato l'illegittimità
costituzionale "dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi dell'articolo 10
della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui
prevede «:a) ricadano su
immobili od aree che, per le loro caratteristiche
paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»",
determinando così una
parificazione delle condotte di cui al comma 1°-bis dello
stesso art. 181 con la
disciplina di cui al comma 1, purché non vengano superate le
soglie volumetriche
indicate dal comma 1-bis.
La predetta pronunzia, relativa
al solo trattamento
sanzionatorio della norma in esame, non ha però rilievo ai
fini della declaratoria
di estinzione per intervenuta rimessione in pristino.
In ogni caso, a prescindere dal fatto che l'eccezione di
estinzione del reato
ex art. 181, comma 1-quinquies citato non risulta
richiesta con i motivi di
appello, la Corte territoriale non se ne è occupata,
ritenendo, correttamente, che
l'autorizzazione della Provincia di Varese non rilevasse ai
fini dell'applicazione
dell'art. 129 c.p.p., anche perché, come sostenuto dal
Tribunale e ripreso dalla
stessa Corte, il predetto provvedimento amministrativo si
riferiva all'attività di
cava autorizzata.
4.4. Da parte di questa Suprema Corte è stato ripetutamente
affermato il
principio secondo il quale, riguardo agli abusi
paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della
condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura
di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della
condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno
neppure qualora
venga attestata, dall'amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica
dell'intervento eseguito. Si tratta, ad avviso del Collegio,
di considerazioni che
vanno ribadite anche in questa occasione, non essendovi
ragione alcuna per
discostarsi da un orientamento che può dirsi ormai
consolidato [Sez. 3, n.
11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia, Rv. 263289;
Sez. 3, n. 6299
del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493].
E' stato altresì osservato che l'individuazione della
potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione
ex ante, diretta
quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al
paesaggio ed
all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse
astrattamente idoneo a ledere il
bene giuridico tutelato (v. ex plurimis Sez. 3, n. 14461 del
07/02/2003, Carparelli,
Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv.
224465; Sez. 3, n.
12863 del 13/2/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641
del 30/01/2003,
Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva
valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del
vincolo per ogni intervento,
anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla
disciplina urbanistica ed
edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti,
pertanto, ad affermare che il
reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta
consista nell'esecuzione
di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il
mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano
venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario
assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493,
cit.).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi
in zone vincolate
senza il controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal
risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai
fini dell'integrazione della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti
alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/1/2005, Di
Cesare, Rv. 231247).
Ciò posto, deve rilevarsi come, avuto riguardo alla
consistenza delle opere
come descritta nell'imputazione, la decisione della Corte
territoriale appaia
perfettamente in linea con i principi richiamati. Appare
inoltre dirimente il fatto
che -pur ribadendo la natura di reato di pericolo della
fattispecie contestata-
già il Tribunale avesse individuato un danno effettivo
arrecato all'ambiente (pag.
4 secondo periodo).
Come ha condivisibilmente sostenuto la sentenza impugnata,
la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 181 D.Lvo n. 42/2004 -per la parte invocata
dal ricorrente- è manifestamente infondata.
Il giudice
delle leggi ha infatti già
avuto modo di affermare che «la ratio della introduzione di
vincoli paesaggistici
generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella
valutazione che l'integrità
ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso
anche da
interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella
sua interezza (sentenze
n. 247 del 1997, n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze
n. 68 del 1998 e n.
431 del 1991)»
e che la severità del relativo trattamento
sanzionatorio
«trova giustificazione nella entità sociale dei beni
protetti e nel ricordato
carattere generale, immediato ed interinale, della tutela
che la legge ha inteso
apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere
comportamenti tali che
possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili
all'integrità ambientale
(sentenze n. 269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del
1998)» (ordinanza n.
158 del 1998).
I reati incidenti su beni paesaggistici
vincolati per legge hanno
introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del
territorio
individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o
morfologiche), improntata
a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell'intero
territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale (v., da
ultimo, ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)»
(ordinanza n. 158 del
1998).
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta
sostanziale identità dei
valori in gioco, il bene paesaggistico non può essere
considerato qualcosa di
avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta
nella norma è
sufficientemente determinata
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2016 n. 25041 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Sponsorizzazione di beni culturali — articolo
120 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 — articoli 19
e 151 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 - nota
circolare (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 09.06.2016 n. 17461 di prot.).
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Sommario: 1. Premessa - 2. Rinvio per le nozioni
generali alle Linee guida di cui al d.m. 19.12.2012,
pubblicate nella G.U. 12.03.2013, n. 60 - 3. La
semplificazione (in sintesi) - 4. Proposta di
sponsorizzazione; vaglio preliminare e favor per
l'accoglimento - 5. La pubblicazione dell'avviso sul sito
istituzionale - 6. La ricerca di sponsor di iniziativa
ministeriale - 7. Scelta dello sponsor - 8. Stipula del
contratto di sponsorizzazione - 9. La disciplina di cui
all'art. 151 - 10. Modalità contabili e regime fiscale
(cenni) - 11. Le forme speciali di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali.
---------------
Il nuovo codice dei contratti pubblici, nell'ottica di
favorire il sostegno all'azione pubblica in campo culturale
e la realizzazione del principio di sussidiarietà
orizzontale, semplifica notevolmente le procedure relative
all'acquisizione di sponsor per interventi di tutela e
valorizzazione dei beni culturali, in attuazione di uno
specifico criterio direttivo contenuto nella legge delega.
In considerazione delle novità apportate dal nuovo codice
rispetto alla precedente disciplina, esplicitata nelle Linee
guida di cui al d.m. 19.12.2012, pubblicate nella G. U.
12.03.2013, n. 60, si ritiene opportuno fornire, con la nota
circolare allegata, i primi indirizzi applicativi utili per
facilitare e incoraggiare il ricorso a tale istituto da
parte degli uffici ministeriali.
In particolare, si prendono in considerazione i profili
concernenti la semplificazione delle procedure, la
valutazione preliminare della proposta di sponsorizzazione e
il favor per l'accoglimento, la pubblicazione dell'avviso
sul sito istituzionale (del quale viene fornito un modello),
la ricerca di sponsor di iniziativa ministeriale, la scelta
dello sponsor, la stipula del contratto di sponsorizzazione,
la disciplina di cui all'articolo 151 in tema di
sponsorizzazione di beni culturali e di partenariato
pubblico-privato nel campo dei beni culturali, fornendo
alcuni cenni riguardo al regime contabile. Vengono inoltre
evidenziate quali parti (consistenti in sostanza nelle
nozioni di carattere generale) delle citate Linee guida
conservano validità ed efficacia anche a seguito
dell'introduzione della nuova procedura semplificata.
La successiva diramazione della circolare, a cura di codesto
Segretariato, ai competenti uffici centrali, unitamente alla
diffusione, da parte dei medesimi uffici, di ulteriori e
specifici indirizzi operativi agli uffici periferici,
assicurerà la pronta e corretta applicazione delle nuove
procedure, al fine dell'auspicabile potenziamento
dell'istituto della sponsorizzazione. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è ammissibile la compatibilità paesaggistica (ex
art. 167 dlgs 42/2004) per:
ampliamento fabbricati, realizzazione di una piscina
e dell’annesso locale dei relativi impianti,
realizzazione di una strada asfaltata.
Con riferimento alla realizzazione abusiva del
cancello di ingresso e di due barbecue, sotto
l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo
assentibili con SCIA ai sensi dell’art. 37 DPR n.
380/2001, non possono essere demolite ma devono
essere assoggettate al pagamento della sanzione
pecuniaria stabilita dalla predetta norma. Anche
sotto il profilo paesaggistico, i suddetti
interventi edilizi non possono essere demoliti.
---------------
Sotto l'aspetto paesaggistico,
tutte le altre opere edilizie realizzate
abusivamente (ampliamento di entrambi i fabbricati,
la realizzazione di una piscina e dell’annesso
locale dei relativi impianti, realizzazione di una
strada asfaltata -con diramazioni- verso
l’abitazione ed il garage) non possono sfuggire alla
rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma
1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata
“successivamente alla realizzazione, anche parziale,
degli interventi”, quando le opere realizzate hanno
“determinato la creazione di superfici utili o
volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente
realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato che la nozione di
superficie e/o volume utile va interpretata nel
senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o
che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso
che il concetto di utilità ha un significato
differente nella normativa in materia di tutela del
paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione
paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una
visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente
capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai
sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n.
42/2004, sono esentati dall’autorizzazione
paesaggistica soltanto gli interventi di
manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di
restauro conservativo “che non alterano lo stato dei
luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra
la materia dell’edilizia e quella della tutela del
paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n.
380/2001 risulta sufficiente il presupposto della
cd. doppia conformità, cioè la conformità degli
abusi alla disciplina vigente sia al momento della
loro realizzazione, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, mentre
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai
sensi del suddetto combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere
rilasciata soltanto per le opere che non hanno
determinato la creazione di superfici e/o volumi
utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli
indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
---------------
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i
barbecue non hanno determinato la creazione di
alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre
opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o
volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato
accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc.
del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35
mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a
garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di
superficie utile anche la piscina, avente la
superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal
cancello di ingresso con diramazioni verso
l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di
superfici e/o volume utili la costruzione abusiva
del locale pompe a servizio della piscina, avente la
superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del
box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e
l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17
m. alla linea di colmo.
---------------
... per l'annullamento:
●
quanto al ricorso n. 51 del 2015:
- del provvedimento prot. n. 17120 del 14.11.2014 (notificato il
21.11.2014), con il quale il Responsabile del
Settore Urbanistica del Comune di Maratea ha
respinto l’istanza di permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 del 29.08.2013;
- della nota prot. n. 16051 del 27.10.2014, con la quale il
Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio del
Comune di Maratea ha trasmesso alla Soprintendenza
per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della
Basilicata ed al sig. -OMISSIS- l’atto di pari data,
di accertamento dell’incompatibilità paesaggistica
delle opere edilizie, indicate nella predetta
domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria
del 29.08.2013, in quanto avevano determinato la
creazione di superfici e/o volumi utili, con la
precisazione che tale nota costituiva comunicazione
dell’avvio del procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n.
42/2004;
- della nota prot. n. 17727 del 25.11.2014, con la quale il
medesimo Responsabile del Settore Tutela del
Paesaggio specificava che il procedimento ex art.
167 D.Lg.vo n. 42/2004 si sarebbe concluso dopo aver
acquisito il parere vincolante della Soprintendenza;
- nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e
subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti
impugnati e dall’illecito comportamento
dell’Amministrazione resistente, con riserva di
dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
●
quanto al ricorso n. 284 del 2015:
- dell’Ordinanza n. 120 del 22.12.2014 (notificata il 09.01.2015),
con il quale il Responsabile del Settore comunale
Urbanistica, ai sensi dell’art. 31 DPR n. 380/2001,
ha ingiunto al sig. -OMISSIS- la demolizione delle
opere edilizie, per le quali il comproprietario sig.
-OMISSIS- con istanza del 29.08.2013 aveva chiesto
la sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001;
- nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e
subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti
impugnati e dall’illecito comportamento
dell’Amministrazione resistente, con riserva di
dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
...
I sigg. -OMISSIS- e -OMISSIS- sono comproprietari di
due fabbricati, di cui uno destinato ad abitazione
(identificato con la particela n. 699) ed un altro
destinato a garage (identificato con la particela n.
700), e del relativo terreno circostante, siti nella
Località Ogliastro del Comune di Maratea.
Con istanza del 29.08.2013 il sig. -OMISSIS-
chiedeva il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed anche
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con
riferimento alle seguenti opere edilizie non
autorizzate:
1) l’ampliamento di entrambi i fabbricati, in relazione al quale
veniva specificato che non era stata superata la
volumetria massima consentita, in quanto dalla
superficie del terreno circostante residuava una
volumetria non utilizzata di 213,93 mc. ed inoltre
era stata asservita anche la superficie di un altro
terreno, sito nella stessa zona, in corso di
acquisizione;
2) la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei
relativi impianti, del cancello di ingresso, di due
barbecue e di una strada asfaltata dal cancello di
ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il
garage.
...
In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno
disporre la riunione dei due giudizi indicati in
epigrafe, sia perché hanno per oggetto gli stessi
immobili, di cui sono comproprietari il sig.
-OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 51/2015, e la
sig.ra -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n.
284/2015, sia perché l’Ordinanza di demolizione n.
120 del 22.12.2014 è stata impugnata con entrambi i
predetti Ricorsi.
Nel merito, i Ricorsi n. 51/2015 e n. 284/2015 vanno
accolti soltanto con riferimento alla realizzazione
del cancello di ingresso e dei barbecue.
Per quanto riguarda l’aspetto edilizio, tali opere
edilizie, essendo assentibili con SCIA, ai sensi
dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere
demolite, ma devono essere assoggettate al pagamento
della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta
norma.
Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti
interventi edilizi non possono essere demoliti,
mentre tutte le altre opere edilizie realizzate
abusivamente non possono sfuggire alla rimessione in
pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n.
42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata
“successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi”, quando le opere
realizzate hanno “determinato la creazione di
superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli
legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato (sul punto cfr. da
ultimo TAR Basilicata Sent. n. 906 del 27.12.2014)
che la nozione di superficie e/o volume utile va
interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia
calpestabile e/o che può essere sfruttata per
qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha
un significato differente nella normativa in materia
di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina
edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione
paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una
visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente
capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai
sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n.
42/2004, sono esentati dall’autorizzazione
paesaggistica soltanto gli interventi di
manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di
restauro conservativo “che non alterano lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra
la materia dell’edilizia e quella della tutela del
paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n.
380/2001 risulta sufficiente il presupposto della
cd. doppia conformità, cioè la conformità degli
abusi alla disciplina vigente sia al momento della
loro realizzazione, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, mentre
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai
sensi del suddetto combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere
rilasciata soltanto per le opere che non hanno
determinato la creazione di superfici e/o volumi
utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli
indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i
barbecue non hanno determinato la creazione di
alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre
opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o
volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato
accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc.
del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35
mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a
garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di
superficie utile anche la piscina, avente la
superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal
cancello di ingresso con diramazioni verso
l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di
superfici e/o volume utili la costruzione abusiva
del locale pompe a servizio della piscina, avente la
superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del
box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e
l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17
m. alla linea di colmo.
Conseguentemente, vanno disattese le censure con le
quali è stato dedotto il vizio dell’eccesso di
potere per difetto di motivazione e carenza di
istruttoria, in quanto risulta incontrovertibile
l’abusiva realizzazione di superfici e/o volume
utili.
Pertanto, come ammesso dagli stessi ricorrenti,
poiché ai sensi dell’art. 146, comma 4, primo
periodo, D.Lg.vo n. 42/2004 “l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli
altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio” e poiché per le suindicate
opere edilizie, diverse dal cancello di ingresso e
dai barbecue, non può essere rilasciata
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il
Tribunale adito non può annullare i provvedimenti
e/o gli atti impugnati con il Ric. n. 51/2015 (e
l’atto di motivi aggiunti a tale ricorso) ed il Ric.
n. 284/2015, nella parte in cui si riferiscono agli
altri interventi edilizi diversi dal cancello di
ingresso e dai barbecue, prescindendo dall’esame
della censura relativa alla violazione dell’art. 36
del vigente Regolamento Edilizio ex art. 16 L.R. n.
23/1999.
Ciò in quanto, anche se i sopra descritti abusi
edilizi dovessero rientrare nell’ambito oggettivo
della ristrutturazione edilizia, la disciplina in
materia di tutela del paesaggio non prevede una
norma analoga all’art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001,
per cui i predetti abusi non possono non essere
assoggettati alla sanzione della loro demolizione,
anche se il relativo provvedimento è stato adottato
il 22.12.2014, due giorni prima della formale
ricezione del vincolante parere sfavorevole
Soprintendente di Potenza prot. n. 12614 di pari
data 22.12.2014
(TAR Basilicata,
sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs
42/2004), il "profitto conseguito" è l’oggettivo
incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le
regole che tutelano il bene vincolato.
Secondo la ricorrente, il profitto
derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere
calcolato non solo come differenza tra il valore
attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in
questione (2.000 €/mq) ed il valore del porticato originario
(460 €/mq) ma anche detraendo il costo delle opere
realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo
metrico).
A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997
(Determinazione dei parametri e delle modalità per la
qualificazione della indennità risarcitoria per le opere
abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la
perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la
sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale
rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo.
Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004,
invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con
il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di
autorizzazione paesistica in sanatoria.
Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere
come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la
differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di
esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con
l’interesse paesistico.
Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo
incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le
regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso
più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il
passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del
privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono
inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a
garantire l’economicità della violazione paesistica
attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in
relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso,
né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione
Territorio del 05.01.2016, con il quale è stato dichiarato
l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, ed è stato imposto il
pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20;
...
Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha realizzato, a partire dal 2009,
un intervento di ristrutturazione di un edificio situato nel
Comune di Lovere, in via Marconi. L’immobile è sottoposto a
vincolo paesistico ex art. 136, comma 1-c, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42.
2. In difformità dall’autorizzazione paesistica, la
ricorrente ha annesso al fabbricato principale un porticato
avente superficie pari a 18,18 mq, attribuendo a questa
struttura accessoria la medesima destinazione commerciale
del resto dell’immobile.
3. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area
Gestione Territorio del 05.01.2016, ha dichiarato
l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 5, del Dlgs. 42/2004, e ha imposto il pagamento di una
sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20 a titolo di profitto
conseguito mediante la trasgressione.
Il calcolo è stato effettuato sulla base del valore attuale
di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione
(2.000 €/mq), detraendo il valore del porticato originario
(460 €/mq). Non è stato preso in considerazione il parametro
del danno ambientale (alternativo al parametro del
profitto), in quanto la chiusura del porticato ha in realtà
un effetto migliorativo sul paesaggio (v. perizia di stima
del 05.10.2015).
4. Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso
edilizio sanato dovrebbe essere calcolato detraendo anche il
costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81,
come da computo metrico). A sostegno, viene richiamato il DM
26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità
per la qualificazione della indennità risarcitoria per le
opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
5. La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la
perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la
sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale
rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo.
Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004,
invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con
il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di
autorizzazione paesistica in sanatoria. Il profitto, nel
nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento
l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra
il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione
della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse
paesistico.
6. Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi
l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto
violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso
più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il
passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del
privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono
inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a
garantire l’economicità della violazione paesistica
attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in
relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso,
né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
7. Non sussistono pertanto i presupposti per concedere una
misura cautelare sospensiva o propulsiva
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 23.05.2016 n. 376 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A..
---------------
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di
permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta
rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del
silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma
8, del d.P.R. n. 380/2001);
---------------
L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la
P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria.
---------------
Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione
rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che
può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione,
ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta
descrizione delle opere abusive, nella constatazione della
loro esecuzione in mancanza del necessario titolo
abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma
applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto
tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di
ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è
necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla
descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione
oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o
della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare
che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli
abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato.
----------------
Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti,
si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo
paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione
pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse,
prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica
manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione
dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per
l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015,
notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire
le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre
Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono
di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc.
Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo
paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il
rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di
una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla
osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con
muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di
via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva
autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano
all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di
manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del
giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con
cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione
con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché
ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino
(senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A.
ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva
poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante
ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione
in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno,
pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130,
delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area,
con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto
abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è
indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai
titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato
hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta
rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente
realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi
l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che
però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di
recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli
altri confini della proprietà consente soltanto la messa in
opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il
21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di
“manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori
effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa
comunicazione (riparazione della corte nel giardino;
sostituzione del mattonato appoggiato senza malta
cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con
cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si
rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti
ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno
presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad
oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile
la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto
di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v.
art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere
avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che
“copre” la costruzione della recinzione in cordolo e
muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo
detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte
dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti
che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR
Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302),
l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e
rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata
e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già
solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella
constatazione della loro esecuzione in mancanza del
necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione
della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione
di demolizione di opere edilizie non è necessaria una
specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione
dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva,
la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico sottese alla demolizione, o della
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa
Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che
l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi
edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte
della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità
delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo
cui i due procedimenti in questione sono e devono restare
distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato
normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella
determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora
citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004,
infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il
profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una
sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di
esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione
paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude
la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n.
380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto
edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione
della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale,
nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle
opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente
determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il
Comune dovrà accertare, nella propria competenza,
l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti
norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura,
nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali
e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò
ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione
(e di quello altrettanto favorevole emesso dalla
Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto
l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via
esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel
caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che
le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici
lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto
autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare
evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno
eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio,
senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con
l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza
impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria
(evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R.
n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità
del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece
del tutto coerente con la normativa di settore, poiché
l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit.
precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento
sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso
infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
sanatoria paesaggistica -o meno- di un modesto abbaino (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq
ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a
dare luce al vano sottotetto.
Il Collegio è del parere che nei casi in cui l’opera nuova
rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio
fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e
pertinenziale rispetto ad una costruzione principale,
l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico,
chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria
paesaggistica, debba valutare la compatibilità
dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal
decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo
alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta
realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi.
---------------
La Soprintendenza non può sottrarsi all’esame della concreta
fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente
evidenziando che le opere non rientrano nella casistica
prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del
decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero
comportato la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini
edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio
ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al
contesto, usa l’art. 167– l’abbaino di cui si controverte
sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano
sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie
evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto
non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante
nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua
valutazione in concreto e postuma di compatibilità
paesaggistica.
Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume
tecnico, procedere a un concreto accertamento di
compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e
concreta rispetto ai valori tutelati.
---------------
Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione
fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito
urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine
alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece
l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici
utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e
soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver
riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a
quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla
realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda
della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in
ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla
realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio, non è
suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni, dove la
superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con
l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi
misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci,
vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di
logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si
intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e
servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e
scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile
nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a
un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti
il loro significato specialistico, per giungere senz’altro
alla conclusione di un’astratta preclusione normativa
rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente
espressa in funzione della essenzialità dell’abbaino di che
trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva
relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste
dimensioni), ai fini del successivo giudizio di
compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto
paesaggistico tutelato.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZ. VII n. 4805/2012, resa tra le parti,
concernente parere di non compatibilità paesaggistica.
...
2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- La questione centrale da dirimere attiene alla
legittimità del provvedimento soprintendentizio gravato in
primo grado, col quale l’autorità preposta alla tutela
vincolo paesaggistico si è negativamente determinata, nel
procedimento di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004,
riguardo alla sanatoria paesaggistica di un piccolo
intervento edilizio realizzato dal ricorrente nel vano
sottotetto.
In particolare, le ragioni del diniego si sono appuntate
sulla impossibilità di accordare il provvedimento favorevole
a fronte di nuove volumetrie e superfici realizzate
dall’odierno appellante nella costruzione di un modesto
abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq
ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a
dare luce al vano sottotetto.
4.- Il Collegio è del parere che nei casi, come quello in
esame, in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano
tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia
funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad
una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela
del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede
di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la
compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici
espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in
senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta
valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e
nuovi volumi (cfr., in termini, Cons. St., VI, n. 5932 del
2014).
In linea preliminare, occorre muovere dalla rilevazione del
contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o
di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei
casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per
l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi
che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una
indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il
danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione.
La Soprintendenza non può tuttavia sottrarsi all’esame della
concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio
semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella
casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e
c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto
avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini
edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio
ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al
contesto, usa l’art. 167– l’abbaino di cui si controverte
sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano
sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie
evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto
non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante
nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua
valutazione in concreto e postuma di compatibilità
paesaggistica. Sarebbe stato cioè necessario, data la natura
di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di
compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e
concreta rispetto ai valori tutelati (cfr. in tali sensi
Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
5.- Non può dunque essere condiviso l’assunto
dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile
corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della
tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume
tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di
concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito
normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del
paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a
quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare
una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare
un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del
paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda
della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in
ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla
realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio, non è
suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m.
05.08.1994), dove la superficie
utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area
abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al
netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di
porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e
balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono
le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi
(cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale,
terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di
‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini
in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione
“superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per
giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta
preclusione normativa rispetto a una valutazione che va
invece ragionevolmente espressa in funzione della
essenzialità dell’abbaino di che trattasi, in modo da porlo
in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche
alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo
giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al
contesto paesaggistico tutelato.
Né da ultimo appare condivisibile quanto osservato dal Tar a
proposito della mancata allegazione, da parte
dell’interessato, di elementi probatori da cui desumere la
compatibilità paesaggistica dell’intervento, trattandosi di
valutazione riservata all’autorità preposta alla tutela del
vincolo, senza possibilità alcuna di inversione dell’onere
dimostrativo (in definitiva, è l’Autorità che deve
dimostrare l’eventuale incompatibilità dell’intervento
edilizio con i valori paesaggistici dei luoghi e non il
privato a comprovare in positivo la compatibilità).
6.- Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto
e, in riforma della impugnata sentenza ed in accoglimento
del ricorso di primo grado, va disposto l’annullamento
dell’atto gravato in prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di autorizzazione paesaggistica dell’ente
locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche,
deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della
legge n. 241 del 1990).
---------------
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina
sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi
vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di
effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni
compiute dall’ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di
merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell’autorizzazione».
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia
l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di
motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’opera.
In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per
difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli
organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per
vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare
l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di
merito che concludono per la non compatibilità delle opere
realizzate con i valori tutelati.
---------------
8.– Con un primo motivo, si deduce l’erroneità della
sentenza e l’illegittimità dell’atto impugnato nella parte
in cui non hanno rilevato come l’autorizzazione del Comune
fosse congruamente motivata anche mediante rinvio al parere
della commissione edilizia, con conseguente sovrapposizione
della valutazione effettuata dalla Soprintendenza a quella
dell’autorità preposta alla gestione del vincolo.
L’appello
rileva, inoltre, come la Soprintendenza motivi la propria
determinazione facendo riferimento alla mancanza di un
progetto di riqualificazione della cava, nel cui abito sono
collocate le opere, che esulerebbe dalle finalità cui è
preposto il parere della Soprintendenza stessa.
Il motivo è fondato.
L’atto di autorizzazione dell’ente locale, espressione
dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere
un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e
le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del
1990).
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina
sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi
vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di
effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni
compiute dall’ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di
merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell’autorizzazione» (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen.,
14.12.2001, n. 9; da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2012, n. 4562).
Tale limite sussiste, però, soltanto
se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia
adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in
ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso
contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o
insufficienza della motivazione e ben possono gli organi
ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio
di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso
di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità delle opere realizzate
con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI,
18.01.2012, n. 173; Id., 28.12.2011, n. 6885;
Id., 21.09.2011, n. 5292).
Nella fattispecie in esame, la vicenda sottoposta all’esame
del Collegio presenta profili di particolarità.
Il Comune di Maiori, richiamando il parere della commissione
edilizia integrata, ha rilasciato la prescritta
autorizzazione con le seguenti prescrizioni:
- obbligo di utilizzare «per il trattamento delle superficie
esterne intonaci tradizionali di colorazione compatibili con
il contesto paesaggistico circostante quale quello della
cava dismessa di Erchie»;
- «vengano comunque utilizzati materiali compatibili con
l’art. 26 della legge regionale n. 35 del 1987».
La Soprintendenza ha ritenuto che tale provvedimento
comunale fosse privo di adeguata motivazione.
In particolare, si è rilevato che gli immobili in questione,
essendo «ben visibili da numerosi punti di vista e di
belvedere perché di dimensioni consistenti, di tipologie
edilizia e rifinitura di modesto valore architettonico» sono
«dissonanti con il contesto paesaggistico e le peculiarietà
scandite» dal provvedimento di tutela e che «la proposta di
sanatoria è finalizzata al mantenimento dei manufatti così
come realizzati e funzionali all’attività svolta, per i
quali, tra l’altro, vengono proposti opinabili e non meglio
finalizzati interventi di manutenzione».
Svolta questa premessa, la Soprintendenza rileva che la
proposta «non è corredata da alcun progetto di
riqualificazione paesaggistica dell’area sulla quale
insistono, pure previsto ed incentivato dalla vigente
normativa regionale (l.r. n. 17/1995) e che l’area rimane
ancora testimone delle dismesse attività; né è possibile
condividere, al momento, la volontà (espressa dal solo
tecnico incaricato estensore della pratica di condono) di
avvio ad una ipotetica successiva fase progettuale la
riqualificazione generale dell’area». Si conclude affermando
che «quanto dichiarato in atti circa l’ipotesi di
riqualificazione non consente a questo ufficio di potere
valutare compiutamente l’ipotesi di condonabilità dei
predetti manufatti».
Da quanto sin qui esposto, risulta chiaramente come la
Soprintendenza fondi, essenzialmente, il diniego di
autorizzazione sulla mancanza di un progetto di
riqualificazione delle cave dismesse. Ma tale prescrizione
non rappresenta una condizione per l’ottenimento del
condono. L’amministrazione statale richiama genericamente la
legge della Regione Campania 13.04.1995, n. 17
(Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13.12.1985, n. 54, concernente la disciplina della coltivazione
delle cave e delle torbiere nella Regione Campania), la
quale ha modificato la legge della Regione Campania, 13.12.1985, n. 54 (Coltivazione di cave e torbiere).
Non
indica, però, alcuna specifica disposizione che condiziona
il rilascio dell’autorizzazione a fini del condono edilizio
alla previa presentazione di un progetto di riqualificazione
dell’area. In mancanza di un chiaro vincolo normativo, che
la Soprintendenza avrebbe dovuto individuare, la sua
valutazione si sarebbe dovuta limitare a valutare la
compatibilità degli interventi con l’attuale stato dei
luoghi.
Ed in relazione a tale ultimo profilo, come emerge
da quanto riportato, le valutazioni tecniche effettuate
dalla Soprintendenza sono generiche e comunque compatibili,
come del resto fatto dal Comune, con l’adozione di un
provvedimento favorevole con precise prescrizioni da
osservare.
In definitiva, dunque, a fronte di un atto comunale che, sia
pur in modo sintetico, ha valutato le opere con il contesto
paesaggistico effettivamente esistente subordinando il
rilascio del provvedimento al rispetto di puntuali
condizioni, la Soprintendenza ha annullato tale atto,
rilevando un difetto di motivazione, a cui però è seguita
una motivazione del provvedimento di annullamento fondata
principalmente su ragioni non ancorate ad un preciso
parametro legale di validità
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a
quella consentita (165 mq. rispetto a 83 mq.) esclude ex se
che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate
dalla nota Mibact 13.09.2010 prot. n. 1672, circolare
invocata, ossia della non percepibilità della modificazione
dell’aspetto esteriore.
---------------
E' legittimo che, in presenza di un abuso ictu oculi non
sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria
(ex art. 167 dlgs 42/2004) senza coinvolgere
l’Amministrazione dei beni culturali.
---------------
10. Parimenti infondato è il ricorso della sig.ra Sc..
11. La presentazione di un’istanza di sanatoria, respinta
dal Comune di Assisi, con ordinanza n. 312, prot. 30027, del
05.08.2010, avverso la quale l’interessata propose, in primo
gado, motivi aggiunti, dimostra la piena consapevolezza
dell’abusività (sia pure parziale) dell’opera.
12. Il ricorso in appello può ricondursi a un’unica censura:
l’aver il comune adottato il diniego di sanatoria senza
sottoporla al preventivo parere della competente
soprintendenza.
Anche nel giudizio d’appello la parte invoca la nota del
Ministero del beni culturali 13.09.2010, prot. n. 16721 che,
a suo giudizio, dichiara paesaggisticamente irrilevanti gli
interventi non percepibili e visibili.
Orbene in tale nota si afferma che “la non percepibilità
della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto
elide in radice la sussistenza stessa dell’illecito
contestato”.
“Ove addirittura l’incremento di volume o di superficie
(che dovrà per forza di cose essere di minima entità) non
risulti neppure visibile, allora dovrà evidentemente
ritenersi insussistente in radice l’illecito e, dunque, la
domanda di sanatoria dovrà (a rigore) essere dichiarata
inammissibile, e ciò non già perché osti al suo eventuale
accoglimento la carenza del sopra detto presupposto negativo
per la sanatoria, bensì perché trattasi in realtà di
illecito insussistente, per non essere dovuta <a monte> la
stessa autorizzazione paesaggistica, in presenza di un
intervento obiettivamente incapace di introdurre
<modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione>, in quanto
oggettivamente non percepibile”.
Le opere oggetto del procedimento sono quelle indicate al §
1.
Parte appellante sostiene l’erroneità delle dimensioni
dell’abuso indicate nell’originario provvedimento impugnato
in quanto:
- la parte autorizzata del piano fuori terra non è di mq. 48
come affermato nell’ordinanza, ma di mq. 83, come da
progetto approvato in quanto va aggiunta anche la tettoia di
mq. 35,
- la parte interrata autorizzata non è di mq. 112, ma
aggiunte le intercapedini di mq. 66, l’autorizzato risulta
di mq. 178 come dall’ultimo progetto in variante presentato;
- non vi è stato mutamento della destinazione d’uso
dell’annesso agricolo in abitativo, in quanto il manufatto è
rurale, non avendo le caratteristiche e le condizioni per
essere definito abitabile.
Orbene, nell’originario provvedimento impugnato il piano
fuori terra veniva indicato con una dimensione di mq 165,
rispetto ad una superficie autorizzata di mq 48: quindi il
triplo del consentito.
Anche ad ammettere quanto sostenuto dall’appellante (ossia
che la costruzione autorizzata era di 83 mq), si ha pur
sempre un abuso consistente in una realizzazione doppia
rispetto a quella consentita (165 rispetto a 83).
Tale circostanza esclude ex se che la fattispecie
possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla circolare
invocata, ossia della non percepibilità della modificazione
dell’aspetto esteriore.
Né può contestarsi che, in presenza di un abuso ictu
oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza
di sanatoria senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni
culturali.
13. In conclusione entrambi gli appelli vanno rigettati con
compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
rispetto, o meno, dei termini di 45 gg., 90 gg. e 180 gg. ex
art. 146 e art. 167 dlgs. 42/2004.
Qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni
stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il
paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua
a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al
giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale».
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la
sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze)».
Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo».
La giurisprudenza più recente di questa Sezione,
nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento
ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine
assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di
rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde
il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente
e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al
rilascio del titolo.
In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine
di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso
il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso
dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine
fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
---------------
... per la riforma della
sentenza
n. 2848 del 15.12.2010 del TAR per la Puglia,
Sezione Staccata di Lecce, Sez. I, resa tra le parti, concernente il diniego di
autorizzazione paesaggistica per la sanatoria di opere
edilizie.
...
6.- Passando al merito dell’appello, si deve ricordare che l’art. 146,
comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, recante il
Codice dei beni culturali e del paesaggio, dopo aver
ricordato che l'autorizzazione paesaggistica costituisce
atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di
costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, stabilisce che al di fuori dei
limitati casi «di cui all'articolo 167, commi 4 e 5,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi».
6.1.- L’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede
quindi il possibile accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al successivo
comma 5, solo nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
6.2.- Se le opere rientrano in una delle tipologie indicate,
il comma 5 dell’art. 167 prevede che «il proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o
dell'area interessati dagli interventi … presenta apposita
domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai
fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica
degli interventi medesimi. L'autorità competente si
pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di
centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di
novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità
paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una
somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato
e il profitto conseguito mediante la trasgressione».
7.- Con riferimento alla questione, oggetto della sentenza
di primo grado, riguardante il rispetto del termine
assegnato alle suindicate amministrazioni per l’esercizio
della funzioni loro assegnate ai fini della valutazione
della possibile compatibilità paesaggistica delle opere per
le quali è stata chiesta la sanatoria, questa Sezione ha
affermato che, qualora non sia rispettato il termine di
novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice
per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale
«continua a sussistere … ma l’interessato può proporre
ricorso al giudice amministrativo, per contestare
l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale»
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013).
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la
sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze)». Quindi, «nel caso di superamento del medesimo
termine (e così come avviene nel caso di superamento del
termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art.
167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché
nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni,
fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato
né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di
silenzio qualificato o significativo» (Consiglio di Stato,
Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013 cit.).
7.1.- La giurisprudenza più recente di questa Sezione,
nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento
ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine
assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di
rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde
il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente
e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al
rilascio del titolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2136
del 27.04.2015).
7.2.- In conseguenza il superamento del sopra richiamato
termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso
il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso
dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine
fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
8.- Facendo applicazione di tali principi l’appellata
sentenza del TAR di Lecce deve essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1935 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedimenti di rinnovo delle dichiarazioni di interesse culturale pregresse, emanate ai sensi delle leggi nn. 36 del 1909 e 1089 del 1939, del decreto legislativo n. 490 del 1999 e del d.P.R. n. 283 del 2000 per autorizzazioni all'alienazione - parere (MIBACT,
nota 06.05.2016 n. 13589 di prot.). --------------- Si riscontra la nota di codesto Segretariato prot. 4896 del 16.07.2015, con la quale si chiedono chiarimenti circa la necessità di procedere al rinnovo della dichiarazione di interesse culturale, mediante la procedura di verifica prevista dall'art. 12 del codice di settore, per gli immobili di proprietà dei soggetti di cui al comma 1 dell'art. 10 del codice, per i quali sussiste già un provvedimento adottato ai sensi delle previgenti leggi in materia, al fine del rilascio dell'autorizzazione all'alienazione. Al riguardo, codesto Ufficio evidenzia che, se da un lato il comma 2, lettera a), dell'art. 54 del codice richiede la conclusione del procedimento di verifica per poter autorizzare l'alienazione, dall'altro l'interpretazione analogica dell'art. 128, riferito ai beni privati, potrebbe far ritenere non necessaria la preventiva verifica in caso di provvedimento dichiarativo adottato con decreto ai sensi della legge n. 1089 del 1939, e leggi successive, regolarmente trascritto presso la competente Agenzia del territorio. Al riguardo, si rappresenta quanto segue. (...continua). |
aprile 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità
preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi.
L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il
termine perentorio di centottanta giorni, previo parere
vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine
perentorio di novanta giorni […]”.
Di talché, qualora non sia rispettato il termine di novanta
giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il
paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a
sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque
disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può
proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare
l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la
perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento
(obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5.
---------------
4. - Con il primo motivo di appello il signor Casella ha
censurato il capo di sentenza che ha respinto la censura di
illegittimità del parere in quanto rilasciato oltre il
termine perentorio di novanta giorni.
4.1 - Il primo giudice ha respinto il motivo rilevando che:
“Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non
sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal
mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma
5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi
alcuna decadenza del potere della Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del
termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì
l’obbligo di concludere la fase del procedimento. A
corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è
che il provvedimento conclusivo del procedimento deve
comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è
spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs.
cit. (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 18.09.2013
n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013 n.
1681)”.
4.2 - Con il primo motivo di appello, l’appellante rileva
che il parere impugnato è stato emesso tardivamente (dopo
108 giorni): pertanto, esso sarebbe nullo avendo perso
l’Amministrazione il potere di rilasciarlo, e comunque detto
atto –ove pure fosse ritenuto valido– non sarebbe più
stato vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione
Comunale avrebbe dovuto motivare autonomamente la propria
determinazione non potendo limitarsi a richiamare il parere
della Soprintendenza.
4.3 - Il Comune di Portovenere ha replicato che –ove detto
parere dovesse ritenersi non vincolante– il ricorso sarebbe
inammissibile trattandosi di atto endoprocedimentale.
4.4. - La difesa della società Rai Way, invece, ha
sottolineato l’infondatezza della censura richiamando il
costante orientamento della giurisprudenza.
4.5 - La doglianza non può essere accolta.
Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal
primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta
Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone
che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia
rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art.
167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere
dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo
comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
Ne consegue l’infondatezza della censura
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume
tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima:
come tali non generano alcun aumento di carico territoriale
o di impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce
quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione
paesistica postuma.
---------------
6. - Con il quarto
motivo di appello l’appellante ha reiterato le censure
assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione
dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004,
sottolineando come l’accertamento di compatibilità
paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori
realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione
paesaggistica che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati”, rilevando che nel caso di
specie, invece, vi sarebbe stata la realizzazione di volumi
consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati
sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico”
trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non
generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto
visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n.
1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce
quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione
paesistica postuma
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Realizzazione di un guado temporaneo sul Fiume
... in Comune di .... Risposta a richiesta parere
(Regione Emilia Romagna,
nota 14.04.2016 n. 267817 di prot.).
---------------
In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita
agli atti di questo Ufficio, con la quale si chiede parere
alla Regione, in quanto ente delegante dell’esercizio della
funzione autorizzatoria, in merito all’assoggettamento alla
autorizzazione paesaggistica di un manufatto consistente in
un guado temporaneo sul fiume ..., la cui funzione è
finalizzata esclusivamente a permettere il trasposto di
materiali per la realizzazione di un impianto di energia
rinnovabile idroelettrica in Comune di ..., e solo per il
periodo necessario al compimento di tale opera, si rileva
quanto segue. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rapporti tra autorizzazione paesaggistica e permesso di
costruire.
L'autorizzazione paesistica, essendo
finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene
costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e
culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un
provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti
autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece
volti ad assicurare la corretta gestione del territorio,
sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata
di esso in una visione unitaria e complessiva, con la
conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due
provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le
volte in cui manchi la relativa autorizzazione dell'autorità
preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla
rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla
tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in
ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle
rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo
senso e non anche, come necessario, anche ai fini
paesaggistici.
----------------
3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato,
essendo risultato incontroverso che il ricorrente realizzò
il fabbricato senza aver ottenuto alcun titolo abilitativo.
In particolare, per quanto concerne il reato paesaggistico,
la costruzione fu realizzata senza che fosse stata mai
rilasciata la necessaria autorizzazione da parte del
competente ufficio della Regione sarda, cosicché è stato
correttamente ritenuto del tutto irrilevante il fatto che
l'imputato avesse confidato nella definizione delle
procedure concernenti l'approvazione del piano di
lottizzazione, cui era subordinato il rilascio del permesso
a costruire e dunque la legittima edificazione dei singoli
edifici, posto che le disposizioni in materia urbanistica e
paesaggistica prevedono tassativamente che le opere edilizie
possano essere realizzate soltanto dopo il rilascio dei
preventivi provvedimenti abilitativi da parte delle
amministrazioni competenti, laddove invece il ricorrente ha
comunque dato corso alle opere in assenza della prescritta
autorizzazione paesistica.
Sono pertanto del tutto irrilevanti le obiezioni formulate
dal ricorrente, anche sotto il profilo del difetto di
motivazione, avendo la Corte d'appello fatto buon governo
del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità
secondo il quale l'autorizzazione paesistica, essendo
finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene
costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e
culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un
provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti
autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece
volti ad assicurare la corretta gestione del territorio,
sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata
di esso in una visione unitaria e complessiva, con la
conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due
provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le
volte in cui manchi, come nella specie, la relativa
autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela
dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la
stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli
interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della
pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme,
una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche,
come necessario, anche ai fini paesaggistici (Sez. 3, n.
23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229437).
Deriva da ciò anche la legittimità dei provvedimenti
sanzionatori di tipo amministrativo di rimessione in
pristino dello stato dei luoghi disposti dal giudice penale
per la violazione della normativa paesaggistica (tratta da
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, sez. III penale,
sentenza 14.04.2016 n. 15466). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
F. Aperio Bella,
Il silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (il nuovo
art. 17-bis della l. n. 241 del 1990) (08-09.04.2016
- tratto da www.diritto-amministrativo.org).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il problema
dell’applicazione dell’art. 17-bis agli atti di assenso
delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi
sensibili – 3. I rapporti tra l’art. 17-bis e la conferenza
di servizi – 4. Il nodo del rispetto delle autonomie
regionali – 5. Considerazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA: La visione aerea satellitare non vieta il nuovo sottotetto.
Non si possono «cristallizzare» i luoghi in virtù della
tecnologia.
Tar di Brescia. Sì alla modifica: il paesaggio va tutelato
in base alla normale percepibilità.
La modifica di
un sottotetto non può trovare ostacolo nella visione aerea
da Google, quando si discute di tutela dei beni ambientali:
lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia (Sez. I,
ordinanza 04.04.2016 n. 270),
chiarendo i rapporti tra privati e Soprintendenza al
paesaggio.
Il proprietario di un sottotetto in zona
paesistica vincolata, avrebbe potuto rendere abitabili i
luoghi realizzando un terrazzo “a tasca” (detto anche “ad
asola”), con aperture di 5 e di 2 metri: in tal modo infatti
sarebbe stato raggiunto l’indice minimo aeroilluminante per
i locali sottostanti.
La Soprintendenza, competente per l’autorizzazione (articolo
146 del Dlgs 42/2004), si è, tuttavia, opposta osservando
che l’innovazione sarebbe stata visibile da percorsi
pedonali e carrabili di una collina sovrastante. Inoltre,
era anche possibile la visione satellitare del terrazzo.
Appunto su quest’ultimo argomento il Tar si è pronunciato in
modo innovativo, osservando che la visione satellitare si
affermerà in futuro, probabilmente, come la principale forma
di fruizione delle bellezze paesistiche, consentendo ad un
numero indeterminato di persone di accedere ad immagini
attraverso Internet.
Tuttavia oggi, da tale cambiamento del
pubblico che fruisce del paesaggio, non deriva un vincolo di immodificabilità rafforzato, sui luoghi osservabili. Anche
questo nuovo tipo di visione, secondo i giudici, va
collocato in una scala di valori che riguardano il pregio
paesistico, pregio che deve essere sempre riferito ad un
insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo
piano.
Il giudice ha quindi imposto alla Sovrintendenza di
pronunciarsi nuovamente, semmai imponendo eventuali misure
di mitigazione dell’intervento edilizio.
In altri termini,
secondo il Tar, il paesaggio va tutelato in coerenza a una
normale percepibilità; la dimensione del bene da tutelare
deve continuare a essere quella del passante, del turista,
dell’amante dell’arte o del paesaggio; occorre immedesimarsi
nel progettista che a suo tempo ha ideato i luoghi generando
armonia e qualità, e da tutto ciò può derivare una corretta
tutela paesistica.
Tutela che può esprimersi anche attraverso un divieto
assoluto di modifica (impedendo un’alterata percezione dei
luoghi), ma senza giungere ad un’assoluta cristallizzazione
dei luoghi causata dell’evolversi di tecnologie (visioni
aeree, uso di droni, elevata risoluzione delle immagini)
focalizzando dettagli non usualmente percepibili.
Nella
tutela del paesaggio, fino ad oggi, problemi del genere sono
emersi quando si è inteso modificare l’interno di
costruzioni in zone vincolate quali cantine, ambienti e
suddivisioni interne, solai o murature interne prive di
pregio specifico: per interventi su tali elementi edilizi,
ad esempio, il vincolo derivante da distanza dal mare (300
metri) è stato ritenuto irrilevante (Tar Lecce 321/2014,
Firenze 671/2014).
Anche il modesto innalzamento di un solaio di copertura può
risultare irrilevante sotto l’aspetto paesaggistico (se di
40 centimetri: Tar Brescia 39/2015, Consiglio di Stato
3676/2013), mentre se il vincolo è storico-artistico, genera
immodificabilità assoluta. A seconda quindi del tipo di
vincolo e della percezione che si vuole garantire, i giudici
ritengono necessaria una scala graduata, che non può essere
alterata dalla tecnologia e dai dettagli delle visioni
aeree, nel senso che il paesaggio è un valore complessivo
che non si accresce per la sola migliore osservabilità
consentita dalla tecnologia (articolo Il Sole 24 Ore del
28.04.2016).
--------------
MASSIMA
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile dello Sportello Unico
dell’Edilizia del 24.12.2015, con il quale è stata negata
l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero
del sottotetto di un edificio situato in viale Venezia;
- del parere negativo vincolante della Soprintendenza del
22.12.2015, con il quale è stata dichiarata l’assenza di
compatibilità paesistica ex art. 146, comma 5, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42;
...
Considerato a un sommario esame:
1. I ricorrenti hanno chiesto al Comune di Brescia in data
11.05.2015 l’autorizzazione paesistica per un intervento di
recupero del sottotetto in un edificio situato in viale
Venezia. Il progetto prevede anche la realizzazione di due
tasche nella copertura (rispettivamente di metri 5,00x1,70 e
2,40x1,10) allo scopo di assicurare il raggiungimento dei
rapporti aeroilluminanti nei locali del sottotetto.
2. Sull’area grava il vincolo paesistico posto dal DM
07.05.1952.
3. La Commissione comunale per il paesaggio ha espresso
parere favorevole in data 10.09.2015, dopo aver preso atto
di alcune modifiche progettuali che hanno ridimensionato
l’impatto dell’intervento. È stato prescritto il
mantenimento dell’orditura e dei caratteri architettonici
della gronda.
4. La Soprintendenza, in data 22.12.2015, ha invece espresso
parere vincolante negativo ai sensi dell’art. 146, comma 5,
del Dlgs. 22.01.2004 n. 42. Secondo la Soprintendenza vi
sarebbero le seguenti criticità:
(i) le tasche nella copertura non sono elementi architettonici
tradizionali, e provocherebbero la perdita della leggibilità
dell’insediamento storico-paesistico;
(ii) l’innovazione sarebbe visibile dai percorsi pedonali e
carrabili, e in particolare dalla collina sovrastante. Nella
relazione depositata il 23.03.2016 la Soprintendenza
sottolinea che non sarebbe comunque possibile escludere la
visione mediante satelliti, accessibile da ogni parte del
pianeta.
5. Il Comune si è adeguato, e con provvedimento del
responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del
24.12.2015 ha negato l’autorizzazione paesistica.
6. Il ricorso richiama le valutazioni dell’arch. Au.Lo.,
esposte nella relazione del 12.02.2016. In particolare, la
relazione mette in evidenza i seguenti aspetti:
(i) i percorsi pedonali e carrabili della collina non consentono di
osservare agevolmente la zona in questione;
(ii) l’impatto visivo delle tasche nella copertura è completamente
diluito nella visione d’insieme dai punti panoramici e
dall’alto;
(iii) ben 6 dei 14 edifici che compongono l’isolato sono dotati di
aperture a tasca nella copertura.
7. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le
seguenti osservazioni:
(a) la leggibilità del paesaggio urbano
tradizionale presuppone la conservazione di una pluralità di
elementi (forma e orditura della gronda, materiali, colori),
ma non di tutte le caratteristiche storicamente attestate in
un gruppo di edifici. Il giudizio di leggibilità è dato
infatti dall’insieme degli elementi caratterizzanti. La
modifica di uno di questi può essere bilanciata e
riassorbita nell’immagine complessiva grazie alla
persistenza degli altri;
(b) occorre poi sottolineare che le innovazioni
necessarie per garantire gli attuali standard
igienico-sanitari delle abitazioni sono maggiormente
accettabili, in un giudizio estetico aggiornato, rispetto a
innovazioni voluttuarie e frivole;
(c) la presenza di tasche nelle coperture di quasi
la metà degli edifici che compongono l’isolato permette
tuttora di apprezzare il pregio architettonico della zona.
Non sembra quindi ragionevole ritenere che le due nuove
aperture a tasca progettate dai ricorrenti possano alterare
l’equilibrio generale;
(d) al contrario, appare evidente che in una
visione d’insieme, e quindi da lontano, come è necessario
nel giudizio paesistico, le aperture a tasca di modeste
dimensioni sono diluite nel paesaggio e non sono percepibili
come elementi di interruzione o disturbo;
(e) infine,
è verosimile che la visione satellitare possa
affermarsi in un prossimo futuro come la principale forma di
fruizione delle bellezze paesistiche, in considerazione del
numero di persone in grado di accedere alle immagini da ogni
parte del mondo via Internet. Da tale cambiamento nella
composizione del pubblico non deriva però un vincolo di
immodificabilità rafforzato a carico dei luoghi osservabili.
Anche in questo nuovo tipo di visione, infatti, è necessario
individuare una scala alla quale collegare il giudizio
paesistico, che è sempre riferito a un insieme complesso e
non a singoli dettagli messi in primo piano.
8. Sussistono quindi i presupposti per concedere una misura
cautelare sospensiva e propulsiva. Sospesi i provvedimenti
impugnati, vi è l’obbligo per la Soprintendenza di
riesaminare la domanda di autorizzazione paesistica, nel
rispetto delle indicazioni sopra esposte, e garantendo il
contraddittorio con i ricorrenti. Il riesame è diretto in
particolare a definire eventuali misure di mitigazione
dell’intervento edilizio. Il termine ragionevole per tale
adempimento è fissato in 120 giorni dal deposito della
presente ordinanza. |
marzo 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione
complessiva e non atomistica degli interventi posti in
essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto
urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio.
---------------
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione.
---------------
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano
Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot.
n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente,
relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale
in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere
pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate
unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che
l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come
consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come
tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al
previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più
qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria
non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione,
irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non
soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione
paesaggistica perché costituente un intervento edilizio
minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone
una visione complessiva e non atomistica degli interventi
posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato
all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014,
n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n.
5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Solare free sui tetti.
«Libera» l'installazione di pannelli solari negli immobili
ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente, con la
sottrazione al controllo autorizzativo paesaggistico. Ma
questo nel solo caso in cui il posizionamento degli impianti
sul tetto o sul lastrico solare sia tale da non poter essere
visibile dall'esterno.
Questo è quanto si legge nella
nota 15.03.2016 n. 7716 di prot. del Ministero
dei beni culturali in merito all'installazione di impianti
solari fotovoltaici con il modello unico negli immobili
ricadenti in aree tutelate paesaggisticamente.
Ricordiamo che il decreto del ministro dello sviluppo
economico 19.05.2015 ha introdotto l'iter semplificato
(cosiddetto modello Unico) per la realizzazione, la
connessione e l'esercizio di nuovi impianti fotovoltaici per
i quali sia richiesto contestualmente l'accesso al regime
dello scambio sul posto.
I produttori interessati dovranno pertanto interfacciarsi
esclusivamente con i gestori di rete per inoltrare il
modello Unico
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Impianti solari termici o
fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti — Decreto
ministeriale 19.05.2015, recante: "Approvazione del
modello unico per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui
tetti degli edifici" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota
15.03.2016 n. 7716 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n. 581 del 15 febbraio con la
quale codesta Direzione, riprendendo i contenuti della
precedente richiesta del 21.12.2015, prot. n. 31357, chiede
l'avviso di questo Ufficio relativamente alla corretta
interpretazione da darsi, nel caso di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica per l'installazione di
impianti solari fotovoltaici, alle normative di settore per
lo sviluppo dell'efficientamento degli usi finali
dell'energia negli immobili ricadenti in aree tutelate
paesaggisticamente.
Le richieste di parere derivano dalle sollecitazioni
provenienti, nel primo caso, dalla Regione Lombardia
relativamente all'applicazione del Decreto ministeriale,
adottato dal Ministro dello Sviluppo economico il 19.05.2015
a seguito di quanto disposto dall'articolo 7-bis del decreto
legislativo n. 28 del 2011, recante: "Approvazione del
modello unico per la realizzazione, la connessione e
l'esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui
tetti degli edifici", e, nel secondo caso, dalla
Soprintendenza Belle arti e paesaggio di Alessandria che,
nello specifico, fa riferimento alla sentenza n. 1946/2014,
con la quale il TAR Piemonte perviene alla conclusione di
considerare esclusi dalla necessità di acquisire
l'autorizzazione paesaggistica gli impianti in argomento, se
non già ricadenti in aree dichiarate ai sensi dell'articolo
136 del Codice, lett. b) e c). (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Marostica (Vicenza),
dichiarazione di notevole interesse pubblico del centro
storico — decreto dirigenziale generale 22.02.2012 —
art. 146, comma 5, decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
11.03.2016 n. 7457 di prot.).
-----------------
La Direzione regionale per i beni culturali e
paesaggistici del Veneto, con nota prot. 10576 del
27.06.2014, integrata con nota prot. 12648 del 30.07.2014,
ha formulato specifico quesito in ordine agli effetti
giuridici in materia di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica che deriverebbero dall'adeguamento degli
strumenti urbanistici comunali alle prescrizioni d'uso
contenute nella dichiarazione d'interesse pubblico in
oggetto, all'esito della positiva verifica da parte del
Ministero.
A tal fine la suddetta Direzione ha precisato che la
componente prescrittiva di cui alla dichiarazione di
interesse pubblico de qua presenta un grado di dettaglio
equivalente a quello attribuito alle specifiche prescrizioni
d'uso di cui all'art. 143, comma 1, lett. b), del codice di
settore.
Il quesito riveste portata generale a fronte della mutata
natura (obbligatoria non vincolante, così detta "dequotazione")
che assume il parere del Soprintendente nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'art. 146, comma
5, del codice, in correlazione all'approvazione delle
prescrizioni d'uso dei beni paesaggisticamente tutelati e
alla positiva verifica da parte del Ministero dell'avvenuto
adeguamento degli strumenti urbanistici. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Torino - immobili
demaniali di proprietà della città metropolitana denominati
"Palazzo della Prefettura" e "Caserma Chiaffredo Bergia" —
dichiarazione dell'interesse culturale particolarmente
importante di cui all'art. 10, comma 3, lett. d), del
decreto legislativo n. 42 del 2004 - conferimento a Invimit
Sgr S.p.A. (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
04.03.2016 n. 6747 di prot.).
---------------
Si riscontra il quesito di cui alla nota prot. 14325 del
09.12.2015 della Soprintendenza Belle arti e paesaggio per
il comune e la provincia di Torino, trasmessa a questo
Ufficio a cura del Segretariato generale con nota prot. 467
del 15.01.2016, in ordine alla legittimità del conferimento
a Invimit Sgr S.p.A. degli immobili demaniali di proprietà
della Provincia, ora città metropolitana, di Torino
denominati "Caserma Chiaffredo Bergia" e "Palazzo della
Prefettura", dichiarati di interesse culturale
particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3,
lett. a) e d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con
decreti del Direttore regionale per i beni culturali e
paesaggistici del Piemonte adottati, rispettivamente, in
data 09.08.2013 e 10.10.2013.
La società di gestione del risparmio Invimit Sgr S.p.A. è
stata costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze
secondo le previsioni dell'art. 33 del decreto-legge n. 98
del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111
del 2011, per l'istituzione di uno o più fondi
d'investimento al fine di partecipare in fondi
d'investimento immobiliare chiusi, promossi o partecipati da
regioni, province, comuni, ed altri enti pubblici, o da
società interamente partecipate dai medesimi, al fine di
valorizzare e dismettere il proprio patrimonio immobiliare
disponibile.
Lo scrivente Ufficio ha già chiarito con precedente parere
(nota prot. 6328 del 19.03.2015) l'assoggettamento delle
alienazioni di beni immobili pubblici in favore della
società Invimit al regime autorizzatorio previsto dalla
Sezione I del Capo IV della Parte II del codice di settore.
L'art. 54 del codice, come è noto, prevede l'inalienabilità
dei beni del demanio culturale dichiarati di interesse
particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, comma 3,
lett. d) del codice; i beni inalienabili possono essere
oggetto di trasferimento esclusivamente tra gli enti
pubblici territoriali ed essere utilizzati solo secondo le
previsioni del Titolo II (dedicato alla fruizione e
valorizzazione) della Parte II del codice. Ne consegue la
conclusione della inalienabilità, allo stato, in favore di
Invimit SGR S.p.A. degli immobili de quibus, gravati da
vincolo storico-identitario. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
"Castellamare di Stabia (Napoli), località Collina di Varano. Istanze del
Comune e di privati finalizzate a rideterminare i
provvedimenti di tutela diretti" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota
02.03.2016 n. 6433 di prot.).
---------------
Con nota prot. 17789 del 07.11.2014 la Soprintendenza di
Pompei formulava un quesito in ordine alla corretta
procedura da adottare in seguito alle istanze di privati e
enti finalizzate a rideterminare, in presenza di manufatti
abusivi, i vincoli diretti, adottati con decreti
ministeriali ai sensi della legge n. 1089 del 1939, gravanti
sulla collina di Varano.
Tali vincoli risulterebbero particolarmente estesi e non
corredati da planimetrie dei resti archeologici, secondo la
prassi dell'epoca. La collina di Varano sarebbe interessata
nella sua totalità non solo dalla presenza di tre ville
monumentali parzialmente riportate alla luce, ma anche da
assi viari antichi e numerosi altri rinvenimenti che nel
loro insieme testimoniano l'esistenza dell'antica città di
Stabiae.
Il Comune di Castellamare, a fronte di numerose istanze di
condono, avrebbe manifestato l'intenzione di sottoscrivere
un protocollo d'intesa con la Soprintendenza finalizzato a
eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti, anche
ricorrendo all'utilizzo di indagini geoarcheologiche atte a
determinare l'esistenza o meno di resti antichi,
legittimanti la permanenza dei provvedimenti. Pendono
inoltre avanti il Giudice amministrativo una decina di
ricorsi per l'annullamento di alcuni dei vincoli, in ordine
ai quali la Soprintendenza, con la rappresentanza
dell'Avvocatura dello Stato, avrebbe predisposto idonee
argomentazioni difensive.
La Soprintendenza chiede a questo Ufficio di esprimersi
sulla legittimità della sottoscrizione del protocollo
d'intesa, nelle more della definizione dei giudizi
amministrativi, nonché sulle iniziative da avviare
nell'ipotesi in cui i saggi geoarcheologici diano esito
negativo. (...continua). |
febbraio 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: Quanto
all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4
e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover ribadire
quanto già affermato e cioè che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè,
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella
prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al
fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dalla SOCIETÀ “PA. DE LA SU.” s.r.l. e
dalla SOCIETÀ RE. LA SU. s.r.l., in persona dei legali
rapp.ti p.t., rispettivamente En.Ma.De. e Gi.Gu.Ri.Pa.Be., per l’annullamento,
previa adozione di idonee misure cautelari, della
determinazione del Responsabile del Servizio Tecnico del
Comune di Casole d’Elsa dell’08.01.2013 n. 42, avente ad
oggetto il diniego definitivo della richiesta di permesso di
costruire in sanatoria; della comunicazione del diniego del
Responsabile del Servizio Urbanistica ed Edilizia Privata prot. n. 173 dell'08.01.2013; della nota della
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di
Siena e Grosseto n. 16933 del 10.11.2011 e di ogni
altro atto connesso, conseguente o presupposto.
...
Il ricorso è, in parte, infondato, in parte, inammissibile.
Come dichiarato dalle stesse ricorrenti, l'area interessata
dagli interventi edilizi descritti ricade all’interno della
perimetrazione S.I.R. n. 89 “Montagnola Senese”, in zona
sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico ai sensi della
parte III, Titolo I, del D.Lgs. 42/2004.
L'autorizzazione in ordine alla richiesta di permesso di
costruire in sanatoria era, pertanto, subordinata al
rilascio del prescritto parere da parte dell’Amministrazione
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Tale parere,
avente natura giuridica di condizione ostativa e di
presupposto indefettibile per la concessione edilizia in
sanatoria, comporta una verifica da parte della Regione o
dei comuni delegati e, in sede di controllo dal Ministero
per i beni e le attività culturali, della compatibilità
dell’intervento con gli interessi paesaggistici e ambientali
dell’area sottoposta a tutela (Consiglio di Stato, Sez. II,
09.03.2011, n. 104/2011).
Nel caso di specie, la competente Soprintendenza ha ritenuto
la richiesta delle società interessate improcedibile,
rilevando, sulla base della documentazione esaminata, che
sono stati realizzati interventi, che, contrariamente a
quanto affermato dalle ricorrenti, hanno comportato degli
incrementi di superficie utile e di volume. In quanto tali,
i suddetti interventi non rientrano tra quelli per i quali,
ai sensi dell'art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004, è
possibile accertare la compatibilità paesaggistica in luogo
della demolizione.
In altri termini, le citate circostanze
precludevano, la possibilità per la Soprintendenza di
esprimere un parere favorevole sulla compatibilità
paesaggistica di detta opera, atteso che l’art. 167, comma
4, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 ammette la
possibilità di sanare le opere realizzate su un'area
vincolata paesaggisticamente, in assenza di titolo
abilitativo, solamente qualora le stesse "non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati".
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167,
commi 4 e 5, questo Consiglio di Stato ritiene di dover
ribadire quanto già affermato nella sentenza della Sezione
VI, 24.09.2012, n. 5066/2012 (vds. anche Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e, cioè,
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167,
nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante
la classificazione dei volumi edilizi, che si suole fare al
fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 523 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il dato di fatto che
l'area di
trasformazione sia inclusa
nell’area di notevole interesse culturale
determina l’applicazione, alla
fattispecie in esame, del disposto di cui all’art.
16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del
quale i piani particolareggiati nei quali siano
comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla
legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti
alla competente Soprintendenza.
---------------
Deve rilevarsi che l’esistenza di insediamenti
produttivi in una data area non è incompatibile con
la dichiarazione di notevole interesse pubblico
della stessa, posto che la tutela paesaggistica non
impedisce in modo assoluto qualsiasi attività umana
di fruizione o di trasformazione del territorio.
---------------
Se è vero che il piano attuativo non deve essere
sottoposto a VAS, qualora lo strumento urbanistico
sia già stato vagliato sotto il profilo della
valutazione ambientale strategica, non altrettanto
può concludersi quanto al parere della
Soprintendenza (ex art. 16,
comma 3, della L. n. 1150/1942)
in casi di area dichiarata di notevole interesse
pubblico, la cui necessità prescinde dall’avvenuta
sottoposizione a VAS dello strumento urbanistico.
---------------
FATTO
Con deliberazione del consiglio comunale n. 3 del
17.02.2010, il Comune di Vizzolo Predabissi ha
approvato il Piano di Governo del Territorio, che ha
individuato, tra le altre, l'area di trasformazione
denominata AT6.
Il comparto, che ha una superficie territoriale di
circa mq 20.000, si sviluppa ad occidente della
Strada Provinciale n. 39 (detta anche Strada
Provinciale della Cerca) e si estende sino al
confine ovest del Comune di Vizzolo Predabissi. A
settentrione, l'ambito confina con il distributore
di benzina posto in fregio alla SP39 e con l'area di
proprietà Ku.It., attiva nell'ambito della
produzione e commercializzazione di macchine
agricole.
Il Documento di Piano stabilisce che "l'area di
trasformazione AT 6 ha vocazione terziaria. Sono
ammissibili attività ricettive e commerciali nella
misura non superiore al 40% della potenzialità
edificatoria di mq 6.000 di Slp consentita alla
iniziativa privata. Il 50% dell'area o un area che
consenta un insediamento pari a quello della
iniziativa privata con un It < 0,6 mq/mq di Slp deve
essere ceduto al Comune per la realizzazione della
sede ASL ed ARPA o altro servizio di interesse
pubblico. Lo strumento esecutivo è il Programma
Integrato di Intervento. Le aree per servizi devono
essere pari al 100% della Slp di cui almeno il 50%
destinati a parcheggi e realizzato anche nel
sottosuolo".
La scheda di approfondimento n. 6 della VAS indica
che l’area AT6 si inserisce in un contesto di pregio
paesaggistico, vincolato ai sensi del D.lgs. 42/2004
come “bellezze d’insieme”, pur precisando,
quanto alla sensibilità paesistica del comparto, che
"secondo la classificazione comunale, l'area AT6
è in classe MOLTO BASSA".
Invero l’area è inclusa, in forza del decreto del
Presidente della Regione Lombardia n. 1351 del
28.03.1984 nell’elenco delle località da sottoporre
a tutela paesistica, in quanto avente notevole
interesse pubblico, ai sensi della L. 1497/1939.
Con istanza del 23.04.2013, l'Impresa Za. s.r.l. ha
richiesto all'Amministrazione comunale un parere
preventivo circa l'assentibilità del Piano Integrato
di Intervento relativo all'area di trasformazione
AT6, precisando che "si andranno ad edificare tre
corpi di fabbrica a destinazione prettamente
commerciale. Le superfici edificatorie previste dal
vigente piano non vengono saturate nella globalità e
di conseguenza anche le cessioni delle aree e degli
standard saranno in rapporto all'edificato".
Il Progetto prevede infatti la realizzazione di tre
corpi di fabbrica collocati parallelamente alla
strada provinciale SP39. Il primo lotto, posto più a
Nord, a confine con il distributore di carburanti
esistente e con il capannone Ku., è destinato ad
essere ceduto all'Amministrazione affinché vi insedi
i servizi previsti dalla scheda d'ambito. Gli altri
due lotti sono destinati ad ospitare attività
commerciali.
Il prospettato insediamento potrà sviluppare una
volumetria sino a mc 25.000 ed un'altezza massima di
4 piani fuori terra.
Ad occidente del comparto di riferimento (tra il
fiume Lambro ed il comparto stesso) si trova il
Cimitero di Melegnano, che è circondato da un muro
in cemento armato alto otto metri, che si frappone
tra il fiume Lambro e le strutture progettate
dall’impresa.
Con nota del 19.07.2013, il Responsabile
dell'Ufficio tecnico comunale ha comunicato che "la
soluzione progettuale risulta in linea di massima
ammissibile in relazione al vigente PGT, in quanto
la destinazione commerciale è compatibile con la
vocazione terziaria che connota l'AT6".
Avendo ottenuto preliminare parere favorevole al
progetto, la ricorrente si è attivata per acquistare
il terreno oggetto di trasformazione e ha stipulato
il relativo contratto di compravendita in data
13.09.2013.
Inoltre ha stipulato un contratto preliminare di
compravendita relativamente al lotto 2 di intervento
e un contratto preliminare di locazione ad uso
commerciale, registrato in data 16.05.2014, per il
lotto 3.
L'impianto progettuale ha imposto la realizzazione
di una rotatoria sulla SP39 e contempla altresì una
pista ciclopedonale lungo la strada provinciale che
in parte interessano l'area di competenza del Parco
Agricolo Sud Milano.
Per tale ragione in data 31.07.2014 l’impresa
ricorrente ha richiesto l'autorizzazione
paesaggistica ex art. 146, comma 9, d.lgs. 42/2004,
alla Regione Lombardia, che l'ha accordata con
decreto n. 8469 del 16.09.2014, ai sensi dell’art.
4, comma 6, del DPR n. 139/2010, non avendo la
Soprintendenza per i Beni architettonici e
paesaggistici rilasciato il parere di competenza
entro i termini previsti.
Anche l'Ente Parco, con deliberazione n. 34 del
21.10.2014, ha espresso parere di conformità del
progetto viabilistico.
A parziale scomputo degli oneri di urbanizzazione,
l'operatore si è reso disponibile ad effettuare le
opere di pavimentazione del sagrato della Abbazia di
Santa Maria in Calvenzano, edificio religioso
sottoposto a tutela.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici di Milano, in data 01.12.2014, ha
espresso parere favorevole sul progetto di
pavimentazione, precisando che "essendo l'area
interessata dal Piano Attuativo AT6 interna alla
citata area dichiarata di interesse culturale con
DPGR 28/03/1984 - il suddetto piano attuativo deve
essere sottoposto a questa soprintendenza ai sensi
dell'art. 16 della L. 1150/1942".
Il Comune di Vizzolo Predabissi ha chiesto
chiarimenti su tale posizione, evidenziando che
"il piano di lottizzazione, quale piano attuativo
del PGT approvato, è [...] conforme al vigente PGT,
quindi si tratta di un piano che attua quanto
riportato nel PGT - non si tratta quindi di variante
al PGT" (cfr. mail del 09.12.2014).
La Soprintendenza, con mail dell’11.12.2014, ha
ribadito di ritenere applicabile l'art. 16 della L.
n. 1150/1942, per quanto attiene all’impostazione
planivolumetrica, trattandosi di piano attuativo
interessante un’area con vincolo paesaggistico,
oltre all’ulteriore parere ai sensi dell’art. 146
del D.lgs. 42/2004 per quanto riguarda gli aspetti
più strettamente architettonici.
Avendo ottenuto i necessari atti di assenso in
ordine alle opere collocate all'interno del Parco,
con istanza protocollata in data 04.12.2014, la
ricorrente ha chiesto l'approvazione definitiva da
parte del Consiglio Comunale di Vizzolo Predabissi
del Piano Attuativo di Lottizzazione AT6.
In data 12.12.2014 l'Amministrazione Comunale ha
trasmesso tutta la documentazione progettuale alla
Soprintendenza.
Successivamente, in data 15.12.2014
l'Amministrazione comunale ha comunicato che “la
Commissione per il paesaggio nella seduta del giorno
15.12.2014 ha espresso parere FAVOREVOLE” con
riguardo al prospettato intervento edilizio.
Diversamente la Soprintendenza ha emesso il parere
prot. n. 247 del 06.03.2015 con il quale, dopo aver
premesso che l’ambito interessato “risulta
ricompreso nel territorio del Parco Agricolo Sud
Milano nonché nell’area dichiarata di notevole
interesse culturale con DPGR 29/03/1984 riguardante
il contesto dell’antica Abbazia di Santa Maria in
Calvenzano” e che “l’area in oggetto risulta
di particolare importanza per mantenere il residuale
rapporto tra l’Abbazia e il fiume Lambro”, ha
espresso parere favorevole –limitatamente
all’impostazione complessiva planivolumetrica–
condizionato al rispetto delle seguenti prescrizioni
“volte ad assicurare il mantenimento a verde,
come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo
e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”:
- “sia conservata libera da costruzioni almeno
la metà dell’ambito –letto nella direzione parallela
alla strada– con la conseguente concentrazione
dell’edificato nella sola porzione settentrionale
posta in adiacenza all’area industriale-commerciale
già esistente (“proprietà Khum” e distributore)
individuata negli elaborati grafici come lotto 1;
- il volume da edificarsi sia di altezza massima
pari a 6 metri (come quello rappresentato nella tav.
n. 15);
- in corrispondenza del volume da edificarsi sia
realizzata una fascia di mitigazione verde con
alberi ad alto fusto a Est (lato strada) e a Sud”.
Tale atto è stato trasmesso dall'Amministrazione
Comunale all’impresa ricorrente in data 16.03.2015.
Con nota del 14.04.2015 la ricorrente ha svolto
osservazioni in relazione al parere. Con nota di
pari data il Comune ha trasmesso tali osservazioni
alla Soprintendenza, precisando che
l’Amministrazione ha investito il massimo impegno
nel salvaguardare l’area su cui sorge la Basilica di
S. Maria in Calvenzano e osservando, però, che il
fiume Lambro è situato circa 7 metri sotto
all’ubicazione della basilica e che il cono ottico è
in gran parte già occluso dalla presenza del muro di
cinta del cimitero del comune di Melegnano.
Avverso il parere della Soprintendenza la società ha
proposto il ricorso indicato in epigrafe,
chiedendone l’annullamento, previa tutela cautelare,
e formulando altresì domanda risarcitoria.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per
Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il
tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato,
con memoria di mera forma.
Si sono altresì costituiti in giudizio il Comune di
Vizzolo Predabissi e la Regione Lombardia,
resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto,
spiegando difese nel merito.
Alla camera di consiglio del 25.06.2015 la
ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare.
In vista della trattazione nel merito del ricorso le
parti hanno scambiato memorie e repliche insistendo
nelle rispettive conclusioni.
Indi all’udienza pubblica del 17.12.2015 la causa è
stata chiamata e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
I) Con l’atto introduttivo del giudizio l’impresa
ricorrente ha impugnato il parere reso dalla
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il
Paesaggio della Lombardia, ai sensi dell’art. 16
della L. 1150/1942, richiesto dal Comune nell’ambito
del procedimento per l’approvazione del Piano
Attuativo di Lottizzazione AT6 presentato dalla
ricorrente.
II) Il ricorso è affidato ai motivi di gravame di
seguito sintetizzati:
1) violazione e falsa applicazione dell'art. 16,
della L. 1150/1942; travisamento dei presupposti di
fatto; erroneità; difetto di competenza:
l’applicazione dell'art. 16 della L. n. 1150/1942,
laddove si richiede il parere preventivo della
Soprintendenza, sarebbe limitata ai piani rientranti
in aree tutelate paesaggisticamente. Poiché l'Area
di Trasformazione AT6 non sarebbe ricompresa
all'interno del Parco Agricolo Sud Milano (il cui
confine occidentale è costituito proprio dalla
Strada Provinciale della Cerca -SP39, oltre la quale
è collocato l'ambito in esame), il parere della
Soprintendenza sarebbe illegittimo, muovendo
dall’errato presupposto dell’inclusione dell’ambito
AT6, oggetto del PII, nel Parco predetto;
2) violazione e falsa applicazione della Parte I,
Titolo II, Capo II della L.r. n. 12/2005; violazione
e falsa applicazione degli artt. 14-ter, 14-quater e
21-nonies, L. 241/1990; violazione e falsa
applicazione dell'art. 16, comma 12, l. 1150/1942;
contraddittorietà del parere della Soprintendenza
con le previsioni del PGT del Comune di Vizzolo
Predabissi e della relativa VAS; difetto di
competenza della Soprintendenza; violazione
dell'affidamento ingenerato nell'operatore dalle
previsioni del PGT approvato; violazione e falsa
applicazione dell'art. 97 Cost.; ingiustizia
manifesta:
a) Il progetto di Piano Integrato di
Intervento presentato dalla ricorrente è conforme al
PGT e rispetta le prescrizioni della scheda di
approfondimento n. 6 della VAS, come rilevato dal
Comune in sede procedimentale (si veda il parere
favorevole della Commissione per il paesaggio). La
Soprintendenza di Milano, pur invitata alla
conferenza di servizi prodromica all'approvazione
dei documenti facenti parte della valutazione
ambientale strategica, ivi compresa la scheda di
approfondimento relativa all'ambito AT6, non vi ha
partecipato, né ha rilasciato pareri in ordine al
PGT sottoposto a valutazione, di fatto prestando
acquiescenza alla favorevole conclusione del
procedimento.
A distanza di cinque anni dall'approvazione del PGT,
la Soprintendenza ha assunto un parere che
contrasterebbe palesemente con le prescrizioni della
VAS, di fatto integrando e modificando le previsioni
della valutazione ambientale strategica. L’istituto
della conferenza di servizi imporrebbe infatti la
partecipazione necessaria delle Amministrazioni per
l’espressione del parere, al fine di rendere
effettivo tale modulo procedimentale. Il parere
gravato, che di fatto si contrappone alla VAS
legittimamente approvata a seguito della conferenza
di servizi, dovrebbe essere considerato tamquam
non esset o comunque illegittimo.
b) L'art. 16, comma 12, della L. n. 1150/1942,
prevede che "lo strumento attuativo di piani
urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale
strategica non è sottoposto a valutazione ambientale
strategica né a verifica di assoggettabilità qualora
non comporti variante e lo strumento sovraordinato
in sede di valutazione ambientale strategica
definisca l'assetto localizzativo delle nuove
previsioni e delle dotazioni territoriali, gli
indici di edificabilità, gli usi ammessi e i
contenuti piani volumetrici, tipologici e
costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le
condizioni di sostenibilità ambientale delle
trasformazioni previste".
Nel caso di specie, il PGT del Comune disciplina
dettagliatamente l'Area di Trasformazione AT6 sia
sul piano locatizzativo, sia su quello dell'edificabilità,
degli usi ammessi, delle volumetrie e delle
dotazioni territoriali. Sotto tale profilo,
ulteriori verifiche ambientali in ordine al progetto
conforme ai parametri della Scheda AT6 non sarebbero
dovuti.
Difetterebbe, pertanto, la competenza della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici di Milano in ordine al progetto in
esame, posto che un nuovo parere al riguardo
equivarrebbe a rimettere in discussione le
risultanze istruttorie emerse in fase di VAS e
confluite nel provvedimento che l'ha definitivamente
approvata.
3) violazione e falsa applicazione del D.lgs.
42/2004; palese travisamento dei presupposti di
fatto; eccesso di potere per illogicità ed
irragionevolezza, contraddittorietà e ingiustizia
manifesta: la Soprintendenza muove dal presupposto
di fatto che l'area di trasformazione AT6 sia
imprescindibile al fine di mantenere il "rapporto
tra l'Abbazia ed il fiume Lambro" e che debba
essere finalizzata ad "assicurare il mantenimento
del verde, come allo stato attuale, del cannocchiale
percettivo e paesaggistico in direzione del fiume
Lambro".
A detta della ricorrente tali presupposti sarebbero
errati, posto che dall'Abbazia di Santa Maria in
Calvenzano sarebbe impossibile anche solo percepire
il fiume Lambro, che si trova ad una quota di ben
sette metri al di sotto di quella dell'Abbazia ed a
più di un chilometro di distanza dall'edificio
(circa 1,2 Km).
Inoltre, il cono ottico orientato verso il fiume
Lambro che origina dal fabbricato in esame si
scontrerebbe con l'edificato esistente (cimitero di
Melegnano, distributore di carburante, capannoni
industriali di proprietà Ku., capannone industriale
in uso a concessionario di auto usate), che non
consentirebbe di avere percezione dell'area
fluviale.
Il nuovo intervento infatti si frapporrebbe non tra
l'Abbazia e le sponde fluviali, ma tra l'Abbazia ed
il muro perimetrale del Cimitero di Melegnano.
Inoltre il parere della Soprintendenza sarebbe
carente su un piano istruttorio, omettendo di
considerare nel suo complesso l’area interessata
dall’intervento, posto che il PGT di Melegnao ha
conferito vocazione residenziale all’area, oggi
libera, immediatamente attigua all’ambito di
trasformazione AT6.
Ancora, il parere sarebbe contraddittorio rispetto
ad altri provvedimenti del Comune di Vizzolo
Predabissi che hanno inciso sulla zona di tutela
dell'Abbazia di Santa Maria in Calvenzano (in
particolare sarebbe stata autorizzata sin dalla fine
degli anni ottanta la costruzione di un intero nuovo
quartiere residenziale, ossia del quartiere
Saramazzano).
Infine, in via subordinata, a detta della ricorrente
l’irragionevolezza del parere della Soprintendenza
si rifletterebbe anche sul DPGR n. 1351 del
28.03.1984 che ha dichiarato di notevole interesse
pubblico la zona dell’Abbazia, posto che già
all’epoca del provvedimento regionale l’area sarebbe
stata interessata da insediamenti di tipo terziario.
III) Il primo motivo di ricorso non è
fondato.
Invero il parere della Soprintendenza muove da un
duplice presupposto di fatto, ovvero l’inclusione
dell’ambito in questione sia nel territorio del
Parco Agricolo Sud Milano, sia nell’area dichiarata
di notevole interesse culturale con DPGR del
28.03.1984. Se il primo presupposto di fatto risulta
errato, non altrettanto può dirsi quanto
all’inclusione dell’AT6 nell’area di notevole
interesse culturale ai sensi del decreto regionale
del 1984.
Tale indiscutibile dato di fatto –noto anche alla
ricorrente che, seppur in via subordinata, ha
impugnato il decreto– determina l’applicazione, alla
fattispecie in esame del disposto di cui all’art.
16, comma 3, della L. n. 1150/1942, ai sensi del
quale i piani particolareggiati nei quali siano
comprese cose immobili soggette, tra l’altro, alla
legge n. 1497/1939 sono preventivamente sottoposti
alla competente Soprintendenza.
III.1) A tale proposito, per logica espositiva, il
Collegio ritiene di scrutinare anche la censura
formulata, seppure in via subordinata (si veda pag.
17 del ricorso), con il terzo motivo di
gravame e diretta verso il predetto DPGR n.
1351/1984.
A prescindere dalla genericità della censura, e dai
profili di inammissibilità della stessa sollevati
dalla difesa della Regione, deve rilevarsi che
l’esistenza di insediamenti produttivi in una data
area non è incompatibile con la dichiarazione di
notevole interesse pubblico della stessa, posto che
la tutela paesaggistica non impedisce in modo
assoluto qualsiasi attività umana di fruizione o di
trasformazione del territorio.
Sotto tale profilo deve rilevarsi il difetto di
interesse a gravare tale provvedimento, posto che,
appunto, dallo stesso non deriva un vincolo assoluto
all’utilizzo dell’area.
IV) Considerato che, per quanto precede, deve
ritenersi corretta l’applicazione del disposto di
cui all’art. 16, comma 3, della L. n. 1150/1942,
anche il secondo mezzo di gravame non è
meritevole di accoglimento.
Il parere della Soprintendenza infatti si colloca
nell’ambito della disposizione sopra richiamata,
quale effetto della dichiarazione di notevole
interesse pubblico dell’area in questione. Ne
consegue che la prospettazione della ricorrente
secondo cui la Soprintendenza non avrebbe competenza
ad intervenire, trattandosi di progetto conforme al
PGT e alle relative prescrizioni della VAS non pare
cogliere il punto centrale della questione. Invero
si tratta di ambiti di disciplina differenti.
La dichiarazione di area di notevole interesse
pubblico impone, ai sensi del comma 3 dell’art. 16
sopra richiamato, l’espressione del parere da parte
della Soprintendenza. La disposizione di cui al
comma 12 dell’art. 16, richiamato dalla parte
ricorrente a sostegno del proprio assunto, esclude
la sottoposizione a VAS di piani attuativi di
strumenti urbanistici già sottoposti a VAS (qualora
non comportino variante e lo strumento sovraordinato
in sede di valutazione ambientale strategica
definisca l'assetto localizzativo delle nuove
previsioni e delle dotazioni territoriali, gli
indici di edificabilità, gli usi ammessi e i
contenuti piani volumetrici, tipologici e
costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le
condizioni di sostenibilità ambientale delle
trasformazioni previste).
La presenza di due disposizioni (comma 3 e comma 12)
aventi ambiti oggettivi di disciplina differenti,
porta a ritenere che se è vero che il piano
attuativo non deve essere sottoposto a VAS, qualora
lo strumento urbanistico sia già stato vagliato
sotto il profilo della valutazione ambientale
strategica, non altrettanto può concludersi quanto
al parere della Soprintendenza in casi di area
dichiarata di notevole interesse pubblico, la cui
necessità prescinde dall’avvenuta sottoposizione a
VAS dello strumento urbanistico.
Tale ricostruzione interpretativa priva di rilevanza
gli ulteriori profili di censura dedotti con il
secondo mezzo di gravame, che, come detto, non è
meritevole di accoglimento.
V) Risulta invece fondato il terzo motivo di
ricorso, con il quale, in sintesi, la ricorrente
lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione
del parere impugnato.
La Soprintendenza, nell’indicare le prescrizioni da
rispettare in sede di sviluppo del progetto,
dichiara come obiettivo “il mantenimento a verde,
come allo stato attuale, del cannocchiale percettivo
e paesaggistico in direzione del fiume Lambro”,
nell’ambito di quello che, nello stesso parere, è
definito come il “rapporto tra l’Abbazia e il
fiume Lambro”.
Ora, la sussistenza di un cannocchiale percettivo e
paesaggistico dall’Abbazia al fiume Lambro è
contestata sia dalla ricorrente sia dal Comune,
tanto in sede difensiva quanto in sede
procedimentale.
La ricorrente ha prodotto (sub doc. 18) la vista del
predetto cannocchiale prospettico dall’Abbazia alle
sponde fluviali secondo due diverse angolature, la
prima della quali vede frapporsi interamente il muro
del cimitero di Melegnano, la seconda le già
esistenti costruzioni insistenti sull’area.
Il Comune, per parte sua, già in sede procedimentale
(cfr. nota del 14 aprile indirizzata alla
Soprintendenza) ha sostenuto che “il cono ottico
è in gran parte già occluso dalla presenza del muro
di cinta del cimitero del comune di Melegnano” e
ha sottolineato che il fiume Lambro è situato circa
sette metri sotto all’ubicazione della basilica.
La Soprintendenza, costituitasi in giudizio per il
tramite dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha
spiegato difese di mera forma, quindi non prendendo
posizione sulla sopra riferita circostanza, che
risulta contestata in fatto. Il Collegio ritiene di
valutare tale elemento ai sensi dell’art. 64 c.p.a..
Alla luce dei profili evidenziati sia dalla
ricorrente sia dal Comune, la circostanza di fatto
da cui la Soprintendenza muove per dettare le
prescrizioni nella realizzazione del progetto non
risulta supportata da un’indiscutibile evidenza. Ciò
si riverbera sul contenuto prescrittivo del parere
stesso, che risulta perciò privo di idonea
motivazione.
Va inoltre rilevato che il parere considera l’area
in questione come ricompresa nel Parco Agricolo Sud
Milano, circostanza che risulta essere errata, come
si ricava chiaramente dalla scheda di
approfondimento n. 6 allegata alla VAS (e come già
anticipato al precedente punto III). Ora, se tale
circostanza non fa venir meno l’applicabilità al
caso di specie dell’art. 16, comma 3, della L. n.
1150/1942, in forza del DPGR del 28.03.1984,
costituisce comunque un evidente indizio di
un’istruttoria condotta in modo approssimativo e non
puntuale, neppure nei suoi elementi essenziali ed
oggettivi.
Per le ragioni esposte, in accoglimento del motivo
esaminato e assorbiti gli ulteriori profili dedotti,
va disposto l’annullamento del parere della
Soprintendenza che è tenuta a ripronunciarsi tenendo
conto della concreta conformazione dei luoghi e
dell’esistenza di fabbricati che si frappongono tra
il fiume e l’edificio religioso, all’interno del
cono ottico, anche tenuto conto dei vigenti
strumenti urbanistici del Comune di Vizzolo
Predabissi e del Comune di Melegnano (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.02.2016 n. 288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il sottoscala abusivo in zona vincolata blocca la
sanatoria. Tar Liguria.
Perfino un sottoscala abusivo può bloccare la concessione
del permesso di costruire in sanatoria se l'immobile si
trova in zona vincolata. Anche le aree interrate, infatti,
possono influire negativamente sui valori paesaggistici
tutelati dalla Soprintendenza.
Ma i locali che costituiscono
mere pertinenze dei vani abitabili non hanno un vero impatto
sul territorio e dunque se il comune nega il titolo
abilitativo al proprietario dell'immobile deve motivare in
modo adeguato la sua decisione, altrimenti il provvedimento
è annullato.
Così la
sentenza
11.02.2016 n. 140 del TAR Liguria, Sez. I.
Nel mirino degli uffici finiscono due vani interrati: c'è
anche un locale deposito accanto al sottoscala. Non c'è
dubbio che anche i volumi sotto il piano di campagna possano
risultare in contrasto con le norme dettate a tutela del
paesaggio, che puntano a impedire l'alterazione dello stato
dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture
edilizie.
Il punto è invece stabilire se i locali
costituiscono o meno semplici volumi tecnici: bisogna dunque
accertare se i vani «incriminati» sono dotati di un certo
grado di autonomia o invece sono del tutto accessori alle
zone abitabili dell'immobile. E ciò perché nel secondo caso
la rilevanza paesaggistica deve escludersi: le opere abusive
realizzate dal proprietario, nelle specie, non incidono sul
carico urbanistico e sono prive di impatto visivo
(articolo ItaliaOggi del 09.04.2016).
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MASSIMA
4) Le censure dedotte con il secondo motivo di ricorso
sono intese a rimarcare sia i caratteri sostanziali delle
opere abusive (tali da renderle, ad avviso della ricorrente,
suscettibili di regolarizzazione sotto il profilo
paesaggistico ed edilizio) sia, sotto profili diversi da
quelli esaminati in precedenza, le pretese carenze
motivazionali del provvedimento impugnato.
Sostiene la ricorrente, infatti, che le opere realizzate nel
compendio di proprietà, non compromettendo alcun valore
paesaggistico, sarebbero qualificabili alla stregua di “abusi
minori” che, in quanto tali, possono essere
regolarizzati ai sensi dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n.
42/2004.
Essa lamenta che, in ogni caso, l’amministrazione ha omesso
di valutare l’effettiva incidenza di tali opere sui valori
paesaggistici tutelati.
4.1) Per quanto riguarda i locali interrati costruiti al di
sotto del fabbricato principale, occorre preliminarmente
rammentare che,
secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, anche
i volumi sotterranei sono considerati rilevanti dal punto di
vista paesaggistico e, pertanto, possono essere in contrasto
con le previsioni intese ad impedire l’alterazione dello
stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove
strutture
(cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 02.09.2013, n.
4348).
Altra giurisprudenza ha precisato, però, che la rilevanza
paesaggistica di un volume interrato non sussiste qualora
esso, per le sue caratteristiche, possa essere qualificato
come mero volume tecnico
(cfr., fra le ultime, TAR Umbria, sez. I, 26.04.2014, n.
356).
Proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
infatti, tali volumi sono inidonei ad introdurre un impatto
sul territorio eccedente la costruzione principale
(TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Ciò premesso, gli elementi in atti non consentono di
stabilire con certezza se i locali interrati in questione
possiedano effettivamente le caratteristiche proprie dei “volumi
tecnici”, intesi quali opere prive di autonomia e aventi
funzione meramente accessoria-pertinenziale rispetto ai
volumi abitabili.
La questione, peraltro, non è stata approfondita
dall’amministrazione che, stante l’incompletezza degli
elementi riferiti nell’istanza di sanatoria, avrebbe dovuto
svolgere più approfonditi accertamenti in ordine alla
funzione e alla natura dei locali in questione.
Tanto più che le volumetrie sotterranee abusivamente
realizzate dalla ricorrente, pur esistenti nella realtà
fisica, non incidono sul carico urbanistico e sono prive di
impatto visivo nonché della capacità di incidere
significativamente sull’assetto del territorio.
Anche sotto questo profilo, pertanto, la motivazione
dell’atto non è idonea ad esplicitare adeguatamente le
ragioni del diniego.
4.2)
Rimane da vagliare la legittimità del diniego di sanatoria
nella parte relativa al forno, avente dimensioni di metri
2,00 x 2,40 e altezza di metri 1,80.
Si tratta di un’opera di ridotto ingombro, non idonea a
determinare nuove superfici utili o nuovi volumi, nonché
priva di autonoma rilevanza urbanistica, poiché è funzionale
all'abitazione principale cui accede ed insiste su una
superficie già integralmente pavimentata.
Deve ritenersi, in conseguenza, che la stessa non risulti
pregiudizievole per il territorio né idonea ad introdurre un
impatto paesaggistico eccedente la costruzione principale
(cfr., in analoga fattispecie, TAR Puglia, Bari, sez. I,
25.09.2014, n. 1124).
Il manufatto in questione, pertanto, appare riconducibile
alla categoria degli “abusi minori” che, pur essendo
stati realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
sono suscettibili di regolarizzazione.
5) In conclusione, il provvedimento impugnato è inficiato
sotto il profilo del difetto di motivazione nelle parti in
cui respinge l’istanza di sanatoria avente per oggetto
l’intervento sul box, la costruzione dei due locali
interrati e le opere di sistemazione delle aree esterne; il
diniego di sanatoria del forno, invece, è illegittimo per
violazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del
2004. |
EDILIZIA PRIVATA: Siti
UNESCO – Tutela – Disciplina – Previsione di
una più stringente tutela – Questione di
legittimità costituzionale –
Inammissibilità.
Nel nostro ordinamento i siti UNESCO non
godono di una tutela a sé stante, ma, anche
a causa della loro notevole diversità
tipologica, beneficiano delle forme di
protezione differenziate apprestate ai beni
culturali e paesaggistici, secondo le loro
specifiche caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il
sistema vigente, che si prefigge
dichiaratamente l’osservanza dei trattati
internazionali in materia (art. 132, comma
1, del codice dei beni culturali e del
paesaggio), appresta anzitutto una tutela di
fonte provvedimentale, laddove essi
rientrino nelle categorie individuate
dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui
vi sono, appunto, i centri e i nuclei
storici (lettera c) e le bellezze
panoramiche o belvedere da cui si goda lo
spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di
apposizione di vincolo in sede di
pianificazione paesaggistica (art. 134,
comma 1, lettera c, del codice), come si
evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è
previsto che «Per ciascun ambito i piani
paesaggistici definiscono apposite
prescrizioni e previsioni ordinate», tra
l’altro, «alla individuazione delle linee di
sviluppo urbanistico ed edilizio, in
funzione della loro compatibilità con i
diversi valori paesaggistici riconosciuti e
tutelati, con particolare attenzione alla
salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti
inseriti nella lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati
alla tutela di fonte legale di cui all’art.
142, comma 1, del codice dei beni culturali
e del paesaggio, se e nella misura in cui
siano riconducibili alle relative categorie
tipologiche.
In presenza di un così articolato sistema di
tutela (con effetti peraltro diversi quanto
a decorrenza del vincolo, sede delle
prescrizioni d’uso, derogabilità e
trattamento sanzionatorio), una più
stringente tutela paesaggistica (ad esempio,
attraverso la previsione dei siti UNESCO tra
i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex
lege) non appare in alcun modo
costituzionalmente necessitata, essendo
riservata al legislatore la valutazione
dell’opportunità di una più cogente e
specifica protezione dei siti in questione e
delle sue modalità di articolazione
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
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Considerato in diritto.
1.− Il Tribunale amministrativo regionale
per la Campania, con ordinanza del
30.01.2014, iscritta al n. 102 del registro
ordinanze 2014, ha sollevato, in riferimento
all’art. 9 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 142,
comma 2 (rectius: comma 2, lettera
a), del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137), «laddove, nel
prevedere la deroga al regime di
autorizzazione paesaggistica per tutte le
zone A e B del territorio comunale, tali
classificate negli strumenti urbanistici
vigenti alla data del 06.09.1985, non
esclude da tale ambito operativo di deroga
le aree urbane riconosciute e tutelate come
patrimonio UNESCO».
2.− Con tre successive ordinanze del
13.03.2014, iscritte ai nn. 176 e 239 del
registro ordinanze 2014 e al n. 86 del
registro ordinanze 2015, il TAR per la
Campania ha sollevato questione di
legittimità costituzionale del medesimo art.
142, comma 2 (rectius: comma 2,
lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora
in avanti «codice dei beni culturali e
del paesaggio» o «codice»), con
riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione ai
parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5
della Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale e naturale mondiale
(d’ora in avanti «Convenzione UNESCO»
o «Convenzione»), firmata a Parigi il
23.11.1972 e recepita in Italia con legge
06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale e naturale mondiale,
firmata a Parigi il 23.11.1972).
Con queste ordinanze il rimettente ha anche
sollevato, con riferimento ai medesimi
parametri, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 142, comma 1, del
codice dei beni culturali e del paesaggio,
nella parte in cui non prevede tra i beni
paesaggistici sottoposti a vincolo ex
lege i siti tutelati dalla Convenzione
(d’ora in avanti «siti UNESCO»),
ovvero degli artt. 134, 136, 139, 140 e 141
del codice, nella parte in cui non prevedono
per i medesimi siti un obbligo in capo
all’amministrazione di apposizione in via
provvedimentale del vincolo paesaggistico.
3.– Va disposta la riunione dei giudizi,
attesa la parziale coincidenza dei parametri
e dell’oggetto degli atti di rimessione.
4.– Le questioni sollevate con le ordinanze
iscritte ai nn. 176 e 239 del 2014 e al n.
86 del 2015 sono inammissibili in ragione
della loro alternatività irrisolta o “ancipite”
(sentenze n. 248 e n. 198 del 2014, n. 87
del 2013, n. 328 del 2011, n. 230 e n. 98
del 2009; ordinanze n. 41 del 2015, n. 176
del 2013 e n. 265 del 2011).
Le ordinanze, infatti, prospettano le
questioni in via alternativa e non
subordinata, ed è noto che l’opzione per
l’una o le altre non può essere rimessa a
questa Corte (sentenze n. 248 del 2014 e n.
87 del 2013).
5.– Anche la questione sollevata con
l’ordinanza iscritta al n. 102 del 2014 è
inammissibile, in quanto rivolta ad ottenere
una pronuncia additiva e manipolativa non
costituzionalmente obbligata in una materia
rimessa alla discrezionalità del legislatore
(sentenze n. 248 del 2014 e n. 87 del 2013;
ordinanze n. 176 e n. 156 del 2013).
5.1.– Il rimettente ritiene che il sistema
attuale non garantisca una protezione
adeguata ai siti UNESCO, come sarebbe reso
evidente dal caso del centro storico di
Napoli (inserito nella lista del patrimonio
mondiale nel 1995), per il quale il
procedimento amministrativo volto alla
dichiarazione dell’interesse paesaggistico
non risulta ancora portato a compimento;
censura, pertanto, l’art. 142, comma 2 (rectius:
comma 2, lettera a), del codice, nella parte
in cui non dispone che la deroga ai vincoli
legali del comma 1 –deroga prevista per il
cosiddetto territorio urbano– non operi per
tali siti.
Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 9
Cost., atteso che, in presenza del
riconoscimento del valore eccezionale del
bene paesaggistico con la sua inclusione
nella lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO, la deroga lederebbe il bene
paesaggio, che è un valore primario della
Repubblica, assoluto e non disponibile.
5.2.– Al solo fine di argomentare la
necessità di una più stringente tutela
paesaggistica per i beni in oggetto, il
rimettente, pur non indicando l’art. 117,
primo comma, Cost. quale parametro a
sostegno della questione sollevata, fa
riferimento agli artt. 4 e 5 della
Convenzione UNESCO.
6.− Gli artt. 1 e 2 della Convenzione
forniscono la definizione dei due grandi
pilastri concettuali su cui essa poggia:
rispettivamente, «il patrimonio culturale»,
che ricomprende monumenti, agglomerati e
siti, e il «patrimonio naturale», che
ricomprende monumenti naturali, formazioni
geologiche e fisiografiche, zone costituenti
habitat di specie animali e vegetali
minacciate, siti naturali o zone naturali.
Queste diverse tipologie di beni (“siti”
in senso lato) sono accomunate dalla
circostanza di presentare un valore
(storico, artistico, estetico,
estetico-naturale, scientifico,
conservativo, etnologico o antropologico) «universale
eccezionale».
Dal canto loro, gli artt. 4 e 5 della
Convenzione pongono, sì, degli obblighi in
capo agli Stati firmatari, tra cui spicca,
per quanto qui rileva, quello di garantire «l’identificazione,
protezione, conservazione, valorizzazione e
trasmissione alle generazioni future del
patrimonio culturale e naturale» situato
sul loro territorio, ma lasciano anche
liberi gli Stati medesimi di individuare «i
provvedimenti giuridici, scientifici,
tecnici, amministrativi e finanziari
adeguati per l’identificazione, protezione,
conservazione, valorizzazione e rianimazione
di questo patrimonio».
6.1.– Nel nostro
ordinamento i siti UNESCO non godono di una
tutela a sé stante, ma, anche a causa della
loro notevole diversità tipologica,
beneficiano delle forme di protezione
differenziate apprestate ai beni culturali e
paesaggistici, secondo le loro specifiche
caratteristiche.
Per i beni paesaggistici, in particolare, il
sistema vigente, che si prefigge
dichiaratamente l’osservanza dei trattati
internazionali in materia (art. 132, comma
1, del codice dei beni culturali e del
paesaggio), appresta anzitutto una tutela di
fonte provvedimentale, laddove essi
rientrino nelle categorie individuate
dall’art. 136, comma 1, del codice, tra cui
vi sono, appunto, i centri e i nuclei
storici (lettera c) e le bellezze
panoramiche o belvedere da cui si goda lo
spettacolo di quelle bellezze (lettera d).
Questi beni possono poi essere oggetto di
apposizione di vincolo in sede di
pianificazione paesaggistica (art. 134,
comma 1, lettera c, del codice), come si
evince anche dall’art. 135, comma 4, ove è
previsto che «Per ciascun ambito i piani
paesaggistici definiscono apposite
prescrizioni e previsioni ordinate», tra
l’altro, «alla individuazione delle linee
di sviluppo urbanistico ed edilizio, in
funzione della loro compatibilità con i
diversi valori paesaggistici riconosciuti e
tutelati, con particolare attenzione alla
salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti
inseriti nella lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO».
I siti Unesco, infine, sono assoggettati
alla tutela di fonte legale di cui all’art.
142, comma 1, del codice dei beni culturali
e del paesaggio, se e nella misura in cui
siano riconducibili alle relative categorie
tipologiche.
6.2.– In presenza di un così articolato
sistema di tutela (con effetti peraltro
diversi quanto a decorrenza del vincolo,
sede delle prescrizioni d’uso, derogabilità
e trattamento sanzionatorio), la soluzione
invocata dal rimettente non appare in alcun
modo costituzionalmente necessitata, essendo
riservata al legislatore la valutazione
dell’opportunità di una più cogente e
specifica protezione dei siti in questione e
delle sue modalità di articolazione.
Non è un caso, del resto, che con le altre
ordinanze di rimessione il TAR Campania
abbia individuato diverse sedi per gli
interventi invocati –impregiudicata la
valutazione di congruenza di ciascuno di
essi con il sistema delineato dal codice– e,
in definitiva, diversi meccanismi volti a
realizzare l’obiettivo di apprestare una
tutela rafforzata ai siti UNESCO.
La questione va dunque dichiarata
inammissibile, poiché l’invocata addizione
si risolverebbe in una modificazione di
sistema non costituzionalmente obbligata
che, in quanto tale, è preclusa a questa
Corte (sentenze n. 10 del 2013 e n. 252 del
2012; ordinanze n. 255, n. 240 e n. 208 del
2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 134,
136, 139, 140, 141 e 142, commi 1 e 2,
lettera a), del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali
e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10
della legge 06.07.2002, n. 137), sollevate,
in riferimento agli artt. 9 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione ai parametri interposti di cui
agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla
protezione del patrimonio culturale e
naturale mondiale, firmata a Parigi il
23.11.1972 e recepita in Italia con legge
06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale e naturale mondiale,
firmata a Parigi il 23.11.1972), dal
Tribunale amministrativo regionale per la
Campania, con le ordinanze iscritte ai nn.
176 e 239 del registro ordinanze 2014 e al
n. 86 del registro ordinanze 2015;
2) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 142,
comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del
2004, sollevata, in riferimento all’art. 9
della Costituzione, dal Tribunale
amministrativo regionale per la Campania,
con l’ordinanza iscritta al n. 102 del
registro ordinanze 2014 (Corte
Costituzionale,
sentenza 11.02.2016 n. 22). |
EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso
per il nulla osta richiesto ad un Ente parco, il Consiglio
di Stato rinvia all'Adunanza plenaria.
Il
Consiglio di Stato, esaminando la disciplina in materia di
nulla osta dell'Ente parco, preso atto che:
►
l’art 13, comma 1,
della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il rilascio di
concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente parco, da rendersi entro il
termine di sessanta giorni dalla richiesta, decorso il quale
il nulla osta si intende rilasciato;
►
l’art. 20, comma 1,
della legge n. 241 del 1990 prevede che nei procedimenti ad
istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda se la
medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel
termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, della stessa legge
n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego ovvero non
procede con la convocazione della conferenza di servizi ai
sensi del comma 2 dello stesso art. 20;
►
l'art. 20, comma 4,
della legge n. 241 del 1990 stabilisce tuttavia che la
disciplina di cui allo stesso articolo non si applica agli
atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico e l'ambiente;
►
fra le
suddette disposizioni (art. 13 legge n. 394 del 1991 e art.
20 legge n. 241 del 1990) intercorre un’antinomia, per
sciogliere la quale le Sezioni del Consiglio di Stato hanno
fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a
soluzioni opposte;
ha disposto il deferimento della questione all'Adunanza
Plenaria
(commento tratto da http://camerainsubria.blogspot.it).
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1. La società To.Im. ha acquistato nel Comune di Montecompatri dei terreni, confinanti con altri destinati
dal piano particolareggiato c.d. “Molare” ad area
direttamente edificabile con destinazione residenziale, con
possibile rilascio del permesso di costruire per
l’edificazione di un complesso commerciale-residenziale.
In relazione alle superfici acquistate (in parte destinate a
verde pubblico, in parte edificabili, ma con diritti
edificatori ceduti ai terreni confinanti), in data 05.04.2012 i proprietari dell’epoca, in seguito danti causa della
società, hanno presentato un programma integrato di
intervento -in variante sia del P.R.G. che del P.P.- per
la variazione della destinazione da verde pubblico a
residenziale e la realizzazione di un ulteriore complesso
commerciale-residenziale.
L’Ente parco regionale dei Castelli romani, nel perimetro
del quale ricadono alcuni dei terreni interessati
dall’intervento, previo preavviso di rigetto ha negato il
proprio nulla-osta con atto n. 6081 del 10.12.2013.
La società ha impugnato il provvedimento, sostenendo che
questo sarebbe stato adottato decorso il termine di sessanta
giorni dalla ricezione della relativa richiesta, previsto
dal combinato disposto dell’art. 28, comma 1, della legge
della Regione Lazio 06.10.1997, n. 29, e dall’art. 13,
comma 1, della legge 06.12.1991, n. 394. Si sarebbe
dunque formato il silenzio-assenso, rispetto al quale l’atto
adottato dall’Ente non avrebbe i requisiti formali e
sostanziali dell’atto di autotutela. Il provvedimento
sarebbe inoltre viziato per vizio di motivazione, difetto di
istruttoria e di motivazione.
Con sentenza 06.08.2014, n. 8744, il TAR per il Lazio,
sez. II-quater, ha respinto il ricorso. Il Tribunale
regionale ha ritenuto che, a fronte delle oscillazioni
giurisprudenziali, fosse decisiva nel senso della necessità
del provvedimento espresso, trattandosi di immobile
sottoposto a vincolo ambientale e paesistico, la recente
modifica apportata all’art. 20 del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. testo unico
dell’edilizia) dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella legge
09.08.2013, n. 98). Nella specie, inoltre, mancherebbe
tutta la documentazione necessaria, sicché anche per questa
ragione il silenzio-assenso non potrebbe darsi per formato.
Sarebbero inoltre infondate le ulteriori censure.
La società ha interposto appello contro la sentenza e ha
anche formulato una domanda cautelare, che la Sezione ha
respinto con ordinanza 19.11.2014, n. 5334.
L’appellante ricostruisce anzitutto la complessa vicenda
amministrativa, che ha coinvolto una pluralità di soggetti
pubblici, e ritiene non corretta la lettura che il primo
Giudice avrebbe fatto di parte della documentazione versata
in atti.
L’appellante deduce i seguenti motivi di ricorso:
I) errata ricostruzione del quadro normativo vigente.
Secondo la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n.
394 del 1991 sarebbe tuttora in vigore in quanto, in virtù
del principio di specialità, non superata dalla successiva
novella al comma 4 dell’art. 20 della legge 07.08.1990,
n. 241;
II) in concreto, il silenzio-assenso si sarebbe formato,
perché l’Ente parco avrebbe richiesto la documentazione
integrativa a termini scaduti e questa non sarebbe stata
comunque idonea a congelare alcun termine, perché il
nulla-osta paesaggistico richiesto dall’Ente non sarebbe
stato un presupposto del parere vertendosi non in tema di
rilascio di un permesso di costruire, ma di approvazione di
una variante urbanistica;
III) formatosi il silenzio-assenso, l’Ente avrebbe potuto
semmai avviare un procedimento di autotutela in vista di un
annullamento d’ufficio a norma dell’art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990, mentre l’atto impugnato sarebbe privo
dei relativi requisiti, sostanziali e formali;
IV) violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
L’Ente non avrebbe preso in considerazione le
controdeduzioni svolte dalla società una volta ricevuto il
preavviso di diniego. Sul punto il TAR avrebbe omesso
qualunque decisione;
V) difetto di motivazione dell’atto. Il TAR si sarebbe
espresso in termini non corretti sulla dedotta genericità e
non pertinenza della motivazione; il diniego sarebbe
motivato del tutto genericamente e denoterebbe travisamento
della natura dell’intervento.
L’Ente parco si è costituito in giudizio per resistere al
ricorso, senza svolgere difese.
All’udienza pubblica del 17.11.2015, l’appello è stato
chiamato e trattenuto in decisione.
2. In via preliminare, il Collegio rileva che la
ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di
quella operata dal giudice di prime cure, non è stata
contestata dalle parti costituite. Di conseguenza, vigendo
la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono
considerarsi assodati i fatti oggetto di giudizio.
3. Il primo motivo dell’appello,
nel quale si compendia il nucleo essenziale della
controversia, consiste nel discusso
avvenuto rilascio, per silenzio-assenso, del nulla-osta
richiesto all’Ente parco.
Come detto, i termini della questione non sono controversi
in punto di fatto. Si discute tuttavia quale sia norma
applicabile alla vicenda.
La tesi dell’appellante è debba valere la disposizione
dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (espressamente
richiamata dall’art. 28, comma 1, della legge della Regione
Lazio n. 29/1997), il quale stabilisce che “il rilascio di
concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente parco. Il nulla osta
verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del
regolamento e l'intervento ed è reso entro sessanta giorni
dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla
osta si intende rilasciato…”.
Il Tribunale territoriale ha ritenuto invece di dover far
ricorso alla disposizione generale dell’art. 20 della legge
n. 241/1990.
Questa recita:
“1. Fatta salva l'applicazione dell’articolo 19, nei
procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi il silenzio
dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di
accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non
comunica all'interessato, nel termine di cui all' articolo
2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non
procede ai sensi del comma 2.
…
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano
agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale
e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la
pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la
cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in
cui la normativa comunitaria impone l'adozione di
provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la
legge”.
4. Fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, a
sciogliere la quale le Sezioni di questo Consiglio di Stato
hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal
modo a soluzioni opposte.
Un primo criterio di soluzione è stato individuato nel
criterio di specialità (sez. VI, 29.12.2008, n. 6591; adesivamente, sez. VI, 17.06.2014, n. 3407).
La tesi sostiene che la speciale forma di silenzio-assenso,
prevista a livello statale dall'art. 13 della legge n.
394/1991, non sia stata implicitamente abrogata a seguito
dell'entrata in vigore della riforma della legge n. 241 del
90 (disposta con la legge n. 80/2005).
Infatti, il novellato art. 20 della legge n. 241/1990 avrebbe
in primo luogo inteso generalizzare l'istituto del silenzio
assenso, rendendolo applicabile a tutti i procedimenti a
istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi, fatta salva l'applicazione delle ipotesi di
denuncia di inizio attività, regolate dal precedente art.
19.
Rispetto a tale generalizzazione, il comma 4 dell'art. 20
avrebbe introdotto alcune eccezioni in determinate materie,
tra cui quelle inerenti al patrimonio culturale e
paesaggistico e l'ambiente, che riguardano non
l'impossibilità in assoluto di prevedere speciali ipotesi di
silenzio-assenso, ma l'inapplicabilità della regola generale
dell'art. 20, comma 1.
In sostanza, la generalizzazione dell'istituto del silenzio
assenso non potrebbe applicarsi in modo automatico alle
materie indicate dall'art. 20, comma 4, ma ciò non
impedirebbe al legislatore di introdurre in tali materie
norme specifiche, aventi a oggetto il silenzio-assenso, a
meno che non sussistano espressi divieti, derivanti
dall'ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi
costituzionali.
Il dato testuale del comma 4 dell'art. 20 sarebbe chiaro:
"Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli
atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente ..."; l'eccezione riguarderebbe
solo "le disposizioni del presente articolo" e non potrebbe
essere estesa a disposizioni precedenti, aventi a oggetto il
silenzio assenso, rispetto alle quali i commi 1, 2 e 3
dell'art. 20 della legge n. 241/1990 nulla avrebbero innovato.
Tali disposizioni resterebbero, quindi, in vigore e, del
resto, se, come appena detto, l'art. 20, comma 4, non
impedisce l'introduzione di norme speciali, dirette a
prevedere il silenzio-assenso anche nelle materie menzionate
dal comma 4, non potrebbe che ritenersi che eventuali norme
speciali preesistenti, quali l'art. 13 della legge n.
394/1991, restino in vigore.
Tale tesi, oltre ad essere conforme al dato testuale della
disposizione, si porrebbe in linea con la stessa ratio della
riforma della legge n. 241/1990, che sarebbe stata quella di
generalizzare l'istituto del silenzio-assenso. Sarebbe
irragionevole ritenere che tale generalizzazione abbia
comportato un effetto abrogante su norme, che tale istituto
già prevedevano.
L'unico limite che le disposizioni speciali, quale quella di
cui al citato art. 13, dovrebbero rispettare è quello
derivante dai principi comunitari e costituzionali.
Tuttavia, sulla base della giurisprudenza della Corte
costituzionale e della Corte di giustizia, non si porrebbe
in contrasto con principi costituzionali o con specifiche
disposizioni comunitarie la previsione del silenzio-assenso
per il rilascio del nulla osta dell'Ente parco,
caratterizzato da un tasso di discrezionalità non elevato e
destinato a inserirsi, in un procedimento, in cui ulteriori
specifici interessi ambientali vengono valutati in modo
espresso, come in concreto avvenuto nel caso di specie
(autorizzazioni paesaggistiche, idrogeologiche,
archeologiche).
5. Un diverso criterio di soluzione privilegia invece il
canone cronologico della successione delle leggi nel tempo
(sez. IV, 28.10.2013, n. 5188; implicitamente, sez. III,
15.01.2014, n. 119; sez. IV, ord. 19.11.2014, n.
5531).
Secondo questa prospettazione, entrambe le norme avrebbero
la medesima natura procedimentale e verrebbero a
disciplinare lo stesso istituto operante in materia di
edilizia e ambienta; resterebbe, infatti, escluso che tra
esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché
questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra
norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla
sostanziale identità tra le due discipline in contrasto.
In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due
disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante,
disciplinano il medesimo istituto procedimentale del
silenzio-assenso, dovrebbe quindi essere risolto alla luce
della successione nel tempo tra due norme generali e
pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore
abroga la legge anteriore con essa incompatibile (art. 15
disp. prel. cod. civ.).
Non si potrebbe dunque far ricorso al principio di
specialità, che postula l'equivalenza tra le norme stesse,
ma dovrebbe necessariamente applicarsi il criterio
cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su
quella precedente. Con la conseguenza che l'intervento
dell'art. 20 della legge n. 241/1990, come successivamente
modificato, determinerebbe che il regime del
silenzio-assenso non trovi applicazione in materia di tutela
ambientale: il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre
il termine fissato dalla legge precedente, risulterebbe
pienamente legittimo in quanto emesso in forza di un potere
non consumatosi -in quanto esplicato nella vigenza della
nuova legge- ed il cui esercizio, dunque, non
presupporrebbe l'annullamento in autotutela di un precedente
silenzio-assenso, viceversa inesistente.
6. Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, il
Collegio ritiene opportuno sottoporre il ricorso
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a norma
dell’art. 99, comma 1, c.p.a..
Nel fare ciò, il Collegio non può non segnalare di reputare
più fondata la seconda delle alternative prospettate, quella
cioè per cui, a risolvere l’antinomia fra le disposizioni
richiamate, debba farsi applicazione del criterio
cronologico. E ciò, non solo per coerenza con l’orientamento
della Sezione, ma anche alla luce delle considerazioni che
seguono.
6.1. A sostegno della propria, analoga tesi, il Tribunale
regionale ha richiamato anche l’art. 30 del c.d. “decreto
del fare” (decreto-legge n. 69/2013, convertito con
modificazioni nella legge n. 98/2013) che, modificando la
disciplina per il rilascio del permesso di costruire (art.
20, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 – c.d. testo unico dell’edilizia) con
l’introdurre il silenzio-assenso sulla domanda relativa, ha
fatto salvi “i casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le
disposizioni di cui al comma 9”. Il quale comma 9 a sua
volta prevede che “qualora l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto a vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, il termine di cui al comma 6
decorre dal rilascio del relativo atto di assenso, il
procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento
espresso …”.
A questa osservazione l’appellante replica osservando che la
nuova norma opera solo in tema di rilascio di permesso di
costruire e non con riferimento ad ambiti di diversa natura.
Tale replica è corretta, ma trascura il rilievo che il
Collegio reputa debba darsi a un’innovazione normativa che,
pur essendo complessivamente rivolta ad ampliare e non a
restringere le ipotesi di silenzio-assenso in materia
edilizia (come rileva ancora l’appellante), ha
significativamente escluso dal proprio ambito gli interventi
su beni assistiti da vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali. Se dunque la norma non è direttamente applicabile
alla vicenda controversa, essa appare tuttavia indice non
trascurabile di una linea di tendenza del sistema normativo,
dalla quale non sembra lecito prescindere in sede di
interpretazione e ricostruzione delle disposizioni vigenti.
6.2. Ad arricchire il quadro d’assieme, va anche rammentata
la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo -per violazione dell'art.
117, secondo comma, lett. s), Cost.- l'art. 1, comma 250,
della legge della Regione Campania 15.03.2011, n. 4,
nella parte in cui prevede che “l'autorità competente
provvede entro sessanta giorni dalla ricezione della
domanda. Se detta autorità risulta inadempiente nei termini
sopra indicati, l'autorizzazione si intende temporaneamente
concessa per i successivi giorni, salvo revoca” (sentenza
18.07.2014, n. 209).
La Corte ha ritenuto che la
disposizione impugnata violasse la competenza esclusiva
statale in materia di ambiente (alla quale va ascritta la
disciplina degli scarichi in fognatura) in quanto
determinerebbe livelli di tutela ambientale inferiori
rispetto a quelli previsti dalla legge statale, segnatamente
dall'art. 124, comma 7, del decreto legislativo n. 152/2006
-che fissa, invece, il termine perentorio di novanta giorni
per la concessione dell'autorizzazione- e dall'art. 20,
comma 4, della legge n. 241/1990, che esclude
l'applicabilità del silenzio-assenso alla materia
ambientale.
Se ne potrebbe dedurre che la Corte legga l’art. 20, comma
4, citato, come portatore di una regola generale di governo
della materia ambientale, ostativa all’applicabilità delle
disposizioni sul silenzio-assenso, salve forse specifiche e
motivate eccezioni, che dovrebbero però apparire chiaramente
come tali e non essere affidate a un’operazione esegetica
controvertibile e controversa.
6.3. Per completezza, sarà infine opportuno ricordare quella
giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui
la
formazione di un silenzio-assenso in materia di paesaggio o
ambiente si pone in contrasto con i principi comunitari che
impongono l'esplicitazione delle ragioni di compatibilità
ambientale, con l'adozione di eventuali prescrizioni
correttive, sulla base di un'analisi sintetico-comparativa
per definizione incompatibile con un modulo tacito di
formazione della volontà amministrativa (cfr. sez. V, 25.08.2008, n. 4058).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta), non definitivamente pronunciando sull’appello in
epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 09.02.2016 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale persegue la finalità di
pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni
di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una
"cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in
secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai
luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza
formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie
27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità,
tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano
regolatore generale, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
sono da individuarsi in esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale…”.
---------------
O.1 - Inoltre l’art. 58 delle NTA definisce le aree di
rispetto cimiteriale ma si pone in contrasto con l’art. 338
del TU leggi sanitarie in quanto la misura della fascia di
rispetto è pari a 200 metri e può essere ridotta, salvo
specifica autorizzazione ASL, solo per la costruzione di
nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti e per
dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un
intervento urbanistico.
L’art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27.07.1934 n. 1265) stabilisce che:
“I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno
200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai
cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge.
…
Il consiglio comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro
abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando
ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l'impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
…”.
Il rilievo della Regione è fondato e merita accoglimento sia
in ordine alla previsione di una ridotta fascia di rispetto
(100 m.) sia con riferimento alla mancata indicazione dei
casi tassativi in cui può essere derogata la previsione
normativa.
Il vincolo cimiteriale, infatti, persegue la finalità di
pubblico interesse di assicurare, in primo luogo, condizioni
di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una
"cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero e, in
secondo luogo, garantire la tranquillità e il decoro ai
luoghi di sepoltura.
Sul punto non è superfluo richiamare la giurisprudenza
formatasi in materia per la quale “La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie
27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del
cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità,
tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano
regolatore generale, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
sono da individuarsi in esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale…” (Cons. Stato, Sez. IV,
n. 4403 del 2011).
Di qui l’annullamento dell’art. 58 delle NTA del PUC per
quanto in contrasto con l’art. 338 del T.U. leggi sanitarie
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Silenzio-assenso ex art. 17-bis della legge n.
241 del 1990 e procedimenti di autorizzazione
paesaggistica di cui agli artt. 146 e 167 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 (MIBACT,
nota 19.01.2016 n. 1293 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 310749 del 14.12.2015
con la quale codesta Città metropolitana pone alcune
questioni concernenti l'applicabilità dell'istituto
del silenzio-assenso, introdotto dall'art. 3 della
legge n. 124 del 2015, ai procedimenti paesaggistici
disciplinati dal codice di settore. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa è
orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è
principio fondamentale della Costituzione (art. 9)
ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri
beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa
del territorio, di tal che anche le previsioni degli
strumenti urbanistici devono necessariamente
coordinarsi con quelle sottese alla difesa
paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l'autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004
(che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei
beni e delle attività culturali, per il tramite
delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione
attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità
di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina
autorizzatoria prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42),
la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non
più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una
valutazione di "merito amministrativo", espressione
dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell'intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3
L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che
l'espressione del parere demandato alla
Soprintendenza deve contenere una compiuta
esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative
all'inserimento della nuova opera nel contesto
paesaggistico tutelato.
---------------
L'onere motivazionale deve essere ancor più
rafforzato laddove lo stato dei luoghi risulti già
trasformato da un preesistente edificio che la parte
privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza
ha già chiarito che, nell'ipotesi di recupero di un
vecchio fabbricato, "... l'esame (deve) appuntarsi
sui tratti esteriori dell'edificio per verificare se
e come, all'esito dell'intervento di recupero, il
fabbricato possa risultare adeguatamente inserito
nella cornice ambientale circostante, e tanto anche
in comparazione ... alla percezione estetica che
dello stesso possa trarsi nell'attualità, nelle
condizioni di degrado in cui versa l'immobile. Ciò
che dal parere negativo della soprintendenza non si
ricava è, inoltre, qual tipo di accorgimento tecnico
o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che la tutela del
preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio".
Ed infatti, in applicazione degli approdi
giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la
Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione
del disvalore dell'opera con il contesto paesistico,
è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a
precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o, al
limite, di modifica progettuale" potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela
del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio".
---------------
Tanto
premesso può addivenirsi allo scrutinio della
questione di merito.
Gioverà ricordare che la giurisprudenza
amministrativa è orientata a ritenere che la tutela
del paesaggio è principio fondamentale della
Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza
rispetto agli altri beni giuridici che vengono in
rilievo nella difesa del territorio, di tal che
anche le previsioni degli strumenti urbanistici
devono necessariamente coordinarsi con quelle
sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all'attività edilizia Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E' proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l'autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l'esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004
(che, come noto, attribuisce oggi al Ministero dei
beni e delle attività culturali, per il tramite
delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione
attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità
di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
Orbene, con l'entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell'art. 146 sulla disciplina
autorizzatoria prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.01.2004 n. 42),
la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non
più un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall'art. 159 D.Lgs. n. 42 del 2004 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull'atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall'ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una
valutazione di "merito amministrativo",
espressione dei nuovi poteri di cogestione del
vincolo paesaggistico (art. 146 D.Lgs. n. 42 del
2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell'intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell'esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l'iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all'onere motivazionale sancito dall'art. 3
L. n. 241 del 1990, per cui può affermarsi che
l'espressione del parere demandato alla
Soprintendenza deve contenere una compiuta
esposizione delle ragioni logico giuridiche ostative
all'inserimento della nuova opera nel contesto
paesaggistico tutelato (TAR Salerno, Sez. I, n. 313
del 2015).
Onere motivazionale ancor più rafforzato laddove,
come nel caso di specie, lo stato dei luoghi risulti
già trasformato da un preesistente edificio che la
parte privata intenda recuperare funzionalmente.
Rispetto a quest'ultima ipotesi, la giurisprudenza
ha già chiarito -e da tale percorso il Collegio non
intende decampare- che, nell'ipotesi di recupero di
un vecchio fabbricato, "... l'esame (deve)
appuntarsi sui tratti esteriori dell'edificio per
verificare se e come, all'esito dell'intervento di
recupero, il fabbricato possa risultare
adeguatamente inserito nella cornice ambientale
circostante, e tanto anche in comparazione ... alla
percezione estetica che dello stesso possa trarsi
nell'attualità, nelle condizioni di degrado in cui
versa l'immobile. Ciò che dal parere negativo della
soprintendenza non si ricava è, inoltre, qual tipo
di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica
progettuale potrebbe far conseguire all'interessata
l'autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che
l'area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità,
che l'intervento ha il pregio di proporre il
recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che
la tutela del preminente valore del paesaggio non
deve necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio" (Cons. St. n. 1418 del 2014).
Trasponendo le menzionate acquisizioni
giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi
che il parere, oltre a rimarcare la carenza di
documentazione nonché la carenza di elementi utili
ad evidenziare la conformità dell'intervento alla
normativa del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di
Diano, risulta, altresì carente in ordine alle
ragioni per le quali il progettato intervento
finirebbe per alterare la fruibilità estetica dei
luoghi, indulgendo in notazioni del tutto generiche
e stereotipate.
Trattasi all'evidenza di una motivazione
sostanzialmente apparente, poiché non individua, da
una parte, quali siano le effettive caratteristiche
del paesaggio tutelato che si intende salvaguardare
e, dall'altra, quali siano le effettive
caratteristiche del progetto le cui ricadute si
porrebbero in stridente contrasto con le prime,
tanto più che trattasi di intervento di riparazione
della copertura con rifacimento dell’intonaco
esterno la cui capacità innovativa dello status
quo nemmeno risulta immediatamente percepibile.
Ma ciò che più rileva è la palese pretermissione di
ogni tipo di indicazione utile a far conseguire
all'interessato il bene della vita.
Ed infatti, in applicazione degli approdi
giurisprudenziali citati ai punti che precedono, la
Soprintendenza, oltre ad una puntuale individuazione
del disvalore dell'opera con il contesto paesistico,
è tenuta, in un'ottica di leale collaborazione a
precisare "quale tipo di accorgimento tecnico o,
al limite, di modifica progettuale" potrebbe far
conseguire all'interessata l'autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l'area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l'intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che "la tutela
del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio" (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
Nemmeno il profilo motivazionale afferente alla
indimostrata liceità dell’edificio è in grado di
suffragare adeguatamente l’impugnato parere, in
quanto, pur dovendosi rilevare che l’assentibilità
paesaggistica di un intervento edilizio postula la
sua liceità urbanistica (invero sarebbe
inutiliter datum un nulla osta paesaggistico
rispetto ad un manufatto abusivo), accede ad una
disamina della documentazione acquisita dall’esito
incerto e perplesso, tanto da prendere atto,
conclusivamente, della impossibilità di effettuare “una
valutazione compiuta della pratica”. Tanto
avrebbe senz’altro giustificato un ulteriore
approfondimento istruttorio, anche in considerazione
della duplice attestazione, proveniente dagli uffici
comunali, circa la conformità del manufatto ai
titoli rilasciati.
Per tutte le suesposte ragioni, il parere deve
essere annullato al fine di consentire quella fase
collaborativa che, nella specie, appare deficitaria.
Pertanto, ed in esecuzione della presente sentenza,
la competente Soprintendenza provvederà a
riattivare, in collaborazione con il Comune di
Controne e con spirito di leale interlocuzione con
la parte privata, il procedimento funzionale alla
formulazione del prescritto parere, facendo in modo
di ben evidenziare l’iter logico della sua
definitiva espressione di volontà in ordine
all'intervento, nei limiti delle sue attribuzioni e
con l'esplicita e dettagliata indicazione delle
condizioni alla cui ricorrenza il parere di
compatibilità paesaggistica potrà essere rilasciato.
In conformità alle considerazioni che precedono, il
ricorso si presta, quindi, a essere accolto, con
conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 23 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte in cui
dispone che "sono comunque di interesse
paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di
questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi
d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d.
11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi
degli argini per una fascia di 150 metri", va
interpretato nel senso che solo per le acque fluenti
di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per
i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti,
si impone, ai fini della loro rilevanza
paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche.
Quanto ai fiumi e torrenti, il requisito della
pubblicità esiste di per sé ed anche il vincolo
paesaggistico è imposto "ex lege" senza necessità di
iscrizione negli elenchi.
---------------
Per quanto riguarda il valore delle carte
dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro
riporta graficamente il corso d’acqua in questione
pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento
del Supremo Consesso di G.A..
Invero, osserva l’autorevole Collegio che
l’ufficialità attribuita dall'ordinamento alla
cartografia dell'I.G.M. implica soltanto che ad essa
debba farsi riferimento tutte le volte in cui
occorra adottare provvedimenti o compiere atti che
abbiano a proprio presupposto o a propria sfera di
efficacia l'articolazione territoriale interna dello
Stato.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. Assumono preliminare rilievo, sul piano
logico-argomentativo, i mezzi di gravame articolati
ai punti sub 2) e 3), per il loro tenore
suscettibili di trattazione congiunta, con i quali
il Comune istante lamenta l’insussistenza del
vincolo paesaggistico alla luce delle
caratteristiche del corso d’acqua denominato “Cancito”,
lungo le cui sponde, al momento del ricorso, è in
corso di esecuzione l’intervento su descritto.
A tal riguardo, si osserva in ricorso, mediante
deduzioni corroborate dalla produzione di
documentata relazione tecnica, che il “Cancito”
non sarebbe né un torrente, né un corso d’acqua
iscritto negli elenchi previsto dal testo unico
delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti
elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933,
n. 1775. La fascia di 150 metri dalle sue sponde,
quindi, non sarebbe assoggettata a vincolo di
tutela, come invece si afferma dalla Soprintendenza
elevando tale circostanza a presupposto della
contestata determinazione.
Giunge a tali conclusioni il ricorrente evidenziando
che il provvedimento impugnato richiama il parere
del Genio Civile di Salerno (prot. n. 2014.0604087
del 12.09.2014), che, a sua volta incorrendo in
illegittimità, si fonderebbe sulle sole risultanze
catastali, le cui mappe riportano il Cancito come
torrente, così trascurando la mancata indicazione
dello stesso nella cartografia ufficiale IGM, dalla
pretesa valenza dirimente.
Dalla disamina del provvedimento impugnato, nelle
sue testuali articolazioni motivazionali, invero
risulta che l’Autorità Soprintendentizia ha posto a
fondamento della sua determinazione il contributo
consultivo del Genio Civile di Salerno versato nella
nota su distinta, nella quale si rileva, dopo aver
evidenziato il carattere decisivo delle indicazioni
riportate sui fogli di mappa catastali di impianto,
che <<sul foglio di mappa catastale n. 32 del
Comune di Castelcivita, la cui redazione risale agli
anni tra il 1897 e il 1904, il corso d’acqua
denominato Cancito è riportato come “Torrente”.
Stessa denominazione è riportata anche sul foglio 31>>.
E’ inoltre versata in atti copia, non in scala, del
citato foglio n. 32, che appunto riporta il
tracciato del Cancito con la esatta denominazione di
“Torrente”. La circostanza, del tutto
pacifica tra le parti, della mancata indicazione di
tale corso d’acqua negli elenchi delle acque
pubbliche non è ex se decisiva.
Questo Tribunale (TAR Salerno, sez. II, 18.07.2008,
n. 2172) ha infatti già avuto modo di osservare che
“l’art. 142 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, nella parte
in cui dispone che "sono comunque di interesse
paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di
questo titolo... i fiumi, i torrenti, i corsi
d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal r.d.
11.12.1933 n. 1775, e le relative sponde o piedi
degli argini per una fascia di 150 metri", va
interpretato nel senso che solo per le acque fluenti
di minori dimensioni ed importanza, vale a dire per
i corsi d'acqua che non sono né fiumi né torrenti,
si impone, ai fini della loro rilevanza
paesaggistica, la iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche. Quanto ai fiumi e torrenti, il
requisito della pubblicità esiste di per sé ed anche
il vincolo paesaggistico è imposto "ex lege" senza
necessità di iscrizione negli elenchi”.
La soluzione della questione agitata in ricorso
impone innanzitutto di assegnare il giusto rilievo
alla cartografia IGM. Ebbene, il Collegio non
condivide quanto prospettato dal ricorrente a
proposito del carattere decisivo della mancata
iscrizione del Cancito nella cartografia IGM
(Istituto Geografico Militare), non essendo tale
assunto suffragato da alcun preciso riferimento
normativo.
Per quanto riguarda il valore delle carte
dell'Istituto Geografico Militare (che peraltro
riporta graficamente il corso d’acqua in questione
pur senza denominazione), vale invece l’insegnamento
del Supremo Consesso di G.A., espresso già con il
parere del 07.03.1980. Invero, osserva l’autorevole
Collegio che l’ufficialità attribuita
dall'ordinamento alla cartografia dell'I.G.M.
implica soltanto che ad essa debba farsi riferimento
tutte le volte in cui occorra adottare provvedimenti
o compiere atti che abbiano a proprio presupposto o
a propria sfera di efficacia l'articolazione
territoriale interna dello Stato (Consiglio di
Stato, sez. IV, 23.10.1998, n. 1361).
Assume invece rilievo, a contrario, la denominazione
di torrente riportata nella planimetria catastale,
cioè relativa al primo deposito presso l'archivio
del Catasto e risalente, nel caso di specie, “agli
anni tra il 1897 e il 1904” (v. parere Genio
Civile di Salerno prot. 2014.0604087 del 12/09/2014)
a sua volta qualificabile come atto ufficiale, come
evidenziato dal Genio Civile di Salerno nel suo
contributo istruttorio.
Va sul punto sottolineato che l’Amministrazione del
Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali (divenuta
Agenzia del Territorio) è qualificato, dalla legge
02.02.1960, n. 68 (“Norme sulla cartografia
ufficiale dello Stato…”), uno degli organi
cartografici dello Stato (v. art. 1); ne consegue
–ritenendo il Collegio di rimeditare il diverso
orientamento espresso dalla Sezione con la sentenza
n. 2594/2013 del 20.12.2013, valorizzata da parte
ricorrente– che i rilievi catastali non possono non
assurgere al rango di documento ufficiale attestante
la qualità di un corso d’acqua non compreso nei
relativi elenchi.
Non va ad ogni modo trascurato che lo stesso Ente
locale ha riconosciuto la rilevanza paesaggistica
delle aree spondali del Cancito, come nel caso
dell’intervento di sistemazione idraulica ed
idrogeologica, finanziato da risorse comunitarie del
FEOGA e dallo SPOF con la Misura 3.1., in cui
espressamente si qualifica il corso d’acqua in
questione come “Torrente”.
Medesima qualificazione si rinviene sia nel PRG sia
nella documentazione preliminare del PUC del Comune
di Castelcivita. Tanto è sufficiente al fine di
ritenere l’area, ai sensi dell’art. 142, lett. c),
del D.Lgs. n. 42/2004, è sottoposta a vincolo
paesaggistico, non potendosi accedere alla verifica
dell’esatto stato dei luoghi, come auspicato in
ricorso, al fine di stabilire se si tratti di un
semplice scolo, in presenza di una denominazione
come torrente avente, come detto, il crisma
dell’ufficialità. I motivi in esame sono quindi
infondati.
2. Nemmeno coglie nel segno il primo motivo, col
quale parte ricorrente lamenta che l’intervento
sarebbe irrilevante sul piano paesaggistico per
essere di natura meramente manutentiva, in quanto,
come emerge dalla relazione descrittiva dei lavori
in progetto, esso prevede il completamento
dell’impianto di depurazione, da tempo inutilizzato,
con la realizzazione ex novo di di n. 2
vasche, di cui una sola completamente interrata, e
di un locale tecnologico di mq. 21,60.
Tali opere, per la loro complessiva consistenza
anche volumetrica e per la loro stessa finalità,
appaiono in grado di alterare lo stato dei luoghi e
pertanto sono meritevoli di essere portati
all’attenzione dell’autorità competente in
subiecta materia. Né la misura appare
sproporzionata o comunque incurante della
destinazione delle opere a beneficio della
collettività, trattandosi di un impianto di
depurazione, perché esattamente contemplata, come di
seguito si dirà, dal sistema ordinamentale a tutela
del valore, di pregio costituzionale, del paesaggio.
Anche il motivo in esame è quindi da respingere
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
circolari costituiscono criteri di riferimento
interpretativo a carattere interno finalizzate a
garantire un’uniforme applicazione delle norme di
legge, risultando tuttavia quasi pleonastico
evidenziare che la circolare interpretativa non
possa legittimare l’inosservanza di principi
direttamente e chiaramente stabiliti dalla legge,
dovendosi conseguentemente disattendere le circolari
sulla base del principio di prevalenza del dettato
legislativo.
---------------
E' di tutta evidenza come la circolare MIBAC n. 33
del 26.06.2009 non possa integrare, in maniera
vincolante, il precetto, di cui all’art. 167, comma
4, del d.l.vo 42/2004 (“L’autorità amministrativa
competente accerta la compatibilità paesaggistica,
secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti
casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili
o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati (…)”), stabilendo il predetto limite
quantitativo, impeditivo, in linea generale, della
favorevole conclusione del procedimento di
autorizzazione paesaggistica postuma, laddove
l’esito del procedimento de quo non può che essere
frutto di una valutazione caso per caso, ben potendo
anche un modesto scostamento, rispetto a tale limite
percentuale massimo, risultare compatibile con la
generale sanabilità di pensiline e tettoie, del
genere di quella in oggetto, aperte su tre lati e
legate da vincolo di pertinenzialità, rispetto
all’edificio cui accedono, giusta la giurisprudenza
prevalente: “La sostanziale identità delle nozioni
di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime
finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli
agenti atmosferici, determina la necessità del
permesso di costruire nel casi in cui sia da
escludere la natura precaria o pertinenziale
dell’intervento”.
In sostanza, la circolare di cui sopra, per
rispettare il dettato legislativo, va interpretata
nel senso che l’indicazione del predetto limite del
25% vale unicamente come individuazione di un valore
percentuale di massima, il cui eventuale superamento
non impedisce, automaticamente e necessariamente, la
sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la
decisione, circa l’esito del relativo procedimento,
dipendere da una valutazione, che si cali nel caso
specifico, valutando il concreto impatto, sul
paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di
natura pertinenziale, quanto alla casistica delle
tettoie –o pensiline– aperte su tre lati).
---------------
Il ricorso è fondato.
Secondo la giurisprudenza: “Le circolari
costituiscono criteri di riferimento interpretativo
a carattere interno finalizzate a garantire
un’uniforme applicazione delle norme di legge,
risultando tuttavia quasi pleonastico evidenziare
che la circolare interpretativa non possa
legittimare l’inosservanza di principi direttamente
e chiaramente stabiliti dalla legge, dovendosi
conseguentemente disattendere le circolari sulla
base del principio di prevalenza del dettato
legislativo” (TAR Bari, (Puglia), Sez. II,
14/09/2012, n. 1660).
Nella specie, il gravato diniego s’è fondato
unicamente sul superamento, da parte della pensilina
realizzata dalla ricorrente, del limite massimo del
25%, fissato dalla circolare del Segretario Generale
del Mi.B.A.C., n. 33 del 26.06.2009 (punto 2: “per
“superfici utili”, si intende “qualsiasi
superficie utile, qualunque sia la sua destinazione.
Sono ammesse le logge e i balconi nonché i portici,
collegati al fabbricato, aperti su tre lati
contenuti entro il 25% dell’area di sedime del
fabbricato stesso”).
Orbene, è di tutta evidenza come la circolare di cui
sopra non possa integrare, in maniera vincolante, il
precetto, di cui all’art. 167, comma 4, del d.l.vo
42/2004 (“L’autorità amministrativa competente
accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le
procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a)
per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati
(…)”), stabilendo il predetto limite
quantitativo, impeditivo, in linea generale, della
favorevole conclusione del procedimento di
autorizzazione paesaggistica postuma, laddove
l’esito del procedimento de quo non può che
essere frutto di una valutazione caso per caso, ben
potendo anche un modesto scostamento, rispetto a
tale limite percentuale massimo, risultare
compatibile con la generale sanabilità di pensiline
e tettoie, del genere di quella in oggetto, aperte
su tre lati e legate da vincolo di pertinenzialità,
rispetto all’edificio cui accedono, giusta la
giurisprudenza prevalente: “La sostanziale
identità delle nozioni di tettoia e pensilina
ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo
o protezione anche dagli agenti atmosferici,
determina la necessità del permesso di costruire nel
casi in cui sia da escludere la natura precaria o
pertinenziale dell’intervento” (Cassazione
penale, Sez. Fer., 07/09/2011, n. 33267).
In sostanza, la circolare di cui sopra, per
rispettare il dettato legislativo, va interpretata
nel senso che l’indicazione del predetto limite del
25% vale unicamente come individuazione di un valore
percentuale di massima, il cui eventuale superamento
non impedisce, automaticamente e necessariamente, la
sanabilità degli abusi cd. minori, dovendo la
decisione, circa l’esito del relativo procedimento,
dipendere da una valutazione, che si cali nel caso
specifico, valutando il concreto impatto, sul
paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di
natura pertinenziale, quanto alla casistica delle
tettoie –o pensiline– aperte su tre lati)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella tutela paesaggistica no a divieti eccessivi.
Tar Brescia.
Va bene la tutela del panorama in campagna, ma non si può
bloccare l'impianto fotovoltaico che ben si fonde col tetto
dell'edificio rurale se un filare d'alberi basterebbe a
schermare i pannelli e a evitare ingombri alla vista per il
panorama. E ciò anche se sull'area grava un vincolo
paesistico, perché si trova vicino al fiume.
È quanto emerge
dalla
sentenza
12.01.2016 n. 27, pubblicata dalla I Sez. del
TAR Lombardia-Brescia.
Intangibilità irragionevole - Accolto il ricorso del
proprietario dell'immobile dopo il niet della
Soprintendenza: eccessivo il diniego integrale di sanatoria,
annullato il provvedimento adottato dallo sportello unico
delle attività produttive del comune. Una barriera di
piante, per esempio, ben potrebbe scongiurare i riflessi del
sole dai pannelli alla strada.
In effetti la Soprintendenza
non considera che vicino all'immobile «incriminato» esistono
altri impianti fotovoltaici, peraltro di grandi dimensioni.
E lo riconosce anche il comune. È vero: si tratta di
installazioni che risultano al di fuori della zona
sottoposta al vincolo paesistico, mentre il fabbricato
dell'interessato viene considerato un punto di riferimento
nella zona, che costituisce un continuum agricolo.
Ma non
sarebbe ragionevole imporre l'immodificabilità di una
piccola porzione del territorio solo perché si trova più
vicina a un corso d'acqua, quando strutture di grande
impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine,
che pure appartengono allo stesso contesto agricolo.
Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi
del 09.02.2016).
---------------
MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività e l’ammissibilità
del ricorso, si ritiene che l’impugnazione degli atti
presupposti possa avvenire contestualmente alla
presentazione del ricorso contro l’ultimo atto della serie
(nello specifico, il diniego di sanatoria paesistica emesso
dal Comune);
(b) dopo la notifica dell’ordinanza di rimozione, infatti,
il ricorrente aveva l’alternativa tra l’immediata
impugnazione in sede giudiziale e la ricerca di una
soluzione in via amministrativa, attraverso la procedura di
accertamento di conformità paesistica. Avendo scelto la
seconda strada, il ricorrente poteva legittimamente
attendere la pronuncia finale del Comune.
La circostanza che il parere della Soprintendenza sia,
contemporaneamente, un atto endoprocedimentale e una
decisione vincolante può consentire un’impugnazione
immediata, quando vi sia un interesse ad anticipare i tempi
del giudizio, ma non crea un onere in questo senso.
La certezza del diritto sulla posizione dell’amministrazione
è in ogni caso collegata all’atto che formalmente chiude la
procedura, la quale prima di tale momento potrebbe avere
sviluppi ulteriori e diversi, qualora il Comune o il privato
sottoponessero alla Soprintendenza elementi nuovi non
considerati nel parere negativo;
(c) passando al merito, occorre sottolineare che
l’installazione di pannelli fotovoltaici è attualmente
incentivata, e resa obbligatoria per i nuovi edifici, in
coerenza con l’obiettivo di interesse nazionale del
passaggio alla produzione di energia da fonti rinnovabili
(v. art. 11 del Dlgs. 03.03.2011 n. 28);
(d) pertanto,
non è più possibile applicare ai pannelli fotovoltaici
categorie estetiche tradizionali, le quali porterebbero
inevitabilmente alla qualificazione di questi elementi come
intrusioni
(v. TAR Brescia Sez. I 04.10.2010 n. 3726).
Occorre invece focalizzare l’attenzione sulle modalità con
cui i pannelli fotovoltaici sono inseriti negli edifici che
li ospitano e nel paesaggio circostante;
(e)
valutazioni più conservative, ma non necessariamente
ostative, sono ammissibili in relazione ai beni immobili
dichiarati o qualificati ex lege di interesse
culturale
(v. parte seconda del Dlgs. 42/2004)
e in relazione agli edifici, o insiemi di edifici, per i
quali sia riconosciuto uno specifico valore paesistico
(v. art. 136, comma 1-b-c, del Dlgs. 42/2004),
nonché a proposito degli edifici che negli strumenti
urbanistici risultino espressamente sottoposti a particolari
forme di tutela;
(f)
quando il vincolo sia essenzialmente di natura ambientale,
come nel caso in esame, l’osservazione si sposta invece dal
singolo edificio allo scenario nel quale l’edificio è
inserito. Le valutazioni circa la compatibilità paesistica
dei pannelli fotovoltaici non possono quindi basarsi sulle
caratteristiche costruttive, per tutelare una presunta
conformità a modelli edificatori tradizionali, ma devono
limitarsi a stabilire se le innovazioni, percepite nel
contesto, siano fuori scala o dissonanti;
(g)
diventa quindi decisiva non tanto la superficie dei pannelli
fotovoltaici ma la qualità dei lavori di inserimento nella
falda. Sotto
questo profilo, la relazione tecnico-paesistica dell’ing.
Co. evidenzia una significativa cura dei dettagli (colore
scuro dei pannelli, assenza di cornice e di rialzi in falda,
rispetto della morfologia del tetto);
(h) per quanto riguarda gli aspetti propriamente paesistici,
e in particolare il rischio di alterazione del contesto
agricolo, la Soprintendenza ha omesso di valutare
l’indicazione fornita dal Comune, oltre che dal ricorrente,
circa la prossimità di impianti fotovoltaici di grandi
dimensioni.
È vero che si tratta di installazioni esterne alla zona
vincolata, ma se l’edificio del ricorrente è visto come
parte di un continuum agricolo, le caratteristiche
assunte nel tempo dall’ambiente circostante dovrebbero
comunque costituire un punto di riferimento. Non sarebbe
infatti ragionevole imporre l’immodificabilità di una
piccola porzione del territorio solo perché si trova più
vicina a un corso d’acqua, quando strutture di grande
impatto sono ormai stabilmente inserite nelle aree vicine,
appartenenti al medesimo contesto agricolo;
(i)
la Soprintendenza non ha poi applicato in alcun modo la
regola della proporzionalità. Occorre infatti sottolineare
che i pannelli fotovoltaici del ricorrente si fondono
nell’edificio senza creare ingombro visivo sull’orizzonte, e
possono essere schermati facilmente dai percorsi viari e dai
punti di osservazione pubblici attraverso una cortina
vegetale.
Per tutelare il paesaggio sarebbero state quindi sufficienti
prescrizioni più dettagliate sulle misure di mitigazione,
mentre appare eccessivo il diniego integrale di sanatoria.
10. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati. La
Soprintendenza conserva il potere, da esercitare entro 60
giorni dal deposito della presente sentenza, di formulare
prescrizioni di dettaglio sulle misure di mitigazione.
11. La complessità delle valutazioni paesistiche e la
presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti
giustificano l’integrale compensazione delle spese di
giudizio. |
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